martedì 10 agosto 2010

MATILDE SERAO - *** LEGGENDE NAPOLETANE *** - GRAZIA DELEDDA - *** LEGGENDE SARDE ***

MATILDE SERAO - Note Biografiche


Matilde Serao nacque a Patrasso (in Grecia) nel 1865, da madre greca e padre napoletano. Mentre il padre partecipava alle imprese garibaldine, Matilde trascorse l'infanzia in Campania dove, dopo un primo periodo di studi irregolari, riuscì a conseguire il diploma e ad ottenere un posto di lavoro ai telegrafi.

Fu in questi ultimi anni che intraprese la carriera di giornalista, scrivendo in un primo tempo per il Piccolo ed in seguito per la Gazzetta letteraria piemontese e il Corriere del mattino.

I primi successi letterari arrivarono con la raccolta di bozzetti Dal vero e con il romanzo Cuore infermo, i quali siglarono la sua adesione al Verismo, senza peraltro che la scrittrice ne desse mai una giustificazione ideologica. In generale la Serao riuscì meglio nelle novelle e nei bozzetti che nel romanzo vero e proprio, specialmente per quanto riguarda l'organizzazione dei sentimenti, delle passioni e degli squilibri personali, nonché della descrizione dei personaggi e degli ambienti, i quali, all'interno dei suoi scritti più vasti, perdono molta della loro efficacia.

L'abilità della Serao si esplicitò inoltre nella caratterizzazione dei personaggi femminili, appartenenti agli ambiti e ai ceti più diversi, da citare Il ventre di Napoli (1884), con le sue vivide descrizioni dei ceti più umili della città, e di quelli infantili, ad esempio nei protagonisti di Piccole anime. Sposatasi nel 1885 con il giornalista Eduardo Scarfoglio, nazionalista e ideologicamente legato alla politica di Crispi, intrecciò con lui anche un profondo e vivace sodalizio intellettuale: dal 1885 al 1887 diressero insieme il Corriere di Roma; in seguito, a Napoli, lo Scarfoglio fondò il Corriere di Napoli, nel quale la Serao portò avanti la fortunata rubrica di cronaca mondana Api, mosconi e vespe; infine fondarono e diressero insieme, fino al 1902, Il Mattino, sempre a Napoli.

Quelli veristi non furono sempre il tratto ed il genere caratteristici della Serao: all'incirca dal 1890 la scrittrice si staccò dal Verismo accusandolo di una sorta di 'frustrazione' della fantasia ed abbracciò lo spiritualismo e lo psicologismo, soprattutto grazie all'influenza del Bourget, il quale si prodigò per far conoscere le opere di lei anche in Francia. Da questo cambiamento, però, non seguirono ottimi risultati: le raccolte di novelle Le amanti, Gli amanti, L'indifferente ed i romanzi Addio, amore e Castigo, risultarono opere poco riuscite, imperniate principalmente sugli amori straordinari di persone di alto rango dalle personalità particolarmente complesse.

Nonostante la separazione dal marito, avvenuta nello stesso 1902, la Serao continuò ad occuparsi di giornalismo e diede vita al Giorno, nel 1904. Morì a Napoli nel 1927.

Note biografiche a cura di Maria Agostinelli.


    §>>> P A R T H E N O P E <<<§

M A T I L D E  S E R A O

 * * * LEGGENDE NAPOLETANE * * *

LA CITTÀ DELL’AMORE

Mancano a noi le nere foreste del Nord, le nere foreste degli abeti, cui l’uragano fa torcere i

rami come braccia di colossi disperati; mancano a noi le bianchezze immacolate della neve che

dànno la vertigine del candore; mancano le rocce aspre, brulle, dai profili duri ed energici; manca il

mare livido e tempestoso. Sui nostri prati molli di rugiada non vengono gli elfi a danzare la ridda

magica; non discendono dalle colline le peccatrici walkirie, innamorate degli uomini; non compaiono

al limitare dei boschi le roussalke bellissime; qui non battono i panni umidi le maledette lavandaie,

perfide allettatrici del viandante; il folletto kelpis non salta in groppa al cavaliere smarrito.

Lassù una natura quasi ideale, nebulosa, malinconica, ispiratrice agli uomini di strani delirî

della fantasia: qui una natura reale, aperta, senza nebbie, ardente, secca, eternamente lucida, eternamente

bella che fa vivere l’uomo nella gioia o nel dolore della realtà. Lassù si sogna nella vita;

qui si vive in un sogno che è vita. Lassù i solitarî e tristi piaceri della immaginazione che crea un

mondo sovrasensibile; qui la festa completa di un mondo creato. E le nostre leggende hanno un carattere

profondamente umano, profondamente sensibile che fa loro superare lo spazio ed il tempo.

Soltanto, per ascendere ad una suprema idealità, hanno bisogno del misticismo: di quel misticismo

che è la follia dell’anima, inebbriata omicida del corpo, di quel misticismo che è fede, pensiero,

amore, arte, attraverso tutti i secoli, in ogni paese; di quel misticismo che è il massimo punto divino

a cui può giungere un’esistenza eccessivamente umana. Ma a questo dramma, a questa vittoria

cruenta dello spirito sul corpo, vien dietro un altro dramma, più umano, più potente, dove il pensiero

ed il sentimento non vincono la vita, ma vi si compenetrano e vi si fondono; dove l’uomo non

uccide una parte di sé per la esaltazione dell’altra, ma dove tutto è esistenza, tutto è esaltazione, tutto

è trionfo: il dramma dell’amore. Le nostre leggende sono l’amore. E Napoli è stata creata

dall’amore.

Cimone amava la fanciulla greca. Invero ella era bellissima: era l’immagine della forte e vigorosa

bellezza che ebbero Giunone e Minerva, cui veniva rassomigliata. La fronte bassa e limitata

di dea, i grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, la vivida candidezza della carnagione, lo stupendo

accordo della grazia e della salute in un corpo ammirabile di forme, la composta serenità della figura,

la rendevano tale. Si chiamava Parthenope, che nel dolce linguaggio greco significa Vergine. Ella

godeva sedere sull’altissima roccia, fissando il fiero sguardo sul mare, perdendosi nella contemplazione

delle glauche lontananze dello Ionio. Non si curava del vento marino che le faceva sbattere

il peplo, come ala di uccello spaventato; non udiva il sordo rumore delle onde che s’incavernavano

sotto la roccia, scavandola a poco, a poco. L’anima cominciava per immergersi in un pensiero; oltre

quel mare, lontano lontano, dove l’orizzonte si curva, altre regioni, altri paesi, l’ignoto, il mirabile,

l’indefinibile. In questo pensiero la fantasia si allargava in un sogno senza confine, la fanciulla sentiva

ingrandire la potenza del suo spirito e, sollevata in piedi, le pareva di toccare il cielo col capo e

di potere stringere nel suo immenso amplesso tutto il mondo. Ma presto questi sogni svaniscono.

Ora ella ama Cimone, con l’unico possente, imperante amore della fanciulla, che si trasforma in

donna.

Nella notte di estate, notte bionda e bianca di estate, Cimone parla all’amata:

– Parthenope, vuoi tu seguirmi?

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– Partiamo, amore.

– Tuo padre ti rifiuta al mio talamo, o soavissima: Eumeo vuole egli per tuo sposo e suo figliolo.

Ami tu Eumeo?

– Amo te, Cimone.

– Lode a Venere santa e grazie a te, suo figliola! Pensa dunque quale nero incubo sarebbe la

vita, divisi, lontani – e come, giovani ancora, aneleremmo alle cupe ombre dello Stige. Vuoi tu partire

meco, Parthenope?

– Io sono la tua schiava, amore.

– Pensa: dimenticare la faccia di tuo padre, cancellare dal tuo volto il bacio delle sorelle,

fuggire le dolci amiche, abbandonare il tuo tetto...

– Partiamo, Cimone.

– Partire, o dolcissima, partire per un viaggio lungo, penoso, sul mare traditore, per una via

ignota, ad una meta sconosciuta; partire senza speranza di ritorno; affidarsi ai flutti, sempre nemici

degli amanti; partire per andare lontano, molto lontano, in terre inospitali, brune, dove è eterno

l’inverno, dove il pallido sole si fascia di nuvole, dove l’uomo non ama l’uomo, dove non sono

giardini, non sono rose, non sono templi...

Ma nei grandi occhi neri di Parthenope è il raggio di un amore insuperabile e nella sua voce

armoniosa vibra la passione:

– Io t’amo – ella dice –, partiamo.

Sono mille anni che il lido imbalsamato li aspetta. Mille primavere hanno gittata sulle colline

la ricchezza inesausta, rinascente, dalla loro vegetazione – e dalla montagna sino al mare si

spande il lusso irragionevole, immenso, sfolgorante di una natura meravigliosa. Nascono i fiori, olezzano,

muoiono perché altri più belli sfoglino i loro petali sul suolo; milioni e milioni di piccole

vite fioriscono anche esse per amare, per morire, per rinascere ancora.

Da mille anni attende il mare innamorato, da mille anni attendono le stelle innamorate.

Quando i due amanti giungono al lido divino un sussulto di gioia fa fremere la terra, la terra nata per

l’amore, che senza amore è destinata a perire, abbruciata e distrutta dal suo desiderio. Parthenope e

Cimone vi portano l’amore. Dappertutto, dappertutto essi hanno amato. Stretti l’uno all’altra, essi

hanno portato il loro amore sulle colline, dalla bellissima, eternamente fiorita di Poggioreale, alla

stupenda di Posillipo; essi hanno chinato i loro volti sui crateri infiammati, paragonando la passione

incandescente della natura alla passione del loro cuore; essi si sono perduti per le oscure caverne

che rendevano paurosa la spiaggia Platamonia; essi hanno errato nelle vallate profonde che dalle

colline scendevano al mare; essi hanno percorso la lunga riva, la sottile cintura che divide il mare

dalla terra. Dovunque hanno amato. Nelle stellate notti di estate, Parthenope si è distesa sull’arena

del lido fissando lo sguardo nel cielo, carezzando con la mano la chioma di Cimone che è al suo

fianco; nelle lucide albe di primavera hanno raccolto, nel loro splendido giardino, fiori e baci, baci e

fiori inesauribili; ne’ tramonti di porpora dell’autunno, nella stagione che declina, hanno sentito crescere

in essi più vivo l’amore; nelle brevi e belle giornate invernali hanno sorriso senza mestizia,

pur anelando alla novella primavera. La pianta secolare ha prestata la sua ombra benevola a tanta

gioventù; la contorta e bruna pietra dei campi Flegrei non ha lacerato il gentil piede di Parthenope;

il mare si è fatto bonario ed ha cantata loro la canzoncina d’amore, la natura leale non ha avuto agguati

per essi; sugli azzurri orizzonti ha spiccato il profilo bellissimo della fanciulla, il profilo energico

del garzone. Quando essi si sono chinati ed hanno baciato la terra benedetta, quando hanno alzato

lo sguardo al cielo, un palpito ha loro risposto e fra l’uomo e la natura si è affermato il profondo,

l’invincibile amore che li lega. Napoli, la città della giovinezza, attendeva Parthenope e Cimone;

ricca, ma solitaria, ricca, ma mortale, ricca, ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata

Napoli immortale.

Ma il destino non è compito ancora. Più alto scopo ha l’amore di Parthenope. Ecco: dalla

Grecia giunsero, per amor di lei, il padre e le sorelle e amici e parenti che vennero a ritrovarla; ecco:

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sino al lontano Egitto, sino alla Fenicia, corre la voce misteriosa di una plaga felice dove nella bella

festa dei fiori e dei frutti, nella dolcezza profumata dell’aria, trascorre beatissime la vita. Sulle fragili

imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano seco i loro figliuoli, le immagini degli

dèi, gli averi, le comuni risorse; alla capanna del pastore sorge accanto quella del pescatore; la

rozza e primitiva arte dell’agricoltura, le industrie manuali appena sul nascere compiono fervidamente

la loro opera. Prima sorge sull’altura, il villaggio a grado a grado guadagna la pianura;

un’altra colonia se ne va sopra un’altra collina ed il secondo villaggio si unisce col primo; le vie si

tracciano, la fabbrica delle mura, cui tutti concorrono, rinserra poco a poco nel suo cerchio una città.

Tutto questo ha fatto Parthenope. Lei volle la città. Non più fanciulla, ma ora donna completa e perfetta

madre: dal suo forte seno dodici figliuoli hanno vista la luce, dal suo forte cuore è venuto il

consiglio, la guida, il soffio animatore. È lei la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina

umana e clemente, da lei si appella la città; da lei la legge, da lei il costume, da lei il costante esempio

della fede e della pietà. Due templi sorgono a dèe, invocate protettrici della città: Cerere e Venere.

Ivi si prega, ivi, attraverso gli intercolunni, sale al cielo il fumo dell’olibano. Una pace profonda

e costante è nel popolo su cui regna Parthenope; ed il lavorìo operoso dell’uomo non è che una leggiera

spinta alla natura benigna.

La più bella delle civiltà, quella dello spirito innamorato; il più grande dei sentimenti, quello

dell’arte; la fusione dell’armonia fisica con l’armonia morale, l’amore efficace, fervido, onnipossente

è l’ambiente vivificante della nuova città. Quando Parthenope viene a sedere sulla roccia del

monte Echia, quando essa fissa lo sguardo sul Tirreno, più fido dello Ionio, l’anima sua si assorbisce

in un pensiero. La regione ignota è raggiunta, il mirabile, l’indefinibile, ecco, è creato, è reale, è

opera sua. E mentre la fantasia si allarga, si allarga in un sogno senza confine, Parthenope sente giganteggiare

il suo spirito e sollevata in piedi le pare di toccare il cielo col capo e di stringere il

mondo in un immenso amplesso.

Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella

Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola.

Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna,

sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope

non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi,

ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la

nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che

rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate

d’aprile un’aura calda c’inonda di benessere è il suo alito soave: quando nelle lontananze verdine

del bosco di Capodimonte vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei

col suo amante; quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate; è la sua voce che le pronunzia;

quando un rumore di baci, indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i suoi baci; quando un

fruscìo di abiti ci fa fremere al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull’arena, è il suo piede

leggiero che sorvola; quando di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione

spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire

ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope,

la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città

dell’amore.

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VIRGILIO

Oggi, domenica, festa degli Ulivi. Cristo entra in Gerusalemme portando in mano il ramoscello

della pace. Oggi, buon lettore, si fa la pace. Vi è chi ha litigato con l’amico e chi con

l’innamorata: vi è chi ha litigato con la persona indifferente, chi con quella che odia, chi con quella

che ama di più: l’impiegato ha litigato col suo capo di ufficio, il marito con la moglie, l’artista ha

detto molti improperi all’arte, lo scrittore si è accapigliato con la forma, il portinaio ha litigato col

padron di casa. Tutti sono in bizza con qualcuno. Ma oggi una fogliolina, un ramoscello di olivo e

la pace è fatta. Anche io ho litigato, e da tanto tempo, con una carissima persona, mentre ho continuato

ad amarla piamente, nel segreto del cuore, mentre la sua assenza ha resa deserta e triste la mia

casa, mentre la mancanza del suo alito soave ha reso arido e secco come la pomice quanto ho scritto.

Questa carissima persona, la poesia, è da tanto tempo che non vuole saperne di me, quando io la

desidero ardentemente e per orgoglio mi taccio. Oggi che l’orgoglio si smorza in una infinita tenerezza,

voglio tentar di far la pace con la poesia mandandole una fogliolina di ulivo.

Dopo Parthenope, mito e donna, vergine e sirena, misto singolare di fantastico, di ideale, di

umano e di divino, cui Napoli deve la sua poetica origine; dopo la poesia di Parthenope, quasi-Dea,

creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, quasi-Divino. Noi conosciamo Virgilio il poeta delle

“ Egloghe ”, delle “ Georgiche ” e dell’“ Eneide ”; conosciamo poco Virgilio Mago che ha prodigato

alla città diletta fra tutte i miracoli del suo potere magico. Noi siamo ingrati verso colui che esclama:

Illo Virgilium me tempore dulcis alebat

Parthenope.....

eppure molte cose che allettano ed incantano noi moderni e c’incatenano nella indolente

ammirazione di questa bella ed oziosa città, molte cose la cronaca attribuisce alla magia di Virgilio.

La cronaca è ingenua, semplice ed in buona fede. La cronaca farà sogghignare gli scettici, poiché

essi non hanno più la consolazione di sorridere. La cronaca sarà qualificata una sciocchezza – e tira

via. Ma l’oscuro traduttore e commentatore della cronaca gode specialmente di queste ingiurie e di

questi sogghigni. Sentite dunque quello che la cronaca dice. Virgilio veniva di lontano, dal nord forse,

dal cielo certamente; egli era giovane, bello, alto nella persona, eretto nel busto, ma camminava

con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere.

Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno

nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma; egli errava per le colline che circondano Parthenope,

fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle

sponde del mare, per la riva Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi che elle

dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia.

In allora Parthenope era molestata da una grande quantità di mosche, mosche che si moltiplicavano

in così grande numero e davano tanto fastidio, da farne fuggire i tranquilli e felici abitatori. Virgilio,

per rimediare a così grave sconcio, fece fare una mosca d’oro, qualmente egli prescrisse – e dopo

fatta, le insufflò, con magiche parole, la vita: la quale mosca d’oro se ne andava volando di qua e di

là ed ogni mosca vera che incontrava faceva morire. Così in poco tempo furono distrutte tutte le

mosche che affliggevano la bella città di Parthenope. Altro miracolo fu questo: le molte paludi che

allora si trovavano nella città, erano dannose, e perché i miasmi che esalavano guastavano l’aria

producendo febbri, pestilenze ed altre morie, e perché erano infestate da pericolosissime sanguisughe,

il cui morso feroce produceva la morte. Fatto un potente scongiuro, Virgilio fece morire le

sanguisughe, asciugò le paludi dove sorsero case e giardini e l’aria vi divenne la più pura che mai

respirar si potesse. Così, giovandosi del suo potere che era infinito, un giorno egli salì sopra una

collina e chiamò alla sua obbedienza i venti ed ordinò al Favonio che spirava nella città nel mese di

aprile e col suo caldo soffio abbruciava le piante, i fiori, di mutare direzione: e la flora primaverile

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crebbe più bella e più rigogliosa. Laggiù nel quartiere che noi moderni chiamiamo Pendino, annidava

un formidabile serpente che era lo spavento di ogni uomo avendo già morsicato e strozzato bambini

e fanciulle, e quando si mettevano in molti per combatterlo, esso scompariva rapidamente nelle

viscere della terra per poi ricomparire più terribile che mai. Chiamato Virgilio in soccorso, egli si

avviò tutto solo, ricusando ogni compagnia, al luogo dove s’annidava il mostro e con le sue formule

magiche l’ebbe subito domato e morto. Anzi è da notarsi che, sebbene la città fosse eretta sopra

un’altra città, nera e malsana, fatta di caverne, sotterranei e cloache, dove potrebbero allignare simili

rettili, da quel tempo sinora, mai più ve ne furono.

Quando un morbo fierissimo invase la razza dei cavalli, Virgilio fece fondere un grande cavallo

di bronzo, gli trasfuse il suo magico potere e ogni cavallo condotto a fare tre giri intorno a

quello di bronzo, era immancabilmente guarito, non senza molta collera di maniscalchi ed empirici

che si vedevano superati e sbugiardati.

Certi pescatori della spiaggia napoletana e propriamente quelli che dimoravano nel punto

chiamato in seguito Porta di Massa, andarono a Virgilio, lagnandosi della scarsa pesca che vi facevano

e chiedendo a lui un miracolo. Virgilio li volle contentare e in una grossa pietra fece scolpire

un piccolo pesce, disse le sue incantagioni e piantata la pietra in quel punto, il mare fruttificò mai

sempre di pesci innumerevoli. Virgilio fece mettere sulle porte di Parthenope, verso le vie della

Campania, due teste augurali ed incantate, una che rideva e l’altra che piangeva: onde colui che capitava

a passare sotto la porta dove la testa rideva ne traeva buon augurio per i suoi affari che sempre

riuscivano a bene ed il contrario colui che passava sotto la testa piangente. Fu Virgilio che in

poche notti fece eseguire da esseri sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per facilitare il viaggio agli

abitanti di quei villaggi che venivano in città; fu Virgilio che, per la sua virtù magica, fece sorgere

un orto di erbe salutari per le ferite ed ottime come condimento alle vivande; fu Virgilio che insegnò

ai giovani i giuochi delle melarance e delle piastrelle che s’ignoravano; fu Virgilio che di notte

incantò le acque sorgive della riva Platamonia e della riva di Pozzuoli, dando loro singolare potenza

per guarire ogni specie di malattia; fu Virgilio che applicando certi suoi rimedii e proferendo gli

scongiuri, sanò molti e molti ammalati; fu Virgilio che volendo salvare la campagna del suo discepolo

Albino, svelò il mistero dell’antro cumano dove i sacerdoti ingannavano il popolo coi responsi

falsi, prodotti da una naturale combinazione di suoni. La cronaca soggiunge che Virgilio Mago fu

amato, rispettato, idolatrato quasi come un Dio, poiché giammai rivolse la sua magia a scopo cattivo,

sibbene sempre a vantaggio della città e dell’uomo. La cronaca non dice quando e dove morisse

Virgilio: molti allora credettero alla sua immoralità; qualcuno alla sua morte su quel colle presso

Avellino che chiamasi Montevergine, dove s’era ridotto a studiare ed era diventato vecchissimo. Ad

ogni modo gli abitanti di Parthenope gli eressero un grande monumento che poi fu distrutto; quello

che sorge all’imboccatura della gotta essendo un semplice colombario. Ma non ebbero alcuna sicuranza

di fatto il sito e il modo e l’epoca della sua morte.

Ebbene poc’anzi ho errato dicendo che noi non conoscevamo Virgilio Mago. Non vi è che

un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia è proprio il poeta.

Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il

poeta. Il poeta con le sue lunghe peregrinazioni per quella orrida, bella e straziata campagna che sono

i Campi Flegrei, donde egli fantasticava dell’Averno e dello Stige; con le sue lunghe peregrinazioni

nella Campania Felice, dove egli ha acquistato quell’amore profondo della natura, l’amore dei

campi ubertosi che si stendono all’infinito sotto il sole, dei prati verdeggianti dove pascola quietamente

il bove dai grandi occhi nei quali il cielo si riflette, l’amore dei boschi oscuri e silenziosi dove

l’anima si calma e s’assopisce nella pace, l’amore dei colli aprichi, dove i liberi venti fanno ondeggiare

tutta una coltivazione di fiori; l’amore dell’uccello che canta e vola via, dell’insetto dorato

che ronza, della foglia che il turbine si porta, della forte quercia che nulla scuote: quell’amore profondo

della natura che è il sentimento più alto del suo poema, che è la magia per cui ancora

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c’incanta, che è – con una parola troppo moderna, ma vera – la nostalgia del suo cuore che lo fa esclamare...

“ fortunatos agricolas ”, che dà alla sua descrizione tanto colore, tanta luce, tanta vita.

È il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura; è lui che parla alle stelle

tremolanti di raggi nelle notti estive; è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui

il suo verso scandisce; è il poeta che conosce la virtù dei semplici, è lui che ha scoverte certe leggi

naturali, ignote a tutti; è il poeta civile che uccide le bestie, fa rasciugare le paludi e fa sorgere a

quel posto palagi e giardini; è il poeta che insegna ai giovani i giuochi dove il corpo si fortifica e

l’anima si serena; è lui, sublime fantastico, che stabilisce l’augurio della buona o della mala ventura;

è lui che come calamita fortissima attrae a sé l’amore, l’ossequio, il rispetto; è Virgilio poeta. E

nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.

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IL MARE

Voi errate lontano di qua, anima settentrionale e vagabonda, e le brume in cui si affissa il

vostro malinconico occhio, vi mettono intorno quell’ambiente monotono e triste in cui si acqueta

ogni agitazione. Ma nelle tranquille divagazioni dove il vostro spirito amareggiato si disacerba, nella

sorridente mestizia che aleggia in quello che scrivete, io veggo ogni tanto una divagazione vivace.

Voi non avete dimenticato il nostro mare, il nostro bel mare di Napoli. Ancora vi appare e

scompare rapidissima innanzi agli occhi una visione azzurra; ancora un molle suono, quasi indistinto

e fuggente, vi lusinga l’orecchio; un profumo sottile come un ricordo lontanissimo vi fa dilatare

le nari. Il mio bel golfo voi non lo avete dimenticato. Io leggo quello che scrivete, ma indovino

quello che pensate. Dovete soffrire di una segreta nostalgia che non osate confessare, voi, esiliato

volontario. E come l’eco dolorosa si ripercuote sul mio fedele e forte cuore d’amica, così io risponderò

a quello che nascondete invece che a quello che palesate, e vi narrerò non la storia, ma la leggenda

del mio poetico golfo.

Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e magnifico Signore, ha guardato sempre

con occhio di predilezione la città di Napoli. Per lei ha avuto tutte le carezze di un padre, di un innamorato,

le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare. Le ha dato il

cielo ridente ed aperto, raramente turbato da quei funesti pensieri scioglientisi in lagrime che sono

le nubi; l’aria leggera, benefica e vivificante che mai non diventa troppo rude, troppo tagliente; le

colline verdi, macchiate di case bianche e gialle, divise dai giardini sempre fioriti; il vulcano fiammeggiante

ed appassionato, gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti e innamorati; le dame piacenti,

brune, amabili e virtuose; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti. Poi, per suggellare

tanta grazia, le ha dato il mare, ha saputo quel che si faceva. Quello che sarebbero i napoletani,

quello che vorrebbero, egli conosceva bene e nel dar loro la felicità del mare, ha pensato alla felicità

di ognuno. Questo immenso dono è saggio, è profondo, è caratteristico. Ogni bisogno, ogni pensiero,

ogni corpo, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s’appaga, il suo piccolo mare nel grande

mare.

Del passato, dell’antichissimo passato è il mare del Carmine. Poco distante dalla spiaggia è

l’antica porta di mare che introduce alla piazza; sulla piazza storicamente famosa si eleva il bruno

campanile, coi suoi quattro ordini a finestruole che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo

grazioso di un bimbo gigante; le casupole attorno sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate

da gente minuta. Il mare del Carmine è scuro, sempre agitato, continuamente tormentato. Sulla

spiaggia semideserta non vi è l’ombra di un pescatore. Vi si profila qua e là la linea curva di una

chiglia; la barca è arrovesciata, forse si asciuga al sole. Dinanzi alla garitta passeggia un doganiere

che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impetuoso. Presso la riva una barcaccia

nera stenta a mantenersi in equilibrio; dal ponte per mezzo di tavole è stabilita una comunicazione

con la terra; vi vanno e vengono facchini, curvi sotto i mattoni rossi che scaricano a riva.

Ma non si canta né si grida. Il mare del Carmine non scherza. In un temporale d’estate portò via un

piccolo stabilimento di bagni; in un temporale di inverno allagò la Villa del Popolo, giardino infelice,

dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici.

Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira. Il mare del Carmine era l’antico porto di Parthenope

dove approdavano le galee fenicie, greche e romane, ma era porto malsicuro; esso ha visto

avvenimenti sanguinosi e feste popolari. È un mare storico e cupo. Sulla piazza che quasi esso lambiva,

dieci, venti volte sono state decise le sorti del popolo napoletano. Le onde sue melanconiche

hanno dovuto mormorare per molto tempo: Corradino, Corradino. Le onde sue tempestose hanno

dovuto ruggire per molto tempo: Masaniello, Masaniello. È il mare grandioso e triste degli antichi

che sgomenta le coscienze piccine dei moderni. La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi re10

gna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito, vi passeggia, curvando il capo sotto il peso

dei ricordi, fissando l’occhio sulla vita di quelli che furono.

Ma ferve la gente e ferve la vita sul mare del Molo. Non è spiaggia, è porto queto e profondo.

L’acqua non ha onde o appena s’increspa; è nera, a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto,

dove nulla si riflette. Sulla superficie galleggiano pezzi di legno, brandelli di gomene, ciabatte

sformate e sorci morti. Nel porto mercantile si stringono l’una contro l’altra le barcacce, gli schooners,

i brigantini carichi di grano, di farina, di carbone, d’indaco, non vi è che una piccola linea di

acqua sporca tra essi. Sul marciapiede una grua eleva nell’aria il suo unico braccio di ferro, che

s’alza e s’abbassa con uno stridore di lima. Uomini neri dal sole, di fatica e di fumo, vanno, vengono,

salgono e scendono. Un puzzo di catrame è nell’aria. Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono

infissi pennoni a cui s’attorcigliano intorno grossissime gomene che danno una sicurezza maggiore

ai vapori postali ancorati in rada. A destra c’è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco,

dove rimangono immobili le corazzate.

Dappertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarcazioni pesanti; le voci si chiamano, si

rispondono, si incrociano. Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di

carbone, atomi di catene, limature di ferro; la sera l’occhio del faro sorveglia il Molo. Il mare del

Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccendati, dei marinari

adusti, degli ufficiali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d’affari che partono senza

un rimpianto. È per essi che il Signore ha fatto il lago nero del Molo.

