mercoledì 18 agosto 2010

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LA SIBILLA CUMANA
 LE RIME di Michelangelo Buonarroti 

NOTE BIOGRAFICHE

Michelangelo Buonarroti Simoni, pittore, scultore, architetto e poeta (1475-1564). Nato da genitori fiorentini, a 13 anni fu a Firenze nella bottega del Ghirlandaio, poi nella scuola di S. Marco con Bertoldo, l'allievo di Donatello.


Prima dei vent'anni sperimentò nel marmo ogni tecnica antica e contemporanea. In due opere giovanili, la "Madonna della Scala" e la "Lotta dei Centauri coi Lapiti" (Galleria Buonarroti, Firenze), manifestò già i caratteri del suo stile: il creare nel marmo -per via di levare-, il concepire in grande, il contrapporre a masse in ombra altre in vivida luce.


Dopo aver visto opere di J. della Quercia a Bologna, scolpisce a Roma, nel 1497, la "Pietà". Con il "David", il tondo del Bargello e il "S. Matteo" (1504), di cui -il non finito- accresce la suggestività, termina il periodo giovanile. A 30 anni Giulio II lo incaricò del suo Mausoleo in S. Pietro. Quest'opera, che gli era carissima e che mai ebbe modo di realizzare, costituì un motivo di tormento per tutta la vita di Michelangelo.


I contrasti con i Della Rovere ebbero termine soltanto con Paolo III, quando si collocò la tomba in S. Pietro in Vincoli, con una sola statua realizzata dall'artista: il "Mosè". Gli "Schiavi", le cariatidi realizzate per il Mausoleo, sono ora al Louvre e a Firenze. Riconciliatosi con Papa Giulio, a Michelangelo, che poco aveva operato nella pittura ("Madonna Doni", cartoni per la Battaglia di Cascina) fu richiesto di dipingere in affresco la volta della Cappella Sistina. Si accinse all'opera di mala voglia, e in 4 anni (1508-12) realizzò questo capolavoro composto da 9 riquadri (dal "Caos" alla "Creazione dell'uomo", dal "Peccato" al "Diluvio" e al "Noè ebbro") e da 8 timpani posti tra le 12 nicchie monumentali, con le figure dei Profeti e delle Sibille, dei Pargoli e degli Ignudi.


Dopo questa grande fatica, un insieme di eventi (la tomba di Giulio, mai fatta; la facciata di S. Lorenzo in Firenze, mai posta in opera, l'incomprensione di Leone X, le mura apprestate per la difesa di Firenze, rese vane dal tradimento) incupì l'animo dell'artista. Ne sono visibili testimonianze le statue de "L'Aurora" e del "Crepuscolo" (1525), del "Giorno" e della "Notte" (1526) poste sulle arche di Giuliano e Lorenzo de' Medici. Tali statue, risolte nell'architettura della Sacrestia Nuova di S. Lorenzo da M. stesso attuata per volere di Clemente VII, mostrano l'apice raggiunto nella espressione plastica, e la sfiducia nell'umano operare.


Finì con lo scolpire soltanto per sé. Le tre "Pietà", quella di Palestrina (Palazzo Strozzi, Firenze), di Firenze (Duomo) e Rondanini (Milano, Castello), realizzate per la sua tomba, nel silenzio della casa a Macel de' Corvi presso la colonna Traiana, quelle "Pietà" che non lo accontentarono mai, sulle quali lavorò sino a poco prima di morire, dimostrano quanto la sua scultura maturasse e cambiasse insieme a lui, con gli eventi della vita, con il passare degli anni. Solo nella "Madonna dei Medici" il reclinarsi e il risolversi di ogni atto della mesta Madre per la vita del Pargolo, di un gagliardo freschissimo modellato, ci riporta alla speranza.


Nel 1534, esule volontario dalla patria asservita, Michelangelo si stabilisce a Roma e vi rimane fino alla morte (1564). Nell' "Epistolario" si rammarica continuamente di così lunga vita, ma quello che fa e dice è un preludio all'arte del domani, in una essenzialità romantica che ritroviamo nelle fabbriche del Borromini, nelle sculture di A. Rodin e, prosegue quella pittoricità plastica di cui si sostanziano il cielo e il suolo di Roma, dalle Fondamenta alla Cupola di S. Pietro, dal cornicione del Palazzo Farnese alla Piazza del Campidoglio, da S. Maria degli Angeli a Porta Pia.


Il Maderno, il Bernini e particolarmente il Borromini s'ispireranno alla sua opera per legarvi il meglio del barocco. Anche nella poesia, quando l'istinto lo libera di forza dal petrarchismo, il suo verso si fa di plastico vigore, si sostanzia di sillabe che dicono oltre il cantato e il disporre metrico. Oggi si parla di Michelangelo come del maggior poeta lirico del Cinquecento. Si spense a 89 anni, all'Avemaria del 18 febbraio 1564. Un mese dopo, la salma, rapita dai concittadini, come avveniva nel Medioevo per le reliquie dei santi, entrava a Firenze e con solenni esequie la si poneva in Santa Croce.


I recenti restauri della volta della Sistina (1989-91) e del "Giudizio Universale" (1990-94), hanno fatto emergere nuovi ed inaspettati elementi che hanno posto in una luce totalmente diversa la pittura michelangiolesca. Se la plasticità dei corpi, così simili a figure scolpite più che dipinte, è stata ulteriormente evidenziata dall'opera di pulitura, la rimozione dello strato secolare che ricopriva l'affresco, (polvere, condensazione del fumo delle candele, e, soprattutto, le diverse mani di colla che sono state stese nel tempo per ravvivare i colori ma che, col tempo, hanno ottenuto solo il risultato di formare una patina scura sull'opera), ha rivelato una luminosità ed un cromatismo inaspettati e del tutto differenti da quelli da sempre attribuiti al maestro fiorentino.


Il tripudio di colori acidi e chiari, la drastica rimozione delle ombre, hanno infatti avvicinato la pittura di M. a quella manierista, facendo così dell'artista, a dispetto della tradizione, il primo di quei pittori -di maniera- che, negli anni immediatamente successivi, avrebbero dato vita al fenomeno del Manierismo.


Note biografiche a cura di Raffaele Castagno.


MICHELANGELO BUONARROTI


Rime


1


Molti anni fassi qual felice, in una


brevissima ora si lamenta e dole;


o per famosa o per antica prole


altri s'inlustra, e 'n un momento imbruna.


Cosa mobil non è che sotto el sole


non vinca morte e cangi la fortuna.


2


Sol io ardendo all'ombra mi rimango,


quand'el sol de' suo razzi el mondo spoglia:


ogni altro per piacere, e io per doglia,


prostrato in terra, mi lamento e piango.


3


Grato e felice, a' tuo feroci mali


ostare e vincer mi fu già concesso;


or lasso, il petto vo bagnando spesso


contr'a mie voglia, e so quante tu vali.


E se i dannosi e preteriti strali


al segno del mie cor non fur ma' presso,


or puoi a colpi vendicar te stesso


di que' begli occhi, e fien tutti mortali.


Da quanti lacci ancor, da quante rete


vago uccelletto per maligna sorte


campa molt'anni per morir po' peggio,


tal di me, donne, Amor, come vedete,


per darmi in questa età più crudel morte,


campato m'ha gran tempo, come veggio.


4


Quanto si gode, lieta e ben contesta


di fior sopra ' crin d'or d'una, grillanda,


che l'altro inanzi l'uno all'altro manda,


come ch'il primo sia a baciar la testa!


Contenta è tutto il giorno quella vesta


che serra 'l petto e poi par che si spanda,


e quel c'oro filato si domanda


le guanci' e 'l collo di toccar non resta.


Ma più lieto quel nastro par che goda,


dorato in punta, con sì fatte tempre


che preme e tocca il petto ch'egli allaccia.


E la schietta cintura che s'annoda


mi par dir seco: qui vo' stringer sempre.


Or che farebbon dunche le mie braccia?


4


5


I' ho già fatto un gozzo in questo stento,


coma fa l'acqua a' gatti in Lombardia


o ver d'altro paese che si sia,


c'a forza 'l ventre appicca sotto 'l mento.


La barba al cielo, e la memoria sento


in sullo scrigno, e 'l petto fo d'arpia,


e 'l pennel sopra 'l viso tuttavia


mel fa, gocciando, un ricco pavimento.


E' lombi entrati mi son nella peccia,


e fo del cul per contrapeso groppa,


e ' passi senza gli occhi muovo invano.


Dinanzi mi s'allunga la corteccia,


e per piegarsi adietro si ragroppa,


e tendomi com'arco sorïano.


Però fallace e strano


surge il iudizio che la mente porta,


ché mal si tra' per cerbottana torta.


La mia pittura morta


difendi orma', Giovanni, e 'l mio onore,


non sendo in loco bon, né io pittore.


6


Signor, se vero è alcun proverbio antico,


questo è ben quel, che chi può mai non vuole.


Tu hai creduto a favole e parole


e premiato chi è del ver nimico.


I' sono e fui già tuo buon servo antico,


a te son dato come e' raggi al sole,


e del mie tempo non ti incresce o dole,


e men ti piaccio se più m'affatico.


Già sperai ascender per la tua altezza,


e 'l giusto peso e la potente spada


fussi al bisogno, e non la voce d'ecco.


Ma 'l cielo è quel c'ogni virtù disprezza


locarla al mondo, se vuol c'altri vada


a prender frutto d'un arbor ch'è secco.


7


Chi è quel che per forza a te mi mena,


oilmè, oilmè, oilmè,


legato e stretto, e son libero e sciolto?


Se tu incateni altrui senza catena,


e senza mane o braccia m'hai raccolto,


chi mi difenderà dal tuo bel volto?


8


Come può esser ch'io non sia più mio?


O Dio, o Dio, o Dio,


chi m'ha tolto a me stesso,


c'a me fusse più presso


5


o più di me potessi che poss'io?


O Dio, o Dio, o Dio,


come mi passa el core


chi non par che mi tocchi?


Che cosa è questo, Amore,


c'al core entra per gli occhi,


per poco spazio dentro par che cresca?


E s'avvien che trabocchi?


9


Colui che 'l tutto fe', fece ogni parte


e poi del tutto la più bella scelse,


per mostrar quivi le suo cose eccelse,


com'ha fatto or colla sua divin'arte.


10


Qua si fa elmi di calici e spade


e 'l sangue di Cristo si vend'a giumelle,


e croce e spine son lance e rotelle,


e pur da Cristo pazïenzia cade.


Ma non ci arrivi più 'n queste contrade,


ché n'andre' 'l sangue suo 'nsin alle stelle,


poscia c'a Roma gli vendon la pelle,


e ècci d'ogni ben chiuso le strade.


S'i' ebbi ma' voglia a perder tesauro,


per ciò che qua opra da me è partita,


può quel nel manto che Medusa in Mauro;


ma se alto in cielo è povertà gradita,


qual fia di nostro stato il gran restauro,


s'un altro segno ammorza l'altra vita?


11


Quanto sare' men doglia il morir presto


che provar mille morte ad ora ad ora,


da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io mora!


Ahi, che doglia 'nfinita


sente 'l mio cor, quando li torna a mente


che quella ch'io tant'amo amor non sente!


Come resterò 'n vita?


Anzi mi dice, per più doglia darmi,


che se stessa non ama: e vero parmi.


Come posso sperar di me le dolga,


se se stessa non ama? Ahi trista sorte!


Che fia pur ver, ch'io ne trarrò la morte?


12


Com'arò dunche ardire


senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,


s'io non posso al partir chiedervi aita?


Que' singulti e que' pianti e que' sospiri


che 'l miser core voi accompagnorno,


madonna, duramente dimostrorno


6


la mia propinqua morte e ' miei martiri.


Ma se ver è che per assenzia mai


mia fedel servitù vadia in oblio,


il cor lasso con voi, che non è mio.


13


La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né


indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo.


14


El Dì e la Notte parlano, e dicono: Noi abbiàno col nostro veloce corso condotto alla morte el duca


Giuliano; è ben giusto che e' ne facci vendetta come fa. E la vendetta è questa:che avendo noi morto lui,


lui così morto ha tolta la luce a noi e cogli occhi chiusi ha serrato e' nostri,


che non risplendon più sopra la terra. Che arrebbe di noi dunche fatto, mentre vivea?


15


Di te me veggo e di lontan mi chiamo


per appressarm'al ciel dond'io derivo,


e per le spezie all'esca a te arrivo,


come pesce per fil tirato all'amo.


E perc'un cor fra dua fa picciol segno


di vita, a te s'è dato ambo le parti;


ond'io resto, tu 'l sai, quant'io son, poco.


E perc'un'alma infra duo va 'l più degno,


m'è forza, s'i' voglio esser, sempre amarti;


ch'i' son sol legno, e tu se' legno e foco.


16


D'un oggetto leggiadro e pellegrino,


d'un fonte di pietà nasce 'l mie male.


17


Crudele, acerbo e dispietato core,


vestito di dolcezza e d'amar pieno,


tuo fede al tempo nasce, e dura meno


c'al dolce verno non fa ciascun fiore.


Muovesi 'l tempo, e compartisce l'ore


al viver nostr'un pessimo veneno;


lu' come falce e no' siàn come fieno,


. . . . . . . . . . . . . .


La fede è corta e la beltà non dura,


ma di par seco par che si consumi,


come 'l peccato tuo vuol de' mie danni.


. . . . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . . . . .


sempre fra noi fare' con tutti gli anni.


18


7


Mille rimedi invan l'anima tenta:


poi ch'i' fu' preso alla prestina strada,


di ritornare endarno s'argomenta.


Il mare e 'l monte e 'l foco colla spada:


in mezzo a questi tutti insieme vivo.


Al monte non mi lascia chi m'ha privo


dell'intelletto e tolto la ragione.


19


Natura ogni valore


di donna o di donzella


fatto ha per imparare, insino a quella


c'oggi in un punto m'arde e ghiaccia el core.


Dunche nel mie dolore


non fu tristo uom più mai;


l'angoscia e 'l pianto e ' guai,


a più forte cagion maggiore effetto.


Così po' nel diletto


non fu né fie di me nessun più lieto.


20


Tu ha' 'l viso più dolce che la sapa,


e passato vi par sù la lumaca,


tanto ben lustra, e più bel c'una rapa;


e' denti bianchi come pastinaca,


in modo tal che invaghiresti 'l papa;


e gli occhi del color dell'utriaca;


e' cape' bianchi e biondi più che porri:


ond'io morrò, se tu non mi soccorri.


La tua bellezza par molto più bella


che uomo che dipinto in chiesa sia:


la bocca tua mi par una scarsella


di fagiuo' piena, si com'è la mia;


le ciglia paion tinte alla padella


e torte più c'un arco di Sorìa;


le gote ha' rosse e bianche, quando stacci,


come fra cacio fresco e' rosolacci.


Quand'io ti veggo, in su ciascuna poppa


mi paion duo cocomer in un sacco,


ond'io m'accendo tutto come stoppa,


bench'io sia dalla zappa rotto e stracco.


Pensa: s'avessi ancor la bella coppa,


ti seguirrei fra l'altre me' c'un bracco;


dunche s'i massi aver fussi possibile,


io fare' oggi qui cose incredibile.


21


Chiunche nasce a morte arriva


nel fuggir del tempo; e 'l sole


niuna cosa lascia viva.


Manca il dolce e quel che dole


e gl'ingegni e le parole;


e le nostre antiche prole


al sole ombre, al vento un fummo.


8


Come voi uomini fummo,


lieti e tristi, come siete;


e or siàn, come vedete,


terra al sol, di vita priva.


Ogni cosa a morte arriva.


Già fur gli occhi nostri interi


con la luce in ogni speco;


or son voti, orrendi e neri,


e ciò porta il tempo seco.


22


Che fie di me? che vo' tu far di nuovo


d'un arso legno e d'un afflitto core?


Dimmelo un poco, Amore,


acciò che io sappi in che stato io mi truovo.


Gli anni del corso mio al segno sono,


come saetta c'al berzaglio è giunta,


onde si de' quetar l'ardente foco.


E' mie passati danni a te perdono,


cagion che 'l cor l'arme tu' spezza e spunta,


c'amor per pruova in me non ha più loco;


e s'e' tuo colpi fussin nuovo gioco


agli occhi mei, al cor timido e molle,


vorria quel che già volle?


Ond'or ti vince e sprezza, e tu tel sai,


sol per aver men forza oggi che mai.


Tu speri forse per nuova beltate


tornarmi 'ndietro al periglioso impaccio,


ove 'l più saggio assai men si difende:


più corto è 'l mal nella più lunga etate


ond'io sarò come nel foco el ghiaccio,


che si distrugge e parte e non s'accende.


La morte in questa età sol ne difende


dal fiero braccio e da' pungenti strali,


cagion di tanti mali,


che non perdona a condizion nessuna,


né a loco, né tempo, né fortuna.


L'anima mia, che con la morte parla,


e seco di se stessa si consiglia,


e di nuovi sospetti ognor s'attrista,


el corpo di dì in dì spera lasciarla:


onde l'immaginato cammin piglia,


di speranza e timor confusa e mista.


Ahi, Amor, come se' pronto in vista,


temerario, audace, armato e forte!


che e' pensier della morte


nel tempo suo di me discacci fori,


per trar d'un arbor secco fronde e fiori.


Che poss'io più? che debb'io? Nel tuo regno


non ha' tu tutto el tempo mio passato,


che de' mia anni un'ora non m'è tocca?


Qual inganno, qual forza o qual ingegno


tornar mi puote a te, signore ingrato,


c'al cuor la morte e pietà porti in bocca?


Ben sare' ingrata e sciocca


l'alma risuscitata, e senza stima,


tornare a quel che gli diè morte prima.


Ogni nato la terra in breve aspetta;


9


d'ora in or manca ogni mortal bellezza:


chi ama, il vedo, e' non si può po' sciorre.


Col gran peccato la crudel vendetta


insieme vanno; e quel che men s'apprezza,


colui è sol c'a più suo mal più corre.


A che mi vuo' tu porre,


che 'l dì ultimo buon, che mi bisogna,


sie quel del danno e quel della vergogna?


23


I' fu', già son molt'anni, mille volte


ferito e morto, non che vinto e stanco


da te, mie colpa; e or col capo bianco


riprenderò le tuo promesse stolte?


Quante volte ha' legate e quante sciolte


le triste membra, e sì spronato il fianco,


c'appena posso ritornar meco, anco


bagnando il petto con lacrime molte!


Di te mi dolgo, Amor, con teco parlo,


sciolto da' tuo lusinghi: a che bisogna


prender l'arco crudel, tirare a voto?


Al legno incenerato sega o tarlo,


o dietro a un correndo, è gran vergogna


c'ha perso e ferma ogni destrezza e moto.


24


I' fe' degli occhi porta al mie veneno,


quand' el passo dier libero a' fier dardi;


nido e ricetto fe' de' dolci sguardi


della memoria che ma' verrà meno.


Ancudine fe' 'l cor, mantaco 'l seno


da fabricar sospir, con che tu m'ardi.


25


Quand'il servo il signor d'aspra catena


senz'altra speme in carcer tien legato,


volge in tal uso el suo misero stato,


che libertà domanderebbe appena.


E el tigre e 'l serpe ancor l'uso raffrena,


e 'l fier leon ne' folti boschi nato;


e 'l nuovo artista, all'opre affaticato,


coll'uso del sudor doppia suo lena.


Ma 'l foco a tal figura non s'unisce;


ché se l'umor d'un verde legno estinge,


il freddo vecchio scalda e po' 'l nutrisce,


e tanto il torna in verde etate e spinge,


rinnuova e 'nfiamma, allegra e 'ngiovanisce,


c'amor col fiato l'alma e 'l cor gli cinge.


E se motteggia o finge,


chi dice in vecchia etate esser vergogna


amar cosa divina, è gran menzogna.


L'anima che non sogna,


non pecca amar le cose di natura,


usando peso, termine e misura.


10


26


Quand'avvien c'alcun legno non difenda


il propio umor fuor del terreste loco,


non può far c'al gran caldo assai o poco


non si secchi o non s'arda o non s'accenda.


Così 'l cor, tolto da chi mai mel renda,


vissuto in pianto e nutrito di foco,


or ch'è fuor del suo propio albergo e loco,


qual mal fie che per morte non l'offenda?


27


Fuggite, amanti, Amor, fuggite 'l foco;


l'incendio è aspro e la piaga è mortale,


c'oltr'a l'impeto primo più non vale


né forza né ragion né mutar loco.


Fuggite, or che l'esemplo non è poco


d'un fiero braccio e d'un acuto strale;


leggete in me, qual sarà 'l vostro male,


qual sarà l'impio e dispietato gioco.


