lunedì 9 agosto 2010

M A R K T W A I N - * * * UN AMERICANO ALLA CORTE DI RE ARTU' * * *- Ed. Integrale


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UN AMERICANO

ALLA CORTE DI RE ARTU'



















Capitolo 1









UNO STRANO INCONTRO









Fu nel Castello di Warwick che incontrai quello strano forestiero di cui sto per parlarvi. Fui attratto da tre cose in lui: la sua candida semplicità, la sua meravigliosa conoscenza delle armature antiche e la sua riposante compagnia, dato che parlava solo lui.



Ci incontrammo nella coda del gruppo che visitava il castello, e lui cominciò subito a dire cose che destarono il mio interesse.



Mentre parlava in tono sommesso e piacevole, senza mai interrompersi, sembrava che si allontanasse pian piano da questo mondo e da questi tempi e si addentrasse in un'epoca remota e in un antico paese dimenticato, e a poco a poco mi avvolse in un'atmosfera così incantata che mi pareva di muovermi tra gli spettri e le ombre. Proprio come io potrei parlare dei miei più intimi amici o nemici, o dei vicini che conosco meglio, così lui parlava di ser Bedivere, ser Bors de Ganis, ser Lancillotto del Lago, ser Galahad, e tutti gli altri grandi nomi della Tavola Rotonda. Oh! come diventava vecchio, vecchio, indicibilmente vecchio, sbiadito, secco, polveroso e antico il suo aspetto a mano a mano che raccontava! Ad un certo punto si volse verso di me e disse, come se parlasse del tempo o di qualunque altra faccenda quotidiana:



- Lei ha sentito parlare della trasmigrazione delle anime, ma che cosa sa della trasposizione di epoche e di corpi?



Dissi che non ne sapevo niente. Ma a lui importava così poco proprio come quando si parla del tempo - che non si accorse se gli avevo risposto o no. Ci fu un mezzo istante di silenzio, subito interrotto dalla voce ronzante della guida stipendiata:



- Antico usbergo, datato al sesto secolo, epoca del re Artù e della Tavola Rotonda, ritenuto proprietà del cavaliere ser Sagramor il Desideroso. Osservino il foro circolare nella maglia metallica sul petto a sinistra. Non esistono spiegazioni: si suppone sia stato fatto da un proiettile dopo l'invenzione delle armi da fuoco, forse dai soldati di Cromwell.



Il mio compagno sorrise - non di un sorriso moderno, ma di uno che doveva esser caduto in disuso molti molti secoli prima - e mormorò apparentemente tra sé e sé:



- Noti bene, io l'ho visto fare -. Poi, dopo un pausa, aggiunse:- L'ho fatto io stesso.



Prima che io potessi riavermi dalla sorpresa e dalla scossa provocata dalle sue parole, era sparito.



Passai tutta la serata seduto vicino al mio caminetto nella locanda Warwick Arms, immerso in un sogno dei tempi antichi, mentre la pioggia batteva sui vetri e il vento infuriava. Di tanto in tanto mi tuffavo in quell'incantevole libro del vecchio sir Thomas Malory, mi nutrivo al suo ricco banchetto di prodigi e di avventure, e poi di nuovo sognavo.



Mentre posavo il libro, qualcuno bussò alla porta e lo strano forestiero entrò. Gli offrii una pipa, una poltrona ed una cordiale accoglienza. Lo confortai anche con un bel whisky scozzese bollente, gliene diedi un altro e poi un altro, sempre sperando di sentire la sua storia. Dopo un quarto bicchierino persuasivo, lui stesso si mise a raccontarla con semplicità e naturalezza.





















Capitolo 2









LA STORIA DEL FORESTIERO









"Sono americano. Nato e allevato a Hartford, nello stato del Connecticut, in campagna. Perciò sono proprio uno yankee. Mio padre era fabbro ferraio, mio zio era dottore di cavalli, ed io ero tutti e due, all'inizio almeno. Poi mi trasferii alla grande fabbrica di armi e imparai il mio vero mestiere. Imparai a costruire tutto: fucili, rivoltelle, cannoni, caldaie, motori, tutti i tipi di macchine che sostituiscono lavori a mano.



Perbacco, ero capace di costruire qualsiasi cosa uno volesse, e se non c'era nessun rapido sistema moderno per farla, lo inventavo io. Diventai sovrintendente capo: avevo due migliaia di uomini sotto di me.