Del popolo e pel popolo è il mare di Santa Lucia. È un mare azzurro-cupo, calmo e sicuro.

Una numerosa e brulicante colonia di popolani vive su quella riva. Le donne vendono lo spassatiempo,

l’acqua solfurea, i polpi cotti nell’acqua marina; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano,

fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mare, cantano e dormono. È un paesaggio

acceso e vivace. Le linee vi sono dure e salienti, il sole ardente vi spacca le pietre. Si sente

un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte. I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella

via, cascano nell’acqua, risalgono alla superficie, scuotendo il capo ricciuto e gridando di gioia. Sulla

riva un’osteria lunga lunga mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi,

dall’argenteria brillante. Di sera vi s’imbandiscono le cene napoletane. Suonatori ambulanti di violino,

di chitarra, di flauto improvvisano concerti; cantatori affiochiti si lamentano nelle malinconiche

canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave e la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso o

di sforzato che cela il dolore; accattoni mormorano senza fine la loro preghiera; le donne strillano la

loro merce. Di estate un vaporetto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, la bella distrutta,

i barcaiuoli offrono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il passaggio

fino al vaporetto. Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini piccoli e variopinti; si asciugano al

sole, sbattute dal ponente, le lenzuola; le bagnine hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio

con la mano. Una folla borghese e provinciale assedia gli stabilimenti, scricchiolano le viottole

di legno. Salgono nell’aria serena canti, suoni di chitarra, trilli d’organino, strilli di bimbi, bestemmie

di facchini, rotolio di trams, profumi e cattivi odori; rifuggono i colori rabbiosi e mordenti;

fiammeggiano le albe riflesse sul mare; fiammeggiano meriggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare;

s’incendiano i tramonti sanguigni riflessi sul mare che pare di sangue. È il mare del popolo, mare

laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vive e con cui vive il popolo napoletano.

Eppure, a breve distanza, tutto cangia d’aspetto. Dalla strada larga e deserta si vede il mare

del Chiatamone. La vista si estende per quel vastissimo piano, si estende quasi all’infinito, poiché è

lontanissima la curva dell’orizzonte. Quel piano d’acqua è desolato, è grigio. Nulla vi è d’azzurro e

la medesima serenità ha qualche cosa di solitario che rattrista. Le onde si rifrangono contro il muraglione

di piperno con un rumore sordo e cupo; lontano, gli alcioni bianchi ne lambiscono le creste

spumanti. A sinistra s’eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi, a finestrelle ferrate; il

castello spaventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio. Contro

le sue basi di scoglio le onde s’irritano, si slanciano piene di collera e ricadono bianche e livide

di rabbia impotente. Quando le nuvole s’addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i plata11

ni della villetta, allora la desolazione è completa, è profonda. Di lontano appare una linea nera: è

una nave sconosciuta che fugge verso paesi ignoti. Alla sera passa lentamente qualche barca misteriosa

che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che mette una striscia rossa nel palpito del

mare: sono pescatori che stordiscono, con la fiaccola, il pesce. In quelle acqua un giovanetto nuotatore

bello e gagliardo, vinto dalle onde, invano ha chiamato aiuto ed è morto affogato; in una notte

d’inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è lanciata in mare, donde

l’hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto. È il mare che Dio – come dice la vecchia

leggenda – ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, per i nostalgici, per gl’innamorati

dell’infinito.

Invece ride il mare di Mergellina; ride nella luce rosea delle giornate stupende; ride nelle

morbide notti di estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimo fili d’argento, ride nelle

vele bianche delle sue navicelle che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia. Sulla riva

scorre la fontana con un cheto e allegro mormorio; i fanciulli e le fantesche in abito succinto vengono

a riempirvi le loro brocche. Uno yacht elegante, dall’attrezzeria sottile come un merletto, dalle

velette candide orlate di rosso, si culla mollemente come una creola indolente, porta il nome a lettere

d’oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale e bionda: Flavia. Uno stabilimento di bagni,

piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola, sulla viottola passano le belle

fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, cogli ombrellini

dai colori splendidi che si accendono al sole; passano le sposine giovanette, gaie e fresche,

attaccate al braccio dello sposo innamorato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo. E

nel mare, giù, è un ridere, uno scherzare, un gridio fra il comico spavento e l’allegria dell’acqua

fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia rotonde che si sollevano e volti bruni

dai capelli bagnati. È la festa di Mergellina, di Mergellina la sorridente, fatta per coloro cui allieta la

gioventù, cui fiorisce la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano, fatta per coloro cui la vita

è una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sempre vive e profumate.

Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posillipo, il glauco mare che prende tutte le tinte,

che si adorna di tutte le bellezze.

Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il paradiso, esso lo realizza. È l’armonia del

cielo, delle stelle, della luce, dei colori, l’armonia del firmamento con la natura, mare e terra. Si

sfogliano i fiori sulla sponda, canta l’acqua penetrando nelle grotte, l’orizzonte è tutto un sorriso.

Posillipo è l’altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell’avvenire; Posillipo è tutta

la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può volere. Posillipo è l’immagine

della felicità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà. È la vita vibrante, fremente, nervosa

e lenta, placida e attiva. È il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia. Il mare di Posillipo

è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gl’innamorati di quell’ideale che informa e

trasforma l’esistenza.

Quando il Signore ebbe dato a noi il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda

gli fa dire: uditelo voi, anima glaciale e cuore inerte. Egli disse: Sii felice per quello che t’ho dato, e

se non lo puoi, se l’incurabile dolore ti traversa l’anima, muori nelle onde glauche del mare.

12

LA LEGGENDA DELL’AMORE

In questo pomeriggio lungo di luglio un grande silenzio regna intorno; nelle vie abbruciate

dal sole non passa alcuno; ed i cittadini dormono nel pesante assopimento dell’estate; vicino, sotto

la finestra, in un tegame dove bolle lo strutto, scoppiettano e friggono certi peperoncini verdi ed arrabbiati;

lontano, in una via trasversale, un organino suona un valtzer languido e malinconico; un

moscone sussurra e dà di testa contro i vetri più alti della finestra socchiusa. Noi siamo tristi, ed il

sangue che monta al capo, ci dà la vertigine: noi abbiamo l’anima di piombo e la bocca amara; noi

abbiamo il desiderio dell’ombra profonda e delle bevande ghiacciate – perché invero ci è intorno la

violenza di una passione secca e rude, perché ci sembra assistere allo spasimo e udire i singhiozzi

convulsi della natura che muore nell’amore del sole. Le vie sono bianche, polverose e fulgide; le case

gialle, rosse e bianche rifulgono; i colli sono splendidi di luce; il mare brilla tutto come un migliaio

di specchi; sulla punta del cratere qualche cosa abbrucia e fuma ed il cielo è cupo nella sua

serenità. Tutto è luce vivida, tutto è intensità di colore, ogni cosa si condensa; pare che si debbano

spaccar le pietre, che le case debbano sbuzzar fuori, che le colline vogliano slanciarsi al cielo, che il

mare voglia cangiarsi in metallo liquefatto e che la montagna voglia eruttare lave di fuoco – e tutto

rimane immobile, tetro e grave. È per l’amore: voi certamente sapete che tutte le cose in Napoli,

dalle pietre al cielo, sono innamorate.

Non conoscete la storiella dei quattro fratelli? Io ve la narrerò. Una volta, allora, allora, nel

tempo dei tempi, v’erano quattro fratelli che s’amavano di cordialissimo amore e non si staccavano

mai l’uno dall’altro. Erano belli, giovani, freschi, aitanti nella persona e sulle giovani teste ben

s’addicevano le ghirlande di rose. Ognun di loro arse in segreto per una fanciulla, né se ne confidarono

il nome; ma la sorte malaugurata riunì tutti gli amori dei quattro fratelli in una donna sola. Ella

nessuno di quelli voleva amare. Asperrima guerra sarebbe sorta tra loro e sangue fraterno sarebbe

stato sparso, se una notte la loro bella non fosse sparita per sempre. Ma essi, pazienti ed innamorati,

l’aspettano da migliaia di anni: sono cangiati in quattro colli ameni e fioriti che dal loro nome si

chiamano Poggioreale, di Capodimonte, di San Martino, del Vomero – e l’uno accanto all’altro,

immobilmente innamorati, aspettano il ritorno di colei che amano. Fioriscono le primavere sul loro

capo, s’infiamma l’estate, piange l’autunno, s’incupisce la nera stagione; ed i poggi non si stancano

d’aspettare. Ma l’amore della bella assente è scarso al confronto dell’amore per una bella sempre

presente e crudele. La sapete voi la seconda storiella? Vi fu una volta un giovanetto leggiadro e gentile,

nel cui volto si accoppiava il gaio sorriso dell’anima innocente al malinconico riflesso di un

cuore sensibile; egli era nel medesimo tempo festevole senza chiasso e serio senza durezza. Chi lo

vedeva lo amava; e la gente accorreva a lui come ad amico, per allietarsi della sua compagnia. Ma il

bel giovanetto fu molto infelice, molto infelice; gli entrò nell’anima un amore ardente, la cui fiamma,

che saliva al cielo, non valse ad incendere il cuore della donna che egli amava. Era costei una

donna di campagna, cui era stato dato in dono la bellezza del corpo, ma a cui era stata negata quella

dell’anima: ella era una di quelle donne incantatrici, fredde e sprezzose che non possono né godere,

né soffrire.

Paiono fatte di pietra, di una pietra levigata, dura e glaciale; vanno in pezzi ma non si ammolliscono;

cadono fulminate ma non muoiono. Tale era Nisida, colei che fu invano amata dal giovanetto,

poiché nulla valse a vincerla. Allora lui che si chiamava Posillipo, amando invano la bella

donna che viveva di faccia a lui, per sfuggire a quella vista che era il suo tormento e la sua seduzione,

decise di precipitarsi nel mare e finire così la sua misera vita. Decisero però diversamente i Fati

e rimasto a mezz’acqua il bel giovanetto, vollero lui mutato in poggio che si bagna nel mare e lei in

uno scoglio che gli è dirimpetto: lui poggio bellissimo dove accorrono le gioconde brigate, in lui dilettandosi,

lei destinata ad albergare gli omicidi ed i ladri che gli uomini condannano alla eterna prigionia

– così eterno il premio, così eterno il castigo.

13

E vi è anche l’amore che è un prodigioso abbagliamento, un miraggio fatale, l’acciecamento

di colui che, ardito e folle, ha voluto fissare il sole. Era un pescatore abile e fortunato, colui di cui vi

narro, e l’intiero suo giorno passava fra l’amo e le reti, lieto quando la pesca era abbondante, incollerito

quando la tempesta che intorbida le acque, rendeva inefficace le sue fatiche. Era uomo semplice

e buono, silenzioso ed ignorante d’amore: quando un giorno, mentre sedeva a riva ed immergeva

l’amo nell’onda, dalle glauche acque, dinanzi a lui sorse una Ninfa marina, dal corpo bianco e

provocante, dai lunghi e biondi capelli che il vento sollevava, dallo sguardo verde e terso come il

cristallo; ella cantava soavemente e le sue candide dita volavano sulla cetra. Era così lusinghiero,

così attraente il suo canto che il povero pescatore sentì struggersi il cuore e non avendo che

l’ardente desiderio di raggiungere la sirena e morire in un supremo abbraccio, precipitò nel mare.

Tre volte venne a galla, tre volte scomparve nel mare – e lui fortunato se potette con la morte pagare

così infinito godimento. Il sito dove egli precipitò fu chiamato Mergellina dal suo nome e dicesi ancora,

nelle fosforescenti notti d’estate, vi ricompaia la sirena.

V’è poi la pietosa istoria dell’amore felice che è combattuto e vinto dalla morte: una storiella

ingenua come tutte le altre. Vi si narra di un ricco signore chiamato Sebeto, che abitava in una campagna

presso Napoli, in un palazzo tutto di marmo. Egli per amore aveva menato in moglie una

donna chiamata Megera che lo ricambiava con egual tenerezza. Egli teneva cara questa sua moglie

sopra tutte le cose e profondeva per lei tutte le sue ricchezze: accadde che in un giorno ella volle

andare a diporto sopra una feluca pel golfo di Napoli. Verso la riva Platamonia, dove il mare è sempre

tempestoso, mentre i marinari volevano far forza contro il vento, la feluca si capovolse e Megera

si annegò diventando uno scoglio. Alla orribile nuova Sebeto sentì spezzarsi il cuore e per molto

tempo si sciolse in amarissime lagrime in modo che tutta la sua vita si disfece in acqua, correndo a

gettarsi nel mare dove Megera era morta.

E tutte le fontane di Napoli sono lagrime: quella di Monteoliveto è formata dalle lagrime di

una pia monachella che pianse senza fine sulla Passione di Gesù; quella dei Serpi sono le lagrime di

Belloccia, una serva fedele innamorata del suo signore; quella degli Specchi è fatta delle lagrime di

Corbussone, cuoco di palazzo e folle di amore per la regina cui cucinava gli intingoli; quella del

Leone è il pianto di un principe napoletano, cui unico e buon amico era rimasto un leone che gli

morì miseramente; e quella di fontana Medina sono le lagrime di Nettuno, innamorato di una bella

statua cui non arrivò a dar vita. Ma la passione è nell’ultima storiella che ascolterete. Vi si parla di

un nobile signore, appartenente ad uno dei primi seggi della città, e che s’innamorò perdutamente di

una fanciulla di casa nemica; era il cavaliere di carattere violento, di temperamento focoso, pronto

al risentimento ed all’ira. Pure, per ottenere la donna che amava, sarebbe diventato umile come un

poverello cui manca il pane. Ma l’amore dei due giovani, anziché diminuire e lenire le collere di

parte, valse a rinfocolarle – e per preghiere ed intercessioni che venissero fatte, la nobile famiglia

Capri non volle accettare il matrimonio. Anzi per trovar rimedio all’amore dei due, fu deciso imbarcare

la fanciulla sopra una feluca e mandarla in estranea contrada. Ma essa che si sentiva strappar

l’anima, allontanandosi dal suo bene, come fu fuori del porto, inginocchiatasi e pronunciata una

breve preghiera, si slanciò nell’onde, donde uscì isola azzurra e verdeggiante. Ma non si chetava

l’amore nel cuore del nobile Vesuvio, quale era il nome del cavaliere e la collera gli bolliva in corpo:

quando seppe della nuova crudele, cominciò a gittar caldi sospiri e lagrime di fuoco, segno della

interna passione che lo agitava; e tanto si gonfiò che divenne un monte nelle cui viscere arde un

fuoco eterno d’amore. Così egli è dirimpetto alla sua bella Capri e non può raggiungerla e freme

d’amore e lampeggia e s’incorona di fumo e il fuoco trabocca in lava corruscante…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

O anime trafitte, o anime sconsolate, o voi che per l’amore portate nel cuore sette spade di

dolore, non vi sorrida la speranza di guarirvi qui. Qui amano anche le pietre: gli uomini sani

s’ammalano d’amore e gli infermi ne muoiono.

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IL PALAZZO DONN’ANNA

Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà,

poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l’onda del mare non è

perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri,

rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia,

entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette l’arena nei

cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte il palazzo diventa nero, intensamente

nero; si Serena il cielo Sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il

mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malinconici d'amore e le monotone

note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue vòlte fragoreggia l’onda marina. Ogni tanto

par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano

delle finestre: ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato là un buon covo, ma

la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un tetto, ma noi

ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per compatirli. E forse sono fantasmi

e noi sorridiamo e desideriamo the ciò sia; noi li amiamo i fantasmi, noi viviamo con essi, noi sogniamo

per essi e per essi noi moriremo. Noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi

sul mare, per le colline, sulle rocce, nelle chiesette tetre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche

sale dove il medioevo ha vissuto.

Fu una sera e splendevano di luce vivida quelle finestre; attorno attorno il palazzo, sul mare,

si cullavano barchette di piacere adorne di velluti che si bagnavano nell’acqua, vagamente illuminate

da lampioncini colorati, coronate di fiori alla poppa; i barcaiuoli si pavoneggiavano nelle ricche

livree. Tutta la nobiltà napoletana, tutta la nobiltà spagnuola, accorreva ad una delle magnifiche feste

che l'altiera Donn'Anna Carafa, moglie del duca di Medina Coeli, dava nel suo palazzo di Posillipo.

Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla

collana d'oro, dalle bacchette di ebano: giungevano continuamente le bellissime signore, dagli strascichi

di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sorgeva come pistillo di fiore la testa graziosa,

dai monili di perle, dai brillanti che cadevano sui busti attillati e seducenti; giungevano accompagnate

dai mariti, dai fratelli e qualcuna, più ardita, solamente dall'amante. Nella grande sala, sulla

soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d’argento, con un lieve sorriso sulla bocca, il

cui grosso labbro inferiore s'avanzava quasi in atto di spregio, inchinando appena il fiero capo alle

donne, dando la mano da baciare ai cavalieri grandi di Spagna di prima classe come lei, stava Donna

Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio dal lampo d'acciaio, simile a quello dell’aquila, rivelava

l’interna soddisfazione di quell'anima fatta d'orgoglio: ella godeva, godeva senza fine nel vedere

venire a lei tutti gli omaggi, tutti gli ossequi, tutte le adulazioni.

Era lei la più nobile, la più potente, la più ricca, la più bella, la più rispettata, la più temuta,

lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh poteva salire gloriosa i due scalini che

facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito dell'ambizione appagata

che le soffiava in volto. Le dame sedevano intorno a lei, facendole corona, minori tutte di lei:

ella era sola, maggiore, unica.

In fondo al grande salone era rizzato un teatrino destinato per lo spettacolo. Tutta quella eletta

schiera d'invitati dovevano dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a

quella di una danza moresca; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la

grande curiosità della rappresentazione era che gli attori, per una moda venuta allora di Francia, appartenessero

alla nobiltà. Donn'Anna Carafa di Medina disprezzava i facili costumi francesi che

corrompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatrice dei cuori e apprezzatrice del favore popolare

com'era, s'accorgeva che quelle molli usanze piacevano ed erano adottate con trasporto. Solo per

questo ella aveva consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna, sostenesse una

parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati, dai neri capelli,

le cui trecce le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella

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commedia la parte di una schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto,

e lo serve fedelmente sino a fargli da mezzana d'amore, sino a morire per lui d'un colpo di pugnale

destinato al cavaliere da un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tale impeto che tutta

la sala si commuoveva allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuovevano,

salvo Gaetano di Casapesenna che faceva la parte del cavaliere. Ma così dal poeta era

stata ispirata ogni parola del cavaliere, ed egli, freddo, indifferente, inconscio, non faceva che rimaner

fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine della commedia, quando la sventurata Mirza

ferita a morte, s'accomiata con parole d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora,

egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abbandona in

ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d'agonia. Invero,

egli fu così focoso in tale slancio, così patetica ed improntata di dolore la sua voce, così disordinato

ogni suo gesto, che veramente parve superiore ad ogni vero attore, e parve che la verità animasse

il suo spirito, sino al punto che la sala intera scoppiò in applausi.

Sola, sul suo trono, tra le sue gemme, sotto la sua corona ducale, Donn'Anna impallidiva

mortalmente e si mordeva le labbra. Non era lei la più amata.

Le due donne s'incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guardavano, Donna Mercede

fremente di gelosia, l'occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima

aborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda

Donn'Anna, agitata e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade ed altere parole. Ma se la gelosia

scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro:

– Le donne di Spagna sono esse le prime ad abbandonarsi all'amante – diceva Donn'Anna,

con la sua voce dura e grave.

– Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti – rispondeva vivamente Donna

Mercede.

– Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede.

– Voi lo foste, Donn'Anna.

– Voi obliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci vostro amore a spettacolo, Donna Mercede.

– Voi tradiste il duca di Medina Coeli, mio nobile zio, Donn'Anna Carafa.

– Voi amate ancora Gaetano Casapesenna.

– Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna.

Vinceva la bollente spagnuola e Donna Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio

glaciale della duchessa contro cui s'infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la

spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente

della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn'Anna celava il suo spasimo,

ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo. La duchessa agonizzava

sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che

ella scomparve d'un tratto dal palazzo Medina Coeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione

religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa

quell'anima, e delle lunghe giornate passate in ginocchio dinanzi al Sacramento, e del fervore della

preghiera e delle lagrime ardenti: ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno dove era il

convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed

in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Campostella, invano pianse,

pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere

sventurato si conviene.

Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa

Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario.

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Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche

noi, come voi, spasimare d'amore anche dopo la morte?

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BARCHETTA-FANTASMA

Li conosci tu? Li conosci tu questi giorni fangosi e sporchi, quando la Noia immortale prende

il colore bigio, l'odore nauseante, la pesantezza opprimente della nebbia invernale, quando il cielo

è stupidamente anemico, il sole è una lanterna semispenta e fumicante, i fiori impallidiscono ed

appassiscono, le frutta imputridiscono, le guance delle donne sembrano di cenere, la mano degli

uomini pare di sughero, la città patisce di acquavite e la campagna di siero? È in questi giorni che la

fantasia del mondo, esaltata nella sua febbre, senza trovare più pascolo, senza avere più refrigerio,

si nutre orribilmente di se stessa, arroventandosi o disseccandosi. In questi giorni la poesia, la delicata

ed esile fanciulla, irrimediabilmente ammalata, s'illanguidisce, declina il capo e muore senza

un gemito, senza un respiro – e l'arte, la robusta fanciulla, colpita mortalmente, agonizza, torcendosi

le braccia, effondendo in lugubri lamenti la sua disperazione. Invano l'artista cerca immergersi nel

suo sogno prediletto: il sogno è scomparso. Invano egli tenta tutte le corde della bionda lira: sotto la

sua mano tremante le corde si spezzano, con un suono che si prolunga nell'aria come un triste presagio.

O giorni, o giorni scombuiati, feroci e maledetti.

Ma perché in questi giorni non amiamo noi, sino a morirne? Perché non chiudiamo gli occhi,

lasciandoci rotolare in un abisso senza fondo dove è cosi dolcemente doloroso finire la vita? Perché

non parliamo noi di amore sino a che la voce si esaurisca nella gola riarsa e la parola diventi un

mormorio indistinto? Vieni dunque ad ascoltarmi. Narrerò a te d'amore.

A te, fantasma fuggevole ed inafferrabile, essere divinamente malvagio, umanamente buono,

infinitamente caro, bello come una realtà, orribile come una illusione, sempre lontano, sempre presente,

che vivi nelle regioni sconosciute, che sei in me: chimera, persona, nebulosa, nome, idea odiosa

ed adorabile da cui parte ed a cui ritorna ogni minuto la mia vita!

L'hai tu mai vista la barchetta-fantasma? L'hai tu vista, amor mio?

..... Odimi. Io non so quando avvenne la storia d'amore che ti narro; l'anno, il giorno e l'ora,

non li conosco. Ma che importa? Oggi, ieri, domani, il dramma dell'amore è multiforme ed unico.

Batta il cuore sino a spezzarsi sotto una toga di lana, una corazza di acciaio o un abito di velluto, il

suo palpito precipitoso non rovinerà meno o diversamente una esistenza; siano le braccia dell'amata

cinte di bende sacre, nude, sotto le fasce dei braccialetti, chiuse nelle stoffe seriche, o seminascoste

nei merletti, esse non abbracceranno con minore o diversa passione. Che importa una cifra? Tecla

era bella. Il suo volto era di quel candore caldo e vivo che diventa cereo sotto i baci; nei grandi e

voluttuosi occhi di leonessa si accendevano strane scintille d'oro; le labbra arcuate erano fatte per

quel sorriso lungo, profondo e cosciente che poche donne conoscono; le trecce folte, brune, s'incupivano

in un nero azzurro. Si chiamava Tecla, un nome duro e dolce, che nel fantasioso vocabolario

dei nomi significa cuore colpevole. Hanno la loro fatalità anche i nomi. Fanciulla, Tecla aveva ignorato

l'amore, orgogliosa ed indifferente; sposa a Bruno, Tecla aveva ignorato l'amore, moglie superba

e glaciale. Eppure aveva veduto struggersi, consumarsi d'amore il forte cuore di Bruno, un ruvido

ed aspro cuore che non aveva mai amato, ma quel soffio ardente di passione non l'aveva riscaldata,

quella voce ansiosa ed appassionata non l'aveva commossa, l'amore di Bruno era rimasto inutile,

inutile. Bruno se lo sapeva, Tecla glielo aveva detto. Ella non mentiva mai. Era sposa a lui, senza

odio, ma senza trasporto. Bruno non si rassegnava, no. Tecla era il cruccio insoffribile della sua vita,

il chiodo irrugginito, ficcato nel cervello, il tronco di spada spezzato ed incastrato nel cuore. La

ruga della sua fronte, la crudeltà del suo sguardo, il sogghigno del suo labbro, l'amarezza della sua

bocca, il fiele del suo spirito era Tecla. Avrebbe dovuto morire, ma quando s'ama non se ne ha il coraggio.

Avrebbe potuto uccidere Tecla, ma non vi pensava. Non si uccide una donna virtuosa: Tecla

era virtuosa, di una virtù alta e fiera.

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Ma come ogni altezza ne trova un'altra che la superi e la vinca, fino a che non si arrivi all'invincibile

ed all'incommensurabile, così dinanzi alla virtù di Tecla giganteggiò, immenso, l'amore.

Fu una grande sconfitta; fu un gran trionfo. D'un tratto la fierezza si annegò nella umiltà, l'orgoglio

fu ingoiato, trovolto. Era singolarmente bello Aldo, un fascino irresistibile vibrava nella sua voce

armoniosa, le sue parole struggevano come fuoco liquido, il suo sguardo dominava, vinceva, metteva

nell'anima uno, sgomento pieno di tenerezza; ma se tutto questo non fosse stato, per Tecla egli

era sempre, unico, l'amore. Fu una notte in una sala fulgida di lumi che si videro. Nulla seppero dirsi.

Pure fra quei due esseri che si separarono senza un saluto, senza un sorriso, un legame indissolubile

era sorto. Camminavano uno verso l'altro, dovendo inevitabilmente incontrarsi.

– Che fai tu alla finestra, Tecla? È un'ora che guardi nel buio, quasi vi scorgessi qualche cosa.

– Guardo il mare, Bruno, rispondeva lei con la infinita mestizia di chi comincia ad amare.

– La brezza della sera ti fa male, Tecla. Tu sei pallida come un cadavere.

– Lasciami qui, te ne prego.

– Tu sei triste, Tecla. A che pensi?

– Io non penso, Bruno.

– Dimmi, chi ti rattrista?

– Nessuno può rattristarmi.

– Tecla, la tua mano è gelata e le tue labbra sono, ardenti; tu soffri, tu tremi, tu vacilli...

– Muoio...

Ma in una notte cupa e profonda, dopo venti notti che l'insonnia tormentosa si assideva al

suo capezzale bagnato di lagrime, Tecla sentì scuotersi tutta, come se un appello possente la chiamasse.

– Eccomi – mormorò.

E muta, rigida, con l'incesso uniforme e continuo di un automa, col lungo abito bianco che le

si trascinava dietro come un sudario, col passo ritmico che appena sfiorava il suolo, coi lunghi capelli

disciolti sugli omeri, con gli occhi spalancati nell'oscurità, ella attraversò la casa ed uscì sul

terrazzo che dava sul mare. Aldo era là.

Ella andò a lui. Stettero a guardarsi, nell'ombra. Non un detto, non un sospiro. L'amore condensato,

potente, sdegnoso di espansione, li soffocava.

O indimenticabili notti create per l'amore! O eternamente bello golfo di Napoli, dall'amore e

per l'amore creato! Nelle notti di primavera, quando il fermento della terra conturba i sensi e tenta

l'anima, quando nell'aria vi è troppo profumo di fiori, si può discendere al mare, entrare nella barca,

fuggire la costiera, e sdraiati sui cuscini contemplare l'azzurro cupo del cielo, l'ondeggiamento voluttuoso

del flutto, il palpito vivo delle stelle che pare si vogliano staccare per precipitare nell'immenso

aere. Nelle torbide notti estive che seguono le giornate violente e tormentose, quando la terra

si riposa, sfiaccolata, da una passione di quattordici ore col sole, felice colui che può farsi cullare in

una barca, come in un'amaca, mentre il forte profumo marino gli fa sognare il tropico, la sua splendida

e mostruosa vegetazione, e le svelte fanciulle brune che discendono sotto gli archi dei tamarindi.

Nelle meste e bianche notti autunnali, quando la luna malaticcia si unisce alla candida malinconia

del cielo, al languido pallore delle stelle, alla nebulosità ideale delle colline, quando tutto il

mondo diventa fioccoso di spuma, vi è chi presceglie il mare per confidente e va a narrargli il disfacimento

della sua vita che inclina a perdersi nel nulla, mentre la morbida curva di Posillipo pare che

si abbassi anche essa desiderosa di scomparire nel mare. Nelle notti tempestose d'inverno, quando il

temporale della città ha tutta la grettezza e la miseria delle stradicciuole strette e delle grondaie piagnolose,

quando l'anima sente il bisogno imperioso di una mano che l'afferri, che delizioso ed infinito

terrore, che impressione incancellabile trovarsi in alto mare, in un ambiente nero, dove il pericolo

è tanto più grande in quanto è indistinto. Ma più felice di tutti colui che godette queste notti ca19

rezzando i capelli morbidi di una donna adorata, che stringendola al cuore, potette sognare di rapirla

nel paese sconosciuto desiderato dagli amanti, che potette sperare di morire con lei, sotto il cielo

che s'incurva, nel mare che li vuole. Più di tutti colpevolmente felici e colpevolmente invidiati Aldo

e Tecla.