Fuggite, e non tardate, al primo sguardo:


ch'i' pensa' d'ogni tempo avere accordo;


or sento, e voi vedete, com'io ardo.


28


Perché pur d'ora in ora mi lusinga


la memoria degli occhi e la speranza,


per cui non sol son vivo, ma beato;


la forza e la ragion par che ne stringa,


Amor, natura e la mie 'ntica usanza,


mirarvi tutto il tempo che m'è dato.


E s'i' cangiassi stato,


vivendo in questo, in quell'altro morrei;


né pietà troverei


ove non fussin quegli.


O Dio, e' son pur begli!


Chi non ne vive non è nato ancora;


e se verrà dipoi,


a dirlo qui tra noi,


forz'è che, nato, di subito mora;


ché chi non s'innamora


de' begli occhi, non vive.


29


Ogn'ira, ogni miseria e ogni forza,


chi d'amor s'arma vince ogni fortuna.


30


Dagli occhi del mie ben si parte e vola


un raggio ardente e di sì chiara luce


11


che da' mie, chiusi ancor, trapassa 'l core.


Onde va zoppo Amore,


tant'è dispar la soma che conduce,


dando a me luce, e tenebre m'invola.


31


Amor non già, ma gli occhi mei son quegli


che ne' tuo soli e begli


e vita e morte intera trovato hanno.


Tante meno m'offende e preme 'l danno,


più mi distrugge e cuoce;


dall'altra ancor mi nuoce


tante amor più quante più grazia truovo.


Mentre ch'io penso e pruovo


il male, el ben mi cresce in un momento.


O nuovo e stran tormento!


Però non mi sgomento:


s'aver miseria e stento


è dolce qua dove non è ma' bene,


vo cercando 'l dolor con maggior pene.


32


Vivo al peccato, a me morendo vivo;


vita già mia non son, ma del peccato:


mie ben dal ciel, mie mal da me m'è dato,


dal mie sciolto voler, di ch'io son privo.


Serva mie libertà, mortal mie divo


a me s'è fatto. O infelice stato!


a che miseria, a che viver son nato!


33


Sie pur, fuor di mie propie, c'ogni altr'arme


difender par ogni mie cara cosa;


altra spada, altra lancia e altro scudo


fuor delle propie forze non son nulla,


tant'è la trista usanza, che m'ha tolta


la grazia che 'l ciel piove in ogni loco.


Qual vecchio serpe per istretto loco


passar poss'io, lasciando le vecchie arme,


e dal costume rinnovata e tolta


sie l'alma in vita e d'ogni umana cosa,


coprendo sé con più sicuro scudo,


ché tutto el mondo a morte è men che nulla.


Amore, i' sento già di me far nulla;


natura del peccat' è 'n ogni loco.


Spoglia di me me stesso, e col tuo scudo,


colla pietra e tuo vere e dolci arme,


difendimi da me, c'ogni altra cosa


è come non istata, in brieve tolta.


Mentre c'al corpo l'alma non è tolta,


Signor, che l'universo puo' far nulla,


fattor, governator, re d'ogni cosa,


poco ti fie aver dentr'a me loco;


. . . . . . . . . . . .


12


. . . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . . .


che d'ogn' uomo veril son le vere arme,


senza le quali ogn' uom diventa nulla.


34


La vita del mie amor non è 'l cor mio,


c'amor di quel ch'i' t'amo è senza core;


dov'è cosa mortal, piena d'errore,


esser non può già ma', nè pensier rio.


Amor nel dipartir l'alma da Dio


me fe' san occhio e te luc' e splendore;


nè può non rivederlo in quel che more


di te, per nostro mal, mie gran desio.


Come dal foco el caldo, esser diviso


non può dal bell'etterno ogni mie stima,


ch'exalta, ond'ella vien, chi più 'l somiglia.


Poi che negli occhi ha' tutto 'l paradiso,


per ritornar là dov'i' t'ama' prima,


ricorro ardendo sott'alle tuo ciglia.


35


El ciglio col color non fere el volto


col suo contrar, che l'occhio non ha pena


da l'uno all'altro stremo ov'egli è volto.


L'occhio, che sotto intorno adagio mena,


picciola parte di gran palla scuopre,


che men rilieva suo vista serena,


e manco sale e scende quand' el copre;


onde più corte son le suo palpebre,


che manco grinze fan quando l'aopre.


El bianco bianco, el ner più che funebre,


s'esser può, el giallo po' più leonino,


che scala fa dall'una all'altra vebre.


Pur tocchi sotto e sopra el suo confino,


e 'l giallo e 'l nero e 'l bianco non circundi.


36


Oltre qui fu, dove 'l mie amor mi tolse,


suo mercè, il core e vie più là la vita;


qui co' begli occhi mi promisse aita,


e co' medesmi qui tor me la volse.


Quinci oltre mi legò, quivi mi sciolse;


per me qui piansi, e con doglia infinita


da questo sasso vidi far partita


colui c'a me mi tolse e non mi volse.


37


In me la morte, in te la vita mia;


tu distingui e concedi e parti el tempo;


13


quante vuo', breve e lungo è 'l viver mio.


Felice son nella tuo cortesia.


Beata l'alma, ove non corre tempo,


per te s'è fatta a contemplare Dio.


38


Quanta dolcezza al cor per gli occhi porta


quel che 'n un punto el tempo e morte fura!


Che è questo però che mi conforta


e negli affanni cresce e sempre dura.


Amor, come virtù viva e accorta,


desta gli spirti ed è più degna cura.


Risponde a me: - Come persona morta


mena suo vita chi è da me sicura. -


Amore è un concetto di bellezza


immaginata o vista dentro al core,


amica di virtute e gentilezza.


39


Del fiero colpo e del pungente strale


la medicina era passarmi 'l core;


ma questo è propio sol del mie signore,


crescer la vita dove cresce 'l male.


E se 'l primo suo colpo fu mortale,


seco un messo di par venne d'Amore


che mi disse: - Ama, anz'ardi; ché chi muore


non ha da gire al ciel nel mondo altr'ale.


I' son colui che ne' prim'anni tuoi


gli occhi tuo infermi volsi alla beltate


che dalla terra al ciel vivo conduce. -


40


Quand'Amor lieto al ciel levarmi è volto


cogli occhi di costei, anzi col sole,


con breve riso ciò che preme e dole


del cor mi caccia, e mettevi 'l suo volto;


e s'i' durassi in tale stato molto,


l'alma, che sol di me lagnar si vole,


avendo seco là dove star suole,


. . . . . . . . . . .


41


Spirto ben nato, in cu' si specchia e vede


nelle tuo belle membra oneste e care


quante natura e 'l ciel tra no' può fare,


quand'a null'altra suo bell'opra cede:


spirto leggiadro, in cui si spera e crede


dentro, come di fuor nel viso appare,


amor, pietà, mercé, cose sì rare,


che ma' furn'in beltà con tanta fede:


l'amor mi prende e la beltà mi lega;


la pietà, la mercé con dolci sguardi


14


ferma speranz' al cor par che ne doni.


Qual uso o qual governo al mondo niega,


qual crudeltà per tempo o qual più tardi,


c'a sì bell'opra morte non perdoni?


42


Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi mei


veggono 'l ver della beltà c'aspiro,


o s'io l'ho dentro allor che, dov'io miro,


veggio scolpito el viso di costei.


Tu 'l de' saper, po' che tu vien con lei


a torm'ogni mie pace, ond'io m'adiro;


né vorre' manco un minimo sospiro,


né men ardente foco chiederei.


- La beltà che tu vedi è ben da quella,


ma cresce poi c'a miglior loco sale,


se per gli occhi mortali all'alma corre.


Quivi si fa divina, onesta e bella,


com'a sé simil vuol cosa immortale:


questa e non quella agli occhi tuo precorre. -


43


La ragion meco si lamenta e dole,


parte ch'i' spero amando esser felice;


con forti esempli e con vere parole


la mie vergogna mi rammenta e dice:


- Che ne riportera' dal vivo sole


altro che morte? e non come fenice. -


Ma poco giova, ché chi cader vuole,


non basta l'altru' man pront' e vittrice.


I' conosco e' mie danni, e 'l vero intendo;


dall'altra banda albergo un altro core,


che più m'uccide dove più m'arrendo.


In mezzo di duo mort' è 'l mie signore:


questa non voglio e questa non comprendo:


così sospeso, el corpo e l'alma muore.


44


Mentre c'alla beltà ch'i' vidi in prima


appresso l'alma, che per gli occhi vede,


l'immagin dentro cresce, e quella cede


quasi vilmente e senza alcuna stima.


Amor, c'adopra ogni suo ingegno e lima,


perch'io non tronchi 'l fil ritorna e riede.


45


Ben doverrieno al sospirar mie tanto


esser secco oramai le fonti e ' fiumi,


s'i' non gli rinfrescassi col mie pianto.


Così talvolta i nostri etterni lumi,


l'un caldo e l'altro freddo ne ristora,


acciò che 'l mondo più non si consumi.


15


E similmente il cor che s'innamora,


quand'el superchio ardor troppo l'accende,


l'umor degli occhi il tempra, che non mora.


La morte e 'l duol, ch'i' bramo e cerco, rende


un contento avenir, che non mi lassa


morir; ché chi diletta non offende.


Onde la navicella mie non passa,


com'io vorrei, a vederti a quella riva


che 'l corpo per a tempo di qua lassa.


Troppo dolor vuol pur ch'i' campi e viva,


qual più c'altri veloce andando vede,


che dopo gli altri al fin del giorno arriva.


Crudel pietate e spietata mercede


me lasciò vivo, e te da me disciolse,


rompendo, e non mancando nostra fede,


e la memoria a me non sol non tolse,


. . . . . . . . . . . .


46


Se 'l mie rozzo martello i duri sassi


forma d'uman aspetto or questo or quello,


dal ministro che 'l guida, iscorge e tiello,


prendendo il moto, va con gli altrui passi.


Ma quel divin che in cielo alberga e stassi,


altri, e sé più, col propio andar fa bello;


e se nessun martel senza martello


si può far, da quel vivo ogni altro fassi.


E perché 'l colpo è di valor più pieno


quant'alza più se stesso alla fucina,


sopra 'l mie questo al ciel n'è gito a volo.


Onde a me non finito verrà meno,


s'or non gli dà la fabbrica divina


aiuto a farlo, c'al mondo era solo.


47


Quand'el ministro de' sospir mie tanti


al mondo, agli occhi mei, a sé si tolse,


natura, che fra noi degnar lo volse,


restò in vergogna, e chi lo vide in pianti.


Ma non come degli altri oggi si vanti


del sol del sol, c'allor ci spense e tolse,


morte, c'amor ne vinse, e farlo il tolse


in terra vivo e 'n ciel fra gli altri santi.


Così credette morte iniqua e rea


finir il suon delle virtute sparte,


e l'alma, che men bella esser potea.


Contrari effetti alluminan le carte


di vita più che 'n vita non solea,


e morto ha 'l ciel, c'allor non avea parte.


48


Come fiamma più cresce più contesa


dal vento, ogni virtù che 'l cielo esalta


tanto più splende quant'è più offesa.


16


49


Amor, la tuo beltà non è mortale:


nessun volto fra noi è che pareggi


l'immagine del cor, che 'nfiammi e reggi


con altro foco e muovi con altr'ale.


50


Che fie doppo molt'anni di costei,


Amor, se 'l tempo ogni beltà distrugge?


Fama di lei; e anche questa fugge


e vola e manca più ch'i' non vorrei.


51


Oilmè, oilmè, ch'i' son tradito


da' giorni mie fugaci e dallo specchio


che 'l ver dice a ciascun che fiso 'l guarda!


Così n'avvien, chi troppo al fin ritarda,


com'ho fatt'io, che 'l tempo m'è fuggito:


si trova come me 'n un giorno vecchio.


Né mi posso pentir, né m'apparecchio,


né mi consiglio con la morte appresso.


Nemico di me stesso,


inutilmente i pianti e ' sospir verso,


ché non è danno pari al tempo perso.


Oilmè, oilmè, pur riterando


vo 'l mio passato tempo e non ritruovo


in tutto un giorno che sie stato mio!


Le fallace speranze e 'l van desio,


piangendo, amando, ardendo e sospirando


(c'affetto alcun mortal non m'è più nuovo)


m'hanno tenuto, ond'il conosco e pruovo,


lontan certo dal vero.


Or con periglio pèro;


ché 'l breve tempo m'è venuto manco,


né sarie ancor, se s'allungassi, stanco.


I' vo lasso, oilmè, né so ben dove;


anzi temo, ch'il veggio, e 'l tempo andato


mel mostra, né mi val che gli occhi chiuda.


Or che 'l tempo la scorza cangia e muda,


la morte e l'alma insieme ognor fan pruove,


la prima e la seconda, del mie stato.


E s'io non sono errato,


(che Dio 'l voglia ch'io sia),


l'etterna pena mia


nel mal libero inteso oprato vero


veggio, Signor, né so quel ch'io mi spero.


52


S'alcun se stesso al mondo ancider lice,


po' che per morte al ciel tornar si crede,


sarie ben giusto a chi con tanta fede


17


vive servendo miser e 'nfelice.


Ma perché l'uom non è come fenice,


c'alla luce del sol resurge e riede,


la man fo pigra e muovo tardi el piede.


53


Chi di notte cavalca, el dì conviene


c'alcuna volta si riposi e dorma:


così sper'io, che dopo tante pene


ristori 'l mie signor mie vita e forma.


Non dura 'l mal dove non dura 'l bene,


ma spesso l'un nell'altro si trasforma.


54


Io crederrei, se tu fussi di sasso,


amarti con tal fede, ch'i' potrei


farti meco venir più che di passo;


se fussi morto, parlar ti farei,


se fussi in ciel, ti tirerei a basso


co' pianti, co' sospir, co' prieghi miei.


Sendo vivo e di carne, e qui tra noi,


chi t'ama e serve che de' creder poi?


I' non posso altro far che seguitarti,


e della grande impresa non mi pento.


Tu non se' fatta com'un uom da sarti,


che si muove di fuor, si muove drento;


e se dalla ragion tu non ti parti,


spero c'un dì tu mi fara' contento:


ché 'l morso il ben servir togli' a' serpenti,


come l'agresto quand'allega i denti.


E' non è forza contr'a l'umiltate,


né crudeltà può star contr'a l'amore;


ogni durezza suol vincer pietate,


sì come l'allegrezza fa 'l dolore;


una nuova nel mondo alta beltate


come la tuo non ha 'ltrimenti il core;


c'una vagina, ch'è dritta a vedella,


non può dentro tener torte coltella.


E non può esser pur che qualche poco


la mie gran servitù non ti sie cara;


pensa che non si truova in ogni loco


la fede negli amici, che è sì rara;


. . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . .


Quando un dì sto che veder non ti posso,


non posso trovar pace in luogo ignuno;


se po' ti veggo, mi s'appicca addosso,


come suole il mangiar far al digiuno;


. . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . .


com'altri il ventre di votar si muore,


ch'è più 'l conforto, po' che pri' è 'l dolore.


E non mi passa tra le mani un giorno


ch'i' non la vegga o senta con la mente;


18


né scaldar ma' si può fornace o forno


c'a' mie sospir non fussi più rovente;


e quando avvien ch'i' l'abbi un po' dintorno,


sfavillo come ferro in foco ardente;


e tanto vorre' dir, s'ella m'aspetta,


ch'i' dico men che quand'i' non ho fretta.


S'avvien che la mi rida pure un poco


o mi saluti in mezzo della via,


mi levo come polvere dal foco


o di bombarda o d'altra artiglieria;


se mi domanda, subito m'affioco,


perdo la voce e la risposta mia,


e subito s'arrende il gran desio,


e la speranza cede al poter mio.


I' sento in me non so che grand'amore,


che quasi arrivere' 'nsino alle stelle;


e quando alcuna volta il vo trar fore,


non ho buco sì grande nella pelle


che nol faccia, a uscirne, assa' minore


parere, e le mie cose assai men belle:


c'amore o forza el dirne è grazia sola;


e men ne dice chi più alto vola.


I' vo pensando al mie viver di prima,


inanzi ch'i' t'amassi, com'egli era:


di me non fu ma' chi facesse stima,


perdendo ogni dì il tempo insino a sera;


forse pensavo di cantare in rima


o di ritrarmi da ogni altra schiera?


Or si fa 'l nome, o per tristo o per buono,


e sassi pure almen che i' ci sono.


Tu m'entrasti per gli occhi, ond'io mi spargo,


come grappol d'agresto in un'ampolla,


che doppo 'l collo cresce ov'è più largo;


così l'immagin tua, che fuor m'immolla,


dentro per gli occhi cresce, ond'io m'allargo


come pelle ove gonfia la midolla;


entrando in me per sì stretto vïaggio,


che tu mai n'esca ardir creder non aggio.


Come quand'entra in una palla il vento,


che col medesmo fiato l'animella,


come l'apre di fuor, la serra drento,


così l'immagin del tuo volto bella


per gli occhi dentro all'alma venir sento;


e come gli apre, poi si serra in quella;


e come palla pugno al primo balzo,


percosso da' tu' occhi al ciel po' m'alzo.


Perché non basta a una donna bella


goder le lode d'un amante solo,


ché suo beltà potre' morir con ella;


dunche, s'i' t'amo, reverisco e colo,


al merito 'l poter poco favella;


c'un zoppo non pareggia un lento volo,


né gira 'l sol per un sol suo mercede,


ma per ogni occhio san c'al mondo vede.


I' non posso pensar come 'l cor m'ardi,


passando a quel per gli occhi sempre molli,


che 'l foco spegnerien non ch'e' tuo sguardi.


Tutti e' ripari mie son corti e folli:


se l'acqua il foco accende, ogni altro è tardi


a camparmi dal mal ch'i' bramo e volli,


19


salvo il foco medesmo. O cosa strana,


se 'l mal del foco spesso il foco sana!


55


I' t'ho comprato, ancor che molto caro,


un po' di non so che, che sa di buono,


perc'a l'odor la strada spesso imparo.


Ovunche tu ti sia, dovunch'i' sono,


senz'alcun dubbio ne son certo e chiaro.


Se da me ti nascondi, i' tel perdono:


portandol dove vai sempre con teco,


ti troverei, quand'io fussi ben cieco.


56


Vivo della mie morte e, se ben guardo,


felice vivo d'infelice sorte;


e chi viver non sa d'angoscia e morte,


nel foco venga, ov'io mi struggo e ardo.


57


S'i' vivo più di chi più m'arde e cuoce,


quante più legne o vento il foco accende,


tanto più chi m'uccide mi difende,


e più mi giova dove più mi nuoce.


58


Se l'immortal desio, c'alza e corregge


gli altrui pensier, traessi e' mie di fore,


forse c'ancor nella casa d'Amore


farie pietoso chi spietato regge.


Ma perché l'alma per divina legge


ha lunga vita, e 'l corpo in breve muore,


non può 'l senso suo lode o suo valore


appien descriver quel c'appien non legge.


Dunche, oilmè! come sarà udita


la casta voglia che 'l cor dentro incende


da chi sempre se stesso in altrui vede?


La mie cara giornata m'è impedita


col mie signor c'alle menzogne attende,


c'a dire il ver, bugiardo è chi nol crede.


59


S'un casto amor, s'una pietà superna,


s'una fortuna infra dua amanti equale,


s'un'aspra sorte all'un dell'altro cale,


s'un spirto, s'un voler duo cor governa;


s'un'anima in duo corpi è fatta etterna,


ambo levando al cielo e con pari ale;


s'amor d'un colpo e d'un dorato strale


le viscer di duo petti arda e discerna;


20


s'amar l'un l'altro e nessun se medesmo,


d'un gusto e d'un diletto, a tal mercede


c'a un fin voglia l'uno e l'altro porre:


se mille e mille, non sarien centesmo


a tal nodo d'amore, e tanta fede;


e sol l'isdegno il può rompere e sciorre.


60


Tu sa' ch'i' so, signor mie, che tu sai


ch'i vengo per goderti più da presso,


e sai ch'i' so che tu sa' ch'i' son desso:


a che più indugio a salutarci omai?


Se vera è la speranza che mi dai,


se vero è 'l gran desio che m'è concesso,


rompasi il mur fra l'uno e l'altra messo,


ché doppia forza hann'i celati guai.


S'i' amo sol di te, signor mie caro,


quel che di te più ami, non ti sdegni,


ché l'un dell'altro spirto s'innamora.


Quel che nel tuo bel volto bramo e 'mparo,


e mal compres' è dagli umani ingegni,


chi 'l vuol saper convien che prima mora.