Be', un uomo così è un uomo pieno di spirito battagliero, questo va da sé. Con due migliaia di omacci rozzi da sorvegliare, c'è di che divertirsi a muovere le mani. Almeno per quanto mi riguarda.



Alla fine incontrai qualcuno del mio stampo e ricevetti una bella lezione. Accadde durante una discussione a colpi di sbarra con un tipo che avevamo soprannominato Ercole. Mi stese a terra con una botta in testa che mi fece scricchiolare tutto e sembrò far saltare ogni giuntura del mio cranio e mandarla ad accavallarsi sull'osso accanto. A quel punto il mondo sparì in un gran buio ed io non sentii più niente e non capii più niente, almeno per un bel po'.



Quando rinvenni stavo seduto sotto una quercia, sull'erba. Il panorama della campagna circostante era magnifico e sembrava tutto per me, o quasi. Più in là, infatti, c'era un tipo a cavallo che mi guardava dall'alto in basso: pareva uscito fresco fresco da un libro illustrato. Indossava un'armatura di ferro dei tempi antichi, completa da capo a piedi, con un elmo in testa a forma di barilotto fornito di fessure; aveva uno scudo, una spada e una lancia prodigiosa, anche il cavallo aveva un'armatura indosso e un corno d'acciaio sporgente sulla fronte. Una stupenda gualdrappa di seta rossa e verde gli pendeva tutt'intorno come una trapunta, fino quasi a toccar terra.



- Mio bel messere, volete giostrare? - disse il tipo.



- Voglio che?



- Volete affrontarmi in singolar tenzone a conquista di una terra, o una dama, o...



- Ma per chi mi prendi? - gli dissi - Fila via, torna al tuo circo, o ti faccio arrestare.



Ma cosa fece, al contrario, costui? Si tirò indietro di qualche centinaio di metri e si precipitò contro di me alla massima velocità, con la sua testa a barilotto piegata giù fino a toccare quasi il collo del cavallo e la sua lunga lancia puntata dritta in avanti. Mi accorsi che faceva sul serio ed ero in cima all'albero quando lui ci arrivò.



Egli asserì che io ero sua proprietà, prigioniero della sua lancia. Aveva una certa ragione, tutto sommato, perciò giudicai opportuno assecondarlo. Fissammo un accordo per cui io l'avrei seguito, ma lui non mi avrebbe fatto del male. Scesi dall'albero e ci avviammo, lui a cavallo e io a fianco. Continuammo a marciare tranquillamente per boschetti e ruscelli che io non ricordavo di aver visto prima - il che mi confondeva e mi stupiva - e tuttavia non arrivavamo a nessun circo o qualcosa del genere. Allora rinunciai all'idea del circo e dedussi che costui proveniva da un manicomio. Ma non giungemmo a nessun manicomio: ero proprio disorientato, a dirla in poche parole. Gli domandai quanto distavamo da Hartford. Mi disse che non aveva mai sentito nominare quel posto. Io lo giudicai un bugiardo, ma lasciai perdere.



Finalmente dopo un'ora avvistammo in lontananza una città addormentata in una valle lungo un fiume serpeggiante; ed al di là di questa, sulla collina, un'enorme fortezza grigia con torri e torrette, la prima che io avessi mai visto, eccetto che nei quadri.



- Bridgeport? - domandai - indicandola col dito.



- Camelot - mi rispose." Arrivato a questo punto del racconto il forestiero cominciò a dar segni di sonnolenza. Quando si sorprese a ciondolare la testa, sorrise di uno di quei suoi sorrisi patetici e antichi e disse:



- Vedo che non ce la faccio; ma venga con me, ho tutta la storia scritta e lei può leggerla, se vuole. Giunti in camera sua mi disse:



- Dapprima tenevo un diario, poi dopo anni ed anni lo trasformai in un libro. Oh, quanto tempo fa! - Mi tese il manoscritto e indicò il punto dove dovevo cominciare:



- Cominci qui, quello che successe prima gliel'ho già raccontato.



Stava ormai sprofondando in un gran sopore. Mentre uscivo, lo sentii mormorare semiaddormentato:



- Buon riposo a voi, bel messere.