– Aldo, il mare è troppo nero.

– Io t'amo, Tecla.

– Io t'amo, Aldo. Sostienimi col tuo valido braccio, amore. Perché quel barcaiuolo tace?

– Il suo lavoro è duro, forse. Gli daremo del denaro – ..... mi amerai sempre, sempre, Tecla?

– Sempre. Aldo, quella fiaccola gitta una luce sanguigna sui nostri volti e sul mare. Pare che

illumini due cadaveri ed una tomba, amore.

– Che temi tu dalla morte?

– Dividermi da te.

– Giammai. Dio deve castigarci egualmente.

Un silenzio si prolungò. Si guardavano, mentre alla loro passione si univa la nota dolce di

una tenerezza grave come un presentimento. La barca volava sull'acqua; il barcaiuolo vogava con

grande forza, senza volgere il capo a guardare gli amanti.

– Non ti sembra, Aldo, che siamo lontani assai dalla sponda?

– Tanto meglio, dolcezza mia.

– Perché quel barcaiuolo non parla?

– C'invidia forse, Tecla. È giovane, amerà senza speranza.

– Interrogalo, Aldo. Domandagli perché nasconde il suo volto.

D'un tratto il barcaiuolo si volse. Era Bruno. Era la figura dell'odio. Aldo e Tecla si baciarono.

E la barca si capovolse sul bacio degli amanti, sul grido di furore di Bruno. Tre volte vennero a

galla gli amanti, abbracciati, stretti con una celestiale beatitudine nel viso, tre volte venne a galla

una faccia contratta dalla collera.

..... Odimi, amore. In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posillipo, su quella gaia di

Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quella fragorosa di Santa Lucia, su quella sporca del

Molo, su quella tempestosa del Carmine, la barchetta fantasma appare, corre veloce sull'acqua, gli

amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge. Ancora

tre volte si rivede quell'eterno bacio, quell'eterno odio. Ogni notte la barchetta-fantasma appare.

Ma non tutti la vedono. Dio permette che solamente chi ama bene, chi ama intensamente possa

vederla. Apparisce solamente per gli innamorati, i quali impallidiscono a quell’aspetto. È la pruova

infallibile e singolare.

L’hai tu vista? L’hai tu vista, la barchetta-fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla!

20

IL SEGRETO DEL MAGO

Nell'anno 1220 della salutifera Incarnazione regnando in Palermo ed in Napoli il grande e

buon re Federico secondo di Svevia, accadde in Napoli un caso bellissimo che non vi sarà discaro

ascoltare, trattandosi di piacevole argomento. Simil novella non troverete né in istorici, né in eleganti

narratori; io stessa la raccolsi rozza ed informe dalla tradizione popolare e voglio, narrandola a

voi, consacrarla in questa scrittura, affinché ne possano avere disadorna ma chiara notizia i più tardi

nepoti, per cui lavora e s’affatica ogni scrittore disdegnoso del facile plauso contemporaneo. Ma

senza più intrattenervi in preliminari, avendo spiegata chiaramente la mia intenzione, ecco il caso.

Nello stretto vico dei Cortellari. che come ognuno sa, apparteneva al seggio di Portanova,

v'era una casuccia magra ed alta, dalle piccole finestre, aventi i vetri sporchi ed impiombati. La porta

d'entrata era bassa e oscura; sporca e ripida la scala; di rado si aprivano le finestruole. La gente vi

passava dinanzi frettolosa, dando uno sguardo fra il collerico ed il pauroso, e borbottando fra i denti

non so se una preghiera o una maledizione. In verità, nella casuccia abitava gente malfamata; al

primo piano v'era un maledetto giudeo, degno discendente di coloro che crocifissero nostro signore

Gesù Cristo, un giudeo ladro che dava il denaro ad usura e tosava le monete d'oro; al secondo una

giovane bella, di quelle che sono la tentazione e la dannazione dell'uomo; al terzo un marito ed una

moglie, brutti ceffi che il giorno eran fuori di casa a qualche ignoto ed equivoco mestiere e quando

rincasavano, a notte piena, si battevano come la lana. Quello che formava lo sgomento dei viandanti

non era specialmente l'ebreo cane, lo sguardo provocante della donna, o gli strilli della moglie bastonata

dal marito, ma era tutto questo insieme e principalmente il pensiero che all'ultimo piano della

casa indiavolata abitava Cicho il mago. Le anime timorate di Dio si facevano il segno della croce

che è anche quello della nostra salvazione e passavano oltre; gli spiriti mondani facevano le corna

con la mano, si tastavano il ginocchio, pronunziavano qualche scongiuro e simili cose operavano

che volgarmente si credono atte a disperdere il malocchio. Sebbene Cicho uscisse molto raramente

e raramente spalancasse le imposte della sua finestruola, il popolo sapendo della sua magia, del suo

potere sovrumano, n'avea timore grandissimo.

Senza dubbio i misteriosi andamenti di Cicho davan fede di verità a quanto di lui si dicea.

Chi fosse non si sapea, né donde venisse; sempre chiuso in casa; in apparenza privo di amici e di

parenti: curvo nell'incedere, lento il passo, l'occhio fisso a terra mormorando parole greche, latine o

di qualche lingua demoniaca; parco nel conversare, ma non aspro nei modi, anzi sorridente nella

fluente barba bianca; scuri ma netti i vestimenti. Invano, quando venne ad abitare nel vico Cortellari,

le femminette d'intorno s'informavano di lui, chiesero, osarono interrogarlo, fermarono il suo

servo e adoperarono i mille mezzi che mai sempre consiglia alla donna, la gran maestra e signora, la

curiosità. Nulla potettero sapere e Cicho, la sua origine, la sua famiglia, la sua vita rimasero nelle

tenebre dello sconosciuto. Ma in seguito, spiando, osservando, escogitando, si seppe che Cicho intendeva

a opere magiche; durante la notte, mai si spegneva la lampada della stanzuccia dove egli

studiava su grossi volumi di manoscritti a fermaglio, tolti da una polverosa scansia, mai cessava

d'uscire, dalla cappa nera del suo focolare, un filo di fumo e la sua stanza era piena di storte, di lambicchi,

di fornelli, di singolari coltelli in tutte le forme e di altri istrumenti in ferro destinati ad usi

paurosi.

Si dicea che spesso Cicho passava ore intere curvato sopra un pentolino che bolliva, bolliva

e dove sicuramente danzavano le maledette erbe infernali che cagionano malsania, follìa e morte,

sebbene il servo non comperasse in piazza che le erbe di cucina, come maggiorana, pomidoro, basilico,

prezzemolo, cipolle, agli ed altro. Ma si sa che gli stregoni vanno sui prati, nella notte del sabato,

incantano la luna, chiamano il diavolo e colgono le erbacce malefiche. Si diceva altresì che Cicho

venisse fuori sul suo piccolo terrazzino, scuotendo dalle mani e dall'abito una polvere bianca

che certo doveva avvelenare l'aria; che spesso andasse a lavarsi le mani macchiate di rosso in un tinello

di cui l'acqua si corrompeva. Quelle mani macchiate di rosso davano autorità a orribili sospetti;

tanto più che si soggiungeva esservi spesso, nel laboratorio di Cicho, sul pavimento, larghe mac21

chie di rossobruno, simili a pozze di sangue e che quello sciagurato stregone di Cicho si occupasse,

nella notte, a tagliare coi sottili coltelli, sopra una grande tavola di marmo bianco, non so che di delicato.

Membra di bambini, o gambe di rana, o pelli di serpentelli – ripeteva la gente. E quando

camminava nella via, le comari ammiccavano e si davano delle gomitate nei fianchi, dicendo:

– Cicho il mago, Cicho il mago!

– Cerca il modo di ridiventare giovane, il secchione!

– Vuol trovar l’oro, forse.

– O quella pietra per cui s’ha virtù, saggezza e lunga vita.

– Che!! Chiama il diavolo per diventare Gran Turco.

Cicho ascoltava e tirava via sorridendo. In fondo le comari, avendone paura, non osavano

maledirlo che sottovoce; a ammonivano i bimbi ad usargli rispetto. lo stregone, malgrado le voci

temerarie, aveva rispetto di galantuomo e quella tale aria di soddisfatto raccoglimento di chi medita

una bella e feconda idea. Parea dicesse: verrà, verrà il giorno mio, o gente ingrata.

A chiarirvi un poco il mistero ed a denudare la sua vita di quella parte sovrumana che Dio

non permette più sulla terra, poiché Dio fa miracoli solamente per l’anima e non più per il corpo, vi

dirò quanto segue. Cicho era stato a suo tempo ricco e gagliardo e bel giovanotto: aveva saputo goder

bene della salute, della gioventù e della ricchezza; amante, era stato amato; aveva avuto palazzi,

corridori di nobil sangue, pietre preziose, vestimenta intessute d’oro; aveva goduto feste, conviti,

balli, tormenti, giostre; aveva assaporato col più vivo piacere baci di donne, colpi di spada di cavaliere

e vini poderosi. Quando la sua ricchezza cominciò a dileguare, come sempre accade, si allontanarono

donne ed amici; ma Cicho che aveva fatta sugli scrittori antichi buona e larga provvista di

filosofia , non se ne accorò. Sibbene rimasto solo, con niuna opera da compiere, gli venne vaghezza

di rendersi utile agli uomini. E dopo aver escogitato tutti i mezzi, ricordando i suoi godimenti ed i

suoi piaceri, entrò nella persuasione dover lui ritrovare qualche cosa che concorresse specialmente

alla felicità del suo simile, felicità instabile e passeggera a cui egli voleva dare un qualche solido

fondamento. Raffermato in questa intenzione comperò pergamene e volumi, studiò lungamente, tentando

e ritentando ogni giorno prove novelle, sbagliando, ricominciando da capo, consumando le

sue notti, il suo denaro ed il carbone dei suoi fornelli. Per molto tempo la mala fortuna lo perseguitò

e le sue esperienze riuscirono sempre fallaci, ma non per questo venne meno la sua costanza. Ei lavorava

per la felicità dell’uomo e cotale altissimo scopo gli era innanzi agli occhi come visione animatrice;

alla fine, dopo molti anni di travaglio, si poté dire di aver raggiunto la sua meta, gridando

anche lui la parola del greco Archimede, di fronte a tanta scoperta. Poi, come usano gli inventori,

s’occupò a vezzeggiare al sua scoperta, a carezzarla , a darle forme variate e seducenti, a perfezionarla,

in modo da poter dire agli uomini: Eccola qui; io ve la dono bella e completa.

Ora accade che sul terrazzino di Cicho il mago sporgesse anche una porticina di una stanzuccia

dove abitava con suo marito Jovannella di Canzio. Era costei maliziosa, astuta e linguacciuta

quanto mai femmina possa essere; e sua dilettosa occupazione era conoscere i fatti del vicinato o

per trarne personale vantaggio o per malignarvi su. non è a dire se la malvagia Jovannella spiasse

continuamente Cicho il mago; ché anzi s’arrovellava di giorno e non aveva tregua nelle lenzuola alla

notte, per la inappagata curiosità; e più non riusciva a saper nulla , più, per dispetto, lacerava la

riputazione delle vicine e tormentava il marito Giacomo, guattero di cucina al real palazzo. Ma non

senza saviezza corrono dettami popolari esprimenti che la donna ottiene sempre quello che vuole

fortemente – e malgrado le precauzioni di segretezza adoperate da Cicho il mago, malgrado le porte

chiuse, le finestre sbarrate, la Jovannella seppe il segreto dello stregone. Fosse stato per buco di serratura,

per fessura di porta, per foro nel muro, o per altro, io non so. Ma è certo che un giorno la

trionfante Jovannella disse al guattero marito:

– Giacomo, se hai ardire di uomo, la fortuna nostra è fatta.

– Sei tu diventata strega? Io mel sapeva.

22

– Malann’aggia la tua bocca sconsacrata! Ascolta. Vuoi tu dire al cuoco di palazzo che io

conosco una vivanda di così nuova e tanto squisita fattura da meritare l’assaggio del re?

– Femmina, tu sei pazza?

– Dio mi sradichi questa lingua che ho tanto cara, s’io mento!

E con molte sue persuasioni lo indusse a parlarne col cuoco, che a sia volta ne discusse col

maggiordomo, il quale ne tenne parola con un conte, che osò dirne al re.

Piacque al re la novella e dette ordine che la moglie del sguattero si recasse nelle reali cucine

e componesse la prelibata vivanda: infatti la Jovannella accorse prontamente e in tre ore ebbe tutto

fatto. Ecco come: prese prima fior di farina, lo impastò con poca acqua, sale e uova, maneggiando

la pasta lungamente per raffinarla e per ridurla sottile sottile come una tela; poi la tagliò con un suo

coltellaccio in piccole strisce, queste arrotolò a forma di piccoli cannelli e fattane un a grande quantità,

essendo morbidi ed umidicci, li mise a rasciugare al sole. Poi mise in tegame strutto di porco,

cipolla tagliuzzata finissima e sale; quando la cipolla fu soffritta vi mise un grosso pezzo di carne;

quando questa si fu crogiolata bene ed ebbe acquistato un colore bruno-dorato, ella vi versò dentro

il succo denso e rosso dei pomidoro che aveva spremuti in uno straccio; coprì il tegame e lasciò

cuocere, a fuoco lento, carne e salsa.

Quando l’ora del pranzo fu venuta, ella tenne preparata una caldaia di acqua bollente dove

rovesciò i cannelli di pasta: intanto che cuocevano, ella grattugiò una grande quantità di quel dolce

formaggio che ha nome da Parma e si fabbrica a lodi. Cotta a punto la pasta, la separò dall’acqua ed

in bacile di maiolica la condì mano mano con una cucchiaiata di formaggio ed un cucchiaio di salsa.

Così fu la vivanda famosa che andò innanzi al grande Federigo, il quale ne rimase meravigliato e

compiaciuto; e chiamata a sé la Jovannella di Canzio, le chiese come avesse potuto immaginare un

connubio così armonioso e stupendo. La rea femmina disse che ne aveva avuto rivelazione in sogno,

da un angelo: il gran re volle che il suo cuoco apprendesse la ricetta e donò alla Jovannella

cento monete d’oro dicendo che era molto da ricompensarsi colei che per una così grande parte aveva

concorso alla felicità dell’uomo. Ma non fu questa solamente la fortuna di Jovannella, poiché

ogni conte ed ogni dignitario volle avere la ricetta e mandò il proprio cuoco ad imparare da lei, dandole

grosso premio; e dopo i dignitarii vennero i ricchi borghesi e poi i mercati e poi i lavoratori di

giornata e poi i poveri dando ognuno alla donna quel che poteva. Nel corso di sei mesi tutta Napoli

si cibava dei deliziosi maccheroni – da macarus, cibo divino – e la Jovannella era ricca.

Intanto Cicho il mago, solo nella sua cameruccia, modificava e variava la sua scoperta. Pregustava

il momento in cui, fatto noto agli uomini il segreto, gliene sarebbe venuta gratitudine, ammirazione

e fortuna. Infine, non vale più la scoperta di una nuova pietanza che quella di un teorema

filosofico? che quella di una cometa? che quella di u nuovo insetto? Bene, dunque: e lodato senza

fine sia l’uomo che la fa. Ma un giorno che il termine era vicino, Cicho il mago uscì a respirare per

la via del Molo: arrivato presso la porta del Caputo, un noto odore gli ferì le nari. Egli tremò e volle

rincorarsi, pensando che era inganno. Ma roso dall’ansietà, entrò nella casa donde l’odore era venuto

e domandò ad una donna che badava ad un tegame:

– Che cucini tu?

– Maccheroni, vecchio.

– Chi te lo insegnò, donna?

– Jovannella di Canzio.

– Ed a lei?

– Un angiolo, dicono. Ella ne cucinò al re; ne vollero i principi, i conti, tutta Napoli. In qualunque

casa entrerai, o vecchio pallido e morente, troverai che vi si cucinano maccheroni. Hai fame?

Vuoi tu cibartene?

– No. Addio.

Entrato in varie case, trascinandosi a stento, Cicho il mago ebbe certezza dell’accaduto e del

tradimento di Jovannella; il custode del palazzo reale gli ripeté la storiella. Allora, disperato d’ogni

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cosa, tornatosene alla sua casetta, rovesciò lambicchi, storte, tegami, forme e coltelli; ruppe, fracassò

tutto; abbruciò i libri di chimica. E partissene solo ed ignorato, senza che mai più fosse veduto

ritornare.

Come è naturale, la gente disse che il diavolo aveva portato via il mago. Ma venuta a morte

la Jovannella dopo una vita felice, ricca ed onorata, come la godono per lo più i malvagi, malgrado

le massime morali in contrario, nella disperazione della sua agonia, confessò il suo peccato e morì

urlando come una dannata. Neppur tarda giustizia fu resa a Cicho il mago: solamente la leggenda

soggiunge che nella casa dei Cortellari, dentro la stanzuccia del mago, alla notte del sabato, Cicho il

mago ritorna a tagliare i suoi maccheroni, Jovannella di Canzio gira la mestola nella salsa del pomodoro

ed il diavolo con una mano gratta il formaggio e con l’altra soffia sotto la caldaia. Ma diabolica

o angelica che sia la scoperta di Cicho, essa ha formato la felicità dei napoletani e nulla indica

che non continui a farla nei secoli dei secoli.

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DONNALBINA, DONNA ROMITA, DONNA REGINA

La leggenda di Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina, corre ancora per la lurida via di

Mezzocannone, per le primitive rampe del Salvatore, per quella pacifica parte di Napoli vecchia che

costeggia la Sapienza. Corre la leggenda per quelle vie, cade nel rigagnolo, si rialza, si eleva sino al

cielo, discende, si attarda nelle umide ed oscure navate delle chiese, mormora nei tristi giardini dei

conventi, si disperde, si ritrova, si rinnovella – ed è sempre giovane, sempre fresca. Se voi volete, o

miei fedeli ed amati lettori, io ve la narro. Se volete per un poco dimenticare le nostre folli passioni,

i nostri odi di taciturni, i nostri volti pallidi, le nostre anime sconvolte, io vi parlerò di altre passioni

diversamente folli, di altri odii, di altri pallori, di altre anime. Se volete io vi narrerò la leggenda

delle tre sorelle: Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina.

Erano le tre figlie del barone Toraldo, nobile del sedile di Nilo. La madre, Donna Gaetana

Scauro, di nobilissimo parentado, era morta molto giovane: il barone si crucciava che il suo nome

dovesse estinguersi con esso: pure, non riprese moglie. Ottenne come special favore dal re Roberto

d'Angiò che la sua figliuola maggiore, Donna Regina, potesse, passando a nozze, conservare il suo

nome di famiglia e trasmetterlo ai suoi figliuoli. E nel 1320 si morì, racconsolato nella fede del Cristo

Signore. Donna Regina aveva allora diciannove anni, Donnalbina diciassette, Donna Romita

quindici.

La maggiore, dal superbo nome, era anche una superba bellezza: bruni e lunghi i capelli nella

reticella di fil d'argento, stretta e chiusa la fronte, gravemente pensosi i grandi occhi neri, severo

il profilo, smorto il volto, roseo-vivo il labbro, ma parco di sorrisi, parchissimo di detti; tutta la persona

scultorea, altera, quasi rigida nell'incesso, composta nel riposo. E lo spirito di Regina, per

quanto ne poteva ricavare l'indiscreto indagatore, rassomigliava al corpo. Era in quell'anima un'austerità

precoce, un sentimento assoluto del dovere, un'alta idea del suo còmpito, una venerazione

cieca del nome, delle tradizioni, dei diritti, dei privilegi. Era lei il capo della famiglia, l'erede, il

conservatore del nobil sangue, dell'onore, della gloria; era nel suo fragile cuore di donna che dovevano

trovare aiuto e sostegno queste cose – ed ella nel silenzio, nella solitudine, si adoperava ad invigorire

il suo cuore: a farvi nascere la costanza e la fermezza, a cancellarvi ogni traccia di debolezza.

A volte nel suo spirito, sempre freddo, sempre teso, passava un soffio caldo e molle – e le sorgevano

in cuore vaghi desiderii di amore, di profumi, di colori abbaglianti, di sorrisi; ma ella cercava

vincersi, s'inginocchiava a pregare, leggeva nel vecchio libro dove erano scritte le storie di famiglia

e ridiventava l'inflessibile giovinetta, Donna Regina, baronessa di Toraldo.

Donnalbina, la seconda sorella, veniva chiamata cosi dalla bianchezza eccezionale del volto.

Era una fanciulla amabile, sorridente nel biondo-cinereo della chioma, nel fulgore dello sguardo intensamente

azzurro, nei morbidi lineamenti, nella svelta e gentile persona. I tratti duri, fieri, di Donna

Regina diventavano femminilmente graziosi in Donnalbina. E veramente ella era la dolcezza di

casa Toraldo. Era lei che presenziava i lunghi lavori delle sue donne sul broccato d'oro, alle trine di

lucido filo d'argento, agli arazzi istoriati, andando da un telaio all'altro, curvandosi sul ricamo, consigliando,

dirigendo; era lei , che, in ogni sabato, attendeva alla distribuzione delle elemosine ai poveri,

curando che niuno fosse trattato con , durezza, che niuno fosse dimenticato, ritta in piedi sul

primo scalino della porta, vivente immagine della misericordia terrestre. Era lei che portava alla sorella

Regina le suppliche dei servi infermi, dei coloni poveri, di chiunque chiedesse una grazia, un

soccorso. Nella sua affettuosa e gaia natura, si doleva del silenzio di quella casa, della austera gravità

che vi regnava, dei corridoi gelati, delle sale marmoree che niun raggio di sole valeva a riscaldare;

si doleva del freddo cuore di Regina che niun affetto faceva sussultare – se ne doleva per Donna

Romita.

Perché Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo bambina. Così il suo aspetto: i

capelli biondo cupo, corti ed arricciati, il viso bruno, di quel bruno caldo e vivo che pare ancora il

riflesso del sole, gli occhi di un bel verde smeraldo, glauco e cangiante come quello del mare, le

labbra fini e rosse, la personcina esile e povera di forma, bruschi i moti, irrequieta sempre. Ora ap25

pariva indifferente, glaciale, gli occhi smorti, le nari terree, quasi la vita fosse in lei sospesa; ora si

agitava, una fiamma le coloriva il volto, le labbra fremevano di baci, di parole, di sorrisi, l’angolo

delle palpebre nascondeva una scintilla, scivolata dalla pupilla viva; ora diventava irritata, superba,

il viso chiuso, sbiancato da una collera interna. Nei giorni d'inverno, quando la pioggia sferza i vetri,

il vento sibila per le fessure delle porte, urta nel camino, del largo focolare, Donna Romita si

rannicchiava in un seggiolone come un uccello pauroso ed ammalato; nelle caldissime ore di estate,

non lasciava le ombre del giardino, errando pei viali. A volte rimaneva lunghe ore pensosa. Pensava

forse di sua madre, cui le avevano detto rassomigliasse.

Pure, le tre sorelle menavano placida vita. Erano regolate le ore dell'abbigliamento, della

preghiera, del lavoro, dell'asciolvere e della cena; erano stabilite equamente le occupazioni di ogni

settimana, di ogni mese. Dappertutto Donna Regina andava innanzi e le sorelle la seguivano; ella

aveva il seggiolone con la corona baronale, ella aveva le chiavi dei forzieri dove erano rinchiuse le

insegne del suo grado ed i gioielli di famiglia; a mensa, ella presiedeva, le due sorelle una a diritta

l'altra a sinistra, su’ seggi più umili; all'oratorio ella intonava le laudi.

La mattina e la sera le due sorelle minori salutavano la maggiore, inchinandosi e baciandole

la mano: ella le baciava in fronte. Di rado le chiamava a consiglio, essendo, in lei il senno superiore

alla età ed al sesso: ma se accadeva, le due attendevano pazienti di essere interrogate. Era in tutte tre

profondo ed innato il sentimento dello scambievole rispetto: in Donnalbina e in Donna Romita un

ossequio affettuoso per Donna Regina. Le sue parole erano una legge indiscutibile, cui non si sarebbero

giammai ribellate. In fondo l'amavano, ma senza espansioni. Ed essa era troppo rigida per

mostrar loro il suo affetto, se le amava.

Un giorno re Roberto si degnò scrivere di suo pugno a Donna Regina Toraldo che le aveva

destinato in isposo Don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana.

Imbruniva. Nel vano di un balcone sedeva Donna Regina, col libro delle ore fra le mani. Ma

non leggeva.

– Mi è lecito rimanere accanto a voi, sorella mia? – chiese timidamente Donnalbina.

– Rimanete, sorella – disse brevemente Regina.

Regina era più smorta dell'usato, un po' abbassata la testa, errante lo sguardo. E Donnalbina

cercava indovinare il pensiero segreto di quella fronte severa.

– Mi ricercavate di qualche cosa, Donnalbina? – chiese infine Regina, scuotendosi.

– Voleva dirvi che la nostra sorella Donna Romita mi pare ammalata.

– Non me ne addiedi. Mandaste per la medesima Giovanna?

– No, sorella, non mandai.

– E perché?

– Ahimè! sorella, dubito che i farmachi possano guarire Donna Romita.

– E qual malore grave e strano è il suo, che non trovi rimedio?

– Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la veglia ed agitati i suoi sonni;

nel giorno fugge la nostra compagnia, piange in qualche angolo oscuro; passa ore ed ore nell'oratorio

inginocchiata, col capo su le mani. Donna Romita si strugge segretamente.

– E sapete voi la causa di tanto struggimento, Donnalbina? – chiese con voce aspra Donna

Regina.

– Io credo saperla – rispose, facendosi coraggio, la sorella minore.

– Ditela, dunque.

– Ma la vedete voi?

– Ve la chieggo. Tardaste troppo.

– Donna Romita si strugge d'amore, o mia sorella.

– D'amore, diceste? – gridò Regina balzando sul seggiolone.

– D'amore.

26

– E che? Debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d'amore? Chi vi ha insegnato

la triste scienza? Di chi io debbo crucciarmi, di Donna Romita che me lo cela, o di voi, Donnalbina,

che lo indovinate e me lo narrate? Come furon turbati il cuore dell'una, la mente dell'altra?

Sono stata io così poco provvida, cosi incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza.

– L'amore è nella nostra vita – rispose con dolce fermezza Donnalbina.

Regina tacque un momento. Aveva corrugate le sopracciglia, quasi a ristringere ed a condensare

il suo pensiero.

– Il nome dell'uomo? – chiese poi duramente.

Donnalbina tremò e non rispose.

– Il nome dell'uomo? – insistette l'altra.

– È un giovane cavaliere, un cavaliere di nobil sangue, bello, dovizioso.

– Il suo nome?

– Donna Romita è stata affascinata dalla eloquente parola, dallo sguardo di fuoco. Amò certo

senza saperlo…

– Il suo nome, vi dico. Debbi io pregarvi?

– Oh! no, sorella. Ma voi le perdonerete, voi le perdonerete, non è vero? E cercava prenderle

le mani.

– Che cosa debbo perdonarle? Ditemi il nome del cavaliere.

– Pietà per lei. Ella ama don Filippo Capace.

– No!!

– Lo ama, lo ama, sorella. Chi non l’amerebbe? Non è egli valoroso, galante con le donne,

seducente nell’aspetto? Quando egli mormora una parola d’amore, il cuore della fanciulla deve

struggersi in una dolcissima felicità; quando il suo labbro sfiora la fronte della fanciulla, può ella

invidiare le gioie degli angeli? Essere sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà

per nostra sorella! Essa lo ama – e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera.

– Ma per chi mi chiedi pietà? – gridò Donna Regina, rialzando bruscamente la sorella in un

impeto di collera – per chi me la chiedi?

– Per Donna Romita… – rispose l’altra smarrita.

– Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Capace.

– Io non lo dissi! – esclamò Albina folle di terrore.

– Tu l’hai detto. L’ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capace – dice

con voce disperata Regina.

Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba.

Profondo è il silenzio nell'oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna

bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Brilla una sola

scintilla nella veste d'argento della Vergine. Se si tende bene l'orecchio, si ode un respiro lieve

lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell'inginocchiatoio,

ma sul marmo gelido del pavimento è mezza distesa una forma umana; l'abito bianco e lungo in cui

è avvolta ha qualche cosa di funebre. Donna Romita è là da più ore, dimentica di tutto, nell'abbandono

di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento dell'idea fissa. Ella non sente. il freddo dell'ambiente,

non vede l'oscurità, non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia,

non sente lo spasimo di tutta la sua vita; ella non sente che il suo pensiero tormentoso, onnipresente,

onnipotente.