61


S'i' avessi creduto al primo sguardo


di quest'alma fenice al caldo sole


rinnovarmi per foco, come suole


nell'ultima vecchiezza, ond'io tutt'ardo,


qual più veloce cervio o lince o pardo


segue 'l suo bene e fugge quel che dole,


agli atti, al riso, all'oneste parole


sarie cors'anzi, ond'or son presto e tardo.


Ma perché più dolermi, po' ch'i' veggio


negli occhi di quest'angel lieto e solo


mie pace, mie riposo e mie salute?


Forse che prima sarie stato il peggio


vederlo, udirlo, s'or di pari a volo


seco m'impenna a seguir suo virtute.


62


Sol pur col foco il fabbro il ferro stende


al concetto suo caro e bel lavoro,


né senza foco alcuno artista l'oro


al sommo grado suo raffina e rende;


né l'unica fenice sé riprende


se non prim'arsa; ond'io, s'ardendo moro,


spero più chiar resurger tra coloro


che morte accresce e 'l tempo non offende.


Del foco, di ch'i' parlo, ho gran ventura


c'ancor per rinnovarmi abbi in me loco,


sendo già quasi nel numer de' morti.


O ver, s'al cielo ascende per natura,


al suo elemento, e ch'io converso in foco


sie, come fie che seco non mi porti?


21


63


Sì amico al freddo sasso è 'l foco interno


che, di quel tratto, se lo circumscrive,


che l'arda e spezzi, in qualche modo vive,


legando con sé gli altri in loco etterno.


E se 'n fornace dura, istate e verno


vince, e 'n più pregio che prima s'ascrive,


come purgata infra l'altre alte e dive


alma nel ciel tornasse da l'inferno.


Così tratto di me, se mi dissolve


il foco, che m'è dentro occulto gioco,


arso e po' spento aver più vita posso.


Dunche, s'i' vivo, fatto fummo e polve,


etterno ben sarò, s'induro al foco;


da tale oro e non ferro son percosso.


64


Se 'l foco il sasso rompe e 'l ferro squaglia,


figlio del lor medesmo e duro interno,


che farà 'l più ardente dell'inferno


d'un nimico covon secco di paglia?


65


In quel medesmo tempo ch'io v'adoro,


la memoria del mie stato infelice


nel pensier mi ritorna, e piange e dice:


ben ama chi ben arde, ov'io dimoro.


Però che scudo fo di tutti loro...


66


Forse perché d'altrui pietà mi vegna,


perché dell'altrui colpe più non rida,


nel mie propio valor, senz'altra guida,


caduta è l'alma che fu già sì degna.


Né so qual militar sott'altra insegna


non che da vincer, da campar più fida,


sie che 'l tumulto dell'avverse strida


non pèra, ove 'l poter tuo non sostegna.


O carne, o sangue, o legno, o doglia strema,


giusto per vo' si facci el mie peccato,


di ch'i' pur nacqui, e tal fu 'l padre mio.


Tu sol se' buon; la tuo pietà suprema


soccorra al mie preditto iniquo stato,


sì presso a morte e sì lontan da Dio.


67


Nuovo piacere e di maggiore stima


veder l'ardite capre sopr'un sasso


montar, pascendo or questa or quella cima,


22


e 'l mastro lor, con aspre note, al basso,


sfogare el cor colla suo rozza rima,


sonando or fermo, e or con lento passo,


e la suo vaga, che ha 'l cor di ferro,


star co' porci, in contegno, sott'un cerro;


quant'è veder 'n un eminente loco


e di pagli' e di terra el loro ospizio:


chi ingombra 'l desco e chi fa fora 'l foco,


sott'a quel faggio ch'è più lor propizio;


chi ingrassa e gratta 'l porco, e prende gioco,


chi doma 'l ciuco col basto primizio;


el vecchio gode e fa poche parole,


fuor dell'uscio a sedere, e stassi al sole.


Di fuor dentro si vede quel che hanno:


pace sanza oro e sanza sete alcuna.


El giorno c'a solcare i colli vanno,


contar puo' lor ricchezze ad una ad una.


Non han serrami e non temon di danno;


lascion la casa aperta alla fortuna;


po', doppo l'opra, lieti el sonno tentano;


sazi di ghiande, in sul fien s'adormentano.


L'invidia non ha loco in questo stato;


la superbia se stessa si divora.


Avide son di qualche verde prato,


o di quell'erba che più bella infiora.


Il lor sommo tesoro è uno arato,


e 'l bomero è la gemma che gli onora;


un paio di ceste è la credenza loro,


e le pale e le zappe e' vasi d'oro.


O avarizia cieca, o bassi ingegni,


che disusate 'l ben della natura!


Cercando l'or, le terre e ' ricchi regni,


vostre imprese superbia ha forte e dura.


L'accidia, la lussuria par v'insegni;


l'invidia 'l mal d'altrui provvede e cura:


non vi scorgete, in insaziabil foco,


che 'l tempo è breve e 'l necessario è poco.


Color c'anticamente, al secol vecchio,


si trasser fame e sete d'acqua e ghiande


vi sieno esemplo, scorta, lume e specchio,


e freno alle delizie, alle vivande.


Porgete al mie parlare un po' l'orecchio:


colui che 'l mondo impera, e ch'è sì grande,


ancor disidra, e non ha pace poi;


e 'l villanel la gode co' suo buoi.


D'oro e di gemme, e spaventata in vista,


adorna, la Ricchezza va pensando;


ogni vento, ogni pioggia la contrista,


e gli agùri e ' prodigi va notando.


La lieta Povertà, fuggendo, acquista


ogni tesor, né pensa come o quando;


secur ne' boschi, in panni rozzi e bigi,


fuor d'obrighi, di cure e di letigi.


L'avere e 'l dar, l'usanze streme e strane,


el meglio e 'l peggio, e le cime dell'arte


al villanel son tutte cose piane,


e l'erba e l'acqua e 'l latte è la sua parte;


e 'l cantar rozzo, e ' calli delle mane,


è 'l dieci e 'l cento e ' conti e lo suo carte


dell'usura che 'n terra surger vede;


23


e senza affanno alla fortuna cede.


Onora e ama e teme e prega Dio


pe' pascol, per l'armento e pel lavoro,


con fede, con ispeme e con desio,


per la gravida vacca e pel bel toro.


El Dubbio, el Forse, el Come, el Perché rio


no 'l può ma' far, ché non istà fra loro:


se con semplice fede adora e prega


Iddio e 'l ciel, l'un lega e l'altro piega.


El Dubbio armato e zoppo si figura,


e va saltando come la locuste,


tremando d'ogni tempo per natura,


qual suole al vento far canna paluste.


El Perché è magro, e 'ntorn'alla cintura


ha molte chiave, e non son tanto giuste,


c'agugina gl'ingegni della porta,


e va di notte, e 'l buio è la suo scorta.


El Come e 'l Forse son parenti stretti,


e son giganti di sì grande altezza,


c'al sol andar ciascun par si diletti,


e ciechi fur per mirar suo chiarezza;


e quello alle città co' fieri petti


tengon, per tutto adombran lor bellezza;


e van per vie fra sassi erte e distorte,


tentando colle man qual istà forte.


Povero e nudo e sol se ne va 'l Vero,


che fra la gente umìle ha gran valore:


un occhio ha sol, qual è lucente e mero,


e 'l corpo ha d'oro, e d'adamante 'l core;


e negli affanni cresce e fassi altero,


e 'n mille luoghi nasce, se 'n un muore;


di fuor verdeggia sì come smeraldo,


e sta co' suo fedel costante e saldo.


Cogli occhi onesti e bassi in ver' la terra,


vestito d'oro e di vari ricami,


il Falso va, c'a' iusti sol fa guerra;


ipocrito, di fuor par c'ognuno ami;


perch'è di ghiaccio, al sol si cuopre e serra;


sempre sta 'n corte, e par che l'ombra brami;


e ha per suo sostegno e compagnia


la Fraude, la Discordia e la Bugia.


L'Adulazion v'è poi, ch'è pien d'affanni,


giovane destra e di bella persona;


di più color coperta di più panni,


che 'l cielo a primavera a' fior non dona:


ottien ciò che la vuol con dolci inganni,


e sol di quel che piace altrui ragiona;


ha 'l pianto e 'l riso in una voglia sola;


cogli occhi adora, e con le mani invola.


Non è sol madre in corte all'opre orrende,


ma è lor balia ancora, e col suo latte


le cresce, l'aümenta e le difende.


68


Un gigante v'è ancor, d'altezza tanta


che da' sua occhi noi qua giù non vede,


e molte volte ha ricoperta e franta


una città colla pianta del piede;


24


al sole aspira e l'alte torre pianta


per aggiunger al cielo, e non lo vede,


ché 'l corpo suo, così robusto e magno,


un occhio ha solo e quell'ha 'n un calcagno.


Vede per terra le cose passate,


e 'l capo ha fermo e prossim'a le stelle;


di qua giù se ne vede dua giornate


delle gran gambe, e irsut' ha la pelle;


da indi in su non ha verno né state,


ché le stagion gli sono equali e belle;


e come 'l ciel fa pari alla suo fronte,


in terra al pian col piè fa ogni monte.


Com'a noi è 'l minuzzol dell'arena,


sotto la pianta a lui son le montagne;


fra ' folti pel delle suo gambe mena


diverse forme mostruose e magne:


per mosca vi sarebbe una balena;


e sol si turba e sol s'attrista e piagne


quando in quell'occhio il vento seco tira


fummo o festuca o polvere che gira.


Una gran vecchia pigra e lenta ha seco,


che latta e mamma l'orribil figura,


e 'l suo arrogante, temerario e cieco


ardir conforta e sempre rassicura.


Fuor di lui stassi in un serrato speco,


nelle gran rocche e dentro all'alte mura;


quand'è lui in ozio, e le' in tenebre vive,


e sol inopia nel popol prescrive.


Palida e gialla, e nel suo grave seno


il segno porta sol del suo signore:


cresce del mal d'altrui, del ben vien meno,


né s'empie per cibarsi a tutte l'ore;


il corso suo non ha termin né freno,


e odia altrui e sé non porta amore;


di pietra ha 'l core e di ferro le braccia,


e nel suo ventre il mare e ' monti caccia.


Sette lor nati van sopra la terra,


che cercan tutto l'uno e l'altro polo,


e solo a' iusti fanno insidie e guerra,


e mille capi ha ciascun per sé solo.


L'etterno abisso per lor s'apre e serra,


tal preda fan nell'universo stuolo;


e lor membra ci prendon passo passo,


come edera fa el mur fra sasso e sasso.


69


Ben provvide natura, né conviene


a tanta crudeltà minor bellezza,


ché l'un contrario l'altro ha temperato.


Così può 'l viso vostro le mie pene


tante temprar con piccola dolcezza,


e lieve fare quelle e me beato.


70


Crudele stella, anzi crudele arbitrio


che 'l potere e 'l voler mi stringe e lega;


25


né si travaglia chiara stella in cielo


dal giorno [in qua?] che mie vela disciolse,


ond'io errando e vagabondo andai,


qual vano legno gira a tutti e' venti.


Or son qui, lasso, e all'incesi venti


convien varar mie legno, e senza arbitrio


solcar l'alte onde ove mai sempre andai.


Così quagiù si prende, preme e lega


quel che lassù già 'll'alber si disciolse,


ond'a me tolsi la dote del cielo.


Qui non mi regge e non mi spinge il cielo,


ma potenti e terrestri e duri venti,


ché sopra di me non so qual si disciolse


per [darli mano?] e tormi del mio arbitrio.


Così fuor di mie rete altri mi lega.


Mie colpa è, ch'ignorando a quello andai?


Maladetto [sie] 'l dì che ïo andai


col segno che correva su nel cielo!


Se non ch'i' so che 'l giorno el cor non lega,


né sforza l'alma, ne' contrari venti,


contra al nostro largito e sciolto arbitrio,


perché [...] e pruove ci disciolse.


Dunche, se mai dolor del cor disciolse


sospiri ardenti, o se orando andai


fra caldi venti a quel ch'è fuor d'arbitrio,


[...], pietoso de' mie caldi venti,


vede, ode e sente e non m'è contra 'l cielo;


ché scior non si può chi se stesso lega.


Così l'atti suo perde chi si lega,


e salvo sé nessun ma' si disciolse.


E come arbor va retto verso il cielo,


ti prego, Signor mio, se mai andai,


ritorni, come quel che non ha venti,


sotto el tüo grande el mïo arbitrio.


Colui che sciolse e lega 'l mio arbitrio,


ov'io andai agl'importuni venti,


fa' mie vendetta, s' tu mel desti, o cielo.


71


I' l'ho, vostra mercè, per ricevuto


e hollo letto delle volte venti.


Tal pro vi facci alla natura i denti,


co' 'l cibo al corpo quand'egli è pasciuto.


I' ho pur, poi ch'i' vi lasciai, saputo


che Cain fu de' vostri anticedenti,


né voi da quel tralignate altrimenti;


ché, s'altri ha ben, vel pare aver perduto.


Invidiosi, superbi, al ciel nimici,


la carità del prossimo v'è a noia,


e sol del vostro danno siete amici.


Se ben dice il Poeta di Pistoia,


istieti a mente, e basta; e se tu dici


ben di Fiorenza, tu mi dai la soia.


Qual prezïosa gioia


è certo, ma per te già non si intende,


perché poca virtù non la comprende.


26


72


Se nel volto per gli occhi il cor si vede,


altro segno non ho più manifesto


della mie fiamma; addunche basti or questo,


signor mie caro, a domandar mercede.


Forse lo spirto tuo, con maggior fede


ch'i' non credo, che sguarda il foco onesto


che m'arde, fie di me pietoso e presto,


come grazia c'abbonda a chi ben chiede.


O felice quel dì, se questo è certo!


Fermisi in un momento il tempo e l'ore,


il giorno e 'l sol nella su' antica traccia;


acciò ch'i' abbi, e non già per mie merto,


il desïato mie dolce signore


per sempre nell'indegne e pronte braccia.


73


Mentre del foco son scacciata e priva,


morir m'è forza, ove si vive e campa;


e 'l mie cibo è sol quel c'arde e avvampa,


e di quel c'altri muor, convien ch'i' viva.


74


I' piango, i' ardo, i' mi consumo, e 'l core


di questo si nutrisce. O dolce sorte!


chi è che viva sol della suo morte,


come fo io d'affanni e di dolore?


Ahi! crudele arcier, tu sai ben l'ore


da far tranquille l'angosciose e corte


miserie nostre con la tuo man forte;


ché chi vive di morte mai non muore.


75


Egli è pur troppo a rimirarsi intorno


chi con la vista ancide i circustanti


sol per mostrarsi andar diporto attorno.


Egli è pur troppo a chi fa notte il giorno,


scurando il sol co' vaghi e be' sembianti,


aprirgli spesso, e chi con risi e canti


ammuta altrui non esser meno adorno.


76


Non so se s'è la desïata luce


del suo primo fattor, che l'alma sente,


o se dalla memoria della gente


alcun'altra beltà nel cor traluce;


o se fama o se sogno alcun produce


agli occhi manifesto, al cor presente,


di sé lasciando un non so che cocente


ch'è forse or quel c'a pianger mi conduce.


Quel ch'i' sento e ch'i' cerco e chi mi guidi


27


meco non è; né so ben veder dove


trovar mel possa, e par c'altri mel mostri.


Questo, signor, m'avvien, po' ch'i' vi vidi,


c'un dolce amaro, un sì e no mi muove:


certo saranno stati gli occhi vostri.


77


Se 'l foco fusse alla bellezza equale


degli occhi vostri, che da que' si parte,


non avrie 'l mondo sì gelata parte


che non ardessi com'acceso strale.


Ma 'l ciel, pietoso d'ogni nostro male,


a noi d'ogni beltà, che 'n voi comparte,


la visiva virtù toglie e diparte


per tranquillar la vita aspr'e mortale.


Non è par dunche il foco alla beltate,


ché sol di quel s'infiamma e s'innamora


altri del bel del ciel, ch'è da lui inteso.


Così n'avvien, signore, in questa etate:


se non vi par per voi ch'i' arda e mora,


poca capacità m'ha poco acceso.


78


Dal dolce pianto al doloroso riso,


da una etterna a una corta pace


caduto son: là dove 'l ver si tace,


soprasta 'l senso a quel da lui diviso.


Né so se dal mie core o dal tuo viso


la colpa vien del mal, che men dispiace


quante più cresce, o dall'ardente face


de gli occhi tuo rubati al paradiso.


La tuo beltà non è cosa mortale,


ma fatta su dal ciel fra noi divina;


ond'io perdendo ardendo mi conforto,


c'appresso a te non esser posso tale.


Se l'arme il ciel del mie morir destina,


chi può, s'i' muoio, dir c'abbiate il torto?


79


Felice spirto, che con zelo ardente,


vecchio alla morte, in vita il mio cor tieni,


e fra mill'altri tuo diletti e beni


me sol saluti fra più nobil gente;


come mi fusti agli occhi, or alla mente,


per l'altru' fiate a consolar mi vieni,


onde la speme il duol par che raffreni,


che non men che 'l disio l'anima sente.


Dunche, trovando in te chi per me parla


grazia di te per me fra tante cure,


tal grazia ne ringrazia chi ti scrive.


Che sconcia e grande usur saria a farla,


donandoti turpissime pitture


per rïaver persone belle e vive.


28


80


I' mi credetti, il primo giorno ch'io


mira' tante bellezze uniche e sole,


fermar gli occhi com'aquila nel sole


nella minor di tante ch'i' desio.


Po' conosciut'ho il fallo e l'erro mio:


ché chi senz'ale un angel seguir vole,


il seme a' sassi, al vento le parole


indarno isparge, e l'intelletto a Dio.


Dunche, s'appresso il cor non mi sopporta


l'infinita beltà che gli occhi abbaglia,


né di lontan par m'assicuri o fidi,


che fie di me? qual guida o qual scorta


fie che con teco ma' mi giovi o vaglia,


s'appresso m'ardi e nel partir m'uccidi?


81


Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia


e priega e forza ch'i' vi segua e ami;


ché quel che non è voi non è 'l mie bene.


Amor, che sprezza ogni altra maraviglia,


per mie salute vuol ch'i' cerchi e brami


voi, sole, solo; e così l'alma tiene


d'ogni alta spene e d'ogni valor priva;


e vuol ch'i' arda e viva


non sol di voi, ma chi di voi somiglia


degli occhi e delle ciglia alcuna parte.


E chi da voi si parte,


occhi, mie vita, non ha luce poi;


ché 'l ciel non è dove non siate voi.


82


Non posso altra figura immaginarmi


o di nud'ombra o di terrestre spoglia,


col più alto pensier, tal che mie voglia


contra la tuo beltà di quella s'armi.


Ché da te mosso, tanto scender parmi,


c'Amor d'ogni valor mi priva e spoglia,


ond'a pensar di minuir mie doglia,


duplicando, la morte viene a darmi.


Però non val che più sproni mie fuga,


doppiando 'l corso alla beltà nemica,


ché 'l men dal più veloce non si scosta.


Amor con le sue man gli occhi m'asciuga,


promettendomi cara ogni fatica;


ché vile esser non può chi tanto costa.


83


Veggio nel tuo bel viso, signor mio,


quel che narrar mal puossi in questa vita:


l'anima, della carne ancor vestita,


con esso è già più volte ascesa a Dio.


29


E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio,


di quel che sente, altrui segna e addita,


non è l'intensa voglia men gradita,


l'amor, la fede e l'onesto desio.


A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,


s'assembra ogni beltà che qua si vede


più c'altra cosa alle persone accorte;


né altro saggio abbiàn né altri frutti


del cielo in terra; e chi v'ama con fede


trascende a Dio e fa dolce la morte.


84


Sì come nella penna e nell'inchiostro


è l'alto e 'l basso e 'l medïocre stile,


e ne' marmi l'immagin ricca e vile,


secondo che 'l sa trar l'ingegno nostro;


così, signor mie car, nel petto vostro,


quante l'orgoglio è forse ogni atto umile;


ma io sol quel c'a me propio è e simile


ne traggo, come fuor nel viso mostro.


Chi semina sospir, lacrime e doglie,


(l'umor dal ciel terreste, schietto e solo,


a vari semi vario si converte),


però pianto e dolor ne miete e coglie;


chi mira alta beltà con sì gran duolo,


ne ritra' doglie e pene acerbe e certe.


85


Com'io ebbi la vostra, signor mio,


cercand'andai fra tutti e' cardinali


e diss'a tre da vostra part' addio.


Al Medico maggior de' nostri mali


mostrai la detta, onde ne rise tanto


che 'l naso fe' dua parti dell'occhiali.


Il servito da voi pregiat' e santo


costà e qua, sì come voi scrivete,


n'ebbe piacer, che ne ris'altro tanto.