Mi sedetti accanto al caminetto ed esaminai il mio tesoro. Era una pergamena ingiallita dal tempo. Ne osservai una pagina, in particolare, e vidi che si trattava di un palinsesto. Sotto la vecchia scrittura sbiadita dello storico del Connecticut apparivano tracce di un lavoro a penna che era ancora più antico e più sbiadito, parole e frasi latine: sicuramente frammenti di antiche leggende di monaci. Cercai il punto indicato dal forestiero e cominciai a leggere quanto segue.





















Capitolo 3









CAMELOT









- Camelot... Camelot - ripetei tra me. - Non mi sembra di averlo mai sentito nominare prima. Il nome del manicomio, probabilmente.



Era un dolce riposante paesaggio estivo, bello come un sogno e malinconico come la domenica. L'aria era piena del profumo dei fiori, del ronzar degli insetti e del cinguettio degli uccelli e non c'erano persone, carri, nessun segno di vita. La strada era per lo più un sentiero serpeggiante segnato da impronte di cavalli e ogni tanto da una tenue traccia di ruote che sembravano avere un copertone largo come una mano.



Ben presto vidi venire verso di noi una bella ragazzina snella, di circa dieci anni, con una cascata di capelli d'oro che le scendevano per le spalle. Portava in testa una ghirlanda di papaveri rosso fiamma, la moda più graziosa che io avessi mai visto. L'uomo del circo non le prestò attenzione, non sembrò nemmeno vederla. In quanto a lei, era così poco sorpresa da quel suo fantastico travestimento, come se fosse abituata a vederne di simili tutti i giorni della sua vita! Veniva avanti indifferentemente come se stesse passando vicino a un paio di mucche; ma quando si accorse di me, allora sì vidi un mutamento!



Buttò le braccia in alto e diventò rigida come una statua, spalancò la bocca e sgranò gli occhi pieni di timore. Sembrava diventata il ritratto della curiosità e dello stupore misti a paura. E rimase così incantata a guardare finché girammo l'angolo del bosco e sparimmo alla sua vista. Che la ragazza fosse rimasta sorpresa nel veder me anziché il mio compagno, era troppo davvero:



non riuscivo a spiegarmelo. E che considerasse me uno spettacolo, quando era lei a dover essere considerata tale, era cosa sorprendente.



Ne avevo di che rimuginare per un po'. Continuai a camminare come in sogno.



Man mano che ci avvicinavamo alla città, incominciarono ad apparire segni di vita. Ad intervalli passavamo accanto ad una capanna miserabile con il tetto di paglia, circondata da orti e campicelli in povero stato di coltivazione. C'era anche della gente: omacci muscolosi con lunghi capelli disordinati che scendevano sulla faccia e li facevano assomigliare ad animali. In genere indossavano, come pure le donne, una rozza tunica di canapa che scendeva fin sotto il ginocchio e dei sandali grossolani; molti avevano un collare di ferro. I bambini erano sempre nudi, ma nessuno sembrava accorgersene. Tutta questa gente mi guardava ad occhi spalancati, parlava di me, correva nelle capanne e spingeva fuori gli altri perché venissero a guardarmi; ma nessuno fece la minima attenzione al mio compagno eccetto che per salutarlo umilmente, senza ricevere alcuna risposta a questi gesti servili.



In città c'erano alcune grandi case di pietra senza finestre, sparse tra una desolata moltitudine di capanne di paglia; le strade erano vicoli tortuosi senza selciato; frotte di cani e di bambini nudi giocavano al sole creando vita e rumore; porci razzolavano intorno pacificamente.



Ben presto sentimmo in lontananza gli squilli di tromba di una banda militare; si avvicinarono sempre più finché comparve alla nostra vista un gruppo di nobili a cavallo. Erano gloriosamente adorni di elmi piumati, cotte luccicanti, bandiere sventolanti, ricche giubbe, gualdrappe e lance dorate. Si fecero strada altezzosamente, tra la sporcizia e i maiali, tra i monellacci nudi, i cani festanti e le squallide capanne e noi li seguimmo.