– Madonna santa, toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore! Madonna santa,

fammi morire, fammi morire, fammi morire! Toglimi questo amore!

E le invocazioni si moltiplicano; essa stende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere

la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce

nella disperazione.

27

Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l'eco del

suo dolore? È forse la sua ombra, quest'altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo!

Sì, è l'eco del suo dolore, è la sua ombra che si desola; è Albina. Donna Romita fugge, fugge

invasa dal terrore e dalla vergogna, lasciando nell'oratorio un amore ed una sciagura simile alla sua.

In quell'ora medesima, nella vasta camera da letto, sola, seduta presso il tavolo di quercia,

veglia Donna Regina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito

nel granito, solo ardono gli occhi di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero,

passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio.

Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell'anno, per la gioia degli uomini;

lieto lo scampanìo delle chiese. È la Pasqua di Risurrezione. La pace dal cielo scende sulla

terra, nei fiori e nella luce primitiva. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nell'aria

si respira amore.

Le due sorelle minori hanno chiesto a Donna Regina un colloquio particolare ed essa lo ha

accordato; era tempo che le tre sorelle non si vedevano, l'una fuggendo le altre, mettendo la mestizia

e il duolo nella loro casa, lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale,

dove in antico si teneva corte di giustizia; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici

di casa Toraldo, ha daccanto, sovra un cuscino, la corona ingemmata di zaffìri, di rubini e di

smeraldi, lo scettro baronale; sul volto un'austerità calma, quasi decisa.

Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza ornamenti. La gaia giovinezza

di Donnalbina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bellezza.

Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente

irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s’inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto.

– Parlate anche per me, Donnalbina – mormora a bassa voce Donna Romita.

– Veniamo a dirvi, sorella nostra – prende a dire Donnalbina – che dobbiamo dividerci.

Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta.

– È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri

e l’altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo.

– Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato

– rispose Regina con tono severo.

– Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella.

Ella non rispose. Pensava, raccolta in se stessa.

– Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero…

– Desistete – fece quella con un moto di fastidio.

– Non desistiamo, no – riprese Donnalbina, affannandosi. – Dio e voi offendemmo. Grave il

peccato, grave l’espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo

questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini;

lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. a voi l’onore di conservare

il nostro nome, a voi le liete nozze, l’amore dello sposo, il bacio dei figliuoli…

– Voi v’ingannate, o sorella – rispose Donna Regina lentamente. – È da tempo che ho deciso

prendere il velo in un convento da me fondato.

Un silenzio tristissimo segue le infauste parole.

– Io non posso sposare Filippo Capace – riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva

al viso. – Egli mi odia.

– Ahimé! io gli sono indifferente – mormorò Donnalbina.

– Io anelo al chiostro. Egli mi ama – pronunziò con voce rotta Donna Romita.

E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate.

– Addio, sorella mia.

– Addio, sorella mia.

– Addio, sorelle.

28

Donna Regina si alzò, prese lo scettro d’ebano torchiato d’oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi

al ritratto dell’ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo:

– Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta!

Non hanno parole le brune vòlte dei monasteri, la pallida luce dei cere trasparenti, il profumo

eccessivo e pesante dell’incenso, la profonda voce dell’organo, le bige pietre sepolcrali; non han

parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte

dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati

di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni

spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche

sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo

il giorno che finì la loro tortura.

Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse,

l’amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né la sua ultima parola.

29

‘O MUNACIELLO

La quale istoria fu così. Nell’anno 1445 dalla fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso

d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un

nobile garzone, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo

affetto e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro

cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra

ferveva in casa Mariconda contro Stefano – e la Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti

dal padre e dai fratelli torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire mangiassero

veleno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia inestimabile. A tarda notte, quando nei chiassuoli

dei mercanti non compariva viandante veruno, Stefano Mariconda avvolto dal bruno mantello, che

mai sempre protesse ladri ed amanti, penetrava in andito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa

e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, si trovava sopra un tetto e di là

scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava

sul terrazzino dove lo aspettava, tremante dalla paura, Catarinella Frezza. Lettor mio, se mai

fremesti d’amore, immagina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in

una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso,

mani traditrici e borghesi afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla ferriata lo

precipitarono nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni

degli assassini. Il bel corpo di Stefano Mariconda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via

per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura.

Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta; e perché vi è dubbio sul destino di

quell’anima, strappata dalla terra e mandata innanzi all’Eterno carica di peccati, e perché a gentiluomo

non conviensi altra morte violenta che di spada.

La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di

monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo assegnato dalla ragion divina e dalla ragion medica

non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati.

Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre a nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che

passava, non cresceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante

persona di Stefano Mariconda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna

perché desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi e fece indossare al bimbo un abito

nero e bianco da piccolo monaco. Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza

e la Catarinella non s’ebbe la grazia chiesta.

Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a

quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene ella continuò a vestirlo

da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava in suo volgare il bambino; ‘o munaciello. Le monache

lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari,

Taffettanari, Mercanti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e

quasi mostruosa, dal volto terreo in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaventati,

dall’abituccio strano: e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed

inerme. Quando ‘o munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia

e gli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare quanto comprendesse

‘o munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli venivano dirette, ma è certo che egli riedeva

alla madre triste e melanconico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la

madre lo faceva inginocchiare e gli dettava le sante parole dell’orazione. A poco a poco in quei bassi

quartieri dove egli muoveva i passi, si divulgò la voce che ‘o munaciello avesse in sé qualche cosa

di magico, di soprannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro.

Quando ‘o munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto

di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio.

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Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, ‘o munaciello era bestemmiato e maledetto.

Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania;

lui che, guardando nei pozzi, guastava e faceva imputridire l’acqua, lui che toccando i cani li faceva

arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane, lui che, spirito maligno,

suggeriva al re nuovi balzelli. Appena ‘o munaciello scantonava, a capo basso, con l’occhio diffidente

e pauroso, correndo o nascondendosi fra la folla, un coro di maledizioni lo colpiva. Il fango

della via gli scagliavano a insudiciargli la tonacella; le bucce delle frutte troppo mature lo ferivano

nel volto. egli fuggiva, senza parlare, arrotando i denti, tormentato più dall’impotenza della piccola

persona che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar

più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell’orto; ma, anche esse, a vederlo

d’improvviso, in un corridoio, nella penombra, si sgomentavano come per apparizione diabolica.

S’avvalorava il detto della faccia cupa del munaciello, dal non averlo mai visto in chiesa, dal trovarlo

in tutti i luoghi a poca distanza di tempo. Finché una sera ‘o munaciello scomparve. Non mancò

chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta.

Ma per fede onesta di cronista, mi è d’uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a

torto, i Frezza d’aver malamente strangolato ‘o munaciello e gittatolo in una cloaca lì presso, da certe

ossa piccine e da un teschio grande che vi fu trovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo

speculare quale sia favola, quale verità, lascio e raccomando specialmente alla prudenza e saggezza

del lettore.

Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito – soggiungo io, oscuro commentatore moderno –

con la morte del munaciello. Anzitutto è ricominciato. La borghesia che vive nelle strade strette e

buie e malinconicamente larghe senza orizzonte, che ignora l’alba, che ignora il tramonto, che ignora

il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell’arte; questa borghesia che non

conosce, che non conosce se stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di vanità, gonfia

di nullaggine; questa borghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della

fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sull’erba molle dei prati, non è lo spiritello

che canta sulla riva del fiume; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è ‘o munaciello.

Non abita i quartieri aristocratici di Chiaia, di S. Ferdinando, del Chiatamone, di Toledo; non abita i

quartieri nuovi di Mergellina, Rione Amedeo, Corso Salvator Rosa, Capodimonte: la parte ariosa,

luminosa, linda della città non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre

vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria,

Mercato, Porto e Pendino il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno.

Dove è stato vivo, s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa,

la faccia pallida, i grandi occhi lucenti, la tonacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto

nero, lì ricomparve; nella medesima parvenza, pel terrore delle donne, dei fanciulli e degli uomini.

Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio,

là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta.

Egli si vendica epicamente, tormentando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio,

ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello

esiste e scorazza per le case, e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede.

Se volete sentirne delle storie, ne sentirete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di

tutto è capace il munaciello…

Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto

sfondata, il vaso dell’olio riverso e il prosciutto addentato dalla gatta, è senza dubbio la malizia del

munaciello che ha schiusa quella porta e scagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di

mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi, colui che l’ha fatta incespicare è proprio lui, lo

spiritello impertinente; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese che lavora all’uncinetto e le

fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma; è lui che fa

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inacidire il vino dalle bottiglie; è lui che dà la iettatura alle galline che ammiseriscono e muoiono; è

lui che pianta il prezzemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita

in bottega va male, se il superiore dell’uffizio fa una rimenata, se un matrimonio stabilito si disfà,

se uno zio ricco muore lasciando tutto alla parrocchia, se al lotto vien fuori 34, 62, 87 invece di

35, 61,88, è la mano diabolica del folletto che ha preparato queste sventure grandi e piccole.

Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili,

rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il munaciello che gli mette i diavoli in corpo; quando la

fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione, s’immalinconisce, sorride guardando le stelle, sospira

guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di autunno, è il munaciello che le guasta così la

vita; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel fazzoletto, e si fa arricciare

i capelli, rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco, gli occhi pieni di visioni, l’aspetto

trasognato, è il munaciello che turba la sua esistenza; quando la moglie fedele si ferma a guardar

troppo il profilo aquilino ed i mustacchi biondi del primo commesso di suo marito e, nelle fredde

notti invernali, veglia con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la

salvatrice Avemmaria, è il munaciello che la tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello,

è il diavoletto che dà la marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva MariaFrancesca;

è il folletto che fa cadere in convulsioni le zitellone. È il munaciello che scombussola la casa, disordina

i mobili, turba i cuori, scompiglia le menti, empiendole di paura. È lui, lo spirito tormentato e

tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero.

Ma la cronaca veridica lo dice, o buon lettore: quando il munaciello portava il cappuccetto

rosso, al sua venuta era di buon augurio. È per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di

cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. È per questo che le fanciulle

innamorate si mettono sotto la sua protezione perché non venga scoperto il gentile segreto; è per

questo che le zitellone lo invocano a mezzanotte, fuori il balcone, per nove giorni, perché mandi loro

il marito che si fa tanto aspettare; è per questo che il disperato giuocatore di lotto gli fa scongiuro

tre volte, per averne i numeri sicuri; è per questo che i bambini gli parlano, dicendogli di portar loro

i dolci e di balocchi che desiderano. La casa dove il munaciello è apparso è guardata con diffidenza,

ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto, è guardata compassionevolamente,

ma non senza invidia. Ma colei che lo ha visto – apparisce per lo più a fanciulle ed a

bimbi – tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leggenda

rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana: è, vale adire, un’anima ignota, grande e sofferente

in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stranamente piccolo, in un abito stranamente

simbolico; un’anima umana, dolente e rabbiosa; un’anima che ha un pianto e fa piangere; che ha

sorriso e fa sorridere; un bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomo; un folletto

che tormenta gli uomini come un bambino capriccioso, e li carezza, e li consola come un bambino

ingenuo ed innocente.

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IL DIAVOLO DI MERGELLINA

Assisa innanzi allo specchio, ella lasciava che la sua acconciatrice passasse il pettine nella

ricchezza dei capelli biondo-fulvi, di un colore acceso e voluttuoso. Si guardava attentamente nello

specchio: sul volto di una candidezza abbagliante, che parea fosse fulgido, non compariva traccia di

roseo; nei grandi occhi glauchi, cristallini, il lampo dello sguardo era verde e freddo; le labbra carnose,

rosse, come il granato, dovevano essere dolci ed amare quanto il frutto che ricordavano; il collo

superbo, pieno e rotondo palpitava lentamente. Ella si guardò le mani attraverso la luce, mani

candide quanto il viso; si guardò le braccia sode e rasate come un frutto maturo in cui si possa mordere.

Si trovava seducente, bellissima; ed un eroico sorriso le sfiorò le labbra. Ella si adorava; idolatrava

la propria bellezza e vi abbruciava ogni giorno un copioso incenso che si univa a quello di tutti

coloro che l’amavano.

– Una lettera per madonna Isabella – disse un paggio ricciuto, inchinandosi e porgendo il biglietto

sopra un vassoio d’argento.

Madonna Isabella scórse la lettera. Messer Diomede Carafa le scriveva ancora d’amore, una

lettera piena di fuoco che a volte scoppiava nell’impeto della disperazione, a volte si allentava e

s’illanguidiva nelle divagazioni di una mestizia insanabile. Messer Diomede Carafa sapeva amare:

la sua anima nobile ed eletta era aperta a tutte le squisite sensibilità dell’affetto, la sua forte anima

comprendeva tutti gli slanci di una passione umana e potente; le orgogliose dame spagnole della

Corte vicereale avrebbero volentieri abbandonato la loro fierezza castigliana per esser amate da lui e

per amarlo; le fanciulle dell’aristocrazia napoletana, brune fanciulle dagli occhi azzurri, lo avrebbero

amato se egli avesse voluto amarle. Ma messer Diomede non amava che madonna Isabella che

aveva fama di donna crudele e disamorata; difatti ella non fece che sorridere appena alle frasi amorose

che messer Diomede le scriveva.

Nel grande salone del suo palazzo, madonna Isabella, vestita di broccato rosso che faceva risaltare

il pallore del volto, con una reticella di perle sulle fulve trecce, sedeva a conversazione con

messer Diomede. Il giovane innamorato era seduto alquanto discosto dalla sua donna, ma la fissava

con l’occhio intento e cupido, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura; a seconda che la

donna parlava, sul viso del giovane passavano onde di sangue che lo coloravano, o un terreo pallore

vi si diffondeva; come il giovane si lasciava trasportare dall’amore, la sua voce tremava, ed in essa

passava la nota tenera e grave dell’affetto, la vibrazione profonda della gelosia, l’ondulazione indefinita

della mestizia, la nota stridula dell’ironia, tutte le variazioni che ha l’amore.

La dama, placida, tranquilla, sorridente, agitando il leggiero ventaglio di piume, giocherellava

amabilmente e ferocemente col cuore del giovane. Ella, a sua posta, creava in lui lo sconforto desolato

o l’inesauribile speranza, la cupa gelosia o l’estrema fiducia, la collera senza nome e senza

limiti o la gioia senza confine. Abituata a questi sottili e malvagi godimenti, ella si compiaceva

stringere quel cuore innamorato in una mano di ferro che lo soffocava a poco a poco e poi ridonargli

la vita, carezzandolo con una mano leggiera e vellutata; si dilettava far sussultare di dolore

quell’anima, gittandola bruscamente nella disperazione; gioiva facendola esaltare grado a grado,

sempre più, fino a farla impazzire nella vertigine dell’altissimo pinnacolo. Furono tali donne, sono e

saranno. Il mondo le maledice, le disprezza, paiono fatte estranee alla soave comunanza femminile,

paiono odiate, esecrate. Ma il mondo le ama, ma l’uomo le ama. Così è sempre, così sempre sarà.

Pace a voi, giovanette gentili, dalle anime buone che rischiarano come luce di lampada familiare il

corpo delicato; pace a voi, donne il cui destino unico è l’amore, è il sagrifizio: giammai sarete amate

come quelle donne lo saranno. Virtù, dolcezza, abnegazione, serenità, calma, felicità sono vani

nomi: l’acre e malsano desiderio dell’uomo corre verso la misteriosa e temuta sirena. Pace a voi;

amate, soffrite, morite: giammai sarete amate come quelle donne lo saranno.

33

Eppure fu un giorno in cui Diomede Carafa credette di arrivare al culmine inaccessibile della

sua vita, al momento fatale in cui ogni facoltà, ogni potenza fisica, ogni luce di ragione, ogni festa

di fantasia, ogni robustezza di fibra, si riuniscono in una sola, profonda, alta armonia che è l'amore.

Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non

aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa,

disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole,

nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà,

quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e

violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore,

tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è

cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba

parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi

di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti,

s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore

non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre,

tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore.

Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la

follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata;

il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide

nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore,

non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che

poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede

Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era

ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato,

oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva

dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così,

massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri

napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava

pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva

più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella.

Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento,

seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia.

Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della

sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così.

Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si

porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti

paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle

innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in

ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue,

negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante,

ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi

di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi...

– Dio, Dio – ripetette un giorno la stanca amica sua.

34

Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da

Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro,

il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello

e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

35

MEGARIDE

Là, dove il mare del Chiatamone è più tempestoso, spumando contro le nere rocce che sono

le inattaccabili fondamenta del Castello dell'Ovo, dove lo sguardo malinconico del pensatore scopre

un paesaggio triste che gli fa gelare il cuore, era altre volte, nel tempo dei tempi, cento anni almeno

prima la nascita del Cristo Redentore, un'isola larga e fiorita che veniva chiamata Megaride o Megara

che significa grande nell'idioma di Grecia. Quel pezzo di terra s'era staccato dalla riva di Platamonia,

ma non s'era allontanato di molto: e quasi che il fermento primaverile passasse dalla collina

all'isola, per le onde del mare, come la bella stagione coronava di rose e di fiori d'arancio il colle,

così l'isola fioriva tutta in mezzo al mare come un gigantesco gruppo di fiori che la natura vi facesse

sorgere, come un altare elevato a Flora, la olezzante dea. Nelle notti estive dall'isola partivano lievi

concenti e sotto il raggio della luna pareva che le ninfe marine, ombre leggiere, vi danzassero una

danza sacra ed inebriante; onde il viatore della riva, colpito dal rispetto alla divinità, torceva gli occhi

allontanandosi, e le coppie di amanti cui era bello errate abbracciati sulla spiaggia davano un saluto

all'isola e chinavano lo sguardo per non turbare la sacra danza. Certo l'isola doveva essere abitata,

ne’ suoi cespugli verdi, nei suoi alberi, nei suoi prati, nei suoi canneti,: dalle Nerèidi e dalle

Drìadi: altrimenti non sarebbe stata così gaia sotto il sole, così celestiale sotto il raggio lunare, sempre

colorita, sempre serena, sempre profumata. Era divina, poiché gli dèi l'abitavano.

Ma Lucullo, il forte guerriero, l'amico dei letterati, primo fra gli epicurei, abituato a soddisfare

ogni capriccio, amava le ville circondate da ogni parte dall'acqua: egli era mortalmente stanco

della sua casa splendida di Roma, della sua villa di Baja, della sua dimora di Tuscolo, della sua villa

di Pompeja. Volle quella di Megaride e l'ebbe. Egli violò la dimora delle ninfe oceanine per farsene

la propria dimora; egli volle per sé i prati, i boschetti di rose, i margini che digradavano lievemente

nel mare; scacciò le sirene e vi mise le sue bellissime schiave. Fu un pianto solo per le grotte di corallo

tra le alghe verdi; e le ninfe si lamentarono con Poseidone che non dette loro ascolto. Fu costruita

la magnifica villa, sorsero per incanto i giardini degni di un imperatore, nei vivai diguazzarono

le murene dalla brutta testa di serpente e dalla carne delicata, nelle uccelliere saltellarono i più

rari uccelli, pasto di stomachi finissimi: sotto i portici della villa suonarono le cetre e le tiorbe in

onore di Servilia sorella di Catone, moglie di Lucullo, bellissima fra le donne romane. Ivi danze festose,

luminarie magiche, giuochi, banchetti, come solo Lucullo sapeva darne. Ivi profumi di nardo,

coppe di nitido cristallo, nel cui vino generoso si scioglievano le perle: ivi toghe di porpora, pepli di

bisso, gemme splendide, corone di rose; l'eterno cantico alla bellezza ed all'amore. Ivi accorrevano

per riscaldarsi alla luce degli occhi di Servilia i giovanotti timidi che non osavano pronunziar parola

dinanzi a lei, i gagliardi garzoni la cui parola superava d'audacia lo sguardo, gli uomini maturi e

gravi che sorridevano ancora all'amore, i vecchioni che sospiravano la gioventù: e Servilia rideva,

giovane e gaia, di questo incenso d'amore, rideva sempre, lusinghiera e crudele, come una sirena; e

Lucullo, placido filosofo e ancor più placido sposo, godeva dei trionfi di Servilia. Egli amava le feste

sontuose che durano dalla sera sino ai primi albori, i pranzi lunghissimi dove nèttare s'alterna a

nèttare, dove la fantasia del cuoco vince quella di un poeta e fonde nel suo crogiuolo le ricchezze di

un re; egli amava conversare coi letterati cui donava vasi d'oro, animali preziosi, case e giardini per

provar loro la generosità di un privato. Servilia saliva la china ridente del piacere ed egli discendeva,

tranquillo, verso la pace della vecchiaia. Per divertirsi, faceva scavare un canale d'acqua viva,

faceva elevare una palazzina, scacciava lontano il mare, allargando i limiti dell'isoletta Megaride;

Servilia si lasciava profumare dalle ornatrici, prendeva bagni di latte d'asina, portava alle gentili orecchie

due pesanti perle che le laceravano la carne, le sue tuniche parevano tessute d'aria, i suoi

sandali costavano prezzi favolosi; ed ella, assisa davanti alla spera , di acciaio, si contemplava.

Ella era nel trionfo della bellezza e della gioventù. Gli occhi ardenti di coloro che l'amavano,

le davano una aureola di fuoco in cui ella camminava, graziosa salamandra, senza scottarsi: i sospiri

di coloro che l'amavano, formavano attorno a lei una nuvola in cui le piaceva di respirare. Il mare

batteva dolcemente sulle sponde di Megaride e non osava tumultuare; il sole la carezzava senza vio36

lenza e le aure leggiere ne facevano ondeggiare i fiori; nella placida luce lunare, l'isola sembrava

tutta bianca, morbida e nevosa, in una infinita dolcezza d'aria e di tinte. E Servilia distesa sul lettuccio,

vestita di stoffa tessuta d'oro, lasciandosi sventolare dalle schiave fremendo di piacere alla

brezza marina, guardando distrattamente la ridda delle danzatrici, mormora fra sé, sono io, sono io

la sirena! E l'aria mormora anch'essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti: è lei, è lei la sirena.

Servilia quando solleva un cespo di fiori è bella come Flora; Servilia, quando sceglie in un cestello

la pesca matura, è bella quanto Pomona; Servilia quando porta sui capelli la brillante mezzaluna

e al fianco la faretra, è bella quanto Diana; quando senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo

dal bagno, tutta stillante profumi, si lascia asciugare dalle schiave e s'avvolge nella tunica

bianca, è...

– …bella come Venere – sussurra lo schiavo innamorato.

– Più bella di Venere – dice, col suo olimpico orgoglio, Servilia.

Il che è udito dalle attente ninfe oceanine e Venere sa che Servilia l'ha offesa e Poseidone

questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Rosicchia, rosicchia, o polpo molle, grigio, rassomigliante ad un cencio! Incrostati, incrostati

ostrica, per minare le fondamenta! Piantati, piantati, alga, per strappar via una zolletta di terreno!

Scavate, scavate, o piccoli animaletti del corallo! Rodi la roccia, o costante onda marina, fa un buco

coperto di arena, coperto di piante, un buco perfido, nero e profondo! Rodete, rodete, piccole e pazienti

potenze del mare! Piansero le Nerèidi, piansero le Sirene, Venere fu offesa e Poseidone è in

collera.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

– Libiamo agli Dei infernali – disse tranquillamente Lucullo, nella sua villa di Tuscolo, al

funesto annunzio, e sparse sul terreno alcune gocce dell'inebriante liquore.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vuoi tu scandagliare la profondità dei mare, o ardito palombaro? Sei tu stanco delle sirene

della terra? Va sulla spiaggia brulla del Chiatamone, raccogli il tuo respiro e precipitati nelle acque:

in un momento giunto al fondo, vedrai gli archi della villa, i giardini di Lucullo e la bellissima moglie,

che è diventata la Sirena del mare. Ma non ti lasciar sedurre dalla visione e ritorna a galla, o

palombaro ardito: sulla terra troverai sirene come Servilia che non ti possono amare e ti facciano

morire dal dolore.

37

IL CRISTO MORTO

La cappella è glaciale. Pavimento di marmo, marmo alle pareti, tombe di marmo, statue di

marmo alle pareti, tombe di marmo, statue di marmo. Un marmo scuro, che ha preso una tinta malaticcia

ed umida pel tempo che è trascorso, pel sole che manca, per la scialba luce che piove dalle vetrate.

Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade votive, non fiori: invece fregi, ornamenti,

mosaici, iscrizioni, palme, volute, capitelli in pietra bianca, grigia o nera, non altro che pietra. Tutto

vi è gelido, tranquillo, serenamente sepolcrale. Altrove è vita la voce del prete che prega, la tenue

fiammella delle candele, lo squillo del campanello, lo scricchiolio di una sedia, il fumo sottile dell'incenso;

qui non si prega, non ardono lumi, non sedie, non suonano campanelli, non fumano incensi.

Non si vive per pregare, si muore nello sfinimento della preghiera che s'arresta sulle fredde

labbra. Non è una chiesa, è una tomba.

– Volete vedere il Cristo morto? – chiede la guida, con la sua voce strascicata

Quella voce umana e volgare mi scuote. Eppure mi parla ancora di morte.

– Vediamo la prima cappella – mormoro, quasi vergognandomi di parlare.

Coloro che vi giacciono, quieti ed immobili, le braccia in croce sul cuore morto, appartengono

alla nobilissima fra le famiglie; Grandi di Spagna di prima classe, due volte principi, due volte

duchi, tre volte conti, cinque o sei volte marchesi. Sulla porta di entrata è la tomba dell'antichissimo

antenato che andò alle crociate: ferito o svenuto in un combattimento, fu creduto morto e portato a

seppellire, ma risvegliatosi d'un tratto, saltò fuori dalla bara più animoso e sbaragliò e sconfisse il

gruppo dei nemici. Tombe dappertutto. Pompose iscrizioni latine in cui il sentimento ed il carattere

s'affogano nella monotona convenzionalità dell'elogio. Solo le cifre hanno un malinconico significato:

la vita non è lunga nella nobile casa Vi muoiono presto le fanciulle, vi muoiono presto i giovanetti.

Ogni tomba ha la statua grande di colui che vi è sepolto, o almeno un medaglione su cui si disegnano

e si rilevano certi profili soavi, certe linee serenamente altiere, certi ondeggiamenti marmorei

di chiome disciolte. Nella famiglia è tradizionale una pura bellezza, più d'espressione che di plastica.

Ogni tomba ha la sua statua, ogni tomba ha il suo medaglione.

– Volete vedere il Cristo morto? – insiste il custode.

– Finiamo di veder la cappella – ripeto io, singolarmente infastidita e colpita da quella insistenza.

Fra una tomba e l'altra, statue e gruppi allegorici, sempre in quell'interno e freddo marmo.

Ecco il Pudore col volto coperto da un velo, ecco la Fortezza, ecco la Temperanza, ecco la Gloria,

ecco l'Educazione, ecco l'Amor filiale, vuote allegorie che non chiudono più alcuna idea. Ultimo,

poeticamente ultimo, è il Disinganno, un uomo che cerca con uno sforzo supremo districarsi da una

fitta rete che l'avviluppa tutto. Singolare chiusura della vita, termine singolare di tutte le sublimità,

di tutte le passioni, di tutti gli amori. Il Disinganno – e più altro.

– Perché questa tomba non ha medaglione? – domando al custode.

Egli non m' ha udita, perché ricomincia a dire:

– Il Cristo morto…

– Vediamo l'altar maggiore – ripeto io, ostinandomi.

Sì, l'ultima tomba a dritta non ha medaglione. Manca il ritratto della nobile principessa che

vi è sepolta, che è morta anch'essa così giovane. Il medaglione è liscio, vuoto, bianco, come se ne

avesse raspata, cancellata l'immagine. Ed è triste come nella sala ducale, a Venezia, il ritratto di Faliero,

coperto da un velo nero. L'altar maggiore è nudo, severo. Sulla parete, in fondo, n alto v'è un

quadro, una Vergine della Pietà, scolorita, che sostiene sulle ginocchia il livido corpo di Gesù.

La pittura è guasta, bruna, tetra; un sorcio ha fatto un buco nero nel costato di Gesù. Più giù,

proprio dall'altar maggiore, un grande gruppo in marmo che rappresenta la Deposizione della Croce.

Sempre lo stesso soggetto, sempre la morte.

– Ed ecco – ripete trionfalmente il custode, staccandosi dall'altar maggiore – il Cristo morto.

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Sta ai piedi dell'altar maggiore, a sinistra. Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso

marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. È grande quanto un uomo, un

uomo vigoroso e forte. Nella pienezza dell'età. Giace lungo disteso, abbandonato, i piedi diritti, rigidi,

uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio il collo stecchito, la

testa sollevata sui cuscini, ma piegata, sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati,

quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime

e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso, sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi

della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo,

sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753. E più nulla. Cioè

no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un

lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la

molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo, che sembra di carne,

un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca, dunque, in questa profonda

creazione artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e

v'è l'audacia del creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita.

Quel corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane

e robusto si ribellava al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento:

le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la

testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel

cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero.