A quel che tien le cose più secrete


del Medico minor non l'ho ancor visto;


farebbes'anche a lui, se fusse prete.


Ècci molt'altri che rinegon Cristo


che voi non siate qua; né dà lor noia


ché chi non crede si tien manco tristo.


Di voi a tutti caverò la foia


di questa vostra; e chi non si contenta


affogar possa per le man del boia.


La Carne che nel sal si purg' e stenta


che saria buon per carbonat' ancora


di voi più che di sé par si rammenta.


Il nostro Buonarroto, che v'adora,


visto la vostra, se ben veggio, parmi


c'al ciel si lievi mille volte ogn'ora;


e dice che la vita de' sua marmi


non basta a far il vostro nom'eterno,


come lui fanno i divin vostri carmi.


Ai qual non nuoce né state né verno,


30


dal temp' esenti e da morte crudele,


che fama di virtù non ha in governo.


E come vostro amico e mio fedele


disse: - Ai dipinti, visti i versi belli,


s'appiccon voti e s'accendon candele.


Dunque i' son pur nel numero di quelli,


da un goffo pittor senza valore


cavato a' pennell' e alberelli.


Il Bernia ringraziate per mio amore,


che fra tanti lui sol conosc' il vero


di me; ché chi mi stim' è 'n grand'errore.


Ma la sua disciplin' el lum' intero


mi può ben dar, e gran miracol fia,


a far un uom dipint' un uom da vero. -


Così mi disse; e io per cortesia


vel raccomando quanto so e posso,


che fia l'apportator di questa mia.


Mentre la scrivo a vers'a verso, rosso


diveng'assai, pensando a cui la mando,


send' il mio non professo, goffo e grosso.


Pur nondimen così mi raccomando


anch'io a voi, e altro non accade;


d'ogni tempo son vostro e d'ogni quando.


A voi nel numer delle cose rade


tutto mi v'offerisco, e non pensate


ch'i' manchi, se 'l cappuccio non mi cade.


Così vi dico e giuro, e certo siate,


ch'i' non farei per me quel che per voi:


e non m'abbiat'a schifo come frate.


Comandatemi, e fate poi da voi.


86


Ancor che 'l cor già mi premesse tanto,


per mie scampo credendo il gran dolore


n'uscissi con le lacrime e col pianto,


fortuna al fonte di cotale umore


le radice e le vene ingrassa e 'mpingua


per morte, e non per pena o duol minore,


col tuo partire; onde convien destingua


dal figlio prima e tu morto dipoi,


del quale or parlo, pianto, penna e lingua.


L'un m'era frate, e tu padre di noi;


l'amore a quello, a te l'obrigo strigne:


non so qual pena più mi stringa o nòi.


La memoria 'l fratel pur mi dipigne,


e te sculpisce vivo in mezzo il core,


che 'l core e 'l volto più m'affligge e tigne.


Pur mi quieta che il debito, c'all'ore


pagò 'l mio frate acerbo, e tu maturo;


ché manco duole altrui chi vecchio muore.


Tanto all'increscitor men aspro e duro


esser dié 'l caso quant'è più necesse,


là dove 'l ver dal senso è più sicuro.


Ma chi è quel che morto non piangesse


suo caro padre, c'ha veder non mai


quel che vedea infinite volte o spesse?


Nostri intensi dolori e nostri guai


son come più e men ciascun gli sente:


31


quant'in me posson tu, Signor, tel sai.


E se ben l'alma alla ragion consente,


tien tanto in collo, che vie più abbondo


po' doppo quella in esser più dolente.


E se 'l pensier, nel quale i' mi profondo


non fussi che 'l ben morto in ciel si ridi


del timor della morte in questo mondo,


crescere' 'l duol; ma ' dolorosi stridi


temprati son d'una credenza ferma


che 'l ben vissuto a morte me' s'annidi.


Nostro intelletto dalla carne inferma


è tanto oppresso, che 'l morir più spiace


quanto più 'l falso persuaso afferma.


Novanta volte el sol suo chiara face


prim'ha nell'oceàn bagnata e molle,


che tu sie giunto alla divina pace.


Or che nostra miseria el ciel ti tolle,


increscati di me, che morto vivo,


come tuo mezzo qui nascer mi volle.


Tu se' del morir morto e fatto divo,


né tem'or più cangiar vita né voglia,


che quasi senza invidia non lo scrivo.


Fortuna e 'l tempo dentro a vostra soglia


non tenta trapassar, per cui s'adduce


fra no' dubbia letizia e certa doglia.


Nube non è che scuri vostra luce,


l'ore distinte a voi non fanno forza,


caso o necessità non vi conduce.


Vostro splendor per notte non s'ammorza,


né cresce ma' per giorno, benché chiaro,


sie quand'el sol fra no' il caldo rinforza.


Nel tuo morire el mie morire imparo,


padre mie caro, e nel pensier ti veggio


dove 'l mondo passar ne fa di raro.


Non è, com'alcun crede, morte il peggio


a chi l'ultimo dì trascende al primo,


per grazia, etterno appresso al divin seggio


dove, Die grazia, ti prosumo e stimo


e spero di veder, se 'l freddo core


mie ragion tragge dal terrestre limo.


E se tra 1' padre e 'l figlio ottimo amore


cresce nel ciel, crescendo ogni virtute,


. . . . . . . . . . .


87


Vorrei voler, Signor, quel ch'io non voglio:


tra 'l foco e 'l cor di ghiaccia un vel s'asconde


che 'l foco ammorza, onde non corrisponde


la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.


I' t'amo con la lingua, e poi mi doglio


c'amor non giunge al cor; né so ben onde


apra l'uscio alla grazia che s'infonde


nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.


Squarcia 'l vel tu, Signor, rompi quel muro


che con la suo durezza ne ritarda


il sol della tuo luce, al mondo spenta!


Manda 'l preditto lume a noi venturo,


alla tuo bella sposa, acciò ch'io arda


32


il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.


88


Sento d'un foco un freddo aspetto acceso


che lontan m'arde e sé con seco agghiaccia;


pruovo una forza in due leggiadre braccia


che muove senza moto ogni altro peso.


Unico spirto e da me solo inteso,


che non ha morte e morte altrui procaccia,


veggio e truovo chi, sciolto, 'l cor m'allaccia,


e da chi giova sol mi sento offeso.


Com'esser può, signor, che d'un bel volto


ne porti 'l mio così contrari effetti,


se mal può chi non gli ha donar altrui?


Onde al mio viver lieto, che m'ha tolto,


fa forse come 'l sol, se nol permetti,


che scalda 'l mondo e non è caldo lui.


89


Veggio co' be' vostr'occhi un dolce lume


che co' mie ciechi già veder non posso;


porto co' vostri piedi un pondo addosso,


che de' mie zoppi non è già costume.


Volo con le vostr'ale senza piume;


col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;


dal vostro arbitrio son pallido e rosso,


freddo al sol, caldo alle più fredde brume.


Nel voler vostro è sol la voglia mia,


i miei pensier nel vostro cor si fanno,


nel vostro fiato son le mie parole.


Come luna da sé sol par ch'io sia,


ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno


se non quel tanto che n'accende il sole.


90


I' mi son caro assai più ch'i' non soglio;


poi ch'i' t'ebbi nel cor più di me vaglio,


come pietra c'aggiuntovi l'intaglio


è di più pregio che 'l suo primo scoglio.


O come scritta o pinta carta o foglio


più si riguarda d'ogni straccio o taglio,


tal di me fo, da po' ch'i' fu' berzaglio


segnato dal tuo viso, e non mi doglio.


Sicur con tale stampa in ogni loco


vo, come quel c'ha incanti o arme seco,


c'ogni periglio gli fan venir meno.


I' vaglio contr'a l'acqua e contr'al foco,


col segno tuo rallumino ogni cieco,


e col mie sputo sano ogni veleno.


91


Perc'all'estremo ardore


33


che toglie e rende poi


il chiuder e l'aprir degli occhi tuoi


duri più la mie vita,


fatti son calamita


di me, de l'alma e d'ogni mie valore;


tal c'anciderm' Amore,


forse perch'è pur cieco,


indugia, triema e teme.


C'a passarmi nel core,


sendo nel tuo con teco,


pungere' prima le tuo parte streme


e perché meco insieme


non mora, non m'ancide. O gran martire,


c'una doglia mortal, senza morire,


raddoppia quel languire


del qual, s'i' fussi meco, sare' fora.


Deh rendim' a me stesso, acciò ch'i' mora.


92


Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni


ognor con maggior guerra


a rendere alla terra


le membra afflitte, stanche e pellegrine,


non ha per 'ncor fine


chi l'alma attrista e me fa così lieto.


Né par che men perdoni


a chi 'l cor m'apre e serra,


nell'ore più vicine


e più dubiose d'altro viver quieto;


ché l'error consueto,


com più m'attempo, ognor più si fa forte.


O dura mia più c'altra crudel sorte!


tardi orama' puo' tormi tanti affanni;


c'un cor che arde e arso è già molt'anni


torna, se ben l'ammorza la ragione,


non più già cor, ma cenere e carbone.


93


Spargendo il senso il troppo ardor cocente


fuor del tuo bello, in alcun altro volto,


men forza ha, signor, molto


qual per più rami alpestro e fier torrente.


Il cor, che del più ardente


foco più vive, mal s'accorda allora


co' rari pianti e men caldi sospiri.


L'alma all'error presente


gode c'un di lor mora


per gire al ciel, là dove par c'aspiri.


La ragione i martiri


fra lor comparte; e fra più salde tempre


s'accordan tutt'a quattro amarti sempre.


94


D'altrui pietoso e sol di sé spietato


34


nasce un vil bruto, che con pena e doglia


l'altrui man veste e la suo scorza spoglia


e sol per morte si può dir ben nato.


Così volesse al mie signor mie fato


vestir suo viva di mie morta spoglia,


che, come serpe al sasso si discoglia,


pur per morte potria cangiar mie stato.


O fussi sol la mie l'irsuta pelle


che, del suo pel contesta, fa tal gonna


che con ventura stringe sì bel seno,


ch'i' l'are' pure il giorno; o le pianelle


che fanno a quel di lor basa e colonna,


ch'i' pur ne porterei duo nevi almeno.


95


Rendete agli occhi mei, o fonte o fiume,


l'onde della non vostra e salda vena,


che più v'innalza e cresce, e con più lena


che non è 'l vostro natural costume.


E tu, folt'aïr, che 'l celeste lume


tempri a' trist'occhi, de' sospir mie piena,


rendigli al cor mie lasso e rasserena


tua scura faccia al mie visivo acume.


Renda la terra i passi alle mie piante,


c'ancor l'erba germugli che gli è tolta,


e 'l suono eco, già sorda a' mie lamenti;


gli sguardi agli occhi mie tuo luce sante,


ch'i' possa altra bellezza un'altra volta


amar, po' che di me non ti contenti.


96


Sì come secco legno in foco ardente


arder poss'io, s'i' non t'amo di core,


e l'alma perder, se null'altro sente.


E se d'altra beltà spirto d'amore


fuor de' tu' occhi è che m'infiammi o scaldi,


tolti sien quegli a chi sanz'essi muore.


S'io non t'amo e ador, ch'e' mie più baldi


pensier sien con la speme tanto tristi


quanto nel tuo amor son fermi e saldi.


97


Al cor di zolfo, a la carne di stoppa,


a l'ossa che di secco legno sièno;


a l'alma senza guida e senza freno


al desir pronto, a la vaghezza troppa;


a la cieca ragion debile e zoppa


al vischio, a' lacci di che 'l mondo è pieno;


non è gran maraviglia, in un baleno


arder nel primo foco che s'intoppa.


A la bell'arte che, se dal ciel seco


ciascun la porta, vince la natura,


quantunche sé ben prema in ogni loco;


s'i' nacqui a quella né sordo né cieco,


35


proporzionato a chi 'l cor m'arde e fura,


colpa è di chi m'ha destinato al foco.


98


A che più debb'i' omai l'intensa voglia


sfogar con pianti o con parole meste,


se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,


tard' o per tempo alcun mai non ne spoglia?


A che 'l cor lass' a più languir m'invoglia,


s'altri pur dee morir? Dunche per queste


luci l'ore del fin fian men moleste;


c'ogni altro ben val men c'ogni mia doglia.


Però se 'l colpo ch'io ne rub' e 'nvolo


schifar non posso, almen, s'è destinato,


chi entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?


Se vint' e preso i' debb'esser beato,


maraviglia non è se nudo e solo


resto prigion d'un cavalier armato.


99


Ben mi dove' con sì felice sorte,


mentre che Febo il poggio tutto ardea,


levar da terra, allor quand'io potea,


con le suo penne, e far dolce la morte.


Or m'è sparito; e se 'l fuggir men forte


de' giorni lieti invan mi promettea,


ragione è ben c'all'alma ingrata e rea


pietà le mani e 'l ciel chiugga le porte.


Le penne mi furn'ale e 'l poggio scale,


Febo lucerna a' piè; né m'era allora


men salute il morir che maraviglia.


Morendo or senza, al ciel l'alma non sale,


né di lor la memoria il cor ristora:


ché tardi e doppo il danno, chi consiglia?


100


Ben fu, temprando il ciel tuo vivo raggio,


solo a du' occhi, a me di pietà vòto,


allor che con veloce etterno moto


a noi dette la luce, a te 'l vïaggio.


Felice uccello, che con tal vantaggio


da noi, t'è Febo e 'l suo bel volto noto,


e più c'al gran veder t'è ancora arroto


volare al poggio, ond'io rovino e caggio.


101


Perché Febo non torce e non distende


d'intorn' a questo globo freddo e molle


le braccia sua lucenti, el vulgo volle


notte chiamar quel sol che non comprende.


E tant'è debol, che s'alcun accende


un picciol torchio, in quella parte tolle


36


la vita dalla notte, e tant'è folle


che l'esca col fucil la squarcia e fende.


E s'egli è pur che qualche cosa sia


cert'è figlia del sol e della terra;


ché l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.


Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra,


vedova, scura, in tanta gelosia,


c'una lucciola sol gli può far guerra.


102


O notte, o dolce tempo, benché nero,


con pace ogn' opra sempr' al fin assalta;


ben vede e ben intende chi t'esalta,


e chi t'onor' ha l'intelletto intero.


Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;


ché l'umid' ombra ogni quiet' appalta,


e dall'infima parte alla più alta


in sogno spesso porti, ov'ire spero.


O ombra del morir, per cui si ferma


ogni miseria a l'alma, al cor nemica,


ultimo delli afflitti e buon rimedio;


tu rendi sana nostra carn' inferma,


rasciughi i pianti e posi ogni fatica,


e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.


103


Ogni van chiuso, ogni coperto loco,


quantunche ogni materia circumscrive,


serba la notte, quando il giorno vive,


contro al solar suo luminoso gioco.


E s'ella è vinta pur da fiamma o foco,


da lei dal sol son discacciate e prive


con più vil cosa ancor sue specie dive,


tal c'ogni verme assai ne rompe o poco.


Quel che resta scoperto al sol, che ferve


per mille vari semi e mille piante,


il fier bifolco con l'aratro assale;


ma l'ombra sol a piantar l'uomo serve.


Dunche, le notti più ch'e' dì son sante,


quanto l'uom più d'ogni altro frutto vale.


104


Colui che fece, e non di cosa alcuna,


il tempo, che non era anzi a nessuno,


ne fe' d'un due e diè 'l sol alto all'uno,


all'altro assai più presso diè la luna.


Onde 'l caso, la sorte e la fortuna


in un momento nacquer di ciascuno;


e a me consegnaro il tempo bruno,


come a simil nel parto e nella cuna.


E come quel che contrafà se stesso,


quando è ben notte, più buio esser suole,


ond'io di far ben mal m'affliggo e lagno.


Pur mi consola assai l'esser concesso


37


far giorno chiar mia oscura notte al sole


che a voi fu dato al nascer per compagno.


105


Non vider gli occhi miei cosa mortale


allor che ne' bei vostri intera pace


trovai, ma dentro, ov'ogni mal dispiace,


chi d'amor l'alma a sé simil m'assale;


e se creata a Dio non fusse equale,


altro che 'l bel di fuor, c'agli occhi piace,


più non vorria; ma perch'è sì fallace,


trascende nella forma universale.


Io dico c'a chi vive quel che muore


quetar non può disir; né par s'aspetti


l'eterno al tempo, ove altri cangia il pelo.


Voglia sfrenata el senso è, non amore,


che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti


gli amici qui, ma più per morte in cielo.


106


Per ritornar là donde venne fora,


l'immortal forma al tuo carcer terreno


venne com'angel di pietà sì pieno,


che sana ogn'intelletto e 'l mondo onora.


Questo sol m'arde e questo m'innamora,


non pur di fuora il tuo volto sereno:


c'amor non già di cosa che vien meno


tien ferma speme, in cui virtù dimora.


Né altro avvien di cose altere e nuove


in cui si preme la natura, e 'l cielo


è c' a' lor parti largo s'apparecchia;


né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove


più che 'n alcun leggiadro e mortal velo;


e quel sol amo perch'in lui si specchia.


107


Gli occhi mie vaghi delle cose belle


e l'alma insieme della suo salute


non hanno altra virtute


c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.


Dalle più alte stelle


discende uno splendore


che 'l desir tira a quelle,


e qui si chiama amore.


Né altro ha il gentil core


che l'innamori e arda, e che 'l consigli,


c'un volto che negli occhi lor somigli.


108


Indarno spera, come 'l vulgo dice,


chi fa quel che non de' grazia o mercede.


Non fu', com'io credetti, in vo' felice,


38


privandomi di me per troppa fede,


né spero com'al sol nuova fenice


ritornar più; ché 'l tempo nol concede.


Pur godo il mie gran danno sol perch'io


son più mie vostro, che s'i' fussi mio.


109


Non sempre a tutti è sì pregiato e caro


quel che 'l senso contenta,


c'un sol non sia che 'l senta,


se ben par dolce, pessimo e amaro.


Il buon gusto è sì raro


c'al vulgo errante cede


in vista, allor che dentro di sé gode.


Così, perdendo, imparo


quel che di fuor non vede


chi l'alma ha trista, e ' suo sospir non ode.


El mondo è cieco e di suo gradi o lode


più giova a chi più scarso esser ne vuole,


come sferza che 'nsegna e parte duole.


110


Io dico a voi c'al mondo avete dato


l'anima e 'l corpo e lo spirto 'nsïeme:


in questa cassa oscura è 'l vostro lato.


111


S'egli è, donna, che puoi


come cosa mortal, benché sia diva


di beltà, c'ancor viva


e mangi e dorma e parli qui fra noi,


a non seguirti poi,


cessato il dubbio, tuo grazia e mercede,


qual pena a tal peccato degna fora?


Ché alcun ne' pensier suoi,


co' l'occhio che non vede,


per virtù propia tardi s'innamora.


Disegna in me di fuora,


com'io fo in pietra od in candido foglio,


che nulla ha dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.


112


Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo


qual più sicuro è, che non sia men forte


che 'l pianger e 'l pregar? e non m'aita.


Amore e crudeltà m'han posto il campo:


l'un s'arma di pietà, l'altro di morte;


questa n'ancide, e l'altra tien in vita.


Così l'alma impedita


del mio morir, che sol poria giovarne,


più volte per andarne


s'è mossa là dov'esser sempre spera,


39


dov'è beltà sol fuor di donna altiera;


ma l'imagine vera,


della qual vivo, allor risorge al core,


perché da morte non sia vinto amore.


113


Esser non può già ma' che gli occhi santi


prendin de' mie, com'io di lor, diletto,


rendendo al divo aspetto,


per dolci risi, amari e tristi pianti.


O fallace speranza degli amanti!


Com'esser può dissimile e dispari


l'infinita beltà, 'l superchio lume


da ogni mie costume,


che meco ardendo, non ardin del pari?


Fra duo volti diversi e sì contrari


s'adira e parte da l'un zoppo Amore;


né può far forza che di me gl'incresca,


quand'in un gentil core


entra di foco, e d'acqua par che n'esca.


114


Ben vinci ogni durezza


cogli occhi tuo, com'ogni luce ancora;


ché, s'alcun d'allegrezza avvien che mora,


allor sarebbe l'ora


che gran pietà comanda a gran bellezza.


E se nel foco avvezza


non fusse l'alma, già morto sarei


alle promesse de' tuo primi sguardi,


ove non fur ma' tardi


gl'ingordi mie nimici, anz'occhi mei;


né doler mi potrei


di questo non poter, che non è teco.


Bellezza e grazia equalmente infinita,


dove più porgi aita,


men puoi non tor la vita,


né puoi non far chiunche tu miri cieco.