Percorremmo un sentiero tortuoso e poi un altro e un altro ancora, salendo sempre salendo, finché arrivammo sull'altura ventosa dove sorgeva l'immenso castello. Ci fu uno scambio di squilli di tromba poi un parlamentare dalle mura, dove uomini d'arme in usbergo marciavano avanti e indietro, alabarda alla spalla, sotto bandiere sventolanti. Poi il gran portone fu spalancato, il ponte levatoio abbassato e la testa del gruppo si spinse avanti sotto gli archi tetri. Noi, seguendola, ci trovammo ben presto in una grande corte lastricata, con torri e torrette che si slanciavano nell'aria azzurra da tutti e quattro i lati. Tutt'intorno a noi era un gran smontar di cavallo e salutarsi e far cerimonie e correr di qua e di là e un allegro sfarfallio e mescolarsi di colori: insomma proprio uno spettacolo piacevole, pieno di animazione, rumore e confusione.





















Capitolo 4









LA CORTE DI RE ARTU'









Appena mi fu possibile colsi l'occasione per appartarmi un momento. Toccai sulla spalla un vecchio e gli dissi in tono confidenziale:



- Amico mio, fammi questa gentilezza. Dimmi, appartieni anche tu al manicomio, o sei solo qui per fare una visita, o qualcosa del genere?



Mi squadrò da capo a piedi con un'aria idiota, e disse:



- Poffare, mio signore, invero mi parrebbe.



- Grazie, mi basta. Direi che sei anche tu un paziente.



Mi allontanai pensieroso, ma al tempo stesso attento ad individuare tra i passanti qualcuno che sembrasse veramente in sé e che potesse darmi delle spiegazioni. Ben presto giudicai di averne trovato uno, perciò lo tirai da parte e gli dissi all'orecchio:



- Se potessi vedere il sorvegliante capo un momento, proprio solo un momento.



- Di grazia, non tenermi.



- Tenerti?



- Trattenermi allora, se la parola ti aggrada meglio.



Poi continuò dicendo che lui era un sottocuoco e non poteva fermarsi a chiacchierare, ma l'avrebbe fatto volentieri un'altra volta, poiché moriva dalla voglia di sapere dove mi ero procurato i vestiti che portavo. Mentre se ne andava mi indicò qualcuno col dito e mi disse che quello là aveva abbastanza tempo da perdere per soddisfare la mia richiesta e per di più mi stava cercando.



Era un ragazzino snello e vivace con brache attillatissime color gambero che lo facevano assomigliare a una carota biforcuta. Il resto del suo abbigliamento era di seta blu, tutto pizzi e guarnizioni elaborate; aveva lunghi riccioli biondi e portava un berretto piumato di raso rosa calato su un orecchio. Dall'aspetto sembrava di buon carattere, dal portamento sembrava soddisfatto di sé. Arrivò vicino a me, mi squadrò sorridendo con curiosità, disse che era venuto a prendermi e mi informò che era un paggio.



Mentre camminavamo incominciò a parlare e ridere in modo fanciullesco, felice e spensierato. Diventammo subito amici. Mi fece domande di ogni genere su di me e sui miei vestiti, ma non aspettava mai la risposta: continuava semplicemente a chiacchierare, come se non avesse fatto alcuna domanda.



Ad un certo punto disse, per caso, che lui era nato all'inizio dell'anno 513.



Mi sentii i brividi correr su per la schiena! Mi fermai e gli dissi con la voce un po' tremante:



- Forse non ti ho capito bene. Dimmelo di nuovo e dillo lentamente. Che anno era?



- Il 513.



- Il 513? Non si direbbe a vederti. Via, ragazzo mio, io sono forestiero e senza amici: sii onesto con me e parla sul tuo onore.



Sei sano di mente?



Rispose di sì.



- E tutti costoro sono anch'essi sani di mente?



Rispose nuovamente di sì.



- E questo non è un manicomio? Voglio dire, non è un posto dove si curano i matti?



Disse di no.



- Allora - dissi - il pazzo sono io, o qualcosa di altrettanto orribile è successo. Ora dimmi, in tutta onestà e verità, dove mi trovo?



-Alla corte di re Artù.



Feci una pausa per lasciar che l'idea mi penetrasse con un brivido fino in fondo, poi dissi:



- E secondo le tue nozioni, che anno è questo?



- Il 528, il 19 giugno.



Sentii il cuore venirmi meno dalla tristezza e mormorai:



- Non rivedrò mai più i miei amici, mai più, mai più. Loro nasceranno fra più di milletrecento anni.



Sentivo di dover credere a quel ragazzo, senza sapere perché.