è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione,

ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione

vi è stata. Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero

di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così

sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena

più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente

non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci.

Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo

morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori:

quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo.

Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare

tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia,

nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario

e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse

il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga,

monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta

come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina.

Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d’amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito

mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha

amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa

voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col

trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore.

Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo,

era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione

dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva

il suo carattere in un capolavoro dell'arte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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– Perché quella tomba non ha ritratto? – chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode

faceva tintinnire le chiavi.

– Lo scultore non ebbe tempo di finirlo...

– Quale scultore?

– Il Sammartino.

– Ah!...

– ...Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto.

– Fu ucciso o s'uccise?

– Si crede che si fosse ucciso.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Come nello strazio dell’ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a

quella del Cristo morto!

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PROVVIDENZA, BUONA SPERANZA

Sono belli i bimbi napoletani e ridono e giocano come tutti gli altri bimbi del mondo; ma

non vogliono alla sera stare quieti sotto il lume della lampada, se la giovane madre, o la gentile sorellina,

o la nonna dagli occhiali d’oro, o la zia che lavora di calza, non racconta loro una storia, una

bella e lunga storia che faccia spalancare i loro occhioni, sino a che il sonno li faccia diventare piccoli

piccoli. Sono così tutti i bimbi del mondo? Io non lo so: io conosco solamente i miei bimbi napoletani

che amano le storielle della sera. Vorrei essere io la madre ancora gaia come una fanciulla,

la grande sorella nel cui animo di giovinetta si forma la madre, la nonnina che ricorda il suo giocondo

passato, la zia che non ha avuto passato d’amore, che non ha presente e la cui mano tremante

di emozione si appoggia timidamente sul capo di bimbi non suoi: narrerei loro la storia di Provvidenza,

buona speranza. La vorranno essi ascoltare da me, che narro grosse e cattive storielle agli

uomini grandi e buoni? I bimbi sono belli, amano le storielle e sono indulgenti col narratore…

V’era dunque una volta, nella nostra carissima Napoli, un uomo molto strano. Io non vi dico

l’epoca precisa in cui egli visse la sua vita singolare, poiché a voi, bambini ridenti, non importa nulla

una data, voi che avete la fortuna di obliare; poiché a voi non interessano le cifre, voi la cui vita è

tutta una poesia. L’epoca io la so, poiché noi grandi abbiamo l’infelicità di sapere troppe cose inutili,

di accumulare nella nostra testa tante notizie che a nulla ci valgono – lo so e non velo dico. A voi

sicuramente interessa di più sapere come era fatto questo uomo strano, come vestiva, che cosa mangiava,

quali erano le sue abitudini ed in che consisteva la sua stranezza.

Uditemi tutti attentamente che qui comincia il buono: questo uomo di cui vi parlo era lungo

lungo come mai uomo può essere lungo, in modo che il popolo diceva sempre che egli era cresciuto

all’umido e che la mamma aveva sempre avuto cura ad annaffiarlo, perché crescesse, quasi che egli

fosse un alberetto e non un uomo. L’uomo lungo era anche molto magro, con certe gambe che ballavano

nei calzoni, come un fodero troppo largo, con certe braccia che sembravano due aste sottili

di mulino sempre in moto. I mulini li avete visti, nevvero? Si? Va bene; tiro innanzi.

L’uomo lungo e magro non era molto vecchio, poiché aveva tutti i capelli neri senza un filo

bianco e gli occhi suoi, bruni come il carbone, brillavano come quelli di un giovanetto, ma la pelle

del viso era gialla come la cartapecora dei libri di vostro nonno e si piegava tutta in mille rughe; il

collo in cui i tendini erano salienti, rassomigliava alla zampa secca di una gallina morta. Egli era

vestito sempre di nero, con certi pantaloni lucidi dal grande uso, troppo corti sul piede, lasciando

scoperti gli scarponi di cuoio grosso e le calze bucate; aveva un lungo soprabito, le cui falde svolazzavano,

che gli si adattava male alla vita, alle spalle, al collo, di cui il primo bottone era sempre ficcato

nel secondo occhiello e così di seguito. Portava al collo come cravatta un fazzoletto bianco; in

testa un cappellaccio, rosso dalla vergogna, tutto ammaccature e sassate, in mano un bastone nodoso,

dal pomo grosso come quello di un capo-tamburo. Questo uomo non si sapeva da nessuno chi

fosse, donde venisse, dove andasse; ma tutti lo conoscevano poiché il giorno e la notte girava per le

strade di Napoli, figura allampanata e fantastica che al lume dei lampioni assumeva proporzioni inverosimili

ed alla luce del sole pareva uno spettro che avesse smarrita la via del cimitero.

L’uomo si fermava a tutte le porte, si fermava sotto tutti i balconi e metteva fuori il suo grido,

aspettava un momento, poi andava via. Egli conosceva tutte le case dove erano bambini e, arrestandosi

lì sotto, gridava con la sua voce stridula: Provvidenza! Allora il bambino veniva, salutava

l’uomo e gli dava un soldetto, o un frutto, o un pezzo di pane. Egli conosceva bensì tutte le case dove

non erano bambini e vi si fermava sotto, gridando: Buona speranza! La sua voce suonava come

un augurio e tutti coloro che hanno il desiderio vano pei figli, tutti coloro che li aspettano, tutti coloro

che amano i bimbi, davan l’elemosina al mendico. Solo i cuori duri, quelli che sono egoisti, che

non hanno mai voluto bene ad alcuno, non gli davano nulla; il mendico ne conosceva le case e non

vi si fermava. Egli, tra il frastuono dei carri, delle carrozze, dei mestieri rumorosi, dei venditori che

strillano il prezzo della merce, gittava sempre il suo grido alto, a tutti superiore: Provvidenza, buona

speranza! Lo si udiva nelle cantine profonde, dalle soffitte altissime, dai giardini, dalle terrazze: il

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suo grido metteva allegria. Il povero ammalato che, confitto nel letto, guarda volare le mosche, conta

i fiorami delle pareti ed i travicelli del tetto, sentiva volentieri quelle parole che dalla via pareva

gli dessero promessa di una pronta guarigione: Provvidenza, buona speranza! L'operaio che nella

sua bottega, nei calori soffocanti dell'estate suda a tirare la sega su e giù, si rialza più vigoroso, quasi

animato da una vaga fiducia che il lavoro diventasse meno duro, il padrone meno esigente ed il

pane meno caro: Provvidenza, buona speranza! La madre solitaria che di notte agucchia presso il

tavolino, al lume temperato di una lampada e pensa al figliuolo marinaio, imbarcato su una nave che

viaggia nei lontani mari del Giappone, e trema al soffio del vento, e ha gli occhi pieni di lagrime allo

scroscio della pioggia, sorrideva a quella voce che nell'ombra le diceva sperare: Provvidenza,

buona speranza!

Ma il mendico singolare che non parlava mai d'elemosina, s'intratteneva volentieri coi bimbi

di Napoli, ne conosceva dappertutto, ne sapeva i nomi e talvolta anche i piccoli segreti. Nella strada

di Santa Lucia dove i bimbi sono bruni, magri e nervosi e rassomigliano ai pesciolini svelti del mare,

egli si fermava a guardare i tonfi che essi fanno nel mare, animandoli con la voce, agitando il bastone,

eccitando i più bravi, applaudendo ai salti migliori: i bimbi salivano a ridere con lui, soffregandosi

alle sue lunghe gambe, mentre a lui un riso bonario spianava le rughe e rischiarava il volto.

Nei quartieri nobili di Chiaia, di Toledo, della Riviera, egli guardava lungamente i bimbi vestiti

di velluto e di trine, coi riccioli ben pettinati, gli stivalini nuovi fiammanti, le manine inguantate,

i bimbi che vanno a passeggiare in carrozza o guidati dalla mamma: i bei bimbi non avevano

paura né ribrezzo del mendico e talvolta gli davano un confetto o un pezzettino di cioccolatto che

egli, che nessuno aveva mai veduto a mangiarne, divorava con una letizia sorridente, col capo riverso

indietro, con gli occhi lucidi di contentezza. Nei quartieri bassi del Pendino e del Mercato, dove i

bambini sono pallidi e malaticci pel cibo di frutta acerbe, egli, di nascosto, dava loro dei soldetti e

fuggiva via con le sue lunghe gambe, gridando ed agitando il bastone. Su pei giardini delle colline,

dove i bimbi sono floridi di ciera hanno i capelli gialli pel sole ed i piedi nudi nella polvere, egli li

chiamava a frotte intorno a sé, faceva le capriole, si buttava per terra come un pazzo e se li faceva

camminare sulle gambe, sulla pancia, sullo stomaco, ridendo e strillando, poi ne agguantava un

paio, li baciava disperatamente e scappava via per le viottole, simile ad uno spaventa-passeri. Di

notte girava per le vie della città dietro ai bimbi che cercano i mozziconi dei sigari e tastando in terra

col bastone, coi suoi occhi di gatto che bucavano l'oscurità, ne trovava, anche lui dei mozziconi e

li buttava tacitamente nel cestino del piccolo trovatore; si fermava sulle soglie delle chiese dove

giacciono in terra a dormire, arrotondate come cani, tante miserabili creaturine senza tetto e sollevandole

se ne metteva un paio col capo in grembo, coprendole con le falde del suo soprabitone, rimanendo

immobile al freddo, seduto sugli scalini, guardando i ricchi e gli agiati che rincasano e

vanno a baciare i bimbi che dormono nel calduccio del letticciuolo. Provvidenza, buona speranza,

andava al mattino ed al pomeriggio sulla porta delle scuole a vedere i bambini che vanno o escono

dalla scuola; negli otto giorni di ogni anno in cui l'ospizio dell'Annunziata è aperto al pubblico, il

mendico passeggiava gravemente nelle sale mirando i trovatelli, parlando loro, baciucchiandoli, palleggiandoli

e canticchiando loro misteriose canzoni. Era singolare come il mendico intendesse il

linguaggio fatto a balbettìi dei piccini piccini e le domande incoerenti dei più grandetti ed i bimbi

comprendevano lui che non era compreso dagli uomini. Una notte Provvidenza, buona speranza,

scomparve e non si seppe più nulla di lui, né fu più visto. Un ortolano di Capodimonte narrò di averlo

visto, nella notte, sopra un masso, disperarsi, salutare, mandar baci alla città immersa nel sonno,

buttarsi per terra col capo nella polvere, piangere, strapparsi i capelli, poi rialzarsi e partire.

Quelli che lo conoscevano, si dispiacquero di non vederlo più, di non udire quel suo grido

che rallegrava, i bimbi di Napoli ci pensarono un par di volte, e più altro. Fu detto poi che Provvidenza,

buona speranza era un grande medico di un paese lontano come la Svezia, Norvegia o la Danimarca,

che si fosse fatto amare dall'unica figliuola del re, l'avesse sposata segretamente e ne avesse

avuto un bellissimo bambino – che il re, saputo il fatto, fosse montato in una grande collera, avesse

esiliato per sempre il medico, carcerata la figliuola in un appartamento e messo a balia il bimbo

– che il re vecchio, morto, il medico fosse chiamato accanto al re nuovo, suo cognato, a prendere

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il suo posto a corte presso la moglie ed il figlio. Fu detto questo, ma in Napoli, fra le madri ed i figliuoli,

fra i bimbi ed i popolani, è rimasta tradizionale la figura di Provvidenza, buona speranza e

l'annuncio del suo arrivo serve ancora a calmare gli strilli dei piccoli impertinenti, ad asciugare le

lagrime dei piagnolosi ed a far addormentare quelli troppo vivaci che hanno la pessima abitudine di

vegliate tardi, senza sapere che il sonno... I bimbi dormono.

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LEGGENDA DI CAPODIMONTE

Lassù, sul colle, vive il bosco verdeggiante dalle fresche ombrie. I sentieri si allungano a

perdita d'occhio sotto i grandi alberi; sulla terra scricchiolano lievemente le foglie morte. La vegetazione

sbuca possente dal suolo, s'ingrossa nei tronchi nodosi, si espande nei rami che si intrecciano,

nelle innumerevoli foglie lucide e brune; ai piedi degli alberi cresce l'erba morbida e minuta, dalle

foglioline piccine. Nelle siepi fiorisce l'anemone, e sfoglia al suolo i suoi petali la rosa selvaggia.

Schizzano, sfilano le lucertoline grigio-verde, dalla testolina mobile ed intelligente, dalla coda nervosa.

Sotto gli archi dei grandi. alberi: penetra temperata la luce; tra foglia e foglia il sole getta, sulla

terra dei cerchielli ridenti e luminosi; raggi sottili e biondi passano tra i rami. Il silenzio è profondo;

è lontana, lontana la rumorosa città. Un profumo vivificante si espande; ogni tanto il garrito allegro

di un uccello fa ondeggiare le conche rosee dell'aria. Non è, non è la piccioletta e magra natura

dei giardini tagliati ad angoli retti, squadrati, polverosi e malinconici; non sono le aiuole di fiorellini

variopinti che non dànno freschezza, non dànno ombra, tirati su con cure infinite; non è la natura

corretta e riveduta, sfacciata e pomposa che si stende al sole senza vergogna, riarsa, secca. È la

forte e possente natura che irrompe dalla terra vera, e allaga, e inonda la campagna come oceano di

verdura; è la natura pudica e grande del bosco, che si ammanta di foglie, che vela il volto divino,

che molce la passione delle sue nozze nell'ombre discrete nei placidi silenzi, nei recessi ignoti. È

nell'immenso bosco che si sogna; nei quadrivi lontani trapassa rapidissimo un lieve fantasma; nei

bruni tronchi apparisce qualche leggiadro volto di donna; la foglia che cade sembra il rumore di un

bacio scoccato. È nel discreto e amabile bosco che s'ama…

Egli errava nei viali, solo, pallido e triste. La città lo stancava; era incurabile la malattia che

gli corrompeva l'anima. L'occhio vitreo s'affisava sopra ogni cosa bella senza piacere, senza dolore;

né festa di colori, né capolavoro d'arte, né donna bellissima valevano a trargli un sorriso sulle labbra.

Nella città una fanciulla sottile e pensosa si struggeva lentamente per lui d'amore: egli non l'amava.

Altrove, altrove era il suo amore. Lassù, forse nelle incomparabili e lucide stelle, gioielli glaciali

del cielo; laggiù, forse nelle bianche e verdi onde, il cui fragore rassomiglia al metro di una poesia

monotona ed uniforme; al polo, forse, negli albori nevosi, nelle atmosfere frigide, dove il sole

non riscalda e non illumina; nella nera ed orrenda Africa, forse, fra le liane rosse e gigantesche e fra

i serpenti azzurri dagli occhi ammaliatori.

Egli amava lontano in un punto indefinito, in un paese sconosciuto, con un amore sconfinato

ed ignoto, una creatura misteriosa che egli aveva creata. Non la chiamava, non la voleva, non la desiderava:

l'anima sua nulla sapeva di volontà e di desideri. Amava. Il suo palazzo rimaneva vuoto, la

madre si desolava nella solitudine, i servi dormivano nelle anticamere, i nobili cavalli scalpitavano

invano nelle vaste scuderie. Egli non si ricordava più di tutto questo. Trascinava la sua vita vagando

nelle viottole di campagna, vagando nei viali del bosco, dove ritrovava la pace; trascinava la lenta

vita consumandosi nell'amore. Il corpo s'illanguidiva, le gote scarne avevano il colore della morte,

non mandavano più lampi di vitalità le pupille. È questa la funesta malattia che uccide gli umani; è

il fatale ed insanabile amore dell'ideale.

Nella nebulosità di un viale, dove si elevava un velo opalino ed iridescente, in un mattino

d'inverno, egli la vide. Era una forma snella, senza contorni, fatta d'aria, ondeggiante; fu un balenìo

lieve, un luccicare, un istante solo di luce. Egli corse, ansioso, rinvigorito; nulla ritrovò, la forma

gentile era scomparsa. Ma come il suo cuore si pose a desiderare ardentemente di rivedere il fuggevole

fantasma, con la possanza della volontà lo evocò di nuovo. Sempre lontano, sempre un'ombra

vana. Qualche cosa di bianco e di lucido che tremolava, che non toccava il suolo, che si dileguava

nelle linee indefinite dell'aria. Quello, quello era il suo amore: giunto sul punto dove gli era apparso,

egli s'inginocchiava e baciava la terra, adorando così la immagine fuggitiva. Ogni giorno la divina

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creatura si concedeva sempre più: gli appariva meno lontana, distinta, più chiara. Era una creatura

celestiale, una fanciulla bianca bianca, le cui forme quasi infantili si velavano in un abito candido.

Ella compariva e nel volto circonfuso di luce, gli sorrideva; agitando il capo, lo salutava. Poi cominciava

a camminare, e lui la seguiva con gli occhi intenti, movendo i passi macchinalmente, concentrato

tutto nell'attenzione; ella radeva appena la terra, abbandonava i sentieri noti, penetrava tra

gli alberi, appariva e scompariva, voltandosi a sorridere, lasciando che il lembo bianco del suo abito

radesse l'erba, con un piccolo e lusinghiero mormorìo. Egli non osava parlarle, tremava, la voce gli

moriva nella gola; bastava alla sua felicità contemplare ardentemente, con la fissità della follia, con

gli occhi aridi che gli bruciavano, il suo amore che fuggiva dinanzi a lui. Ella girava, girava pel bosco,

arrestandosi soltanto un minuto, chinandosi a carezzare i fiori, ma non cogliendoli, non lasciando

traccia sull'erbetta calpestata; appena egli la raggiungeva, ella riprendeva la sua corsa. Lui

dietro, senza sentire la stanchezza delle sue gambe che diventavano pesanti come il piombo; lui dietro,

sostenuto dall'indomita volontà, eccitato, esaltato, sospinto all'ultima e più acuta vibrazione dei

nervi. Fino a che, approssimandosi al castello, il celeste fantasma cessava di sorridere, ed una malinconia

si effondeva dal volto gentile; poi, entrato nel cupo androne, volgevasi per l'ultima volta,

salutava, agitando la mano, e scompariva. Lui non osava gridarle: rimani, rimani! e s'abbandonava

sopra un banco, spossato, abbattuto, morto.

– Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere,

non mi appresserò troppo. Sai che t'amo, so che m'ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E neppure

puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t'amo; tu sei il mio cuore. L'anima mia è fatta di te;

non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina fanciulla!

I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una trasparenza

rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un

fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue

schiuma e bolle nelle mie vene, come un'onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest'ardor

che m'infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe

domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta

per pietà di chi t'ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi

che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango.

Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m'abbandoni, ecco, la vita declina, in me:

tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato.

Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T'amo, non lasciarmi.

Non parlava la fanciulla nei colloqui i d'amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta

sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in

volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di

labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s'accendesse dietro un velo.

Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l'amava. Egli

le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava,

estatico. Ella si muoveva per andarsene.

– Non partire, non partire! – supplicava lui.

Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra,

coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche.

– Siedi, siedi accanto a me!

Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla.

– Parlami, parlami – mormorava lui.

Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava,

s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena.

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Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione:

batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse;

dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente

di amore, le offerse la sua vita per una parola.

– M'ami?

– Sì – parve un sussurrìo.

Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina

fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida.

Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò

un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i

cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro

l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora

bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto

accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle

che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli

conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia,

bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII,

Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli

rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu

piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e

crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto

sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi

ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la

vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale.

È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi –– l'arte si vendica

sulla vita – e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

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LEGGENDA DELL’AVVENIRE

Tu, buona e baldanzosa fanciulla, giunta al termine delle mie fantastiche storie, sorridi. Ed

io, poveretto autore, condannato a leggere nel volto del suo lettore presente o ad indovinare l'animo

del lettore assente, cerco di spiegare che significhi il lampo del tuo occhio nero e l’arco ironico del

tuo labbro rosso come il fiore del granato. E quasi o mia bella ed impenetrabile sfinge, dal viso puro

e colorito come il granito di quelle statue, quasi comprendo il senso del tuo riso muto ed intelligente.

Le fantastiche, istorie dove tanta parte della vita napoletana si riflette, non t'hanno spaventata; e

se il tuo spirito è corso dietro all'inafferrabile fantasma, al folletto piccolino, tu non ne hai avuto

paura. Queste storielle sono antiche, alcune antichissime, appartengono al lontanissimo passato che

non ritorna più; furono vita e morirono; furono dramma umano e sono parole vane, tradizione oscura

e scorretta. Rimane di esse talvolta un quadro, una statua, una chiesa una tomba, un bosco, talvolta

una semplice idea, talvolta un, semplice nome, ma è il passato. Tu, orgogliosa giovinetta sorridi

nel presente, sorridi all'avvenire, non puoi volgerti indietro, guardi innanzi, dove è la tua bella realtà

di luce e di profumi. Tu leggi le storie del passato, ma le sirene, i cavalieri, le dame, i monaci, i

grassi borghesi, i pallidi poeti non ti destano che un sorriso di pietà; essi sono morti e vive Napoli

bella ed immortale, vive la gioventù gioconda, vive il glauco mare, vivono i ridenti poggi. Immenso

si svolge l'avvenire. Lo so. Ma pel sarcastico sorriso con cui tu ti burli delle mie care larve, evocate

dalla tradizione o dalla fantasia popolare, io voglio castigarti, cattiva fanciulla. Io voglio far un'opera

crudele e disonesta: voglio, narrandoti la fiammeggiante leggenda dell'avvenire, distruggere il tuo

mordente sorriso, farti impallidire le guance e farti fremere ogni fibra del corpo, ogni piega dell'anima,

pel raccapriccio e per l'orrore.

Oggi la città è bella perché così Iddio la volle, mentre poco la vogliono così gli uomini. Ma

quando nella morbida e indolente natura dell'uomo sarà entrata quella vivacità attiva ed operosa che

non si perde in vuoto cicaleccio, in vaghe aspirazioni ed in sogni grandiosi; quando alla lenta coscienza

che si addorme volentieri nell'ammirazione sarà subentrata l'operosa coscienza che tenta vie

migliori e di niuna s'appaga e cerca raggiungere l'alto scopo con ogni sforzo; quando alla fantasia

che crea, alla mente che trova, alla intelligenza che indovina, non rimarrà più disubbidiente ed inerte

il braccio che opera; quando accanto all'artista che sogna sorgerà il popolo che intende, il borghese

che pensa e l'aristocratico che sente: allora solamente la città sarà stupenda. Ora ella s'adorna di

fiori, ma è povera; ora ella sorride, ma appena appena il lacero vestito, che fu di porpora, copre le

belle membra; ora ella è gaia, ma spera solo dalle piogge benefiche il lavacro, che terge le sue strade

nere e sporche, ora balla e canta sulle sue sponde odorose, dove il mare accompagna le sue danze

e le sue canzoni, ma nel suo porto non accorrono ancora le navi dai gonfi fianchi carichi di mercanzie;

ora. biancheggiano le ville di cui s'adornano i suoi colli, ma non sale ancora al cielo, incenso

gradito, il fumo grigio dei mille opifici. Che importa! Questo giorno verrà ed allora la città sarà santa.

Pensa, o poetica amica, al felice connubio dell’arte con la natura, pensa alla celeste armonia fra

l'uomo che crea ed il mondo da lui creato, pensa alla città che sarà bella e buona, tutta bianca e colorita

dal sole, senza macchie, senza cenci: oh, allora, allora! O lontano avvenire, o giorno splendido

che come quello di Faust meriteresti di essere fermato...

Ma la divina città che amiamo deve morire; la crediamo immortale ed è sacrata alla morte;

la crediamo eterna e la sua vita è tenue come quella di un bambino. Deve morire. morrà; si dovrà

dire al viandante pensoso e malinconico: qui fu Napoli. Tutto le potremo dare: il lavoro che la nobiliti,

il commercio che l'arricchisca, l'acqua che la lavi, il sole che penetri nelle larghe vie, ma non la

sottrarremo alla morte. Sarà ninfa ridente, azzurra, rosea, bionda di sole, piena di gioventù, fremente

di vita, ma sarà morente. Lo dice la profetica leggenda, ripetuta di bocca in bocca, che circola nelle

vie, che entra nelle botteghe, che sale nei salotti della nobiltà. Verrà il novissimo giorno. Vedi tu

quella montagna ai cui piedi si stendono i bei villaggi bagnati dal mare, sui cui fianchi verdi cresce

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la vigna del vino generoso; vedi quella montagna striata da lugubri fasce nere? È lei che farà morire

Napoli: così dice la leggenda profetica. Arde il fuoco liquido, bolle e schiuma nei fianchi della montagna

e si accumula da secoli pel giorno funesto; di fuori appena una nuvoletta di fumo bianco ed

innocente rivela il profondo lavorio. Correvano le bighe e le quadrighe per le vie di Pompeja la bella.

Amavano al sole i leggiadri garzoni dalle tuniche bianche e le fanciulle dai candidi pallii, si vestivano

di bisso e si profumavano di nardo le seducenti etere, correvano giovani e vecchi al foro, alle

terme, ai teatri, sulle porte delle case erano sospese corone di rose olezzanti: la montagna volle e

Pompeja morì. Quando la montagna vorrà, Napoli sarà distrutta: e il terribile e bel vicino che noi

guardiamo con ammirazione e quasi con affetto, poiché egli è tanta parte della bellezza napoletana,

sarà il carnefice.

E nessuno ne saprà l'ora, né il giorno. Nella città la gente tumultuosa andrà ai consueti uffici,

correrà dove il piacere la chiama, dove la chiama il dolore, amerà, odierà, godrà, piangerà, vivrà insomma

come se nulla fosse. Nel cielo sereno brilleranno le stelle; nell'aria calma s'eleverà la sottile

penna di fumo. Poi, sul cratere, comparirà une punto rosso, come un lumicino acceso lassù, come

un carboncino; i napoletani si stringeranno nelle spalle e mormoreranno: solite storie. L'eruzione

crescerà con molta lentezza e gli uomini di scienza d'allora ne constateranno i fenomeni e ne annunzieranno

la prossima fine; ma l'eruzione crescerà sempre, continuamente. Un rombo sotterraneo

comincerà a far tremare i vetri delle case; tre strisce vivide di lava scorreranno lungo i fianchi della

montagna; il cielo cupo si tingerà di rosso, il fondo del mare sarà rosso; giungeranno i forestieri a

contemplare il mirabile spettacolo, i napoletani si affolleranno sul molo, a S. Lucia, a Mergellina,

sui terrazzi, sulle colline, compresi di ammirazione. Ma dai villaggi che sono sotto il monte principierà

a fuggire la gente spaurita e si riverserà nella città, dove sarà accolta a braccia aperte – e la lava

procederà sempre. Nuove bocche si apriranno. La lava è a Resina.

Ma i napoletani non temono: il Vesuvio è loro vecchio amico, vuole scherzare, è un brontolone,

ma presto tacerà. Poi vi è San Gennaro, che con le dita sollevate in atto d'imperio, comanda

alla lava di non avanzarsi; le donne pregano il parroco della cattedrale a portare in piazza San Gennaro

di argento o il prezioso suo sangue che è conservato nelle ampolline. In qualche chiesetta si

prega.

Una mattina il sole non viene fuori, una fitta nube grigia nasconde il cielo, piove cenere; i

napoletani sorridono ancora e vanno ai loro affari sotto quella strana pioggia. Ma il giorno seguente

il rombo diviene tumultuoso, le scosse di terremoto si succedono l'una all'altra, orribili convulsioni

squassano il monte, sui cui fianchi si aprono dappertutto bocche di fuoco, le lave si uniscono, si

fondono, sono una lava sola, è una montagna di lava che cammina verso la città coi suoi ruscelli di

fuoco; soffocanti fetori di zolfo ammorbano l'aria, piove cenere calda e pesante, acqua bollente,

piovono lapilli infuocati sulla città: riuniti al grande vulcano corrispondono, con pauroso miracolo

ridestati, le eruzioni dei monte Echia, dell'Epomeo e di Pozzuoli. Piove la morte. Nel clamore disperato

dei morenti, nel fragore delle case che nel tuono del terremoto, nella spaventosa tempesta del

mare che si rizza incollerito o ribelle, nel bagliore sanguigno che capovolge la natura e le cose, la

lava entra in Napoli e Napoli finisce di morire in un incendio colossale.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E che? Tu sorridi ancora, orgogliosa creatura? Ti comprendo: leggo nel tuo pensiero come in

un libro dalle pagine aperte. Tu pensi quello che io penso; tu sorridi a quella morte; questa Napoli

che fu creata dall’amore, che visse nella passione della luce, dei colori smaglianti, dei profumi violenti,

delle notti innamorate, visse nel lusso grandioso della natura e nella espansione superba del

sentimento, questa città appassionata morirà bene, morirà degnamente nell’altissima e fiammeggiante

apoteosi di fuoco.
F I N E
 
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GRAZIA DELEDDA - Note Biografiche
 
Grazia Deledda nacque nel 1871 a Nuoro da una famiglia benestante ed esordì giovanissima (appena 17enne) pubblicando alcuni racconti per una rivista di moda.


L'ambiente sardo non poteva offrirle la possibilità di studi regolari e così la adolescente Deledda si fece autodidatta, fornendosi di una cultura disorganica e poco approfondita.