115


Lezi, vezzi, carezze, or, feste e perle,


chi potria ma' vederle


cogli atti suo divin l'uman lavoro,


ove l'argento e l'oro


da le' riceve o duplica suo luce?


Ogni gemma più luce


dagli occhi suo che da propia virtute.


116


Non mi posso tener né voglio, Amore,


crescendo al tuo furore,


ch'i' nol te dica e giuri:


40


quante più inaspri e 'nduri,


a più virtù l'alma consigli e sproni;


e se talor perdoni


a la mie morte, agli angosciosi pianti,


com'a colui che muore,


dentro mi sento il core


mancar, mancando i mie tormenti tanti.


Occhi lucenti e santi,


mie poca grazia m'è ben dolce e cara,


c'assai acquista chi perdendo impara.


117


S'egli è che 'l buon desio


porti dal mondo a Dio


alcuna cosa bella,


sol la mie donna è quella,


a chi ha gli occhi fatti com'ho io.


Ogni altra cosa oblio


e sol di tant'ho cura.


Non è gran maraviglia,


s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;


né propio valor mio,


se l'alma per natura


s'appoggia a chi somiglia


ne gli occhi gli occhi, ond'ella scende fore.


Se sente il primo amore


come suo fin, per quel qua questa onora:


c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.


118


Ancor che 'l cor già molte volte sia


d'amore acceso e da troppi anni spento,


l'ultimo mie tormento


sarie mortal senza la morte mia.


Onde l'alma desia


de' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,


l'ultimo, primo in più tranquilla corte.


Altro refugio o via


mie vita non iscampa


dal suo morir, c'un'aspra e crudel morte;


né contr'a morte è forte


altro che morte, sì c'ogn'altra aita


è doppia morte a chi per morte ha vita.


119


Dal primo pianto all'ultimo sospiro,


al qual son già vicino,


chi contrasse già mai sì fier destino


com'io da sì lucente e fera stella?


Non dico iniqua o fella,


che 'l me' saria di fore,


s'aver disdegno ne troncasse amore;


ma più, se più la miro,


promette al mio martiro


41


dolce pietà, con dispietato core.


O desiato ardore!


ogni uom vil sol potria vincer con teco,


ond'io, s'io non fui cieco,


ne ringrazio le prime e l'ultime ore


ch'io la vidi; e l'errore


vincami; e d'ogni tempo sia con meco,


se sol forza e virtù perde con seco.


120


Ben tempo saria omai


ritrarsi dal martire,


ché l'età col desir non ben s'accorda;


ma l'alma, cieca e sorda,


Amor, come tu sai,


del tempo e del morire


che, contro a morte ancor, me la ricorda;


e se l'arco e la corda


avvien che tronchi o spezzi


in mille e mille pezzi,


prega te sol non manchi un de' suoi guai:


ché mai non muor chi non guarisce mai.


121


Come non puoi non esser cosa bella,


esser non puoi che pietosa non sia;


sendo po' tutta mia,


non puo' poter non mi distrugga e stempre.


Così durando sempre


mie pietà pari a tua beltà qui molto,


la fin del tuo bel volto


in un tempo con ella


fie del mie ardente core.


Ma poi che 'l spirto sciolto


ritorna alla suo stella,


a fruir quel signore


ch'e' corpi a chiunche muore


eterni rende o per quiete o per lutto;


priego 'l mie, benché brutto,


com'è qui teco, il voglia in paradiso:


c'un cor pietoso val quant'un bel viso.


122


Se 'l foco al tutto nuoce,


e me arde e non cuoce,


non è mia molta né sua men virtute,


ch'io sol trovi salute


qual salamandra, là dove altri muore.


Né so chi in pace a tal martir m'ha volto:


da te medesma il volto,


da me medesmo il core


fatto non fu, né sciolto


da noi fia mai il mio amore;


più alto è quel signore


42


che ne' tu' occhi la mia vita ha posta.


S'io t'amo, e non ti costa,


perdona a me, come io a tanta noia,


che fuor di chi m'uccide vuol ch'i' muoia.


123


Quante più par che 'l mie mal maggior senta,


se col viso vel mostro,


più par s'aggiunga al vostro


bellezza, tal che 'l duol dolce diventa.


Ben fa chi mi tormenta,


se parte vi fa bella


della mie pena ria:


se 'l mie mal vi contenta,


mie cruda e fera stella,


che farie dunche con la morte mia?


Ma s'è pur ver che sia


vostra beltà dall'aspro mie martire,


e quel manchi al morire,


morend'io, morrà vostra leggiadria.


Però fate ch'i' stia


col mie duol vivo, per men vostro danno;


e se più bella al mie mal maggior siete,


l'alma n'ha ben più quiete:


c'un gran piacer sopporta un grande affanno.


124


Questa mie donna è sì pronta e ardita,


c'allor che la m'ancide ogni mie bene


cogli occhi mi promette, e parte tiene


il crudel ferro dentro a la ferita.


E così morte e vita,


contrarie, insieme in un picciol momento


dentro a l'anima sento;


ma la grazia il tormento


da me discaccia per più lunga pruova:


c'assai più nuoce il mal che 'l ben non giova.


125


Tanto di sé promette


donna pietosa e bella,


c'ancor mirando quella


sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.


Ma perc'ognor si mette


morte invidiosa e fella


fra ' mie dolenti e ' suo pietosi sguardi,


solo convien ch'i' ardi


quel picciol tempo che 'l suo volto oblio.


Ma poi che 'l pensier rio


pur la ritorna al consueto loco,


dal suo fier ghiaccio è spento il dolce foco.


126


43


Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,


che 'n alcun altro torni


a' corti e brevi giorni,


per vivere e morire un'altra volta,


la donna mie, di molta


bellezza agli occhi miei,


fie allor com'or nel suo tornar sì cruda?


Se mie ragion s'ascolta,


attender la dovrei


di grazia piena e di durezza nuda.


Credo, s'avvien che chiuda


gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,


pietà del mie morir, se morte pruova.


127


Non pur la morte, ma 'l timor di quella


da donna iniqua e bella,


c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;


e se talor m'avvampa


più che l'usato il foco in ch'io son corso,


non trovo altro soccorso


che l'immagin sua ferma in mezzo il core:


ché dove è morte non s'appressa Amore.


128


Se 'l timor della morte


chi 'l fugge e scaccia sempre


lasciar là lo potessi onde ei si muove,


Amor crudele e forte


con più tenaci tempre


d'un cor gentil faria spietate pruove.


Ma perché l'alma altrove


per morte e grazia al fin gioire spera,


chi non può non morir gli è 'l timor caro


al qual ogni altro cede.


Né contro all'alte e nuove


bellezze in donna altera


ha forza altro riparo


che schivi suo disdegno o suo mercede.


Io giuro a chi nol crede,


che da costei, che del mio pianger ride,


sol mi difende e scampa chi m'uccide.


129


Da maggior luce e da più chiara stella


la notte il ciel le sue da lunge accende:


te sol presso a te rende


ognor più bella ogni cosa men bella.


Qual cor più questa o quella


a pietà muove o sprona,


c'ognor chi arde almen non s'agghiacc'egli?


Chi, senza aver, ti dona


vaga e gentil persona


44


e 'l volto e gli occhi e ' biondi e be' capegli.


Dunche, contr'a te quegli


ben fuggi e me con essi,


se 'l bello infra ' non begli


beltà cresce a se stessi.


Donna, ma s' tu rendessi


quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha tolto,


sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto.


130


Non è senza periglio


il tuo volto divino


dell'alma a chi è vicino


com'io a morte, che la sento ognora;


ond'io m'armo e consiglio


per far da quel difesa anzi ch'i' mora.


Ma tuo mercede, ancora


che 'l mie fin sie da presso,


non mi rende a me stesso;


né danno alcun da tal pietà mi scioglie:


ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.


131


Sotto duo belle ciglia


le forze Amor ripiglia


nella stagion che sprezza l'arco e l'ale.


Gli occhi mie, ghiotti d'ogni maraviglia


c'a questa s'assomiglia,


di lor fan pruova a più d'un fero strale.


E parte pur m'assale,


appresso al dolce, un pensier aspro e forte


di vergogna e di morte;


né perde Amor per maggior tema o danni:


c'un'or non vince l'uso di molt'anni.


132


Mentre che 'l mie passato m'è presente,


sì come ognor mi viene,


o mondo falso, allor conosco bene


l'errore e 'l danno dell'umana gente:


quel cor, c'alfin consente


a' tuo lusinghi e a' tuo van diletti,


procaccia all'alma dolorosi guai.


Ben lo sa chi lo sente,


come spesso prometti


altrui la pace e 'l ben che tu non hai


né debbi aver già mai.


Dunche ha men grazia chi più qua soggiorna:


ché chi men vive più lieve al ciel torna.


133


Condotto da molt'anni all'ultim'ore,


45


tardi conosco, o mondo, i tuo diletti:


la pace che non hai altrui prometti


e quel riposo c'anzi al nascer muore.


La vergogna e 'l timore


degli anni, c'or prescrive


il ciel, non mi rinnuova


che 'l vecchio e dolce errore,


nel qual chi troppo vive


l'anima 'ncide e nulla al corpo giova.


Il dico e so per pruova


di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte


ch'ebbe al suo parto più presso la morte.


134


- Beati voi che su nel ciel godete


le lacrime che 'l mondo non ristora,


favvi amor forza ancora,


o pur per morte liberi ne siete?


- La nostra etterna quiete,


fuor d'ogni tempo, è priva


d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.


- Dunche a mal pro' ch'i' viva


convien, come vedete,


per amare e servire in dolor tanti.


Se 'l cielo è degli amanti


amico, e 'l mondo ingrato,


amando, a che son nato?


A viver molto? E questo mi spaventa:


ché 'l poco è troppo a chi ben serve e stenta.


135


Mentre c'al tempo la mie vita fugge,


amor più mi distrugge,


né mi perdona un'ora,


com'i' credetti già dopo molt'anni.


L'alma, che trema e rugge,


com'uom c'a torto mora,


di me si duol, de' sua etterni danni.


Fra 'l timore e gl'inganni


d'amore e morte, allor tal dubbio sento,


ch'i' cerco in un momento


del me' di loro e di poi il peggio piglio;


sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.


136


L'alma, che sparge e versa


di fuor l'acque di drento,


il fa sol perché spento


non sie da loro il foco in ch'è conversa.


Ogni altra aita persa


saria, se 'l pianger sempre


mi resurge al tuo foco, vecchio e tardi.


Mie dura sorte e mie fortuna avversa


non ha sì dure tempre,


46


che non m'affligghin men, dove più m'ardi;


tal ch'e' tuo accesi sguardi,


di fuor piangendo, dentro circumscrivo,


e di quel c'altri muor sol godo e vivo.


137


Se per gioir pur brami affanni e pianti,


più crudo, Amor, m'è più caro ogni strale,


che fra la morte e 'l male


non dona tempo alcun, né brieve spazio:


tal c'a 'ncider gli amanti


i pianti perdi, e 'l nostro è meno strazio.


Ond'io sol ti ringrazio


della mie morte e non delle mie doglie,


c'ogni mal sana chi la vita toglie.


138


Porgo umilmente all'aspro giogo il collo


il volto lieto a la fortuna ria,


e alla donna mia


nemica il cor di fede e foco pieno;


né dal martir mi crollo,


anz'ogni or temo non venga meno.


Ché se 'l volto sereno


cibo e vita mi fa d'un gran martire,


qual crudel doglia mi può far morire?


139


In più leggiadra e men pietosa spoglia


altr'anima non tiene


che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;


tal c'alla ingrata voglia


al don di tuo beltà perpetue pene


più si convien c'al mie soffrire 'l cielo.


I' nol dico e nol celo


s'i' bramo o no come 'l tuo 'l mie peccato,


ché, se non vivo, morto ove te sia,


o, te pietosa, che dove beato


mi fa 'l martir, si' etterna pace mia.


Se dolce mi saria


l'inferno teco, in ciel dunche che fora?


Beato a doppio allora


sare' a godere i' sol nel divin coro


quel Dio che 'n cielo e quel che 'n terra adoro.


140


Se l'alma al fin ritorna


nella suo dolce e desïata spoglia,


o danni o salvi il ciel, come si crede,


ne l'inferno men doglia,


se tuo beltà l'adorna,


47


fie, parte c'altri ti contempla e vede.


S'al cielo ascende e riede,


com'io seco desio


e con tal cura e con sì caldo affetto,


fie men fruire Dio,


s'ogni altro piacer cede


come di qua, al tuo divo e dolce aspetto.


Che me' d'amarti aspetto,


se più giova men doglia a chi è dannato,


che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.


141


Perc'all'alta mie speme è breve e corta,


donna, tuo fé, se con san occhio il veggio,


goderò per non peggio


quante di fuor con gli occhi ne prometti;


ché dove è pietà morta,


non è che gran bellezza non diletti.


E se contrari effetti


agli occhi di mercé dentro a te sento,


la certezza non tento,


ma prego, ove 'l gioire è men che 'ntero


sie dolce il dubbio a chi nuocer può 'l vero.


142


Credo, perc'ancor forse


non sia la fiamma spenta


nel freddo tempo dell'età men verde,


l'arco subito torse


Amor, che si rammenta


che 'n gentil cor ma' suo colpo non perde;


e la stagion rinverde


per un bel volto; e peggio è al sezzo strale


mie ricaduta che 'l mio primo male.


143


Quant'ognor fugge il giorno che mi resta


del viver corto e poco


tanto più serra il foco


in picciol tempo a mie più danno e strazio:


c'aita il ciel non presta


contr'al vecchio uso in così breve spazio.


Pur poi che non se' sazio


del foco circumscritto,


in cui pietra non serva suo natura


non c'un cor, ti ringrazio,


Amor, se 'l manco invitto


in chiuso foco alcun tempo non dura.


Mie peggio è mie ventura,


perché la vita all'arme che tu porti


cara non m'è, s'almen perdoni a' morti.


144


48


Passo inanzi a me stesso


con alto e buon concetto,


e 'l tempo gli prometto


c'aver non deggio. O pensier vano e stolto!


Ché con la morte appresso


perdo 'l presente, e l'avvenir m'è tolto;


e d'un leggiadro volto


ardo e spero sanar, che morto viva


negli anni ove la vita non arriva.


145


Se costei gode e tu solo, Amor, vivi


de' nostri pianti, e s'io, come te, soglio


di lacrime e cordoglio


e d'un ghiaccio nutrir la vita mia;


dunche, di vita privi


saremo da mercé di donna pia.


Meglio il peggio saria:


contrari cibi han sì contrari effetti


c'a lei il godere, a noi torrien la vita;


tal che 'nsieme prometti


più morte, là dove più porgi aita.


A l'alma sbigottita


viver molto più val con dura sorte


che grazia c'abbi a sé presso la morte.


146


Gli sguardi che tu strazi


a me tutti gli togli;


né furto è già quel che del tuo non doni;


ma se 'l vulgo ne sazi


e ' bruti, e me ne spogli,


omicidio è, c'a morte ognor mi sproni.


Amor, perché perdoni


tuo somma cortesia


sie di beltà qui tolta


a chi gusta e desia,


e data a gente stolta?


Deh, falla un'altra volta


pietosa dentro e sì brutta di fuori,


c'a me dispiaccia, e di me s'innamori.


147


- Deh dimmi, Amor, se l'alma di costei


fusse pietosa com'ha bell' il volto,


s'alcun saria sì stolto


ch'a sé non si togliessi e dessi a lei?


E io, che più potrei


servirla, amarla, se mi fuss'amica,


che, sendomi nemica,


l'amo più c'allor far non doverrei?


- Io dico che fra voi, potenti dei,


convien c'ogni riverso si sopporti.


49


Poi che sarete morti,


di mille 'ngiurie e torti,


amando te com'or di lei tu ardi,


far ne potrai giustamente vendetta.


Ahimè, lasso chi pur tropp'aspetta


ch'i' gionga a' suoi conforti tanto tardi!


Ancor, se ben riguardi,


un generoso, alter e nobil core


perdon' e porta a chi l'offend' amore.


148


Con più certa salute


men grazia, donna, mi terrie ancor vivo;


dall'uno e l'altro rivo


degli occhi il petto sarie manco molle.


Doppia mercé mie picciola virtute


di tanto vince che l'adombra e tolle;


né saggio alcun ma' volle,


se non sé innalza e sprona,


di quel gioir ch'esser non può capace.


Il troppo è vano e folle;


ché modesta persona


d'umil fortuna ha più tranquilla pace.


Quel c'a vo' lice, a me, donna, dispiace:


chi si dà altrui, c'altrui non si prometta,


d'un superchio piacer morte n'aspetta.


149


Non posso non mancar d'ingegno e d'arte


a chi mi to' la vita


con tal superchia aita,


che d'assai men mercé più se ne prende.


D'allor l'alma mie parte


com'occhio offeso da chi troppo splende,


e sopra me trascende


a l'impossibil mie; per farmi pari


al minor don di donna alta e serena,


seco non m'alza; e qui convien ch'impari


che quel ch'i' posso ingrato a lei mi mena.


Questa, di grazie piena,


n'abonda e 'nfiamma altrui d'un certo foco,


che 'l troppo con men caldo arde che 'l poco.


150


Non men gran grazia, donna, che gran doglia


ancide alcun, che 'l furto a morte mena,


privo di speme e ghiacciato ogni vena,


se vien subito scampo che 'l discioglia.


Simil se tuo mercé, più che ma' soglia,


nella miseria mie d'affanni piena,


con superchia pietà mi rasserena,


par, più che 'l pianger, la vita mi toglia.


Così n'avvien di novell'aspra o dolce:


ne' lor contrari è morte in un momento,


50


onde s'allarga o troppo stringe 'l core.


Tal tuo beltà, c'Amore e 'l ciel qui folce,


se mi vuol vivo affreni il gran contento,


c'al don superchio debil virtù muore.


151


Non ha l'ottimo artista alcun concetto


c'un marmo solo in sé non circonscriva


col suo superchio, e solo a quello arriva


la man che ubbidisce all'intelletto.


Il mal ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,


in te, donna leggiadra, altera e diva,


tal si nasconde; e perch'io più non viva,


contraria ho l'arte al disïato effetto.


Amor dunque non ha, né tua beltate


o durezza o fortuna o gran disdegno,


del mio mal colpa, o mio destino o sorte;


se dentro del tuo cor morte e pietate


porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno


non sappia, ardendo, trarne altro che morte.


152


Sì come per levar, donna, si pone


in pietra alpestra e dura


una viva figura,


che là più cresce u' più la pietra scema;


tal alcun'opre buone,


per l'alma che pur trema,


cela il superchio della propria carne


co' l'inculta sua cruda e dura scorza.


Tu pur dalle mie streme


parti puo' sol levarne,


ch'in me non è di me voler né forza.


153


Non pur d'argento o d'oro


vinto dal foco esser po' piena aspetta,


vota d'opra prefetta,


la forma, che sol fratta il tragge fora;


tal io, col foco ancora


d'amor dentro ristoro


il desir voto di beltà infinita,


di coste' ch'i' adoro,


anima e cor della mie fragil vita.


Alta donna e gradita


in me discende per sì brevi spazi,


c'a trarla fuor convien mi rompa e strazi.


154


Tanto sopra me stesso


mi fai, donna, salire,


che non ch'i' 'l possa dire,


51


nol so pensar, perch'io non son più desso.


Dunche, perché più spesso,


se l'alie tuo mi presti,


non m'alzo e volo al tuo leggiadro viso,


e che con teco resti,


se dal ciel n'è concesso


ascender col mortale in paradiso?


Se non ch'i' sia diviso


dall'alma per tuo grazia, e che quest'una


fugga teco suo morte, è mie fortuna.


155


Le grazie tua e la fortuna mia


hanno, donna, sì vari


gli effetti, perch'i' 'mpari


in fra 'l dolce e l'amar qual mezzo sia.


Mentre benigna e pia


dentro, e di fuor ti mostri


quante se' bella al mie 'rdente desire,


la fortun' aspra e ria,


nemica a' piacer nostri,


con mille oltraggi offende 'l mie gioire;


se per avverso po' di tal martire,


si piega alle mie voglie,


tuo pietà mi si toglie.


Fra 'l riso e 'l pianto, en sì contrari stremi,


mezzo non è c'una gran doglia scemi.


156


A l'alta tuo lucente dïadema


per la strada erta e lunga,


non è, donna, chi giunga,


s'umiltà non v'aggiungi e cortesia:


il montar cresce, e 'l mie valore scema,


e la lena mi manca a mezza via.