Qualcosa in me gli credeva, ma la mia ragione no. Essa cominciò subito a protestare rumorosamente, com'è naturale. Io non sapevo come soddisfarla. Ma di colpo per pura fortuna trovai quel che cercavo. Sapevo che l'unica eclissi totale di sole 2, nella prima metà del sesto secolo, capitava il 21 giugno dell'anno del Signore 528 e cominciava tre minuti dopo mezzogiorno. Sapevo anche che nessuna eclissi totale di sole era prevista in quello che per me era l'anno corrente, cioè il 1879. Perciò, se l'ansietà e la curiosità non mi rodevano il cuore entro le prossime quarantott'ore, avrei potuto verificare di sicuro se il ragazzo diceva o no la verità.



A questo punto, essendo una persona pratica, cacciai via l'intero problema dalla mia mente fino al giorno e all'ora stabilita, così da potermi concentrare completamente sulla situazione ed essere pronto a trarne il maggior vantaggio possibile.



Decisi in cuor mio di fare una di queste due cose: se questo era ancora il diciannovesimo secolo e io mi trovavo in mezzo ai matti e non potevo uscirne, avrei finito per farla da padrone nel manicomio o per venire a sapere il perché di tutto ciò; e se per caso era davvero il sesto secolo, ebbene, ero pronto ad usare altrettanta forza. L'avrei fatta da padrone nell'intero paese entro tre mesi, poiché ritenevo che avrei avuto il vantaggio iniziale di più di milletrecento anni sugli uomini più colti di tutto il reame. Non sono il tipo da mettermi a perder tempo quando ho preso una decisione e c'è del lavoro da fare, perciò dissi al paggio:



- Allora, Clarence, ragazzo mio - ammesso che questo sia il tuo nome - vorrei che tu mi mettessi al corrente di alcune cose, se non ti dispiace. Come si chiama il tipo che mi ha condotto qui?



-Il mio e tuo padrone? E' il buon cavaliere e gran signore, ser Kay il siniscalco, fratello di latte del re nostro sovrano.



-Benissimo, suvvia, raccontami tutto.



Mi tirò fuori una lunga storia.



Quanto a me, disse che ero prigioniero di ser Kay e che secondo le usanze sarei stato gettato in una prigione sotterranea e abbandonato là con scarso cibo, finché i miei amici avessero pagato per il mio riscatto, a meno che non marcissi prima. Mi resi conto che la seconda possibilità era la più probabile, ma non persi tempo a preoccuparmi: il tempo era troppo prezioso. Il paggio aggiunse poi che a quell'ora il banchetto nella grande sala era quasi finito e appena i signori avessero cominciato a bere forte e a richiedere intrattenimenti, ser Kay mi avrebbe fatto chiamare e messo in mostra davanti a re Artù e ai suoi illustri cavalieri seduti alla Tavola Rotonda. Si sarebbe vantato di come mi aveva fatto prigioniero e probabilmente avrebbe esagerato un po' i fatti, ma non sarebbe stata buona educazione, né troppo prudente da parte mia, correggerlo, e quando avesse finito di mettermi in mostra, allora via, in prigione. Ma lui, Clarence, avrebbe trovato un sistema per venire a trovarmi ogni tanto e consolarmi e aiutarmi ad avvertire i miei amici.



Avvertire i miei amici! Lo ringraziai. Era il minimo che potessi fare. A questo punto un servo venne a dire che ero desiderato; perciò Clarence mi fece entrare, mi portò da un lato della sala e si sedette accanto a me.



Ebbene, era proprio uno spettacolo strano ed interessante. Era una stanza immensa e piuttosto spoglia: il soffitto era altissimo alle due estremità della sala, in alto, c'erano due gallerie con balaustre di pietra, una per i musici e l'altra per le donne che erano vestite di colori sgargianti. Il pavimento era di grandi lastre di pietra a riquadri bianchi e neri, assai logorate dagli anni e dall'uso e in gran bisogno di essere riparate. In quanto a decorazioni propriamente dette non ce n'erano, ma c'erano alcuni enormi arazzi sulle pareti, che rappresentavano scene di battaglia con cavalli che assomigliavano a quelli che i bambini ritagliano nella carta e con uomini a cavallo con certe strane armature.



C'era poi un camino così grande da potercisi accampare dentro; lungo le pareti erano allineati armigeri in corazza e morione con alabarde come uniche armi, rigidi come statue.