Riuscì a pubblicare il suo primo romanzo, "Fior di Sardegna", nel 1892 ed un altro suo scritto, "Le vie del male" (in cui si precisano il suo stile, i suoi limiti regionali ed i suoi interessi morali), fu ben recensito da Luigi Capuana.

Nel 1899, in seguito al suo matrimonio con Palmiro Madesani, si trasferì a Roma. La distanza dalla Sardegna agì positivamente su di lei, smussandone il regionalismo e sublimando il folklore sardo dei suoi scritti in una certa atmosfera fiabesca, adattissima agli interessi psicologici e morali dell'autrice.

La vita della Deledda non fu particolarmente ricca di avvenimenti ma fu molto feconda dal punto di vista letterario, scandita com'era dall'uscita quasi annuale dei suoi romanzi. Nel 1926 le fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma dieci anni dopo.

Sospese com'erano tra Verismo e Decadentismo, le opere della Deledda testimoniarono in maniera molto chiara di questo passaggio, sia contenutisticamente che formalmente: dall'interesse per la cultura tradizionale sarda passarono alla vera e propria analisi psicologica, al cospetto della quale l'ambiente isolàno veniva trasformato in un puro e semplice sfondo.

Note biografiche a cura di Maria Agostinelli.

G R A Z I A  D E L E D D A

§>>> Grazia Deledda - OPERE <<<§

*** LEGGENDE SARDE ***

Premessa

Contos de fuchile - racconti da focolare -, con questo dolce nome che rievoca tutta la tiepida serenità

delle lunghe serate famigliari passate accanto al paterno camino, da noi vengono chiamate le

fiabe, le leggende e tutte le narrazioni favolose e meravigliose, smarrite nella nebbia di epoche diverse

dalla nostra. Il popolo sardo, specialmente nelle montagne selvagge e negli altipiani desolati

dove il paesaggio ha in se stesso qualcosa di misterioso e di leggendario, con le sue linee silenziose

e deserte o con l'ombra intensa dei boschi dirupati, è seriamente immaginoso, pieno di superstizioni

bizzarre e infinite. Nella stretta mancanza di denari in cui si trova ha bisogno di figurarsi tesori immensi,

senza fine, nascosti sotto i suoi poveri piedi, sicché, dando retta alle dicerie vaghe, susurrate

a mezza voce, con un tremito nell'accento e un lampo negli occhi, si crederebbe che il sotto-suolo di

tutta l'isola è sparso di monete d'oro e di perle preziose.

Ogni montagna, ogni chiesa di campagna, ogni rudere di castello, ogni bosco ed ogni grotta nasconde

il suo tesoro. Posto da chi?... Se fate questa domanda vi si dànno delle spiegazioni plausibilissime.

Si ha un vago ricordo delle guerre, delle escursioni, dei saccheggi sofferti in ogni tempo

dalla Sardegna, e specialmente dai Saraceni, dai Goti e dai Vandali, e si dice che i nostri antichissimi

avi nascondessero in siti impenetrabili i loro tesori - denaro, gioielli e pietre preziose -, per

scamparli dall'espilazione degli invasori, e che la maggior parte di questi tesori, rimasti nei nascondigli

per volontà o contro la volontà dei primi possessori, sussista ancora. Sin qui il naturale. Il sovrannaturale

è la credenza radicalmente invalsa che a guardia dei tesori vigili il diavolo: il diavolo

che, se alla fine di un certo tempo gli uomini non ritrovano il tesoro, se ne appropria lui stesso e se

lo porta all'inferno, lasciando nelle anfore o negli scrigni contenenti l'oro e le perle, tanta bella

quantità di carbone o di cenere. La leggenda dei tesori ha così profonde radici da noi che non appena

un individuo è riuscito, col suo lavoro e con la sua intelligenza, o magari con l'inganno e la perversità,

ad acquistarsi qualche fortuna, subito la voce del popolino afferma che egli ha trovato un

aschisorgiu, cioè un tesoro.

Mille ricordi mi si affollano su tal proposito al pensiero, e rammento tanti fatti accaduti nella mia

infanzia. Anche la gente un po' colta e spregiudicata crede, senza confessarlo, ai tesori, e più di un

proprietario fa, all'insaputa, degli scavi nelle sue terre, in cerca di queste ricchezze meravigliose.

Ogni fiaba ed ogni leggenda è a base di tesori nascosti: e tradizioni antichissime indicano con

precisione dei siti misteriosi nelle nostre montagne ove indubbiamente esiste dell'oro coniato.

Ma il più delle volte questi siti - rocce o grotte - sono guardati con un vago terrore anche dagli

uomini più forti e coraggiosi il cui fucile ha già segnato più di una vendetta. È la sottile paura del

sovrannaturale, il terrore di cose che non si possono vincere né col fucile, né col pugnale.

Perché, come ho già detto, si crede che molti aschisorjos sono custoditi dal diavolo, e in tal caso

il posto è fatale, e sventura incoglie a chi penetra là dentro. Gli esempi abbondano: sono uomini

morti di ferro poco tempo dopo aver passato una notte entro una di queste grotte; pastori che hanno

perduto tutto il gregge di malattia misteriosa, banditi di cui non si trovarono che le ossa spolpate

1 Questa premessa e le leggende "Il diavolo cervo", "La leggenda di Aggius", "La leggenda di Castel Doria", "Il castello

di Galtellì", "La leggenda di Gonare", "San Pietro di Sorres", "La scomunica di Ollolai", "Madama Galdona", sono state

pubblicate in Natura ed Arte, 15 aprile 1894.

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dalle aquile e dai falchi, giovinotti condannati innocenti alla reclusione a vita... E tutto per aver dimorato

vicino a quei luoghi fatali.

Più di un vecchio pastore, scampato miracolosamente dalle disgrazie, afferma di aver veduto il

diavolo, che assume forme umane o di animale.

Nelle piccole montagne di Nuoro, le verdi e granitiche montagne di Orthubene, che sono forse le

più belle del Logudoro, v'ha una grotta misteriosa e profonda, di cui nessuno, si dice, abbia mai potuto

esplorare l'immensità oscura che mette capo all'inferno. Un pastore si provò una volta a visitarla

sino in fondo, ma vide i demoni e fuggì.

Laggiù v'ha un tesoro immenso, miliardi e miliardi in oro e in perle, e una piccola dama che tesse

sempre dell'oro, in un telaio d'oro, vestita d'oro e coi capelli d'oro, lo custodisce. Oh, piccola aurea

dama! Quante volte l'ho veduta in sogno, col suo strascico lucente e coi suoi capelli di sole, nella

mia infanzia!

I diavoli sono indispensabili nelle leggende sarde: anche nelle fiabe hanno grandissima parte, ed

in talune anzi sono gli eroi principali. Però i sardi, da buoni cristiani, assegnano sempre un posto odioso

e spesso ridicolo allo spirito dell'inferno, e si vendicano con ciò del terrore e della paura che il

diavolo inspira. Senza dilungarmi oltre sulle superstizioni del popolino sardo, passo subito alle leggende,

dirò storiche, che corrono di paese in paese, di monte in monte. Talune sono lunghe e spaventose;

altre brevi, vaghissime, senza profilo deciso; tutte però hanno la calda impronta meridionale.

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Il diavolo cervo

Nei monti di Oliena, nei contrafforti calcarei dai picchi acuti di un azzurro latteo che si confonde

col cielo, esistono grandi crepacci - ricordi di antichissime convulsioni vulcaniche - di alcuni dei

quali non si distingue il fondo. Vengono chiamati sas nurras, e volgarmente si crede che sieno misteriose

comunicazioni dell'inferno col mondo. Di là escono i diavoli per scorrazzare sulle bianche

montagne in cerca di anime e di avventure. Fra le altre leggende riguardanti le nurras ho trovato

questa, molto bizzarra, e, pare, non molto antica.

C'era dunque un pastore di Oliena, molto devoto e pio e perciò malvisto dal demonio che, riuscitegli

vane tutte le tentazioni per condurlo al male, si vendicò di lui in questo modo. Nei giorni un

po' tranquilli il pastore, affidata la greggia ad un suo compagno, si recava alla caccia del cervo e del

muflone su per i monti. Un bel giorno d'inverno, mentre cacciava, vide un magnifico cervo poco distante

da lui: lo sparò, e lo ferì leggermente, ma non poté pigliarlo. E si mise ad inseguirlo. Il cervo

balzava di rupe in rupe, velocissimo; ma il pastore non meno agile, si teneva sempre sulle sue orme,

deciso a ucciderlo. Arrivarono così in cima della montagna. La neve copriva i picchi, le rocce, i

precipizi; ma il cacciatore, esperto dei luoghi, continuava la sua caccia senza inciampare in una sola

pietra, affascinato dal cervo meraviglioso, bellissimo, le cui corna ramate erano alte più di sei palmi.

A un tratto l'animale sparì, improvvisamente, sprofondandosi nella neve.

Il cacciatore raggiunse il posto e si trovò sull'orlo di una nurra spaventosamente profonda.

Il cervo non si vedeva più, ma dal fondo della nurra saliva un'eco tetra di sogghigni infernali. Il

misero pastore comprese allora che il cervo era il diavolo in persona e cercò di fuggire, ma la neve

su cui posava i piedi sprofondò e prima ch'egli si fosse fatto il segno della croce precipitò nell'immensità

dell'abisso...

Il suo compagno lo attese due giorni, ma non vedendolo tornare temé qualche disgrazia e si diede

a cercarlo pei monti. Le orme lasciate dal disgraziato sulla neve gli indicarono la triste sua fine.

Tornò nel villaggio e presa una grande quantità di corde si avviò con altri tre pastori alla nurra. Là

giunti unirono le corde e, legato alle ascelle il compagno del caduto, lo calarono nella nurra. Ma per

quanto le corde fossero lunghissime lo strano palombaro non toccò il fondo. I pastori lo trassero e

quando egli venne fuori era livido in volto e tremava verga a verga. Un profondo terrore gli sconvolgeva

i sentimenti, ma sulle prime non volle rivelarne la causa. Portato sulle spalle dai compagni

tornò a casa sua, e appena arrivato fu colto da una febbre violentissima che tre giorni dopo lo condusse

alla fossa... Prima di morire rivelò la causa misteriosa del suo spavento. A misura che scendeva

entro la nurra gli appariva sulle pareti scabrose un omino nero con le corna e con una falce in

mano. E ogni tanto stendeva questa falce verso la corda minacciando di romperla e di far precipitare

il pastore nell'inferno, insieme al suo compagno!

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La leggenda di Aggius

Al finire del secolo XVII c'erano in Aggius - piccolo villaggio della Gallura - due ragazzi, figli di

due famiglie nemiche, che, come accade sovente in Sardegna, ed anche altrove, facevano all'amore.

Lei aveva tredici anni, egli quindici; ma benché così giovani sembravano, forti e belli entrambi,

grandi di vent'anni, e si amavano perdutamente, con tutta la passione indomita degli abitanti della

Gallura, bizzarra regione montuosa al nord dell'isola, che ha, nel paesaggio e nella natura dei nativi,

molta rassomiglianza con la vicina Corsica.

Ma, come accennai, le famiglie dei due amanti erano nemiche. Pare che tutto il villaggio fosse

diviso in due fazioni, e l'odio il più mortale soffiava negli animi di entrambe: ad una apparteneva la

famiglia del giovine, all'altra quella della fanciulla. Ciò non impediva che essi si adorassero e che si

dessero frequenti convegni notturni nella stessa casa di lei. Usavano le più fini prudenze, la vigilanza

più intensa, ma alla fine furono scoperti e il padre di lei, ardente d'ira e d'odio, una notte solenne,

una notte di Pasqua, trucidò il misero amante. L'inimicizia allora fra le due fazioni si rinfocolò tanto

che li costrinse ad aperta battaglia. E scesero in campo! Schierati in una piccola pianura sottostante

ai monti rocciosi e desolati, gli abitanti di Aggius, armati di carabine e di pugnali, stavano per azzuffarsi,

allorché al primo colpo di archibugio, tirato dal padre della povera innamorata, s'udì un terribile

rombo che echeggiò per tutta la Gallura.

Erano rovinate le montagne, ed erano cadute sui maledetti guerrieri, seppellendoli sotto le rocce

immense donde nessuna forza umana poteva più trarli.

Scamparono solo pochi abitanti, vecchi, donne e fanciulli che non avevano preso parte alla battaglia.

E la causa di tanta rovina, oltre quella innocente dei due giovani amanti, era stata il diavolo,

il diavolo che abitava sulle vette dei monti. E qui copio dal triste e fremente romanzo di Enrico Costa

Il Muto di Gallura:

«Egli - il diavolo - di tanto in tanto si piaceva affacciarsi ai massi di granito per guardare con occhio

di fuoco il sottostante villaggio.

In quei giorni nefasti sentivasi soffiare un vento gagliardo che, pur venendo da levante recava dal

Limbara ricoperto di neve il suo alito glaciale. E mentre gli abitanti di Aggius sentivano il corpo intirizzito,

il diavolo soffiava sulle anime loro, suscitandovi pensieri di odio, di vendetta e di sangue!

Si diceva che gli aggesi fossero in origine d'indole serena e tranquilla; ma lo spirito infernale, volendo

dannare le loro anime, aveva preso stanza sulla reggia di granito, ch'era la cima del monte, e

si compiaceva nelle notti insonni di tribolare quei poveretti.

Le vecchie tremavano di paura nel loro letto, e dicevano il rosario sotto le coltri, mentre il vento

furioso urlava dalle fessure delle imposte. Era il figlio dell'inferno che, non potendo dormire, si divertiva

a turbare il sonno dei figli della terra. E ogni tanto si affacciava alla rupe, e dopo aver annunziata

la sua presenza con un rullo sordo e prolungato gridava per tre volte rivolto al villaggio:

"Aggius meu, Aggius meu, e candu sarà la di chi ti n'aggiu a pultà in buleu?"2.

La minaccia infernale era il pronostico della distruzione del paese; e il rullo prolungato che la

precedeva significava che un uomo era designato a morire di morte violenta. Così almeno diceva la

tradizione.

Figurarsi lo sgomento della popolazione! Si ricorse al parroco, si chiamarono a consulta i ragionanti

del paese, ma sempre invano! Il diavolo non si dava per inteso e continuava a tormentarli.

Verso la metà del secolo XVIII ad uno zelante missionario, capitato ad Aggius, venne l'ispirazione

di piantare una croce di ferro sul monte (che perciò venne chiamato poi il Monti di la cruzi)

2 «Aggius mio, Aggius mio, e quando verrà il giorno che ti porterò via in un turbine?»

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per far fuggire il diavolo. E in quella notte spirò un vento così gagliardo che sradicò molte querce

secolari, e fece precipitare dai monti più di un masso di granito. Tutte le case tremarono dalle fondamenta,

ma la croce stette salda sulla punta del monte.

Udendo quel baccano infernale i popolani corsero al Rettore, che li rimandò a casa tranquilli dicendo

loro: "Non temete, è il diavolo che prepara le valigie per tornarsene all'inferno. Non verrà più

a tormentarci!". Pare però che il diavolo non volesse rinunziare alle anime di cui aveva giurato la

perdizione. Aveva bensì abbandonato il monte della Croce, ma forse per ricoverarsi sul monte Fraile

o sul monte Pinna, donde, come per lo passato, continuò a soffiare il livore sulle anime dei buoni

aggesi, i quali, alla lor volta, continuarono a dilaniarsi l'un l'altro, spargendo il terrore nella Gallura.

La croce del missionario è sopra un masso gigantesco, quasi isolato, che misura da venti a trenta

metri di altezza, e che forma il cucuzzolo del monte, bersagliato dai fulmini e dai venti. In origine

quella croce era di ferro, e vi durò oltre mezzo secolo, finché un giorno, schiantata dalla folgore, fu

sostituita con un'altra di legno, che viene rinnovata ogni due o tre anni».

La Conca della Madonna è una specie di nicchia naturale scavata nel sasso. Dicesi che la Madonna

vi abitasse qualche volta per tener lontano lo spirito delle tenebre.

Il gran tamburo (su tamburu mannu) è una gran lastra di granito a base convessa la quale posa

sopra un blocco spianato. Basta salire sull'orlo e far forza col corpo, perché la pietra oscilli, dondoli,

e produca un rullìo cupo, sordo, continuo, come il mugolìo di un tuono in lontananza. Il gran tamburo

di Aggius ha molta analogia colla famosa pietra ballerina di Nuoro; la differenza è una sola:

quest'ultima, da parecchi anni, non balla più, - quello invece continua a suonare - perché i curiosi

che la tentano sono pochissimi. A memoria dei più vecchi questo tamburo è sempre esistito; e gli si

annettono ancora non so quali malefici influssi. Dicono, per esempio, che allorquando si ode il suo

rullo è indizio certo che una persona è morta, o deve morire di morte violenta!

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La leggenda di Castel Doria

Interessanti sono le leggende intorno a Castel Doria; e specialmente quella dell'ultimo principe.

Pare che questo misterioso maniero sia stato edificato dai Doria verso il 1102, quando cioè i Genovesi

fortificarono tutti i loro possedimenti al nord dell'isola, e specialmente l'attuale Castel Sardo.

Esiste tutt'ora un'alta torre a cinque angoli, di pietre rettangolari saldate l'un l'altra a cemento. Edificato

su alte rocce poco distanti dalla riva del Coghinas, il castello godeva di un grande panorama,

e verde ai suoi piedi si stendeva la pianura. La leggenda dice che un condotto sotterraneo conduceva

dal castello alla chiesa di San Giovanni di Viddacuia, sita all'altra riva del Coghinas, e che

questo sotterraneo i Doria lo avessero scavato semplicemente per recarsi alla messa nei giorni di festa.

Un marciapiede conduce dalla torre alla Conca di la muneta, dove, si dice, i Doria battevano denaro.

Questa Conca, a quanto ne ho potuto capire, pare sia una grande cisterna di una immensa profondità:

nel fondo esisteva una campana d'oro, e i passanti gettavano una pietra, per farla suonare,

talché ora la cisterna è piena in fondo di pietre, e quindi la campana è invisibile e non suona più.

Una volta uno - è sempre la leggenda che parla -, prima che le pietre dei curiosi avessero riempito

di sassi il fondo della cisterna, vi scese e trovò una porta che lo introdusse in quattro stanze sotterranee,

grandi e misteriose. In una trovò una verga d'oro, ed in un'altra vide una grande porta di

ferro serrata: questa porta doveva condurre ad altri sotterranei dove i Doria tenevano nascosti i loro

immensi tesori, e dove battevano moneta, ma l'esploratore non poté neppure smuovere la porta ferrea,

come nessuno poté aprirla dopo la morte dell'ultimo castellano. Talché i tesori ci si trovano ancora!

A ponente poi del castello si dice esistessero altissimi bastioni, ombreggiati da alberi dove i Doria

passeggiavano nelle ore inerti della loro battagliera esistenza, e dove le castellane sognavano

nelle sere azzurre profumate dal fieno della pianura e dai giunchi del melanconico Coghinas.

E tutto questo, il condotto sotterraneo che attraversando il sotto letto del fiume conduceva a San

Giovanni di Viddacuia, la zecca dalle porte di ferro e l'alto bastione inalberato, tutto si collega alla

leggenda dell'ultimo principe.

I Galluresi dicono si chiamasse Andrea Doria, e forse è il forte ammiraglio che nel 1527 riacquistò

i possedimenti occupati dagli Spagnoli, quello che la leggenda fa morire in modo così strano.

Dunque, mentre il principe passava l'inverno nel castello, una dama, moglie o figlia non so, di un

cavaliere al servizio dei Doria, e abitante nello stesso maniero, si innamorò perdutamente di Andrea.

Ma per quante moine, per quante appassionate dichiarazioni ella gli facesse, egli non la volle sentire

mai, anzi una volta, infastidito dall'amor suo, per quanto ciò ripugnasse al di lui carattere cavalleresco

e gentile, la respinse rudemente, minacciando di espellerla dal castello se non lo lasciava in

pace.

Arsa dall'amore e dall'odio, dall'umiliazione subita e dall'amore respinto, la dama si invocò ad

una famosa maga côrsa, che dall'alto delle rocce desolate dominava le due isole vicine - la Corsica e

la Sardegna - con le sue magie ed i suoi incantamenti. «Madonna», rispose la maga, sentita la questione,

«io non posso far nulla per voi. Il cavaliere è devoto a San Giovanni, e San Giovanni lo preserva

dagli incantesimi d'amore. Nessun filtro e nessuna magia può influire nel suo cuore... però,

Madonna, io posso mettervi in comunicazione con qualcuno che ne può più di me!...»

La dama acconsentì: la maga allora la pose in corrispondenza col demonio, e il demonio, in

cambio della nobile anima sua, le diede la potenza di trasformarsi, di fare dei malefizi e delle stregonerie.

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Invasa dallo spirito infernale la innamorata dama tentò ancora, in ogni modo, di procacciarsi l'amore

d'Andrea Doria: ma San Giovanni preservava il cavaliere dagli amori colpevoli, e vane riuscirono

quindi le ultime lusinghe di lei. Allora l'amore si trasformò in odio e la dama si diede tutta al

male e alla perversità. Un giorno fece cambiare il suo volto in quello di una vecchia, si vestì da maga

e si introdusse nel sotterraneo che conduceva dal castello alla chiesa.

E mentre Doria, con qualche cavaliero di seguito, si recava alla santa messa, la maga lo fermò e

gli disse:

«Nobile Messere, mi ha mandato a te San Giovanni di Viddacuia, per dirti; bada, ti sovrasta una

grande disgrazia! Il giorno che vedrai i campi del Coghinas ricoperti di cavalli e cavalieri verdi,

quel giorno il tuo castello sarà espugnato e tu con la tua corte sarete appiccati per la gola su gli spalti

di Castel Doria!..».

Ciò detto sparì! Non è a dire quale stupore e qual vaga paura invadesse l'animo dei cavalieri a tale

arcana profezia. Andrea Doria, specialmente, fu colto da una grande melanconia, ma si fece animo,

fortificò il castello e attese, sicuro di non lasciarsi vincere. Per ogni caso mandò le chiavi del

sotterraneo, che racchiudeva i tesori, ad una sua sorella abitante in Genova, e, ridente in Dio e in

San Giovanni, aspettò.

La perfida donna, intanto, lavorava lavorava... Venuto il mese di maggio, allorché i campi del

Coghinas erano coperti di asfodelo e di fieno altissimo, ella compì la sua magia. In una notte trasformò

tutti i fusti dell'asfodelo e i flessuosi gambi del fieno fresco in tanti cavalli verdi, montati da

guerrieri armati di scudi e di lancie verdi, vestiti da tuniche e da corazze verdi! Quando all'alba Andrea

Doria scese sui bastioni per aspirare la fresca brezza dell'aurora floreale, impallidì mortalmente.

Egli vedeva!... Vedeva il suo castello assediato da quell'armata verde, immensa, che si perdeva

nell'orizzonte, e sentiva che fra poco questo immane e misterioso nemico, venuto all'improvviso da

terre ignote - senza che i messi e gli araldi spediti in tutte le corti italiane e straniere perché lo avvisassero

se mai qualche esercito si muoveva, avessero dato nessun allarme -, avrebbe invaso e debellato

il suo forte.

E la terribile profezia della maga gli tornava al pensiero: Sarai appiccato per la gola su gli spalti

di Castel Doria!...

Mai! Mai! Mai! Prima sarebbe morto di mano sua! E infatti, vista la verde armata avanzarsi

sempre più numerosa e minacciosa, il prode Doria si precipitò dal bastione e morì sfracellato sulle

rocce sottostanti! Lui morto l'esercito verde sparì, e tornò l'asfodelo e tornò il fieno nei campi del

Coghinas. E nella fresca serenità della azzurra mattina echeggiò un riso diabolico, un triste riso di

anima dannata. Era la dama-maga che dall'alto del suo ballatoio aveva veduto compiersi la vendetta!...

Saputa la morte del fratello, la sorella di Genova, che conservava le chiavi dei tesori e della zecca,

si imbarcò per la Sardegna, onde aprire i sotterranei e trasportare i tesori al Continente, ma in

mare fu colta da una terribile malattia.

Prevedendo la sua morte si fece trasportare in coperta e all'entrare in agonia gettò le chiavi in

mare, con gli occhi morenti fissi nella fatale e affascinante isola lontana ove dormiva l'ultimo sonno

il suo beneamato e infelice fratello.

Anch'essa morì: sepolta nelle tombe di smeraldo del Mediterraneo, nessuno seppe più aprire la

Conca di la muneta, e i tesori dei Doria splendono ancora laggiù, nell'ombra del sotterraneo...

Molti anni dopo la morte di Andrea, un pecoraio, passando una notte vicino a Castel Doria, vide

sulla muraglia del bastione una porta illuminata. Entrò e vide uno splendido negozio, immenso, ripieno

di tutti i generi che si possano immaginare: stoffe, tele, broccati, chincaglierie, mobili meravigliosi,

fiori, marmi, dolci, cristalli, perle ed oro.

D'oro c'erano anche grandi statue e lampade accese, e una bellissima donna, vestita di veli bianchi

e piena di gioielli, stava dietro il banco di alabastro. «Piddani e lassanni»3, disse ella al pecoraio,

con un dolce sorriso, additandogli ogni cosa. Ma quell'imbecille, ricordandosi che aveva molto

3 «Pigliane e lasciane.»

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bisogno di biancheria, non prese che una pezza di tela e se ne andò. Tornò subito da sua madre e dai

suoi fratelli e raccontò la sua avventura. L'intera famiglia si avviò la stessa notte a Castel Doria: videro

da lontano l'intensa luce della muraglia, ma a misura che si avvicinavano la luce sparì. Arrivati

ai piedi del castello videro solo la muraglia nera e triste nella notte scialba e silenziosa!

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Il castello di Galtellì

Una notte dello scorso dicembre restai più di due ore ascoltando attentamente una donna di Orosei

che mi narrava le leggende del castello di Galtellì4.

Il suo accento era così sincero e la sua convinzione così radicata che spesso io la fissavo con un

indefinibile sussulto, chiedendomi se, per caso, queste bizzarre storie a base di soprannaturale, che

corrono pei casolari del popolo, non hanno un fondamento, e qualcosa di vero.

Il castello di Galtellì - la Civitas Galtellina, altre volte così fiorente e popolata, ora decaduta in

miserabile villaggio - è interamente distrutto; restano solo i ruderi neri e desolati, dominanti il triste

villaggio, muti e severi nel paesaggio misterioso.

La leggenda circonda quelle meste rovine con un cerchio magico di credenze strane, fra cui la

principale è che l'ultimo Barone, ovvero lo spirito suo, vegli giorno e notte sugli avanzi del castello,

in guardia dei suoi tesori nascosti.

Di giorno è invisibile, ma nella notte, sia calma o procellosa, chi si azzarda a visitare le rovine

vede il Barone passeggiare lentamente, intorno intorno, vagando per i roveti e i massi, o lungo le

nere muraglie, ricordando i giorni fastosi della sua esistenza. È giovine ancora, tristissimo in viso,

vestito alla medioevale, con la spada al fianco e il collo circondato dal vaporoso collare di lattughe

trapuntate. Qual fato lo ha condannato a vagare così, sempre, per secoli e secoli, sulle rovine del suo

superbo maniero, ritrovo un giorno di letizia e di splendida potenza? Non si sa; forse è una scomunica

del papa, forse una maledizione particolare. Oltre a lui si crede che altri spiriti, ancora in forma

umana, esistenti nel castello, vaghino in sotterranee stanze, ma che non escano mai.

È la famiglia dell'ultimo Barone: la moglie, la figlia, il genero ed un nipotino, nato, quest'ultimo,

nel modo strano che racconterò poi.

Come in Castel Doria si dice che anche qui ci sia un condotto sotterraneo, però questo conduce

assai lontano, sino ai castelli del sud dell'isola, sino a Cagliari anzi, attraversando grandi catene di

montagne, fiumi e pianure!...

Lo spirito del Barone è mite e generoso. Non ha mai fatto del male a nessuno, anzi ha spesso beneficato

dei poveri viventi.

Una volta un misero contadino del villaggio, mentre ritornava dalla campagna con un fascio di

legna sulle spalle, sopravvenutagli la sera in cammino, si fermò un momento ai piedi del castello

rovinato.

La notte era freddissima, ma la luna splendeva vivamente, e il contadino poté distinguere un signore

che passeggiava sulle alture vicine. Curioso e coraggioso il contadino salì un poco più su e

guardò questo bizzarro signore che si permetteva di passeggiare tranquillamente in tal luogo e così

tanto freddo.

Il signore allora si accorse di lui e si fermò. Era biondo e soave di volto, con due grandi occhi vitrei

ed appannati, immersi nel dolore di una eterna tristezza. «Chi sei?», chiese dolcemente al viandante.

Sentita la risposta, guardò fissamente il fascio della legna che il contadino aveva deposto nel

sentiero, e disse: «Mia figlia e mia moglie hanno tanto freddo, tanto! Vuoi tu darmi la tua legna?..».