Che tuo beltà pur sia


superna, al cor par che diletto renda,


che d'ogni rara altezza è ghiotto e vago:


po' per gioir della tuo leggiadria


bramo pur che discenda


là dov'aggiungo. E 'n tal pensier m'appago,


se 'l tuo sdegno presago,


per basso amare e alto odiar tuo stato,


a te stessa perdona il mie peccato.


157


Pietosa e dolce aita


tuo, donna, teco insieme,


per le mie parte streme


spargon dal cor gli spirti della vita,


onde l'alma, impedita


del suo natural corso


pel subito gioir, da me diparti.


Po' l'aspra tuo partita,


52


per mie mortal soccorso,


tornan superchi al cor gli spirti sparti.


S'a me veggio tornarti,


dal cor di nuovo dipartir gli sento;


onde d'equal tormento


e l'aita e l'offesa mortal veggio:


el mezzo, a chi troppo ama, è sempre il peggio.


158


Amor, la morte a forza


del pensier par mi scacci,


e con tal grazia impacci


l'alma che, senza, sarie più contenta.


Caduto è 'l frutto e secca è già la scorza,


e quel, già dolce, amaro or par ch'i' senta;


anzi, sol mi tormenta,


nell'ultim'ore e corte,


infinito piacere in breve spazio.


Sì, tal mercé, spaventa


tuo pietà tardi e forte,


c'al corpo è morte, e al diletto strazio;


ond'io pur ti ringrazio


in questa età: ché s'i' muoio in tal sorte,


tu 'l fai più con mercé che con la morte.


159


Per esser manco, alta signora, indegno


del don di vostra immensa cortesia,


prima, all'incontro a quella, usar la mia


con tutto il cor volse 'l mie basso ingegno.


Ma visto poi, c'ascendere a quel segno


propio valor non è c'apra la via,


perdon domanda la mie audacia ria,


e del fallir più saggio ognor divegno.


E veggio ben com'erra s'alcun crede


la grazia, che da voi divina piove,


pareggi l'opra mia caduca e frale.


L'ingegno, l'arte, la memoria cede:


c'un don celeste non con mille pruove


pagar del suo può già chi è mortale.


160


S'alcun legato è pur dal piacer molto,


come da morte altrui tornare in vita,


qual cosa è che po' paghi tanta aita,


che renda il debitor libero e sciolto?


E se pur fusse, ne sarebbe tolto


il soprastar d'una mercé infinita


al ben servito, onde sarie 'mpedita


da l'incontro servire, a quella volto.


Dunche, per tener alta vostra grazia,


donna, sopra 'l mie stato, in me sol bramo


ingratitudin più che cortesia:


ché dove l'un dell'altro al par si sazia,


53


non mi sare' signor quel che tant'amo:


ché 'n parità non cape signoria.


161


Per qual mordace lima


discresce e manca ognor tuo stanca spoglia,


anima inferma? or quando fie ti scioglia


da quella il tempo, e torni ov'eri, in cielo,


candida e lieta prima,


deposto il periglioso e mortal velo?


C'ancor ch'i' cangi 'l pelo


per gli ultim'anni e corti,


cangiar non posso il vecchio mie antico uso,


che con più giorni più mi sforza e preme.


Amore, a te nol celo,


ch'i' porto invidia a' morti,


sbigottito e confuso,


sì di sé meco l'alma trema e teme.


Signor, nell'ore streme,


stendi ver' me le tuo pietose braccia,


tomm'a me stesso e famm'un che ti piaccia.


162


Ora in sul destro, ora in sul manco piede


variando, cerco della mie salute.


Fra 'l vizio e la virtute


il cor confuso mi travaglia e stanca,


come chi 'l ciel non vede,


che per ogni sentier si perde e manca.


Porgo la carta bianca


a' vostri sacri inchiostri,


c'amor mi sganni e pietà 'l ver ne scriva:


che l'alma, da sé franca,


non pieghi agli error nostri


mie breve resto, e che men cieco viva.


Chieggio a voi, alta e diva


donna, saper se 'n ciel men grado tiene


l'umil peccato che 'l superchio bene.


163


Quante più fuggo e odio ognor me stesso,


tanto a te, donna, con verace speme


ricorro; e manco teme


l'alma di me, quant'a te son più presso.


A quel che 'l ciel promesso


m'ha nel tuo volto aspiro


e ne' begli occhi, pien d'ogni salute:


e ben m'accorgo spesso,


in quel c'ogni altri miro,


che gli occhi senza 'l cor non han virtute.


Luci già mai vedute!


né da vederle è men che 'l gran desio;


ché 'l veder raro è prossimo a l'oblio.


54


164


Per fido esemplo alla mia vocazione


nel parto mi fu data la bellezza,


che d'ambo l'arti m'è lucerna e specchio.


S'altro si pensa, è falsa opinione.


Questo sol l'occhio porta a quella altezza


c'a pingere e scolpir qui m'apparecchio.


S'e' giudizi temerari e sciocchi


al senso tiran la beltà, che muove


e porta al cielo ogni intelletto sano,


dal mortale al divin non vanno gli occhi


infermi, e fermi sempre pur là d'ove


ascender senza grazia è pensier vano.


165


Se 'l commodo degli occhi alcun costringe


con l'uso, parte insieme


la ragion perde, e teme;


ché più s'inganna quel c'a sé più crede:


onde nel cor dipinge


per bello quel c'a picciol beltà cede.


Ben vi fo, donna, fede


che 'l commodo né l'uso non m'ha preso,


sì di raro e' mie veggion gli occhi vostri


circonscritti ov'a pena il desir vola.


Un punto sol m'ha acceso,


né più vi vidi c'una volta sola.


166


Ben posson gli occhi mie presso e lontano


veder dov'apparisce il tuo bel volto;


ma dove loro, ai pie', donna, è ben tolto


portar le braccia e l'una e l'altra mano.


L'anima, l'intelletto intero e sano


per gli occhi ascende più libero e sciolto


a l'alta tuo beltà; ma l'ardor molto


non dà tal previlegio al corp'umano


grave e mortal, sì che mal segue poi,


senz'ali ancor, d'un'angioletta il volo,


e 'l veder sol pur se ne gloria e loda.


Deh, se tu puo' nel ciel quante tra noi,


fa' del mie corpo tutto un occhio solo;


né fie poi parte in me che non ti goda.


167


La morte, Amor, del mie medesmo loco,


del qual, già nudo, trïonfar solevi


non che con l'arco e co' pungenti strali,


ti scaccia e sprezza, e col fier ghiaccio il foco


tuo dolce ammorza, c'ha dì corti e brevi.


In ogni cor veril men di le' vali;


e se ben porti l'ali,


55


con esse mi giugnesti, or fuggi e temi,


c'ogni età verde è schifa a' giorni stremi.


168


Perché 'l mezzo di me che dal ciel viene


a quel con gran desir ritorna e vola,


restando in una sola


di beltà donna, e ghiaccio ardendo in lei,


in duo parte mi tiene


contrarie sì, che l'una all'altra invola


il ben che non diviso aver devrei.


Ma se già ma' costei


cangia 'l suo stile, e c'a l'un mezzo manchi


il ciel, quel mentre c'a le' grato sia,


e' mie sì sparsi e stanchi


pensier fien tutti in quella donna mia;


e se 'lor che m'è pia,


l'alma il ciel caccia, almen quel tempo spero


non più mezz'esser, ma suo tutto intero.


169


Nel mie 'rdente desio,


coste' pur mi trastulla,


di fuor pietosa e nel cor aspra e fera.


Amor, non tel diss'io,


ch'e' no' ne sare' nulla


e che 'l suo perde chi 'n quel d'altri spera?


Or s'ella vuol ch'i' pèra,


mie colpa, e danno s'ha prestarle fede,


com'a chi poco manca a chi più crede.


170


Spargendo gran bellezza ardente foco


per mille cori accesi,


come cosa è che pesi,


c'un solo ancide, a molti è lieve e poco.


Ma, chiuso in picciol loco,


s'il sasso dur calcina,


che l'acque poi il dissolvon 'n un momento,


come per pruova il sa chi 'l ver dicerne:


così d'una divina


de mille il foco ho drento


c'arso m'ha 'l cor nelle mie parte interne;


ma le lacrime etterne


se quel dissolvon già sì duro e forte,


fie me' null'esser c'arder senza morte.


171


Nella memoria delle cose belle


morte bisogna, per tor di costui


il volto a lei, com'a vo' tolto ha lui;


se 'l foco in ghiaccio e 'l riso volge in pianto,


56


con tale odio di quelle,


che del cor voto più non si dien vanto.


Ma se rimbotta alquanto


i suo begli occhi nell'usato loco,


fien legne secche in un ardente foco.


172


Costei pur si delibra,


indomit' e selvaggia,


ch'i' arda, mora e caggia


a quel c'a peso non sie pure un'oncia;


e 'l sangue a libra a libra


mi svena, e sfibra e 'l corpo all'alma sconcia.


La si gode e racconcia


nel suo fidato specchio,


ove sé vede equale al paradiso;


po', volta a me, mi concia


sì, c'oltr'all'esser vecchio,


in quel col mie fo più bello il suo viso,


ond'io vie più deriso


son d'esser brutto; e pur m'è gran ventura,


s'i' vinco, a farla bella, la natura.


173


Se dal cor lieto divien bello il volto,


dal tristo il brutto; e se donna aspra e bella


il fa, chi fie ma' quella


che non arda di me com'io di lei?


Po' c'a destinguer molto


dalla mie chiara stella


da bello a bel fur fatti gli occhi mei,


contr'a sé fa costei


non men crudel che spesso


dichi: - Dal cor mie smorto il volto viene. -


Che s'altri fa se stesso,


pingendo donna, in quella


che farà poi, se sconsolato il tiene?


Dunc'ambo n'arien bene


ritrarla col cor lieto e 'l viso asciutto:


sé farie bella e me non farie brutto.


174


Per quel che di vo', donna, di fuor veggio,


quantunche dentro al ver l'occhio non passi,


spero a' mie stanchi e lassi


pensier riposo a qualche tempo ancora;


e 'l più saperne il peggio,


del vostro interno, forse al mie mal fora.


Se crudeltà dimora


'n un cor che pietà vera


co' begli occhi prometta a' pianti nostri,


ben sarebb'ora l'ora,


c'altro già non si spera


d'onesto amor, che quel ch'è di fuor mostri.


57


Donna, s'agli occhi vostri


contraria è l'alma, e io, pur contro a quella,


godo gl'inganni d'una donna bella.


175


No' salda, Amor, de' tuo dorati strali


fra le mie vecchie ancor la minor piaga,


che la mente, presaga


del mal passato, a peggio mi traporti.


Se ne' vecchi men vali,


campar dovria, se non fa' guerra a' morti.


S'a l'arco l'alie porti


contra me zoppo e nudo,


con gli occhi per insegna,


c'ancidon più ch'e' tuo più feri dardi,


chi fia che mi conforti?


Elmo non già né scudo,


ma sol quel che mi segna


d'onor, perdendo, e biasmo a te, se m'ardi.


Debile vecchio, è tardi


la fuga e lenta, ov'è posto 'l mie scampo;


e chi vince a fuggir, non resti in campo.


176


Mestier non era all'alma tuo beltate


legar me vinto con alcuna corda;


ché, se ben mi ricorda,


sol d'uno sguardo fui prigione e preda:


c'alle gran doglie usate


forz'è c'un debil cor subito ceda.


Ma chi fie ma' che 'l creda,


preso da' tuo begli occhi in brevi giorni,


un legno secco e arso verde torni?


177


In noi vive e qui giace la divina


beltà da morte anz'il suo tempo offesa.


Se con la dritta man face' difesa,


campava. Onde nol fe'? Ch'era mancina.


178


La nuova alta beltà che 'n ciel terrei


unica, non c'al mondo iniquo e fello


(suo nome dal sinistro braccio tiello


il vulgo, cieco a non adorar lei),


per voi sol nacque; e far non la saprei


con ferri in pietra, in carte col pennello;


ma 'l vivo suo bel viso esser può quello


nel qual vostro sperar fermar dovrei.


E se, come dal sole ogni altra stella


è vinta, vince l'intelletto nostro,


per voi non di men pregio esser dovea.


58


Dunche, a quetarvi, è suo beltà novella


da Dio formata all'alto desir vostro;


e quel solo, e non io, far lo potea.


179


Se qui son chiusi i begli occhi e sepolti


anzi tempo, sol questo ne conforta:


che pietà di lor vivi era qua morta;


or che son morti, di lor vive in molti.


180


Deh serbi, s'è di me pietate alcuna


che qui son chiuso e dal mondo disciolto,


le lacrime a bagnarsi il petto e 'l volto


per chi resta suggetto alla fortuna.


181


- Perché ne' volti offesi non entrasti


dagli anni, Morte, e c'anzi tempo i' mora?


- Perché nel ciel non sale e non dimora


cosa che 'nvecchi e parte il mondo guasti.


182


Non volse Morte non ancider senza


l'arme degli anni e de' superchi giorni


la beltà che qui giace, acciò c'or torni


al ciel con la non persa sua presenza.


183


La beltà che qui giace al mondo vinse


di tanto ogni più bella creatura,


che morte, ch'era in odio alla natura,


per farsi amica a lei, l'ancise e stinse.


184


Qui son de' Bracci, deboli a l'impresa


contr'a la morte mia per non morire;


meglio era esser de' piedi per fuggire


che de' Bracci e non far da lei difesa.


185


Qui son sepulto, e poco innanzi nato


ero: e son quello al qual fu presta e cruda


la morte sì, che l'alma di me nuda


s'accorge a pena aver cangiato stato.


59


186


Non può per morte già chi qui mi serra


la beltà, c'al mortal mie largir volse,


renderla agli altri tutti a chi la tolse,


s'alfin com'ero de' rifarmi in terra.


187


L'alma di dentro di fuor non vedea,


come noi, il volto, chiuso in questo avello:


che se nel ciel non è albergo sì bello,


trarnela morte già ma' non potea.


188


Se dalla morte è vinta la natura


qui nel bel volto, ancor vendetta in cielo


ne fie pel mondo, a trar divo il suo velo


più che mai bel di questa sepoltura.


189


Qui son chiusi i begli occhi, che aperti


facén men chiari i più lucenti e santi;


or perché, morti, rendon luce a tanti,


qual sie più 'l danno o l'util non siàn certi.


190


Qui son morto creduto; e per conforto


del mondo vissi, e con mille alme in seno


di veri amanti; adunche a venir meno,


per tormen' una sola non son morto.


191


Se l'alma vive del suo corpo fora,


la mie, che par che qui di sé mi privi,


il mostra col timor ch'i' rendo a' vivi:


che nol po far chi tutto avvien che mora.


192


S'è ver, com'è, che dopo il corpo viva,


da quel disciolta, c'a mal grado regge


sol per divina legge,


l'alma e non prima, allor sol è beata;


po' che per morte diva


è fatta sì, com'a morte era nata.


Dunche, sine peccata,


in riso ogni suo doglia


preschiver debbe alcun del suo defunto,


60


se da fragile spoglia


fuor di miseria in vera pace è giunto


de l'ultim'ora o punto.


Tant'esser de' dell'amico 'l desio,


quante men val fruir terra che Dio.


193


A pena prima aperti gli vidd'io


i suo begli occhi in questa fragil vita,


che, chiusi el dì dell'ultima partita,


gli aperse in cielo a contemplare Dio.


Conosco e piango, e non fu l'error mio,


col cor sì tardi a lor beltà gradita,


ma di morte anzi tempo, ond'è sparita


a voi non già, m'al mie 'rdente desio.


Dunche, Luigi, a far l'unica forma


di Cecchin, di ch'i' parlo, in pietra viva


etterna, or ch'è già terra qui tra noi,


se l'un nell'altro amante si trasforma,


po' che sanz'essa l'arte non v'arriva,


convien che per far lui ritragga voi.


194


Qui vuol mie sorte c'anzi tempo i' dorma,


né son già morto; e ben c'albergo cangi,


resto in te vivo, c'or mi vedi e piangi,


se l'un nell'altro amante si trasforma.


195


- Se qui cent'anni t'han tolto due ore,


un lustro è forza che l'etterno inganni.


- No: che 'n un giorno è vissuto cent'anni


colui che 'n quello il tutto impara e muore.


196


Gran ventura qui morto esser mi veggio:


tal dota ebbi dal cielo, anzi che veglio;


ché, non possendo al mondo darmi meglio,


ogni altro che la morte era 'l mie peggio.


197


La carne terra, e qui l'ossa mie, prive


de' lor begli occhi e del leggiadro aspetto,


fan fede a quel ch'i' fu' grazia e diletto


in che carcer quaggiù l'anima vive.


198


Se fussin, perch'i' viva un'altra volta,


61


gli altru' pianti a quest'ossa carne e sangue,


sarie spietato per pietà chi langue


per rilegar lor l'alma in ciel disciolta.


199


Chi qui morto mi piange indarno spera,


bagnando l'ossa e 'l mie sepulcro, tutto


ritornarmi com'arbor secco al frutto;


c'uom morto non risurge a primavera.


200


S'i' fu' già vivo, tu sol, pietra, il sai,


che qui mi serri, e s'alcun mi ricorda,


gli par sognar: sì morte è presta e 'ngorda,


che quel ch'è stato non par fusse mai.


201


I' temo più, fuor degli anni e dell'ore


che m'han qui chiuso, il ritornare in vita,


s'esser può qua, ch'i' non fe' la partita;


po' c'allor nacqui ove la morte muore.


202


I' fu de' Bracci, e se ritratto e privo


restai dell'alma, or m'è cara la morte,


po' che tal opra ha sì benigna sorte


d'entrar dipinto ov'io non pote' vivo.


203


De' Bracci nacqui, e dopo 'l primo pianto,


picciol tempo il sol vider gli occhi mei.


Qui son per sempre; né per men vorrei,


s'i' resto vivo in quel che m'amò tanto.


204


Più che vivo non ero, morto sono


vivo e caro a chi morte oggi m'ha tolto;


se più c'averne copia or m'ama molto,


chi cresce per mancar, gli è 'l morir buono.


205


Se morte ha di virtù qui 'l primo fiore


del mondo e di beltà, non bene aperto,


anzi tempo sepulto, i' son ben certo


che più non si dorrà chi vecchio muore.


62


206


Dal ciel fu la beltà mie diva e 'ntera,


e 'l corpo sol mortal dal padre mio.


Se morto è meco quel che ebbi d'Iddio


che dunche il mortal sol da morte spera?


207


Per sempre a morte, e prima a voi fu' dato


sol per un'ora; e con diletto tanto


porta' bellezza, e po' lasciai tal pianto


che 'l me' sarebbe non esser ma' nato.


208


Qui chiuso è 'l sol di c'ancor piangi e ardi:


l'alma suo luce fu corta ventura.


Men grazia e men ricchezza assai più dura;


c'a' miseri la morte è pigra e tardi.


209


Qui sol per tempo convien posi e dorma


per render bello el mie terrestre velo;


ché più grazia o beltà non have 'l cielo,


c'alla natura fussi esempro e norma.


210


Se gli occhi aperti mie fur vita e pace


d'alcun, qui chiusi, or chi gli è pace e vita?


Beltà non già, che del mond'è sparita,


ma morte sol, s'ogni suo ben qui giace.


211


Se, vivo al mondo, d'alcun vita fui


che gli è qui terra or la bellezza mia,


mort'è non sol, ma crudel gelosia


c'alcun per me non mora innanzi a lui.


212


Perc'all'altru' ferir non ave' pari


col suo bel volto il Braccio che qui serro,


morte vel tolse e fecel, s'io non erro,


perc'a lei ancider toccava i men chiari.


213


Sepulto è qui quel Braccio, che Dio volse


63


corregger col suo volto la natura;


ma perché perso è 'l ben, c'altri non cura,


lo mostrò al mondo e presto sel ritolse.


214


Era la vita vostra il suo splendore:


di Cecchin Bracci, che qui morto giace.


Chi nol vide nol perde e vive in pace:


la vita perde chi 'l vide e non muore.


215


A la terra la terra e l'alma al cielo


qui reso ha morte; a chi morto ancor m'ama


ha dato in guardia mie bellezza e fama,


ch'etterni in pietra il mie terrestre velo.


216


Qui serro il Braccio e suo beltà divina,


e come l'alma al corpo è forma e vita,


è quello a me dell'opra alta e gradita;


c'un bel coltello insegna tal vagina.


217


S'avvien come fenice mai rinnuovi


qui 'l bel volto de' Bracci di più stima,


fie ben che 'l ben chi nol conosce prima


per alcun tempo il perda e po' 'l ritruovi.


218


Col sol de' Bracci il sol della natura,


per sempre estinto, qui lo chiudo e serro:


morte l'ancise senza spada o ferro,


c'un fior di verno picciol vento il fura.