«E perché no?», esclamò l'altro conquiso dalle belle maniere del misterioso signore. E trasportò

il fascio sulle rovine, e non volle accettare la piccola ricompensa che il signore voleva dargli.

Ma poco tempo dopo tutti nel villaggio videro una cosa sorprendente. Il povero contadino acquistava

terreni, case, pascoli e spendeva come un riccone. In breve egli diventò il più benestante del

paese, e per liberarsi dalla fama di ladro o che, dovette rivelare la verità. Dopo la prima notte egli

4 Castel Roccioso.

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era ritornato molte volte al castello e aveva provveduto di legna, per tutto l'inverno, gli abitanti invisibili

e spirituali di quelle rovine. In cambio il Barone gli aveva donato molte e molte borse piene

d'oro!...

La leggenda poi, o la tradizione, che pare recentissima, del nipotino del Barone è questa.

Una notte una donna del villaggio sentì picchiare alla sua porta, e apertala vide un cavaliere magnificamente

vestito, che le disse: «Presto, venite con me. Si ha bisogno di voi!».

Essa, che era poverissima e che trovava pochissime occasioni di tentare la fortuna, non si fece

pregare. Vestì la sua tunica e seguì il cavaliere, che camminava rapidamente, senza fare il minimo

rumore, davanti a lei. Attraversarono il villaggio e uscirono in campagna. La donna, inquieta, chiese:

«Ma per dove mi conduce, monsignore?».

«Venite e non temete di nulla!», rispose lui. La sua voce era così gentile e soave che la donna si

rassicurò e continuò a seguirlo in silenzio. Il cavaliere la condusse alle rovine del castello e pigliandola

per mano l'introdusse nelle sale sotterranee di cui essa aveva tante volte sentito parlare.

Queste sale erano uno splendore di lusso e di magnificenza. Coperte di arazzi e di cortinaggi di

broccato, ammobigliate come deve essere ammobigliato il Paradiso, venivano illuminate da grandi

candelabri d'oro e di perle preziose. In una di esse v'era un letto ricchissimo, e su stava coricata una

giovine dama pallidissima e bella, in preda a crudeli sofferenze. Un'altra dama, più vecchia, bella e

soave anch'essa, l'assisteva, e un giovine cavaliere andava disperatamente da un capo all'altro della

sala.

Più tardi, la donna presentava, affondato fra nastri e trine, un bellissimo pargoletto, dicendo alla

dama attempata:

«Ecco un grazioso dono, monsignora!...».

Ma la dama, baciato il bambino, sorrise tristemente e rispose: «Ma non è del tuo mondo, buona

donna!...».

Finito tutto, il cavaliere vecchio riprese per mano la donna, la condusse fuori e l'accompagnò fino

a casa sua. Rimasta sola essa si meravigliò del come non era stata ricompensata da quella strana

gente, ma l'indomani mattina, aprendo la porta, trovò sul limitare una gran borsa piena di monete

d'oro.

«Per ciò», conchiuse la donna che mi schizzò le leggende del castello di Galtellì, «per ciò ora i

discendenti di quella donna sono fra i più ricchi del paese!»

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La leggenda di Gonare

I santi, Nostra Signora e Gesù stesso in persona pigliano spesso viva partecipazione in molte

leggende sarde. Non c'è Madonna che non abbia la sua storia, e quasi tutte le chiese, specialmente le

chiesette di campagna, le piccole chiese brune perdute nelle pianure desolate o nei monti solitari, e

che hanno l'impronta delle costruzioni pisane o andaluse, sono circondate da una tradizione semplice

o leggendaria. Qui ne ricordo due. La prima è della chiesetta edificata in cima al monte Gonare,

presso il villaggio di Orane, a 1120 metri sul livello del mare. Gonare è una delle montagne più caratteristiche

della Sardegna, ed il suo picco azzurro, in forma di piramide, si scorge da moltissimi

punti dell'isola.

La chiesetta è edificata proprio in cima: simbolica sfida ai fulmini, ai venti e alle procelle; e la

leggenda è questa: Gonario di Torres, giudice del Logudoro, sorpreso una volta da una terribile

tempesta, mentre navigava sui mari occidentali della Sardegna, promise alla Madonna di edificarle

un santuario su la prima cima di monte che scorgesse, se lo salvava dal pericolo di naufragare. Fatta

appena la promessa, ecco, come per incanto, la procella si calmò, e tra le ultime nuvole diradantesi

per l'orizzonte, il pio Gonario distinse una montagna azzurra, che gli dissero esser vicina al villaggio

di Orane. L'anno stesso il giudice fece costruire a sue spese il tempio modesto, e la montagna

prese il nome di Gonario, che a poco a poco si ridusse in quello di Gonare.

La Madonna gradì tanto l'omaggio del nobile signore che si degnò di scendere nella Sardegna per

visitare il suo nuovo santuario. Mentre saliva a piedi su l'erto sentiero della montagna si appoggiò,

stanca, ad un masso, per riposarsi. E si mostra ancora quel masso, solcato da una piccola incavazione

che, dicesi, sia la traccia lasciata dalle spalle di Nostra Signora. Le donnicciuole si appoggiano

devotamente a quel masso e raccolgono della polvere raschiata dallo stesso. L'appoggiarsi così preserva,

dicono, dai dolori alle spalle, e la polvere guarisce dalle febbri!

Mentre la Madonna discendeva dal monte di Gonare, incontrò Santa Barbara e le disse:

Barbaredda de Orzai,

Ube tind'ana a ponner

No nor bidimus mai!5

Infatti la chiesa di Santa Barbara fu edificata nel villaggio di Olzai, vicino a Gonare, ma in una

bassura che non si scorge tra l'immenso panorama godentesi dalle cime di Gonare.

5 Barbarina di Olzai, / Dove ti metteranno / Non ci vedremo mai.

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San Pietro di Sorres

Questa leggenda la lessi tempo fa in un giornale letterario sardo, La terra dei nuraghes, diafanamente

scritta da Pompeo Calvia, uno dei più gentili poeti sardi.

È sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a Torralba: un'antica chiesa storica, ora quasi rovinata,

ritenuta, dice il Calvia, per il più antico monumento dell'arte medioevale che vanti la provincia.

La dolce e misteriosa leggenda narra che viveva anticamente, forse verso il mille, un giovine mastro

di Sorres, artista, poeta gentile; il quale tornando nel suo paese dopo aver studiato oltremare, presso

un pittore ed architetto famoso, rimarcò nel villaggio una finestra misteriosa «dove con molta grazia

ed abbondanza crescevano le rose, e le campanule s'intrecciavano alle spirali delle colonnine», che

non si apriva mai, e tra i cui fiori non appariva mai nessuna testa. Solo ogni mese un arazzo intessuto

di astri, di figurine e di foglie d'alloro, sventolava leggero sul davanzale, ma invisibile era la mano

che lo spargeva e lo ritirava. Mosso dalla curiosità il giovane artista chiese informazioni su quella

casetta arcana; ma nessuno gliele seppe mai dare. Il mistero più intenso regnava là intorno.

Allora il giovine si recò una notte ad origliare presso quella finestra e sentì solo una soavissima

voce di donna cantare «come un canto di cigno che muore», e sentiva pure il muoversi leggero delle

spole di un telaio.

Arso dalla curiosità l'artista un'altra notte prese la sua mandola e cantò una triste appassionata

canzone sotto la finestra bizzarra. Poi, siccome la neve cadeva e la notte era cruda, picchiò chiedendo

asilo e dicendosi un viandante smarrito. Ma una voce soave gli rispose: «Io non ho pane da darti,

nel mio piccolo giaciglio non sono che spine; mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a

me che sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte. Viandante, va!». E siccome

lui insisteva lo consigliò di ricovrarsi nella chiesa vicina, ma egli replicò che la chiesa cadeva in rovina

e dentro ci nevicava come fuori.

«Fatene una voi, allora!», esclamò la voce.

«Io farolla se voi m'ispirerete il disegno!»

«Te lo darò, va!» E la voce non parlò più.

Il giovine se ne andò, e dopo molti mesi vide nella finestra sparso un magnifico arazzo con una

chiesa pisana ricamatavi. Era meraviglioso: vi si scorgeva tutto l'interno, coi più minuti particolari,

e l'artista capì subito e si scolpì in testa quel disegno. Ma abbisognavano molti denari per costrurre

un simile tempio e il paese era poverissimo. Come fare? Il giovine, innamorato perdutamente della

misteriosa abitatrice di Sorres che gli aveva proposto la costruzione della chiesa, deciso di adempiere

la sua promessa pur di giungere a conoscerla, dipinse una Madonna in campo d'oro, con un mandorlo

fiorito in mano, e regalò la squisita sua dipintura alla vecchia chiesa cadente. Tutti ammirarono

il quadro, e una mattina videro che la Madonna invece del mandorlo teneva in mano, una chiesa.

Era simile a quella dell'arazzo, ed era stato il giovine che, introdottosi furtivamente nella notte in

chiesa, l'aveva dipinta, cancellandovi il mandorlo. Si gridò al miracolo, e si disse subito che la Madonna

voleva una chiesa così! Allora un fraticello prese il dipinto miracoloso e corse per i castelli

ed i contadi e le ville raccogliendo denari e offerte per la costruzione della chiesa. E quando ebbe

riempito d'oro molti forzieri propose al giovine mastro di Sorres di edificare il tempio. Egli accettò:

molti operai vennero chiamati all'opera e in breve - non ostante i mali spiriti che ogni notte distruggevano

il fabbricato -, la chiesa sorse, bella e ricca come nel disegno dell'arazzo!

Nella notte precedente il dì della consacrazione, mentre tutto il villaggio, animato dalle genti dei

villaggi vicini, festeggiava il grande avvenimento, il giovine mastro si recò alla casetta misteriosa e

batté alla porta.

«Chi sei tu?», chiese la dolce voce incantatrice.

16

«Son venuto a prendere un fiore dalle tue mani e porlo alla Madonna, sospirò il giovine, aprimi!...

»

«Bene sta, vengo.» La porta si aperse per incanto ed il giovine si trovò dinanzi alla misteriosa,

che pareva vestita d'argento, con una stola nera sulla veste, sparsi i biondi capelli sulle spalle e pallidissimo

il viso che spiccava nettamente innanzi ai ricami delle pareti, i quali sempre s'andavano

cangiando, in intrecci di rabeschi e figure perfettamente intessute e disegnate. Nel mezzo di dette

stoffe, immutabile campeggiava la chiesa di San Pietro di Sorres. In un canto stava il telajo, e d'oro

tutti parevano i fili. La bella accennò con gli occhi sereni, senza mutamento, tutta composta nella

soavità dell'atto come le figure che si vedono nei mosaici bizantini. Aveva al piedi ramoscelli d'olivo

e nelle mani rami di alloro con le bacche d'oro.

La bella lasciò andare una foglia di lauro, ed egli si chinò per raccoglierla, e come vide che la

donna accennava d'avvicinarglisi, bella così come i sogni dell'ideale, il giovine si avvicinò ed un

bacio pose su quelle labbra divine. Ma non appena ebbela baciata, che tutto si sentì un gelo come di

sfinimento per le membra, e cadutole ai piedi, dolcemente guardandola morì!

17

La scomunica di Ollolai

Radicatissima è ancora nel popolino sardo la credenza che la scomunica del papa o magari di un

semplice sacerdote, apporti davvero maledizione su chi è lanciata e sulle sue generazioni.

A tal proposito ho trovato fra le altre questa leggenda. In un villaggio del circondario di Nuoro

c'era un ricco monastero i cui frati spadroneggiavano non solo sulle loro proprietà e sui loro sottoposti,

ma in tutte le terre e gli abitanti vicini. Perciò erano sommamente malvisti, e già, segretamente,

gli abitanti del villaggio avevano inviato molte suppliche al Santo Padre perché mettesse un freno

alle angherie loro. Ma a Roma si pensava ad altro che al piccolo villaggio sardo: allora un gruppo

di giovini un po' scapestrati e senza pregiudizi decise di far qualche tiro ai monaci, che li screditasse

presso il papa e segnasse la loro rovina. L'occasione li favorì stranamente. Un giorno di festa,

in cui nella chiesa del monastero si facevano solenni funzioni, morì improvvisamente un bambino,

forse figlio d'uno dei congiuranti contro i monaci. Senza che nel villaggio se ne spargesse la notizia

quei giovanotti presero il cadaverino e lo gettarono, di notte, in un pozzo del chiostro.

L'indomani tutto il villaggio commentava la scomparsa del fanciullo, che il giorno prima era stato

veduto aggirarsi, sano e lieto, con gli altri bambini della sua età, per le navate della chiesa dei

monaci. E cerca e cerca e cerca fu finalmente ritrovato il cadavere nel pozzo! Figurarsi l'indignazione

e il furore del popolo! Perché subito si disse che il bimbo era stato trucidato dai frati, chissà

perché. A stento se la scamparono, ma giunta la notizia dell'immane delitto alla corte del Giudice di

Logudoro questi, d'accordo col papa, mandò un bando, che il monastero venisse distrutto e i monaci

cacciati in esilio.

Invano i poveretti cercarono giustificarsi; né a Roma né in Ardara, sede allora dei Giudici, fu

concesso loro né ascolto né pietà. Il convento venne diroccato e i monaci, già sì forti ed opulenti

partirono raminghi. Ma prima di andarsene essi scagliarono le loro più formidabili scomuniche su

gli abitanti del villaggio e sui loro discendenti. Infatti, d'allora in poi, la maledizione gravò su questo

villaggio: le pestilenze, le carestie, le disgrazie più inaudite piombarono in ogni tempo su di esso,

e, ciò non bastando, gli abitanti, rôsi dagli odi e dalle inimicizie più funeste, si dilaniarono tra

loro, massacrandosi e sperdendosi a vicenda.

18

Madama Galdona

Pare ci fosse a Sassari una ricca dama, molto pia e devota, chiamata madama Galdona, la quale,

venuta a morire, testò un suo possedimento ai frati di non ricordo più qual ordine. Spossessati questi

dei loro beni dal Governo, si dice, sparsero la scomunica sul podere. E infatti tutti coloro che l'acquistarono,

uno dopo l'altro, subirono molte disgrazie. E la dama (prima possessora) ovvero il suo

spirito, vaga di tanto in tanto fra gli alberi del podere borbottando maledizioni e scongiuri contro gli

spogliatori dei suoi benamati e prediletti eredi.

Queste le leggende sarde serie e tradizionali. Come ho già detto, in Sardegna le leggende sono

infinite, tutte improntate dalle fantasticherie meridionali dei popoli che in ogni tempo vennero a

mescolarsi col nostro. A raccoglierle tutte se ne formerebbero dei grossi volumi, ed io qui ne ho esposto

solo qualche esemplare, scelto fra le più corte, le più gentili e le meno intrecciate.

19

Prologo6

Oggi io voglio narrare due graziosissime leggende nostrane alle spirituali lettrici di Vita Sarda.

Ora le leggende sono di moda, e nella rinascente fioritura degli studi popolari, verso cui tutti, pensatori,

scrittori, poeti, volgono lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove approdare, dopo tante oscure

tempeste letterarie, la leggenda ha il primo posto, senza parerlo. La leggenda è aristocratica, è artistica,

è volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello spirito fine della

signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della popolana; nell'animo sognatore dell'artista e

nella percezione spregiudicata e indagatrice dello scienziato. La leggenda richiama l'attenzione del

poeta e dello storico, che la sfronda per trovare nel suo fusto le tracce delle generazioni sepolte,

l'indole delle generazioni viventi e il germe di quella delle generazioni future.

Può destare lo stesso fremito nei circoli gai dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori

riuniti intorno al triste focolare - nei fanciulli e nei grandi -, e può, infine, fornire i materiali per un

volume serio, dotto, scientifico, e per un volume di amena lettura, spumoso, elegantemente inutile.

Ho studiato altrove, benché rapidamente, il carattere della leggenda sarda, che, all'infuori dei cicli

di leggende sarcastiche, vòlte a porre in satira un dato personaggio o un dato villaggio, ha il profilo

serio e melanconico delle tradizioni meridionali.

Dirò qui alla sfuggita che la Sardegna, terra per sé stessa leggendaria e misteriosa, è piena di leggende.

Ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia

(tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la

sua leggenda. Talune leggende si incrociano e si confondono con le fiabe, - ed una di queste è la

prima delle due che oggi ho il piacere di narrarvi, - al verosimile mescolando il fantastico, con lontane

reminiscenze delle leggende nordiche, delle saghe, delle fiabe fiamminghe o alemanne, - ma la

miglior parte ha una esplicazione tutta locale, che ne delinea nitidamente il carattere.

Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli, con le fate, con le streghe e le janas; sono i

giganti, da cui il popolo sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i Genovesi,

gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, - dopo la dominazione romana, di cui soltanto i

Sardi, pur restando tanto profondamente latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, - fecero

del bene e del male all'isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i vicerè aragonesi,

i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le avventure dei pirati saraceni,

negli ultimi secoli prima del mille, sono artisti ignoti, forse del trecento e del quattrocento, non ricordati

neppure dalle scarse cronache sarde, e dame misteriose e santi e guerrieri, e talvolta lo stesso

Gesù o la stessa Maria.

Molte poi delle leggende sarde hanno un vero valore storico, specialmente quelle di talune chiese

e di qualche montagna. Senza ombra di fantasticheria, senza fronde, senza personaggi sovrannaturali,

formerebbero, se ben raccolte e ben studiate, degli elementi, dirò anzi dei documenti vivi, utili

per la storia sarda.

6 Questo prologo e le leggende "I tre fratelli" e "Monte Bardia" sono state pubblicate in Vita Sarda, III, 10 dicembre

1893.

20

I tre fratelli7

Nella catena di monti che circondano Nurri, e precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o

Corongius, c'è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e i pastori si rifugiano

per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte. Una volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio,

stanchi di aver raccolto olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta.

Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e cenando con del pane

e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si fermarono dubbiose sull'ingresso, guardandoli

con diffidenza. Ma subito essi, da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi

ed a prender parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili

ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano.

«Siamo tre fratelli orfani», risposero essi con buona grazia, «e lavoriamo per vivere. Siamo tanto

poveri che se sapessimo come migliorare la nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.»

Le tre donne che erano tre streghe (orgianas) o meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo,

prima; poi parvero combinare qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto

un miagolio.

Quindi la più vecchia si levò di tasca una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli:

«Buon giovine, prendi questo dono che ti faccio da vera amica. Tutte le volte che vorrai mangiare,

tu, i tuoi fratelli e tutta la compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, stendendola

poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio».

La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e gli offrì un portafogli dicendogli:

«E tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci troverai denaro a tua volontà».

La più giovine intanto porgeva un piffero (sas leoneddas) al terzo, con queste parole: «Questo

strumento da fiato che io ti do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo udranno.

Va', caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo umile dono ti renderà un

servigio maggiore di quello che renderanno ai tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli».

Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si congedarono amabilmente, ringraziandosi scambievolmente

e dicendosi il rituale teneis'accontu (tenetevi bene) dei sardi meridionali.

I tre giovani, possessori di quei talismani meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero

a viaggiare per le città dell'isola in cerca di avventure e di piaceri.

Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di generosità - giovani di buon cuore come erano

-, ma un giorno un prete potente e strapotente intimò loro di lasciar l'uso dei loro talismani, pena la

scomunica e il carcere.

Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro, ma probabilmente questo brano è un vago

ricordo dell'Inquisizione impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche

prima d'allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna.

I tre fratelli risero per l'intimazione del prete. I talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro

possessori; quindi essi non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più giovane

dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l'incanto di far ballare con la sua musica tutti coloro

che la sentivano, tranne i tre fratelli. Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con

uno slancio proprio ridicolo e irrefrenabile.

Accorse molta gente; ma a misura che si accostavano e che sentivano distintamente il magico

suono, tutti ballavano senza potersi mai fermare. In breve la strada fu piena zeppa di gente che pa-

7 Questa leggenda è stata raccolta a Nurri, grosso villaggio del circondario di Lanusei, dalla gentile signora Maria Manca,

studiosa dei costumi e delle tradizioni sarde.

21

reva impazzita, che saltava smaniando, contorcendosi, chiedendo grazia al misterioso suonatore.

Costui però si divertiva molto nel veder ballare il prete, che grasso e tondo soffriva più degli altri in

quella danza infernale, e non smise finché non lo vide cadere a terra sfinito e svenuto.

I tre fratelli, dopo tutto ciò, si diedero alla fuga, ma ben presto furono raggiunti, legati e gettati in

fondo ad una torre.

Ma anche laggiù essi si divertivano suonando, ballando e mangiando insieme con gli altri prigionieri

ed ai custodi della torre.

Perciò il loro processo fu presto sbrigato, e, condannati a morte, furono dopo pochi giorni condotti

alla forca. Una fiumana immensa di gente, anche dei paesi lontani, si accalcava intorno intorno

per godersi lo spettacolo dell'impiccagione dei tre fattucchieri.

Sul punto di morire i tre condannati chiesero ai magistrati presenti di accordar loro una grazia

per uno. E siccome ai condannati non viene negata un'ultima grazia, tranne quella della vita, i tre

fratelli ebbero ciò che chiedevano.

Il primo chiese di offrire un pranzo a tutta la moltitudine, compresi i giudici.

La proposta fu accolta con entusiasmo dalla folla, e subito il giovine stese la sua tovaglia sul palco.

Ogni sorta di pietanze, di frutta, di dolci e di vini squisiti compariva sulla strana mensa.

La gente mangiava e beveva a crepapelle, ma più se ne consumava più grazia di Dio abbondava

sulla tavola.

In breve tutti, sgherri, carnefici, popolo e magistrati furono ebbri e sazi a più non posso. Allora il

secondo fratello chiese la grazia di distribuire del denaro. Figuriamoci se fu concessa! Aperto il portafogli

incantato, il condannato distribuì enormi somme, in monete e lettere di cambio (i biglietti di

banca non esistevano ancora) a quei poveri diavoli di soldati, di contadini e di pastori che mai avevano

veduto una simile meraviglia.

Mentre tutti si abbandonavano ad una pazza allegria - come avremmo fatto anche noi, scrivente,

lettrici e lettori, non ostante la nostra serietà e il nostro nobile disprezzo per il denaro -, il terzo fratello

chiese, così tanto per formalità, la grazia di suonare. Sperando un altro benefizio, i giudici e la

folla accordarono a grandi voci quest'ultima grazia. Il giovine ritto sul palco fatale, si mise a suonare

e immantinente tutta la folla briaca, i giudici, le soldataglie e i carnefici si diedero ad eseguire

una danza furiosa, macabra, spingendosi gli uni sugli altri, pestandosi, urtandosi, cadendo a terra chi

svenuto, chi ferito e chi persino morto. E nella terribile confusione i tre condannati poterono svignarsela

e porsi in salvo coi loro talismani.

22

Monte Bardia

Questa leggenda risale all'ottavo o nono secolo. Dopo l'insurrezione dei sardi contro la dominazione

bizantina, fuggiti i fiacchi Greci da Cagliari, l'isola si resse da sé per qualche tempo, governata

dal famoso re Gialeto, ch'era già stato capo dei rivoluzionari. Ma venne tosto infestata dai Saraceni,

che la sbranarono con ogni sorta di scorrerie, di espilazioni, di saccheggi e di rovine. Le coste

dell'isola erano costantemente piene di pirati e di guerrieri saraceni, e i villaggi marittimi erano

quelli che più certamente ne soffrivano. Gli abitanti di Dorgali, grosso villaggio nel circondario di

Nuoro, vicino alla costa orientale, ma difeso da un'alta montagna calcarea, tenevano sempre un

gruppo di uomini forti e valorosi sulla cresta del monte, in guardia contro tutti i movimenti dei saraceni

accampati sulla sottostante costa. Era una specie di assedio.

I saraceni spiavano il momento di poter passare sui monti senza pericolo, ma i Dorgalesi stavano

fermi alla guardia. Così scorreva il tempo inutilmente, allorché i saraceni fecero una falsa ritirata.

Ingannati da ciò e spinti dalla loro profonda fede religiosa, un giorno di festa solennissima i Dorgalesi

della guardia abbandonarono i loro spalti naturali e scesero al villaggio per assistere alle sacre

funzioni. Tosto i saraceni sbarcarono e salirono sul monte, ma mentre stavano per piombare sul villaggio

si fermarono paurosi a guardare. Vedevano una immensa fila di persone vestite a vivaci colori,

con in mano strani bastoncini bianchi e croci e randelli e bandiere, sfilare per le vie di Dorgali,

incamminandosi come alla montagna. Era una processione. Ma ai saraceni, per volere della Madonna,

la processione, così veduta dall'alto e da lontano, parve un esercito di soldati armati che si preparasse

ad inseguirli e disperderli. Perciò si diedero a precipitosa fuga e qualcuno restò appiccato

per i capelli agli alberi della montagna. Uno di questi alberi mi pare anzi che si chiami ancora ed

appunto del saraceno.

Questa è la leggenda gentile dei monti di Dorgali, immortalata da una delle punte principali, che

in memoria di tal fatto si chiama della guardia (de sa Bardia).

23

La nascita delle leoneddas (vecchia leggenda musicale)8

Poco distante dalla riva del mare un antico pastore pascolava le sue gregge.

Era in un tempo lontanissimo, in una primavera quasi preistorica; ma il paesaggio era quale ancora

si ammira adesso, una fresca pianura verde, chiusa da montagne quasi nere sul cielo d'un azzurro

chiaro, e lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne capanne dei pastori

sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi lunghi capelli e la lunga barba gialla,

gli occhi neri circondati di rughe, e vestito di rozzi pannilani e di pelli.

Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so l'etimologia di tal nome, ma ritengo che da questo

provenga il moderno Sadurru, che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e

la figlia Greca.

Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra capanna e viveva qualche altro pastore.

Donde venivano quei primi sardi, con le loro donne piccole e brune, e con le gregge ancora selvatiche?

Forse i padri loro erano venuti anch'essi dalle coste d'oriente, con barche di predoni; e dico anch'essi

perché, di tanto in tanto, sul mare argenteo disegnavasi l'ala rossastra di qualche vela fenicia,

sbarcava un gruppo d'uomini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi sandali ai piedi e in testa un

berretto a cono. E si spandevano sulla pianura come un turbine e incendiavano le capanne, predavano

ciò che potevano, sgozzavano le pecore e banchettavano sotto gli alberi.

Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi visitatori, che l'avevano più volte rovinato.

Spesso s'era salvato con le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele

rosse sparivano lentamente all'orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma ora vedeva avvicinarsi

con dolore l'estrema vecchiaia e sentiva tristemente svanir le sue forze.

Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue gregge?

Egli sedeva melanconicamente sul limitare dell'ovile, e guardava inquieto la linea chiara del mare.

Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno, nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei

primi pastori sardi. Solo, dall'interno dell'isola, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante

primitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri gioielli di bronzo: in

cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di pecora, e ripartiva.

Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano le focacce, cucivano le vesti.

Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni,

non si sentiva tranquillo. I suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gengive,

le sue mani cominciavano a tremare.

Ciò era ben triste. Il suo unico conforto, spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e

primitivi. Ne veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un lamento

nel gran silenzio della pianura.

Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si

raddolcivano, su tutta la sua selvaggia fisionomia si spandeva un'espressione di tenerezza e di bontà.

Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli

sembrava dolce, sognava di maritar Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre

sotto una forte protezione, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile.

8 Questa leggenda e la seguente "San Michele Arcangelo" sono state tratte da Onoranze a Grazia Deledda, a cura di M.

Ciusa Romagna, Nuoro-Cagliari, 1959.

24

Egli aveva parecchi flauti, più o meno sottili, e ogni volta che suonava li provava tutti, ad uno ad

uno.

Ciascuno aveva un suono particolare, e Sadur sapeva trarne diverse melodie.

Ora, nell'ultimo anno della sua vita, gli accadde questo fatto.

Era di maggio: un giorno egli se ne stava vicino al mare, quando con terrore scorse le vele fenicie

a poca distanza dalla costa.

Tutto tremante corse dalle sue donne e disse loro:

«Ahimè, succede ciò che io da vari anni temevo. Non c'è che un mezzo per salvarci. Fuggite voi

due con buona parte della greggia; avviatevi al nascondiglio che sapete. Io rimarrò qui con quindici

o venti pecore: crederanno ch'io viva qui solo e si indugeranno a banchettare. Intanto voi potrete

salvarvi, e, dopo la loro partenza, ci riuniremo».

Le donne partirono, piangendo, spingendo verso i monti il grosso della greggia; e il vecchio rimase.

Finse d'esser quasi cieco e si mise a suonare.

I fenici lo trovarono così, in apparenza tranquillo, e credettero ch'egli vivesse solo con le poche

pecore smarrite nel prato vicino. Com'egli aveva preveduto, essi s'indugiarono laggiù: frugarono la

capanna, la distrussero per accender il fuoco coi rami dei quali era formata, sgozzarono le pecore e

banchettarono. Alcuni di loro volevano legare e bastonare Sadur, ma il capo della spedizione, ch'era

un giovine pallido dai lunghi capelli nerissimi, unti d'olio profumato, vi si oppose. Solo, finito il

banchetto, comandò al vecchio di suonare. Sadur prese i suoi flauti e suonò. Il giovine capo si mise

ad ascoltarlo attentamente, pensieroso e quasi triste.