219


I' fui de' Bracci, e qui mie vita è morte.


Sendo oggi 'l ciel dalla terra diviso,


toccando i' sol del mondo al paradiso,


anzi per sempre serri le suo porte.


220


Deposto ha qui Cecchin sì nobil salma


per morte, che 'l sol ma' simil non vide.


Roma ne piange, e 'l ciel si gloria e ride,


che scarca del mortal si gode l'alma.


64


221


Qui giace il Braccio, e men non si desìa


sepulcro al corpo, a l'alma il sacro ufizio.


Se più che vivo, morto ha degno ospizio


in terra e 'n ciel, morte gli è dolce e pia.


222


Qui stese il Braccio e colse acerbo il frutto


morte, anz'il fior, c'a quindici anni cede.


Sol questo sasso il gode che 'l possiede,


e 'l resto po' del mondo il piange tutto.


223


I' fu' Cecchin mortale e or son divo:


poco ebbi 'l mondo e per sempre il ciel godo.


Di sì bel cambio e di morte mi lodo,


che molti morti, e me partorì vivo.


224


Chiusi ha qui gli occhi e 'l corpo, e l'alma sciolta


di Cecchin Bracci morte, e la partita


fu 'nanz' al tempo per cangiar suo vita


a quella c'a molt'anni spesso è tolta.


225


I' fu' de' Bracci, e qui dell'alma privo


per esser da beltà fatt'ossa e terra:


prego il sasso non s'apra, che mi serra,


per restar bello in chi m'amò già vivo.


226


Che l'alma viva, i' che qui morto sono


or ne son certo e che, vivo, ero morto.


I' fu' de' Bracci, e se 'l tempo ebbi corto,


chi manco vive più speri perdono.


227


Ripreso ha 'l divin Braccio il suo bel velo:


non è più qui, c'anz'al gran dì l'ha tolto


pietà di terra; che s'allor sepolto


fussi, lu' sol sarie degno del cielo.


228


Se 'l mondo il corpo, e l'alma il ciel ne presta


65


per lungo tempo, il morto qui de' Bracci


qual salute fie mai che 'l soddisfacci?


Di tanti anni e beltà creditor resta.


229


Occhi mie, siate certi


che 'l tempo passa e l'ora s'avvicina,


c'a le lacrime triste il passo serra.


Pietà vi tenga aperti,


mentre la mie divina


donna si degna d'abitare in terra.


Se grazia il ciel disserra,


com'a' beati suole,


questo mie vivo sole


se lassù torna e partesi da noi,


che cosa arete qui da veder poi?


230


Perché tuo gran bellezze al mondo sièno


in donna più cortese e manco dura,


prego se ne ripigli la natura


tutte quelle c'ognor ti vengon meno,


e serbi a riformar del tuo sereno


e divin volto una gentil figura


del ciel, e sia d'amor perpetua cura


rifarne un cor di grazia e pietà pieno.


E serbi poi i mie sospiri ancora,


e le lacrime sparte insieme accoglia


e doni a chi quella ami un'altra volta.


Forse a pietà chi nascerà in quell'ora


la moverà co' la mie propia doglia,


né fie persa la grazia c'or m'è tolta.


231


Non è più tempo, Amor, che 'l cor m'infiammi,


né che beltà mortal più goda o tema:


giunta è già l'ora strema


che 'l tempo perso, a chi men n'ha, più duole.


Quante 'l tuo braccio dammi,


morte i gran colpi scema,


e ' sua accresce più che far non suole.


Gl'ingegni e le parole,


da te di foco a mio mal pro passati,


in acqua son conversi;


e Die 'l voglia c'or versi


con essa insieme tutti e' mie peccati.


232


Non altrimenti contro a sé cammina


ch'i' mi facci alla morte,


chi è da giusta corte


tirato là dove l'alma il cor lassa;


66


tal m'è morte vicina,


salvo più lento el mie resto trapassa.


Né per questo mi lassa


Amor viver un'ora


fra duo perigli, ond'io mi dormo e veglio:


la speme umile e bassa


nell'un forte m'accora,


e l'altro parte m'arde, stanco e veglio.


Né so il men danno o 'l meglio:


ma pur più temo, Amor, che co' tuo sguardi


più presto ancide quante vien più tardi.


233


Se da' prim'anni aperto un lento e poco


ardor distrugge in breve un verde core,


che farà, chiuso po' da l'ultim'ore,


d'un più volte arso un insaziabil foco?


Se 'l corso di più tempo dà men loco


a la vita, a le forze e al valore,


che farà a quel che per natura muore


l'incendio arroto d'amoroso gioco?


Farà quel che di me s'aspetta farsi:


cenere al vento sì pietoso e fero,


c'a' fastidiosi vermi il corpo furi.


Se, verde, in picciol foco i' piansi e arsi,


che, più secco ora in un sì grande, spero


che l'alma al corpo lungo tempo duri?


234


Tanto non è, quante da te non viene,


agli occhi specchio, a che 'l cor lasso cede;


che s'altra beltà vede,


gli è morte, donna, se te non somiglia,


qual vetro che non bene


senz'altra scorza ogni su' obbietto piglia.


Esempro e maraviglia


ben fie a chi si dispera


della tuo grazia al suo 'nfelice stato,


s'e' begli occhi e le ciglia


con la tuo pietà vera


volgi a far me sì tardi ancor beato:


a la miseria nato,


s'al fier destin preval grazia e ventura,


da te fie vinto il cielo e la natura.


235


Un uomo in una donna, anzi uno dio


per la sua bocca parla,


ond'io per ascoltarla


son fatto tal, che ma' più sarò mio.


I' credo ben, po' ch'io


a me da lei fu' tolto,


fuor di me stesso aver di me pietate;


sì sopra 'l van desio


67


mi sprona il suo bel volto,


ch'i' veggio morte in ogni altra beltate.


O donna che passate


per acqua e foco l'alme a' lieti giorni,


deh, fate c'a me stesso più non torni.


236


Se ben concetto ha la divina parte


il volto e gli atti d'alcun, po' di quello


doppio valor con breve e vil modello


dà vita a' sassi, e non è forza d'arte.


Né altrimenti in più rustiche carte,


anz'una pronta man prenda 'l pennello,


fra ' dotti ingegni il più accorto e bello


pruova e rivede, e suo storie comparte.


Simil di me model di poca istima


mie parto fu, per cosa alta e perfetta


da voi rinascer po', donna alta e degna.


Se 'l poco accresce, e 'l mie superchio lima


vostra mercé, qual penitenzia aspetta


mie fiero ardor, se mi gastiga e 'nsegna?


237


Molto diletta al gusto intero e sano


l'opra della prim'arte, che n'assembra


i volti e gli atti, e con più vive membra,


di cera o terra o pietra un corp' umano.


Se po' 'l tempo ingiurioso, aspro e villano


la rompe o storce o del tutto dismembra,


la beltà che prim'era si rimembra,


e serba a miglior loco il piacer vano.


238


Non è non degna l'alma che n'attende


etterna vita, in cui si posa e quieta,


per arricchir dell'unica moneta


che 'l ciel ne stampa, e qui natura spende.


239


Com'esser, donna, può quel c'alcun vede


per lunga sperïenza, che più dura


l'immagin viva in pietra alpestra e dura


che 'l suo fattor, che gli anni in cener riede?


La causa a l'effetto inclina e cede,


onde dall'arte è vinta la natura.


I' 'l so, che 'l pruovo in la bella scultura,


c'all'opra il tempo e morte non tien fede.


Dunche, posso ambo noi dar lunga vita


in qual sie modo, o di colore o sasso,


di noi sembrando l'uno e l'altro volto;


sì che mill'anni dopo la partita,


quante voi bella fusti e quant'io lasso


68


si veggia, e com'amarvi i' non fu' stolto.


240


Sol d'una pietra viva


l'arte vuol che qui viva


al par degli anni il volto di costei.


Che dovria il ciel di lei,


sendo mie questa, e quella suo fattura,


non già mortal, ma diva,


non solo agli occhi mei?


E pur si parte e picciol tempo dura.


Dal lato destro è zoppa suo ventura,


s'un sasso resta e pur lei morte affretta.


Chi ne farà vendetta?


Natura sol, se de' suo nati sola


l'opra qui dura, e la suo 'l tempo invola.


241


Negli anni molti e nelle molte pruove,


cercando, il saggio al buon concetto arriva


d'un'immagine viva,


vicino a morte, in pietra alpestra e dura;


c'all'alte cose nuove


tardi si viene, e poco poi si dura.


Similmente natura,


di tempo in tempo, d'uno in altro volto,


s'al sommo, errando, di bellezza è giunta


nel tuo divino, è vecchia, e de' perire:


onde la tema, molto


con la beltà congiunta,


di stranio cibo pasce il gran desire;


né so pensar né dire


qual nuoca o giovi più, visto 'l tuo 'spetto,


o 'l fin dell'universo o 'l gran diletto.


242


S'egli è che 'n dura pietra alcun somigli


talor l'immagin d'ogni altri a se stesso,


squalido e smorto spesso


il fo, com'i' son fatto da costei.


E par ch'esempro pigli


ognor da me, ch'i' penso di far lei.


Ben la pietra potrei,


per l'aspra suo durezza,


in ch'io l'esempro, dir c'a lei s'assembra;


del resto non saprei,


mentre mi strugge e sprezza,


altro sculpir che le mie afflitte membra.


Ma se l'arte rimembra


agli anni la beltà per durare ella,


farà me lieto, ond'io le' farò bella.


243


69


Ognor che l'idol mio si rappresenta


agli occhi del mie cor debile e forte,


fra l'uno e l'altro obbietto entra la morte,


e più 'l discaccia, se più mi spaventa.


L'alma di tale oltraggio esser contenta


più spera che gioir d'ogni altra sorte;


l'invitto Amor, con suo più chiare scorte,


a suo difesa s'arma e s'argomenta:


Morir, dice, si può sol una volta,


né più si nasce; e chi col mie 'mor muore,


che fie po', s'anzi morte in quel soggiorna?


L'acceso amor, donde vien l'alma sciolta,


s'è calamita al suo simile ardore,


com'or purgata in foco, a Dio si torna.


244


Se 'l duol fa pur, com'alcun dice, bello,


privo piangendo d'un bel volto umano,


l'essere infermo è sano,


fa vita e grazia la disgrazia mia:


ché 'l dolce amaro è quello


che, contr'a l'alma, il van pensier desia.


Né può fortuna ria


contr'a chi basso vola,


girando, trïonfar d'alta ruina;


ché mie benigna e pia


povertà nuda e sola,


m'è nuova ferza e dolce disciplina:


c'a l'alma pellegrina


è più salute, o per guerra o per gioco,


saper perdere assai che vincer poco.


245


- Se 'l volto di ch'i' parlo, di costei,


no' m'avessi negati gli occhi suoi,


Amor, di me qual poi


pruova faresti di più ardente foco,


s'a non veder me' lei


co' suo begli occhi tu m'ardi e non poco?


- La men parte del gioco


ha chi nulla ne perde,


se nel gioir vaneggia ogni desire:


nel sazio non ha loco


la speme e non rinverde


nel dolce che preschive ogni martire -.


Anzi di lei vo' dire:


s'a quel c'aspiro suo gran copia cede,


l'alto desir non quieta tuo mercede.


246


Te sola del mie mal contenta veggio,


né d'altro ti richieggio amarti tanto;


non è la pace tua senza il mio pianto,


70


e la mia morte a te non è 'l mie peggio.


Che s'io colmo e pareggio


il cor di doglia alla tua voglia altera,


per fuggir questa vita,


qual dispietata aita


m'ancide e strazia e non vuol poi ch'io pera?


Perché 'l morir è corto


al lungo andar di tua crudeltà fera.


Ma chi patisce a torto


non men pietà che gran iustizia spera.


Così l'alma sincera


serve e sopporta e, quando che sia poi,


spera non quel che puoi:


ché 'l premio del martir non è tra noi.


247


Caro m'è 'l sonno, e più l'esser di sasso,


mentre che 'l danno e la vergogna dura;


non veder, non sentir m'è gran ventura;


però non mi destar, deh, parla basso.


248


Dal ciel discese, e col mortal suo, poi


che visto ebbe l'inferno giusto e 'l pio


ritornò vivo a contemplare Dio,


per dar di tutto il vero lume a noi.


Lucente stella, che co' raggi suoi


fe' chiaro a torto el nido ove nacq'io,


né sare' 'l premio tutto 'l mondo rio;


tu sol, che la creasti, esser quel puoi.


Di Dante dico, che mal conosciute


fur l'opre suo da quel popolo ingrato


che solo a' iusti manca di salute.


Fuss'io pur lui! c'a tal fortuna nato,


per l'aspro esilio suo, co' la virtute,


dare' del mondo il più felice stato.


249


- Per molti, donna, anzi per mille amanti


creata fusti, e d'angelica forma;


or par che 'n ciel si dorma,


s'un sol s'appropia quel ch'è dato a tanti.


Ritorna a' nostri pianti


il sol degli occhi tuo, che par che schivi


chi del suo dono in tal miseria è nato.


- Deh, non turbate i vostri desir santi,


ché chi di me par che vi spogli e privi,


col gran timor non gode il gran peccato;


ché degli amanti è men felice stato


quello, ove 'l gran desir gran copia affrena,


c'una miseria di speranza piena.


250


71


Quante dirne si de' non si può dire,


ché troppo agli orbi il suo splendor s'accese;


biasmar si può più 'l popol che l'offese,


c'al suo men pregio ogni maggior salire.


Questo discese a' merti del fallire


per l'util nostro, e poi a Dio ascese;


e le porte, che 'l ciel non gli contese,


la patria chiuse al suo giusto desire.


Ingrata, dico, e della suo fortuna


a suo danno nutrice; ond'è ben segno


c'a' più perfetti abonda di più guai.


Fra mille altre ragion sol ha quest'una:


se par non ebbe il suo exilio indegno,


simil uom né maggior non nacque mai.


251


Nel dolce d'una immensa cortesia,


dell'onor, della vita alcuna offesa


s'asconde e cela spesso, e tanto pesa


che fa men cara la salute mia.


Chi gli omer' altru' 'mpenna e po' tra via


a lungo andar la rete occulta ha tesa,


l'ardente carità d'amore accesa


là più l'ammorza ov'arder più desia.


Però, Luigi mio, tenete chiara


la prima grazia, ond'io la vita porto,


che non si turbi per tempesta o vento.


L'isdegno ogni mercé vincere impara,


e s'i' son ben del vero amico accorto,


mille piacer non vaglion un tormento.


252


Perch'è troppo molesta,


ancor che dolce sia,


quella mercé che l'alma legar suole,


mie libertà di questa


vostr'alta cortesia


più che d'un furto si lamenta e duole.


E com'occhio nel sole


disgrega suo virtù ch'esser dovrebbe


di maggior luce, s'a veder ne sprona,


così 'l desir non vuole


zoppa la grazia in me, che da vo' crebbe.


Ché 'l poco al troppo spesso s'abbandona,


né questo a quel perdona:


c'amor vuol sol gli amici, onde son rari


di fortuna e virtù simili e pari.


253


S'i' fussi stato ne' prim'anni accorto


del fuoco, allor di fuor, che m'arde or drento,


per men mal, non che spento,


ma privo are' dell'alma il debil core


72


e del colpo, or ch'è morto;


ma sol n'ha colpa il nostro prim'errore.


Alma infelice, se nelle prim'ore


alcun s'è mal difeso,


nell'ultim' arde e muore


del primo foco acceso:


ché chi non può non esser arso e preso


nell'età verde, c'or c'è lume e specchio,


men foco assai 'l distrugge stanco e vecchio.


254


Donn', a me vecchio e grave,


ov'io torno e rientro


e come a peso il centro,


che fuor di quel riposo alcun non have,


il ciel porge le chiave.


Amor le volge e gira


e apre a' iusti il petto di costei;


le voglie inique e prave


mi vieta, e là mi tira,


già stanco e vil, fra ' rari e semidei.


Grazie vengon da lei


strane e dolce e d'un certo valore,


che per sé vive chiunche per le' muore.


255


Mentre i begli occhi giri,


donna, ver' me da presso,


tanto veggio me stesso


in lor, quante ne' mie te stessa miri.


Dagli anni e da' martiri


qual io son, quegli a me rendono in tutto,


e ' mie lor te più che lucente stella.


Ben par che 'l ciel s'adiri


che 'n sì begli occhi i' mi veggia sì brutto,


e ne' mie brutti ti veggia sì bella;


né men crudele e fella


dentro è ragion, c'al core


per lor mi passi, e quella


de' tuo mi serri fore.


Perché 'l tuo gran valore


d'ogni men grado accresce suo durezza,


c'amor vuol pari stato e giovanezza.


256


S'alcuna parte in donna è che sie bella,


benché l'altre sien brutte,


debb'io amarle tutte


pel gran piacer ch'i' prendo sol di quella?


La parte che s'appella,


mentre il gioir n'attrista,


a la ragion, pur vuole


che l'innocente error si scusi e ami.


Amor, che mi favella


73


della noiosa vista,


com'irato dir suole


che nel suo regno non s'attenda o chiami.


E 'l ciel pur vuol ch'i' brami,


a quel che spiace non sie pietà vana:


ché l'uso agli occhi ogni malfatto sana.


257


Perché sì tardi e perché non più spesso


con ferma fede quell'interno ardore


che mi lieva di terra e porta 'l core


dove per suo virtù non gli è concesso?


Forse c'ogn' intervallo n'è promesso


da l'uno a l'altro tuo messo d'amore,


perc'ogni raro ha più forz'e valore


quant'è più desïato e meno appresso.


La notte è l'intervallo, e 'l dì la luce:


l'una m'agghiaccia 'l cor, l'altro l'infiamma


d'amor, di fede e d'un celeste foco.


258


Quantunche sie che la beltà divina


qui manifesti il tuo bel volto umano,


donna, il piacer lontano


m'è corto sì, che del tuo non mi parto,


c'a l'alma pellegrina


gli è duro ogni altro sentiero erto o arto.


Ond' il tempo comparto:


per gli occhi il giorno e per la notte il core,


senza intervallo alcun c'al cielo aspiri.


Sì 'l destinato parto


mi ferm'al tuo splendore,


c'alzar non lassa i mie ardenti desiri,


s'altro non è che tiri


la mente al ciel per grazia o per mercede:


tardi ama il cor quel che l'occhio non vede.


259


Ben può talor col mie 'rdente desio


salir la speme e non esser fallace,


ché s'ogni nostro affetto al ciel dispiace,


a che fin fatto arebbe il mondo Iddio?


Qual più giusta cagion dell'amart'io


è, che dar gloria a quella eterna pace


onde pende il divin che di te piace,


e c'ogni cor gentil fa casto e pio?


Fallace speme ha sol l'amor che muore


con la beltà, c'ogni momento scema,


ond'è suggetta al variar d'un bel viso.


Dolce è ben quella in un pudico core,


che per cangiar di scorza o d'ora strema


non manca, e qui caparra il paradiso.


74


260


Non è sempre di colpa aspra e mortale


d'una immensa bellezza un fero ardore,


se poi sì lascia liquefatto il core,


che 'n breve il penetri un divino strale.


Amore isveglia e desta e 'mpenna l'ale,


né l'alto vol preschive al van furore;


qual primo grado c'al suo creatore,


di quel non sazia, l'alma ascende e sale.


L'amor di quel ch'i' parlo in alto aspira;


donna è dissimil troppo; e mal conviensi


arder di quella al cor saggio e verile.


L'un tira al cielo, e l'altro in terra tira;


nell'alma l'un, l'altr'abita ne' sensi,


e l'arco tira a cose basse e vile.


261


Se 'l troppo indugio ha più grazia e ventura


che per tempo al desir pietà non suole,


la mie, negli anni assai, m'affligge e duole,


ché 'l gioir vecchio picciol tempo dura.


Contrario ha 'l ciel, se di no' sente o cura,


arder nel tempo che ghiacciar si vuole,


com'io per donna; onde mie triste e sole


lacrime peso con l'età matura.


Ma forse, ancor c'al fin del giorno sia,


col sol già quasi oltr'a l'occaso spento,


fra le tenebre folte e 'l freddo rezzo,


s'amor c'infiamma solo a mezza via,


né altrimenti è, s'io vecchio ardo drento,


donna è che del mie fin farà 'l mie mezzo.


262


Amor, se tu se' dio,


non puo' ciò che tu vuoi?


Deh fa' per me, se puoi,


quel ch'i' fare' per te, s'Amor fuss'io.


Sconviensi al gran desio


d'alta beltà la speme,


vie più l'effetto a chi è press'al morire.


Pon nel tuo grado il mio:


dolce gli fie chi 'l preme?


Ché grazia per poc'or doppia 'l martire.


Ben ti voglio ancor dire:


che sarie morte, s'a' miseri è dura,


a chi muor giunto a l'alta suo ventura?


263


La nuova beltà d'una


mi sprona, sfrena e sferza;


né sol passato è terza,


ma nona e vespro, e prossim'è la sera.


Mie parto e mie fortuna,


75


l'un co' la morte scherza,


né l'altra dar mi può qui pace intera.


I' c'accordato m'era


col capo bianco e co' molt'anni insieme,


già l'arra in man tene' dell'altra vita,


qual ne promette un ben contrito core.


Più perde chi men teme


nell'ultima partita,


fidando sé nel suo propio valore


contr'a l'usato ardore:


s'a la memoria sol resta l'orecchio,


non giova, senza grazia, l'esser vecchio.


264


Come portato ho già più tempo in seno


l'immagin, donna, del tuo volto impressa,


or che morte s'appressa,


con previlegio Amor ne stampi l'alma,


che del carcer terreno


felice sie 'l dipor suo grieve salma.


Per procella o per calma


con tal segno sicura,


sie come croce contro a' suo avversari;


e donde in ciel ti rubò la natura


ritorni, norma agli angeli alti e chiari,


c'a rinnovar s'impari


là sù pel mondo un spirto in carne involto,


che dopo te gli resti il tuo bel volto.


265


Per non s'avere a ripigliar da tanti


quell'insieme beltà che più non era,


in donna alta e sincera


prestata fu sott'un candido velo,


c'a riscuoter da quanti


al mondo son, mal si rimborsa il cielo.


Ora in un breve anelo,


anzi in un punto, Iddio


dal mondo poco accorto


se l'ha ripresa, e tolta agli occhi nostri.


Né metter può in oblio,


benché 'l corpo sie morto,


i suo dolci, leggiadri e sacri inchiostri.


Crudel pietà, qui mostri,


se quanto a questa il ciel prestava a' brutti,


s'or per morte il rivuol, morremo or tutti.


266


Qual meraviglia è, se prossim'al foco


mi strussi e arsi, se or ch'egli è spento


di fuor, m'affligge e mi consuma drento,


e 'n cener mi riduce a poco a poco?


Vedea ardendo sì lucente il loco


onde pendea il mio greve tormento,


76


che sol la vista mi facea contento,


e morte e strazi m'eran festa e gioco.


Ma po' che del gran foco lo splendore


che m'ardeva e nutriva, il ciel m'invola,


un carbon resto acceso e ricoperto.


E s'altre legne non mi porge amore


che lievin fiamma, una favilla sola


non fie di me, sì 'n cener mi converto.


267


I' sto rinchiuso come la midolla


da la sua scorza, qua pover e solo,


come spirto legato in un'ampolla:


e la mia scura tomba è picciol volo,


dov'è Aragn' e mill'opre e lavoranti,


e fan di lor filando fusaiuolo.


D'intorn'a l'uscio ho mete di giganti,


ché chi mangi'uva o ha presa medicina


non vanno altrove a cacar tutti quanti.


I' ho 'mparato a conoscer l'orina


e la cannella ond'esce, per quei fessi


che 'nanzi dì mi chiamon la mattina.


Gatti, carogne, canterelli o cessi,


chi n'ha per masserizi' o men vïaggio


non vien a vicitarmi mai senz'essi.


L'anima mia dal corpo ha tal vantaggio,


che se stasat' allentasse l'odore,


seco non la terre' 'l pan e 'l formaggio.


La toss' e 'l freddo il tien sol che non more;


se la non esce per l'uscio di sotto,


per bocca il fiato a pen' uscir può fore.


Dilombato, crepato, infranto e rotto


son già per le fatiche, e l'osteria


è morte, dov'io viv' e mangio a scotto.


La mia allegrezz' è la maninconia,


e 'l mio riposo son questi disagi:


che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.


Chi mi vedess' a la festa de' Magi


sarebbe buono; e più, se la mia casa


vedessi qua fra sì ricchi palagi.


Fiamma d'amor nel cor non m'è rimasa;


se 'l maggior caccia sempre il minor duolo,


di penne l'alma ho ben tarpata e rasa.


Io tengo un calabron in un orciuolo,


in un sacco di cuoio ossa e capresti,


tre pilole di pece in un bocciuolo.


Gli occhi di biffa macinati e pesti,


i denti come tasti di stormento


c'al moto lor la voce suoni e resti.


La faccia mia ha forma di spavento;


i panni da cacciar, senz'altro telo,


dal seme senza pioggia i corbi al vento.


Mi cova in un orecchio un ragnatelo,


ne l'altro canta un grillo tutta notte;


né dormo e russ' al catarroso anelo.


Amor, le muse e le fiorite grotte,


mie scombiccheri, a' cemboli, a' cartocci,


agli osti, a' cessi, a' chiassi son condotte.


77


Che giova voler far tanti bambocci,


se m'han condotto al fin, come colui


che passò 'l mar e poi affogò ne' mocci?


L'arte pregiata, ov'alcun tempo fui


di tant'opinïon, mi rec'a questo,


povero, vecchio e servo in forz'altrui,


ch'i' son disfatto, s'i' non muoio presto.


268


Perché l'età ne 'nvola


il desir cieco e sordo,


con la morte m'accordo,


stanco e vicino all'ultima parola.


L'alma che teme e cola


quel che l'occhio non vede,


come da cosa perigliosa e vaga,


dal tuo bel volto, donna, m'allontana.


Amor, c'al ver non cede,


di nuovo il cor m'appaga


di foco e speme; e non già cosa umana


mi par, mi dice, amar...


269


Or d'un fier ghiaccio, or d'un ardente foco,


or d'anni o guai, or di vergogna armato,


l'avvenir nel passato


specchio con trista e dolorosa speme;


e 'l ben, per durar poco,


sento non men che 'l mal m'affligge e preme.


Alla buona, alla rie fortuna insieme,


di me già stanche, ognor chieggio perdono:


e veggio ben che della vita sono


ventura e grazia l'ore brieve e corte,


se la miseria medica la morte.


270


Tu mi da' di quel c'ognor t'avanza


e vuo' da me le cose che non sono.


271


Di te con teco, Amor, molt'anni sono


nutrito ho l'alma e, se non tutto, in parte


il corpo ancora; e con mirabil arte


con la speme il desir m'ha fatto buono.


Or, lasso, alzo il pensier con l'alie e sprono


me stesso in più sicura e nobil parte.


Le tuo promesse indarno delle carte


e del tuo onor, di che piango e ragiono,


. . . . . . . .


272


78


Tornami al tempo, allor che lenta e sciolta


al cieco ardor m'era la briglia e 'l freno;


rendimi il volto angelico e sereno


onde fu seco ogni virtù sepolta,


e ' passi spessi e con fatica molta,


che son sì lenti a chi è d'anni pieno;


tornami l'acqua e 'l foco in mezzo 'l seno,


se vuo' di me saziarti un'altra volta.


E s'egli è pur, Amor, che tu sol viva


de' dolci amari pianti de' mortali,


d'un vecchio stanco oma' puo' goder poco;


ché l'alma, quasi giunta a l'altra riva,


fa scudo a' tuo di più pietosi strali:


e d'un legn'arso fa vil pruova il foco.


273


Se sempre è solo e un quel che sol muove


il tutto per altezza e per traverso,


non sempre a no' si mostra per un verso,


ma più e men quante suo grazia piove.


A me d'un modo e d'altri in ogni altrove:


più e men chiaro o più lucente e terso,


secondo l'egritudin, che disperso


ha l'intelletto a le divine pruove.


Nel cor ch'è più capace più s'appiglia,


se dir si può, 'l suo volto e 'l suo valore;


e di quel fassi sol guida e lucerna.


. . . . . . . . . . . .


. . . . . . . . . . . .


truova conforme a la suo parte interna.


274


Deh fammiti vedere in ogni loco!


Se da mortal bellezza arder mi sento,


appresso al tuo mi sarà foco ispento,


e io nel tuo sarò, com'ero, in foco.


Signor mie caro, i' te sol chiamo e 'nvoco


contr'a l'inutil mie cieco tormento:


tu sol puo' rinnovarmi fuora e drento


le voglie e 'l senno e 'l valor lento e poco.


Tu desti al tempo, Amor, quest'alma diva


e 'n questa spoglia ancor fragil e stanca


l'incarcerasti, e con fiero destino.


Che poss'io altro che così non viva?


Ogni ben senza te, Signor, mi manca;


il cangiar sorte è sol poter divino.


275


Dagli alti monti e d'una gran ruina,


ascoso e circunscritto d'un gran sasso,


discesi a discoprirmi in questo basso,


contr'a mie voglia, in tal lapedicina.


Quand'el sol nacqui, e da chi il ciel destina,


79


. . . . . . . . . . . .


276


Passa per gli occhi al core in un momento


qualunche obbietto di beltà lor sia,


e per sì larga e sì capace via


c'a mille non si chiude, non c'a cento,


d'ogni età, d'ogni sesso; ond'io pavento,


carco d'affanni, e più di gelosia;


né fra sì vari volti so qual sia


c'anzi morte mi die 'ntero contento.


S'un ardente desir mortal bellezza


ferma del tutto, non discese insieme


dal ciel con l'alma; è dunche umana voglia.


Ma se pass'oltre, Amor, tuo nome sprezza,


c'altro die cerca; e di quel più non teme


c'a lato vien contr'a sì bassa spoglia.


277


Se con lo stile o coi colori avete


alla natura pareggiato l'arte,


anzi a quella scemato il pregio in parte,


che 'l bel di lei più bello a noi rendete,


poi che con dotta man posto vi sete


a più degno lavoro, a vergar carte,


quel che vi manca, a lei di pregio in parte,


nel dar vita ad altrui, tutta togliete.


Che se secolo alcuno omai contese


in far bell'opre, almen cedale, poi


che convien c'al prescritto fine arrive.


Or le memorie altrui, già spente, accese


tornando, fate or che fien quelle e voi


malgrado d'esse, etternalmente vive.


278


Chi non vuol delle foglie


non ci venga di maggio.


279


La forza d'un bel viso a che mi sprona?


C'altro non è c'al mondo mi diletti:


ascender vivo fra gli spirti eletti


per grazia tal, c'ogni altra par men buona.


Se ben col fattor l'opra suo consuona,


che colpa vuol giustizia ch'io n'aspetti,


s'i' amo, anz'ardo, e per divin concetti


onoro e stimo ogni gentil persona?


280


L'alma inquieta e confusa in sé non truova


80


altra cagion c'alcun grave peccato


mal conosciuto, onde non è celato


all'immensa pietà c'a' miser giova.


I' parlo a te, Signor, c'ogni mie pruova


fuor del tuo sangue non fa l'uom beato:


miserere di me, da ch'io son nato


a la tuo legge; e non fie cosa nuova.


281


Arder sole' nel freddo ghiaccio il foco;


or m'è l'ardente foco un freddo ghiaccio,


disciolto, Amor, quello insolubil laccio,


e morte or m'è, che m'era festa e gioco.


Quel primo amor che ne diè tempo e loco,


nella strema miseria è greve impaccio


a l'alma stanca...


282


Con tanta servitù, con tanto tedio


e con falsi concetti e gran periglio


dell'alma, a sculpir qui cose divine.


283


Non può, Signor mie car, la fresca e verde


età sentir, quant'a l'ultimo passo


si cangia gusto, amor, voglie e pensieri.


Più l'alma acquista ove più 'l mondo perde;


l'arte e la morte non va bene insieme:


che convien più che di me dunche speri?


284


S'a tuo nome ho concetto alcuno immago,


non è senza del par seco la morte,


onde l'arte e l'ingegno si dilegua.


Ma se, quel c'alcun crede, i' pur m'appago


che si ritorni a viver, a tal sorte


ti servirò, s'avvien che l'arte segua.


285


Giunto è già 'l corso della vita mia,


con tempestoso mar, per fragil barca,


al comun porto, ov'a render si varca


conto e ragion d'ogni opra trista e pia.


Onde l'affettüosa fantasia


che l'arte mi fece idol e monarca


conosco or ben com'era d'error carca


e quel c'a mal suo grado ogn'uom desia.


Gli amorosi pensier, già vani e lieti,


che fien or, s'a duo morte m'avvicino?


D'una so 'l certo, e l'altra mi minaccia.


81


Né pinger né scolpir fie più che quieti


l'anima, volta a quell'amor divino


c'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia.


286


Gl'infiniti pensier mie d'error pieni,


negli ultim'anni della vita mia,


ristringer si dovrien 'n un sol che sia


guida agli etterni suo giorni sereni.


Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni


coll'usata ineffabil cortesia?


287


Di giorno in giorno insin da' mie prim'anni,


Signor, soccorso tu mi fusti e guida,


onde l'anima mia ancor si fida


di doppia aita ne' mie doppi affanni.


288


Le favole del mondo m'hanno tolto


il tempo dato a contemplare Iddio,


né sol le grazie suo poste in oblio,


ma con lor, più che senza, a peccar volto.


Quel c'altri saggio, me fa cieco e stolto


e tardi a riconoscer l'error mio;


manca la speme, e pur cresce il desio


che da te sia dal propio amor disciolto.


Ammezzami la strada c'al ciel sale,


Signor mie caro, e a quel mezzo solo


salir m'è di bisogno la tuo 'ita.


Mettimi in odio quante 'l mondo vale


e quante suo bellezze onoro e colo,


c'anzi morte caparri eterna vita.


289


Non è più bassa o vil cosa terrena


che quel che, senza te, mi sento e sono,


onde a l'alto desir chiede perdono


la debile mie propia e stanca lena.


Deh, porgi, Signor mio, quella catena


che seco annoda ogni celeste dono:


la fede, dico, a che mi stringo e sprono;


né, mie colpa, n'ho grazia intiera e piena.


Tanto mi fie maggior, quante più raro


il don de' doni, e maggior fia se, senza,


pace e contento il mondo in sé non have.


Po' che non fusti del tuo sangue avaro,


che sarà di tal don la tuo clemenza,


se 'l ciel non s'apre a noi con altra chiave?


290


82


Scarco d'un'importuna e greve salma,


Signor mie caro, e dal mondo disciolto,


qual fragil legno a te stanco rivolto


da l'orribil procella in dolce calma.


Le spine e ' chiodi e l'una e l'altra palma


col tuo benigno umil pietoso volto


prometton grazia di pentirsi molto,


e speme di salute a la trist'alma.


Non mirin co' iustizia i tuo sant'occhi


il mie passato, e 'l gastigato orecchio;


non tenda a quello il tuo braccio severo.


Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,


e più abondi, quant'i' son più vecchio,


di pronta aita e di perdono intero.


291


Penso e ben so c'alcuna colpa preme,


occulta a me, lo spirto in gran martire;


privo dal senso e dal suo propio ardire


il cor di pace, e 'l desir d'ogni speme.


Ma chi è teco, Amor, che cosa teme


che grazia allenti inanzi al suo partire?


292


Ben sarien dolce le preghiere mie,


se virtù mi prestassi da pregarte:


nel mio fragil terren non è già parte


da frutto buon, che da sé nato sie.


Tu sol se' seme d'opre caste e pie,


che là germuglian, dove ne fa' parte;


nessun propio valor può seguitarte,


se non gli mostri le tuo sante vie.


293


Carico d'anni e di peccati pieno


e col trist'uso radicato e forte,


vicin mi veggio a l'una e l'altra morte,


e parte 'l cor nutrisco di veleno.


Né propie forze ho, c'al bisogno sièno


per cangiar vita, amor, costume o sorte,


senza le tuo divine e chiare scorte,


d'ogni fallace corso guida e freno.


Signor mie car, non basta che m'invogli


c'aspiri al ciel sol perché l'alma sia,


non come prima, di nulla, creata.


Anzi che del mortal la privi e spogli,


prego m'ammezzi l'alta e erta via,


e fie più chiara e certa la tornata.


294


Mentre m'attrista e duol, parte m'è caro


83


ciascun pensier c'a memoria mi riede


il tempo andato, e che ragion mi chiede


de' giorni persi, onde non è riparo.


Caro m'è sol, perc'anzi morte imparo


quant'ogni uman diletto ha corta fede;


tristo m'è, c'a trovar grazi' e mercede


negli ultim'anni a molte colpe è raro.


Ché ben c'alle promesse tua s'attenda,


sperar forse, Signore, è troppo ardire


c'ogni superchio indugio amor perdoni.


Ma pur par nel tuo sangue si comprenda,


se per noi par non ebbe il tuo martire,


senza misura sien tuo cari doni.


295


Di morte certo, ma non già dell'ora,


la vita è breve e poco me n'avanza;


diletta al senso, è non però la stanza


a l'alma, che mi prega pur ch'i' mora.


Il mondo è cieco e 'l tristo esempro ancora


vince e sommerge ogni prefetta usanza;


spent'è la luce e seco ogni baldanza,


trionfa il falso e 'l ver non surge fora.


Deh, quando fie, Signor, quel che s'aspetta


per chi ti crede? c'ogni troppo indugio


tronca la speme e l'alma fa mortale.


Che val che tanto lume altrui prometta,


s'anzi vien morte, e senza alcun refugio


ferma per sempre in che stato altri assale?


296


S'avvien che spesso il gran desir prometta


a' mie tant'anni di molt'anni ancora,


non fa che morte non s'appressi ognora,


e là dove men duol manco s'affretta.


A che più vita per gioir s'aspetta,


se sol nella miseria Iddio s'adora?


Lieta fortuna, e con lunga dimora,


tanto più nuoce quante più diletta.


E se talor, tuo grazia, il cor m'assale,


Signor mie caro, quell'ardente zelo


che l'anima conforta e rassicura,


da che 'l propio valor nulla mi vale,


subito allor sarie da girne al cielo:


ché con più tempo il buon voler men dura.


297


Se lungo spazio del trist'uso e folle


più temp'il suo contrario a purgar chiede,


la morte già vicina nol concede,


né freno il mal voler da quel ch'e' volle.


298


84


Non fur men lieti che turbati e tristi


che tu patissi, e non già lor, la morte,


gli spirti eletti, onde le chiuse porte


del ciel, di terra a l'uom col sangue apristi.


Lieti, poiché, creato, il redemisti


dal primo error di suo misera sorte;


tristi, a sentir c'a la pena aspra e forte,


servo de' servi in croce divenisti.


Onde e chi fusti, il ciel ne diè tal segno


che scurò gli occhi suoi, la terra aperse,


tremorno i monti e torbide fur l'acque.


Tolse i gran Padri al tenebroso regno,


gli angeli brutti in più doglia sommerse;


godé sol l'uom, c'al battesmo rinacque.


299


Al zucchero, a la mula, a le candele,


aggiuntovi un fiascon di malvagia,


resta sì vinta ogni fortuna mia,


ch'i' rendo le bilance a san Michele.


Troppa bonaccia sgonfia sì le vele,


che senza vento in mar perde la via


la debil mie barca, e par che sia


una festuca in mar rozz'e crudele.


A rispetto a la grazia e al gran dono,


al cib', al poto e a l'andar sovente


c'a ogni mi' bisogno è caro e buono,


Signor mie car, ben vi sare' nïente


per merto a darvi tutto quel ch'i' sono:


ché 'l debito pagar non è presente.


300


Per croce e grazia e per diverse pene


son certo, monsignor, trovarci in cielo;


ma prima c'a l'estremo ultimo anelo,


goderci in terra mi parria pur bene.


Se l'aspra via coi monti e co 'l mar tiene


l'un da l'altro lontan, lo spirto e 'l zelo


non cura intoppi o di neve o di gelo,


né l'alia del pensier lacci o catene.


Ond'io con esso son sempre con voi,


e piango e parlo del mio morto Urbino,


che vivo or forse saria costà meco,


com'ebbi già in pensier. Sua morte poi


m'affretta e tira per altro cammino,


dove m'aspetta ad albergar con seco.


301


Di più cose s'attristan gli occhi mei,


e 'l cor di tante quant'al mondo sono;


se 'l tuo di te cortese e caro dono


non fussi, della vita che farei?


Del mie tristo uso e dagli esempli rei,


85


fra le tenebre folte, dov'i' sono,


spero aita trovar non che perdono,


c'a chi ti mostri, tal prometter dei.


302


Non più per altro da me stesso togli


l'amor, gli affetti perigliosi e vani,


che per fortuna avversa o casi strani,


ond'e' tuo amici dal mondo disciogli,


Signor mie car, tu sol che vesti e spogli,


e col tuo sangue l'alme purghi e sani


da l'infinite colpe e moti umani,



- Fine -
 

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