Ad un tratto parve preso da un capriccio strano, e comandò a Sadur di suonare tutti assieme i

suoi flauti.

«Come farò?», disse il vecchio.

«Accomodati, altrimenti ti farò bastonare.»

Allora il vecchio cercò certe erbe filamentose e unì in fila i suoi flauti, formando la prima delle

leoneddas sarde. Prova e riprova, gli riuscì di suonare abilmente una melodia melanconica, armoniosa,

discretamente sonora.

Presi dalla sonnolenza dei meriggi primaverili, dopo il pasto abbondante, i fenici ascoltavano

sdraiati sull'erba, e una grande dolcezza li invadeva a quel suono.

Il giovine capo, specialmente, pareva incantato. A poco a poco si addormentò, e gli parve di non

aver mai gustato un sonno così delizioso, in luogo più ameno di quello.

Svegliandosi, disse al vecchio di chiedergli tutto ciò che desiderava; glielo avrebbe accordato, se

era in suo potere. Sadur tremò, poi disse:

«Ebbene, senti. Io ho moglie e una figlia vergine: se le incontri, non toccarle».

«Tu puoi farle tornar qui», disse il capo, «non sarete più molestati.»

Intanto fece ricostruir la capanna e attese che il vecchio, andato in cerca delle sue donne, fosse di

ritorno.

Desiderava sentire ancora il suono dei flauti riuniti e di addormentarsi ancora una volta sull'erba.

Sadur e le donne e le gregge tornarono, e il vecchio suonò ancora, e il giovine si addormentò.

Allo svegliarsi vide Greca, e il luogo gli parve ancora più ameno.

«Vuoi tu darmi la fanciulla?», chiese al vecchio. «La sposerò e resterò qui coi miei compagni.»

Così si formò in Sardegna una delle prime colonie fenicie, ed il vecchio Sadur continuò a suonare,

tutti assieme, i suoi flauti di canna.

25

San Michele Arcangelo

La mercantessa d'uova, zia Biròra Portale, viaggiava recando un cesto d'uova da Orotelli a Nuoro.

Era una notte d'agosto, pura e luminosa come una perla. Sulla grande distesa della pianura di

stoppia, la luna gettava una luce viva ed eguale; il cielo era azzurro quasi come di giorno, e solo ad

oriente l'orizzonte appariva vaporoso, velando le montagne che sembravano nuvole sorgenti dal mare.

Zia Biròra viaggiava di notte perché viaggiava a piedi, e viaggiava a piedi perché i guadagni del

suo commercio erano tanto esigui da non permetterle di viaggiare a cavallo.

Figuratevi che tutti i capitali del suo commercio, assai fragili invero, stavano dentro quel cestino

intessuto di canne che ella recava sul capo: duecento uova. Ogni tre giorni zia Biròra, comprava

duecento uova, le disponeva nel cestino, fra la paglia, e si metteva in viaggio per Nuoro. Col guadagno

viveva tre giorni.

Da anni ed anni ella faceva quel mestiere. A Nuoro, dove con la scusa di vendere le uova chiedeva

qualche volta anche l'elemosina, tutti la conoscevano, e divenne anche più popolare per il caso

strano accadutole una notte d'agosto.

Ella dunque viaggiava, attraversando la pianura, illuminata dalla luna, pei sentieri tracciati fra le

stoppie, nelle tancas così melanconicamente poetiche, perfettamente disabitate e deserte.

A che pensava? È un po' difficile dirlo, perché i suoi pensieri non avevano nesso: erano piuttosto

frammenti di pensieri, brani di idee semplici che si sperdevano in uno sfondo incolore.

Sì, zia Biròra, che non era mai stata una donna allegra, quella notte provava una grande melanconia;

si sentiva stanca; aveva sonno e non poteva riposare. Era stanca, stanca di quel suo viaggio

che durava da trent'anni e non finiva mai.

Inoltre aveva come il presentimento d'una vicina disgrazia; ma giammai avrebbe creduto dovesse

succederle così presto, così, fra dieci minuti, fra cento, fra dieci passi. Ecco, nel salire un piccolo

rialzo che dai campi metteva sullo stradale, la vecchia mercantessa scivolò e cadde. Blum! fece il

cestino, e le uova scricchiolarono e una cascata di paglia bagnata e di gusci bianchi inondò il piccolo

rialzo.

La vecchia si rialzò, guardò pallida, stordita come se avesse ricevuto una mazzata sul capo. Tutto,

tutto era perduto. Ella era rovinata per sempre. Si sedette sul rialzo e cominciò a piangere accoratamente,

come una bimba di dieci anni.

Da qualche minuto stava così immersa nel suo dolore piangendo e lamentandosi ad alta voce,

quando udì una voce sonora risuonare alle sue spalle.

«Donna!», diceva la voce, «Che cosa vi è capitato? Perché spaventate coi vostri pianti i tranquilli

viandanti notturni?»

La vecchia guardò e vide, fitto sull'orlo dello stradale, circonfuso dalla luminosità lunare, un bellissimo

giovine signorilmente vestito. Sulla spalla egli teneva un ricco fucile, la cui canna arabescata

brillava alla luna.

Zia Biròra lo credette un cacciatore e gli raccontò il miserevole caso.

«Da trent'anni», disse, «da trent'anni io viaggio, di giorno e di notte, per guadagnarmi un tozzo di

pane. Ah, come sono misera! Non mi era giammai capitato di cadere: ma ora invecchio, le gambe si

piegano, il sonno mi sorprende. Come farò ora?»

«Non avete parenti?»

26

«Nessuno, nessuno. Vivo sola come le fiere. Come farò ora? Quando chiedo l'elemosina mi dicono:

Perché non avete lavorato? Ah, non sanno dunque che io ho lavorato più di qualsiasi altra

creatura cristiana? Ecco, vedi i miei piedi? Vuoi vedere i miei piedi, giovine cacciatore?»

E preso un piede con entrambe le mani ne rivolse la palma verso lo sconosciuto. Costui si chinò

a guardare, e vide quella povera palma di piede ridotta ad una specie di cuoio grossissimo, nero,

screpolato, qua e là macchiato di sangue.

«È orribile», mormorò, come fra sé, «una povera vecchia camminare così.»

Zia Biròra era troppo furba per non profittare della pietà del viandante, sperando ch'egli le desse

una buona elemosina, e riprese a narrargli le sue disgrazie, esagerandole magari un tantino. Egli ascoltava,

pensoso, pizzicandosi il mento adorno d'una graziosa fossetta. Ad un tratto s'udì un passo

di cavalli, in lontananza, nel silenzio dello stradale. Lo sconosciuto ascoltò intensamente, mentre

traeva il portafogli dalla tasca interna della giacca. In un attimo prese un biglietto di banca, lo diede

alla vecchia, rimise il portafogli, e sparì. Parve che il terreno l'avesse inghiottito, e zia Biròra provò

uno strano sentimento di terrore, ma di terrore arcano, misto a gioia profonda. Senza avvedersene si

trovò inginocchiata, col biglietto fra le mani giunte.

«Egli era un angelo», pensava, «era San Michele Arcangelo. Dio sia lodato: Egli non abbandona

i poveretti. Questo è certamente un biglietto da venticinque lire: io sono salva, la mia vecchiaia è

assicurata. San Michele Arcangelo sia benedetto. Era lui! Era lui!»

Si trascinò sulle ginocchia, baciò il suolo dove lo sconosciuto aveva posto i piedi, e pregò.

In questa posizione la sorpresero due paesani che passavano a cavallo e che la credettero svenuta.

La chiamarono, ed uno di essi smontò da cavallo. Ella si rialzò e raccontò la storia, dicendo d'aver

veduto San Michele Arcangelo che le aveva fatto l'elemosina. La credettero pazza, le chiesero di

far vedere il biglietto, e le dissero, meravigliati che era un biglietto da cento lire.

Poi passarono oltre.

Cento lire! La vecchia credette d'impazzire davvero: cominciò a ridere e piangere nello stesso

tempo, picchiandosi il petto, gettandosi per terra e baciando nuovamente il posto ove lo sconosciuto

s'era fermato.

Qualche tempo dopo, zia Biròra, che continuava a negoziare le uova, viaggiando però a cavallo,

si trovò per caso, a Nuoro, davanti alla Corte d'Assise. Si discuteva un famoso processo contro un

bandito accusato di omicidi, grassazioni, vendette, rapine. La vecchia mercantessa entrò anch'essa e

si mescolò alla folla dei curiosi. Ad un tratto fra questa folla s'elevarono grida, esclamazioni, mormorii.

Che è, che non è? Era la vecchia che nel bandito crudele aveva riconosciuto il suo San Michele

Arcangelo.

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Nostra Signora del Buon Consiglio9

Oggi, miei piccoli amici, voglio raccontarvi una storia che vi commuoverà moltissimo, e che, se

non vi commuoverà, non sarà certamente per colpa mia o delle cose che vi narro, ma perché avete il

cuore di pietra.

C'era dunque una volta, in un villaggio della Sardegna per il quale voi non siete passati e forse

non passerete mai, un uomo cattivo, che non credeva in Dio e non dava mai elemosina ai poveri.

Quest'uomo si chiamava don Juanne Perrez, perché d'origine spagnola, ed era brutto come il demonio.

Abitava una casa immensa, ma nera e misteriosa, composta di cento e una stanza, e aveva con sé,

per servirlo, una nipotina di quindici anni, chiamata Mariedda.

Mariedda era buona, bella e devota quanto suo zio era cattivo, brutto e scomunicato. Mariedda

possedeva i più bei capelli neri di tutta la Sardegna, e i suoi occhi sembravano uno la stella del mattino,

l'altro la stella della sera.

Don Juanne voleva male a Mariedda, come del resto voleva male a tutti i cristiani della terra; e,

potendo, le avrebbe cavato gli occhioni belli; ma per un ultimo scrupolo di coscienza non voleva

farle danno; solo, quando essa ebbe compito i quindici anni, pensò di sbarazzarsene maritandola a

un brutto uomo del villaggio.

Ella però non volte acconsentire a questo infelice matrimonio, e il brutto uomo del villaggio, per

vendicarsi dell'umiliante rifiuto, una notte sradicò tutte le piante del giardino di don Juanne e pose

sulla soglia della casa, ove Mariedda e lo zio abitavano, un paio di corna e due grandissime zucche;

e ogni notte passava sotto le finestre cantando canzoni cattive.

Impossibile descrivere l'ira di don Juanne, e l'avversione che d'allora cominciò a nutrire contro la

povera Mariedda. Basta dire che un giorno la prese con sé nella stanza più remota della casa, e le

disse:

«Tu non hai voluto per marito Predu Concaepreda (Pietro Testadipietra). Beh! Ma siccome tu

devi assolutamente maritarti, preparati a sposare me».

La poveretta rimase, come suol dirsi, di stucco, poi esclamò:

«Ma come va quest'affare? Voi non siete mio zio? E da quando in qua gli zii possono sposar le

nipoti?».

«Tu sta zitta, fraschetta! Io ho dal papa il permesso di sposarmi con chi voglio, anche senza prete.

E ho deciso di ammogliarmi con chi mi pare e piace. Tu pensa bene ai fatti tuoi. O quell'uomo

del villaggio, o me. Ti lascio una notte per deciderti.»

E se n'andò chiudendola dentro.

Appena sola, Mariedda si mise a piangere e a pregare fervorosamente Nostra Signora del Buon

Consiglio, perché l'aiutasse e la ispirasse.

Ed ecco, appena fatto notte, le apparve una donna bellissima, tutta circondata di luce, vestita di

raso e di velo bianco, con un mantello azzurro e un diadema d'oro simile a quello della regina di

Spagna.

Donde era entrata?

Mariedda non poteva spiegarselo, e stava a guardar a bocca aperta la bella Signora, quando questa

le disse con voce che sembrava musica di violino:

9 Leggenda pubblicata presso R. Sandon, Palermo, 1899.

28

«Io sono Nostra Signora del Buon Consiglio, ed ho sentito la tua preghiera. Senti, Mariedda:

Chiedi a tuo zio otto giorni di tempo, e se in capo a questi egli non avrà deposto il suo pensiero,

chiamami di nuovo. Conservati sempre buona, e mai ti mancherà il mio aiuto e il mio consiglio».

Ciò detto sparve, lasciando nella stanza come una luce di luna e un odore di gelsomino.

Mariedda, che provava una viva gioia, pregò tutta la notte; e il domani chiese a suo zio otto giorni

di tempo. Sebbene a malincuore, don Juanne glieli concesse; intanto, perché non fuggisse, la teneva

sempre rinchiusa in quella stanza remota, nella quale perdurava la luce di luna e l'odore di gelsomino.

Passati però gli otto giorni, le chiese se si era decisa, ché lui voleva assolutamente sposarla

il giorno dopo.

Rimasta sola, Mariedda si rimise a piangere e pregare, ma tosto ricomparve quella Celeste Signora,

che ora aveva un vestito di broccato d'oro e un diadema di perle come quello della Regina di

Francia.

«Dormi, Mariedda, e non temere», le disse con voce che pareva musica di rosignuolo. «Prendi

questo rosario, che ha virtù di guarire i malati, e nella fortuna non dimenticarti di me, se non vuoi

che t'incolga sventura.»

E sparì, lasciando nella stanza una luce d'aurora primaverile e una fragranza di garofani.

Mariedda non aveva potuto dire una sola parola. Speranzosa ed estasiata baciò il rosario di madreperla

lasciatole dalla divina Signora, se lo pose al collo e si addormentò tranquillamente senza

chiedersi che cosa l'indomani sarebbe avvenuto.

Ma l'indomani ella si svegliò sotto un roveto, vicino ad una palude; e tosto pensò che colà doveva

averla trasportata, durante il sonno, la sua Santa Protettrice.

Levatasi, recitò la solita preghiera, poi si avviò verso una città che si scorgeva in lontananza, tra i

vapori rosei del bellissimo mattino.

Cammina, cammina, vide un piccolo pescatore che, a piedi scalzi e con la lenza sulla spalla, si

recava a pescare in certi piccoli stagni azzurreggianti là intorno. Gli chiese:

«Bel pescatore, in grazia, come si chiama quella città?».

Il pescatore non rispose, ma si mise a cantare:

Io pesco anguilla, e do la caccia all'oca;

Quella città laggiù si chiama Othoca10.

«Be'», pensò Mariedda, «siamo ad Oristano.»

Cammina, cammina, entrò in città, e subito si diede a cercar una casa in cui potesse entrar come

serva; ma inutilmente. Dopo tre giorni e tre notti di viavai da una porta all'altra, morente di fame e

di stanchezza, non aveva ancora trovato padrona. Ma non disperava; e pregava, pregava sempre la

bella Signora del Buon Consiglio, perché l'aiutasse.

Ora, al quarto giorno, passando davanti al palazzo reale, vide molta gente che parlava sommessa,

pallida in volto e piena di dolore.

«Bel soldato», chiese ad un giovine armigero, triste anch'egli come il resto della folla, «che cosa

avviene?»

«Sta per morire il figlio del Giudice di Arboréa, e nessun medico può più salvarlo.»

Il Giudice era il re di Arboréa; quindi il figlio era il principe reale, il più bel cavaliere di tutta la

Sardegna.

Mariedda fu scossa dalla dolorosa notizia e stava per dire un'Ave per il principe moribondo,

quando, toccando i grani del suo rosario si ricordò con gioia che questo possedeva la virtù di guarire

i malati.

Senza dir nulla, attraversò la folla e riuscì a penetrare nel reale palazzo; ma un capitano delle

guardie la fermò, e le chiese con arroganza cosa voleva.

«Vengo a guarire don Mariano, il principe malato», ella rispose umilmente. «Ho una medicina

meravigliosa che fa guarire anche i moribondi.»

10 Antico nome di Oristano.

29

Allora il capitano arrogante la introdusse presso il Giudice, un vecchio re dalla barba lunga fino

alle ginocchia, al quale Mariedda dové ripetere le sue parole. Il Giudice restò commosso dalla bellezza

della piccola sconosciuta, e più per la sua promessa, ma le disse:

«Bada, fanciulla dagli occhi di stella, se tu c'inganni, noi ti troncheremo la testa».

«E se salvo il principe?»

«Ti daremo ciò che vorrai.»

Ciò detto introdusse egli stesso Mariedda presso il principe morente. Era tempo. Ancora pochi istanti

e tutto era perduto.

Ma la nipote di don Juanne Perrez mise il rosario intorno al collo del principe e, inginocchiatasi

sulla pelle di cervo stesa davanti al letto, pregò fervidamente.

Allora tutti gli astanti, bianchi in volto e pieni di meraviglia, videro un miracolo straordinario.

Don Mariano riapriva gli occhi, i begli occhi castani dalle lunghe ciglia. A poco a poco le sue

guance diventarono rosee come il fior degli oleandri dei giardini reali; la sua fronte rifulse di vita;

sorrise; si alzò dicendo:

«Padre mio, io rinasco. Chi mi ha salvato?».

Il Giudice piangeva di gioia, piangeva tanto che la sua barba gocciolava di lagrime come un albero

bagnato dalla pioggia.

«Ecco!», rispose, sollevando Mariedda.

«Tu devi essere una fata», disse il principe, abbracciandola. «I tuoi occhi hanno una luce di luna.

Tu sarai la mia sposa.»

Infatti, poco tempo dopo, cioè appena giunsero dalla Francia e dalle Fiandre i vestiti di broccato

che stavano ritti da sé, tanto oro e argento avevano, e i veli e i manti per Mariedda, essa diventò

Giudicessa d'Arboréa.

Ed era tanto felice che cominciò a dimenticare la raccomandazione di Nostra Signora del Buon

Consiglio, cioè di pregarla e ricordarla sempre, anche nella buona fortuna.

Dopo un anno Mariedda aveva interamente dimenticato la sua Celeste Protettrice: il rosario miracoloso

stava appeso nella reale cappella, fra altre reliquie e la Giudicessa scendeva raramente nella

cappella, passando invece il tempo tra feste, cacce, tornei, e fra i canti e i liuti, e le mandole dei

trovadori, che non mancavano nella corte degli Arboréa.

Ora avvenne che gli Spagnoli invasero il regno di Arboréa, e don Mariano, lo sposo di Mariedda,

dovette partire col suo esercito per difendere le sue terre e cacciare gl'invasori. Partì e lasciò Mariedda

presso a diventare madre di un bel principino.

«Addio, bella amica», le disse baciandola in fronte, prima di montare sul suo gran cavallo bianco

dalla gualdrappa rossa, «sta di buon animo, e fa che al mio ritorno trovi un nuovo principino bello e

forte come...»

«Come te, bell'amico! », rispose donna Mariedda con orgoglio.

Durante la guerra, don Mariano stette lungo tempo lontano dalla sua capitale, dal vecchio padre,

dalla sposa, e questa, qualche mese dopo la sua partenza, divenne madre di un bellissimo bambino.

Questo bambino era tutto color di rosa, e aveva i piedini e le manine che sembravano fiori.

Bisogna sappiate, però, che vi era chi aspettava ansiosamente il giorno della nascita del bellissimo

bambino, per demolire tutta la felicità della Giudicessa donna Mariedda.

Era don Juanne Perrez. Sentite.

Dopo la separazione dalla nipote, egli aveva cominciato a odiarla ferocemente, giurando di vendicarsi.

Ma per quante ricerche facesse nel Logudoro e nelle terre vicine, nessuno aveva mai veduto

né sentito parlare della fanciulla dagli occhi di stella; e don Juanne già cominciava, con malvagia

gioia, a creder che se l'avesse portata via il demonio; quando, recatosi ad Oristano per le feste in occasione

delle nozze del principe, vide con meraviglia e dispetto, che la sposa era Mariedda!

Allora egli cosa fece? Tornò nel suo villaggio, vendé tutto quanto possedeva, e vendé persino la

sua anima al diavolo, perché lo aiutasse nella vendetta; e si vestì da medico, con una lunga barba

bianca, e una zimarra nera. Si vestì così perché in un vecchio libro aveva letto che talmente vestiva

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Claudio Galeno, un antico dottore. Così travestito, don Juanne Perrez se n'andò nuovamente ad Oristano,

spacciandosi per un medico arrivato da Alemagna, e che aveva studiato a Ratisbona.

E tanto disse e tanto fece, che lo accettarono per medico di Corte. Mariedda non lo riconobbe

punto. Perciò, quando nacque il bellissimo bambino più sopra accennato, fu chiamato il falso medico;

e il falso medico, che aspettava questa occasione per vendicarsi, nascose il bellissimo bambino,

e lo sostituì destramente con un cagnolino nero, brutto e rognoso, che teneva pronto. E fece quest'azione

vigliacca con tanta destrezza, che neppure Mariedda se ne accorse.

Don Juanne non uccise il bellissimo bambino, ma lo lasciò morir di fame; perciò ancor oggi, in

molti punti della Sardegna, la fame vien chiamata Monsiù Juanne, in memoria di questo fatto.

Intanto nella Corte Reale si era immersi nel massimo dolore e spavento, perché mai si era vista

una cosa simile; e Mariedda aveva la febbre dal dispiacere e dall'umiliazione. Pazienza fosse stata

una popolana a diventar madre di un cagnolino nero, brutto e rognoso, Santo Iddio! la cosa sarebbe

stata passabile, perché in quei tempi esistevano le streghe che si maritavano col diavolo, e da questi

orribili matrimoni potevano nascere anche cagnolini e scorpioni: ma una Giudicessina, che aveva

vestiti di broccato, i quali stavano ritti da sé tant'oro e argento portavano!...

Basta; la cosa fu scritta a don Mariano che, per la prima volta in vita sua, pianse di dolore. E forse

egli avrebbe perdonato Mariedda; ma sparsasi nel campo spagnolo la notizia destò tale ilarità e

tante beffe a danno del principe nemico, che egli salì su tutte le furie, e scrisse al suo Maggiordomo

che tosto pigliasse la Giudicessina col suo mostriciattolo e la portasse lontano, lontano, in luogo

donde non potesse far ritorno, poiché egli la ripudiava.

Il Maggiordomo obbedì; e una notte la povera Mariedda si vide trasportata lontano lontano, in

una campagna deserta e silenziosa. Fra le braccia ella stringeva il cagnolino, al quale aveva posto un

grande amore.

Lasciata sola in quella campagna deserta e silenziosa, in quell'ora tremenda di disperazione, ella

ricordò finalmente il suo passato, ricordò Nostra Signora del Buon Consiglio, e cadde al suolo piangendo,

chiedendo misericordia e perdono.

Allora, come nella stanza buia e remota della casa di don Juanne, ecco si fece una gran luce d'oro,

e in essa apparve la Madonna col vestito bianco e il manto azzurro e il diadema simile a quello

della Regina di Spagna.

«Mariedda, Mariedda», disse con voce soavissima, che consolò la povera afflitta, «tu ti sei dimenticata

di me, e per ciò sventura t'incolse. Ma io non abbandono gli afflitti, e sono la madre dei

dolorosi»

Con la fronte al suolo Mariedda piangeva e pregava.

«Mariedda», continuò la Madonna, «cammina, cammina. Troverai una casa che sarà tua, e dove

nulla ti mancherà. Vivi là finché sia giunto il tuo giorno e non dimenticarti più di me.»

Ciò detto sparve. Sulle desolate campagne si sparse una luce di sole nascente, le siepi fiorirono, i

ruscelli brillarono; un soave profumo di puleggio passò per l'aria, e una fila di merli dal becco giallo

cantò su un muro vicino.

Quando sollevò la fronte dal suolo, Mariedda si trovò fra le braccia non più il cagnolino nero, ma

un bellissimo bambino tutto color di rosa, le cui manine e i cui piedini sembravano fiori. Per un

momento pensò di tornarsene in Corte con quel bellissimo bambino; ma le parole di Nostra Signora

del Buon Consiglio le stavano fitte in mente: e tosto riprese a camminare attraverso la grande pianura

improvvisamente fiorita.

Cammina, cammina e cammina, dopo lunghe ore si trovò davanti una bella casetta verde, nascosta

in un boschetto d'aranci e rose. Dagli aranci pendevano grosse palle d'oro, e dalle rose salivano

grandi fiori di corallo. Mariedda picchiò.

Una serva vestita in costume, con la sottana di scarlatto fiammante, il corsetto di broccato verdeoro

e un gran velo bianco in testa, aprì e disse inchinandosi:

«Siete voi la padrona che s'aspettava?».

«Sì», rispose Mariedda sorridendo.

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E da quel giorno, infatti, essa fu la padrona di quella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose.

Nessuno passava mai là vicino; il mondo era lontano, lontano, eppure nulla mancava mai nella

casetta: c'era sempre il pane che sembrava d'oro; l'acqua che sembrava d'argento; il vino che sembrava

sangue; l'uva che sembrava grappolo di perle; la carne che sembrava corallo; l'olio che sembrava

ambra; il miele che sembrava topazio; il latte che sembrava neve. E infine tutte le cose. Mariedda

era felice: pregava sempre, e aspettava il giorno promesso, nel quale sperava rivedere lo sposo

diletto. Intanto il bellissimo bambino, che si chiamava Consiglio, cresceva come i piccoli aranci

del boschetto, e rideva e correva su cavalli di canna, ai quali, sebbene non avessero che la coda, faceva

eseguire rapidissimi volteggi.

Scorsero cinque anni. Un giorno, finalmente, passò vicino alla casetta verde una comitiva di cacciatori,

che si erano smarriti in quelle campagne disabitate, e chiesero ospitalità a Mariedda.

Immaginatevi voi il batticuore, la sorpresa e la gioia di Mariedda nel riconoscere il suo sposo nel

capo di quei cacciatori smarriti!

«Ecco giunto il giorno!», pensò trepidando. Ma non si fece conoscere, perché era alquanto cambiata

e vestiva in costume. Però accolse graziosamente i cacciatori, fra i quali eravi anche don Juanne,

il medico del diavolo.

Tutti furono incantati della buona accoglienza e della bellezza di Mariedda e di Consiglio. A tavola

don Mariano, che sedeva accanto alla padrona, le raccontò la sua sventura, e le disse che si era

pentito del suo atroce comando, che aveva fatto cercare la povera sposa per tutti i monti e le valli di

Sardegna, e che, non avendola potuta ritrovare, ora egli era l'uomo più infelice della terra, tormentato

dai rimorsi e dalle ricordanze.

Mariedda fu intenerita da questo racconto, e decise rivelarsi prima che i cacciatori partissero.

Intanto accadde questo fatto straordinario, che dimostrò come la giustizia di Dio si riveli nelle

più piccole cose. Sentite. Un cucchiarino d'oro del servizio da tavola era caduto per terra. Consiglio,

che giocherellava attraverso le sedie, lo raccolse, e introdottosi sotto la mensa, così giocando, lo pose

dentro la scarpina di marocchino ricamata di don Juanne. Poi se n'andò via, e dalla serva fu posto

a dormire.

Quando si venne a sparecchiare, si notò la mancanza del cucchiarino d'oro, e questo non si poté

rinvenire in alcun posto.

«Bel signore», allora disse Mariedda al principe, «io ho dato ospitalità a voi ed ai vostri cavalieri.

Perché dunque mi si paga così?»

E raccontò l'affare del cucchiarino d'oro, che, senza dubbio, era stato rubato da qualcuno dei cacciatori.

Don Mariano salì su tutte le furie, e traendo la spada, gridò:

«Cavalieri, qualcuno da qui ha rubato. Confessate la vostra onta o ve ne pentirete amaramente!».

Tutti negarono: don Mariano riprese:

«Bene, bei signori! Frugherò io stesso le vostre persone, e guai al traditore indegno, che ha così

ricompensato l'ospitalità di questa nobile dama. Lo trapasserò con la mia spada».

Detto fatto. Frugò tutti i cacciatori, e trovò il cucchiarino d'oro nella scarpina di marocchino ricamato

di don Juanne. Invano questo si protestò innocente.

«Messere», gli disse il principe, «voi morrete per mia mano.»

E stava per ucciderlo, quando Mariedda impietosita, chiese grazia per lui, e si rivelò con grande

contentezza del principe.

Commosso da questa scena, don Juanne si gettò ai piedi della nipote, che lo aveva salvato, e confessò

le sue colpe.

Mariedda e il principe lo perdonarono; solo, in penitenza, gl'imposero di viver sempre nella casetta

verde nascosta fra gli aranci e le rose, perché si pentisse ed espiasse i suoi peccati nella solitudine.

Non sappiamo se egli veramente si sia pentito: sappiamo però che egli non si mosse più di là;

mentre Mariedda, Consiglio col suo cavallo di canna, la serva col suo costume e il suo velo, don

Mariano e tutti gli altri cacciatori tornarono alla Corte, dove furono accolti con grandi feste, e dove

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vissero lungamente felici. Mentre passavano vicino agli stagni, quel pescatore che aveva cantato

quando Mariedda veniva la prima volta ad Oristano, questa volta cantava così:

Uccelli che volate, che volate,

In compagnia di me,

Andate e ritornate,

Fatto han la pace la regina e il re.

F I N E

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