In mezzo a questa piazza pubblica con archi e volte, c'era una tavola di quercia che chiamavano la Tavola Rotonda. Era grande come la pista di un circo. Intorno ad essa era seduta una grande compagnia di uomini vestiti di colori così vari e sgargianti che faceva male agli occhi guardarli. Tenevano sempre in testa il loro cappello piumato, eccetto quando si rivolgevano direttamente al re, nel qual caso lo sollevavano appena un poco.



Quasi tutti stavano bevendo da interi corni di bue, ma alcuni stavano ancora ruminando pane o rosicchiando ossa. C'era una media di due cani per ogni uomo; stavano accucciati con aria d'attesa speranzosa finché gli si gettava un osso già ben spolpato. Allora ci si buttavan sopra con impeto e ne veniva fuori una zuffa, un caos tumultuoso di teste e corpi che si tuffavano nella mischia e code che balenavano qua e là e una tempesta di ululati e di latrati che copriva ogni voce umana. Ma a nessuno dava fastidio perché la lotta dei cani era comunque un gran divertimento.



Di regola la conversazione e il comportamento di quella gente erano cortesi e raffinati, e osservai che erano ottimi e seri ascoltatori quando qualcuno raccontava qualcosa, voglio dire nell'intervallo tra una lotta canina e l'altra. Ed era chiaro anche che erano proprio ingenui e infantili, dato che raccontavano le bugie più grosse con un'ingenuità gentile ed accattivante, ed erano pronti e desiderosi di ascoltare le bugie di chiunque altro e per di più crederci.



Non ero l'unico prigioniero presente. Ce n'erano venti o più.



Poveri diavoli, molti di loro erano mutilati, tagliuzzati in modo orrendo: avevano i capelli, la faccia, gli abiti incrostati di sangue. Dovevano di sicuro essere in preda ad acuti dolori fisici, a stanchezza, fame e sete. Nessuno aveva dato loro almeno il conforto di un lavaggio e nemmeno la misera carità di un unguento per le loro ferite; eppure non si sentiva da loro un lamento, non si vedeva alcun segno di inquietudine, né alcuna tendenza a lagnarsi.





















Capitolo 5









I CAVALIERI DELLA TAVOLA ROTONDA









I discorsi della Tavola Rotonda erano quasi solo dei monologhi, resoconti delle avventure in cui questi prigionieri erano stati catturati, i loro amici e i loro sostenitori uccisi e privati dei destrieri e delle armature. In genere, per quanto potevo capire, queste avventure sanguinarie non erano fatte per vendicare dei torti o sistemare vecchie dispute; no, di regola erano semplicemente duelli tra sconosciuti tra cui non esisteva alcuna ragione di offesa. Mi era capitato molte volte di vedere un paio di ragazzi che non si conoscevano imbattersi l'un nell'altro per caso e dire allo stesso tempo "Scommetti che te le do" e picchiarsi, ma avevo sempre immaginato finora che queste fossero cose da ragazzi, e segno di fanciullezza; ma ecco qui questi gran sciocconi che si comportavano allo stesso modo e se ne vantavano nel pieno della loro maturità e oltre. E tuttavia c'era qualcosa d'affascinante in questi grand'uomini dal cuore semplice, qualcosa che faceva tenerezza e simpatia. Di cervello non ce n'era abbastanza in tutto quell'asilo infantile, ma uno non ci faceva più caso dopo un po', perché si accorgeva che il cervello non era necessario in una società del genere e anzi l'avrebbe guastata, bloccata.



Su quasi ogni volto si poteva osservare il coraggio ed in alcuni anche una certa dignità e dolcezza. Bontà e onestà erano visibili nell'aspetto di colui che era chiamato ser Galahad e in quello del re, e c'era maestà e grandezza nella figura gigantesca e nel portamento fiero di ser Lancillotto del Lago.



Ad un certo punto ser Kay si alzò a parlare e lodò Lancillotto, raccontando di come avesse ucciso sette giganti con un solo colpo di spada e successivamente avesse abbattuto nove cavalieri. Poi narrò di come, in due battaglie successive, avesse sconfitto prima sedici e poi trentaquattro avversari.



Ebbene, era proprio commovente veder la regina arrossire e sorridere, con aria felice e imbarazzata, lanciando a ser Lancillotto delle occhiate furtive.



Tutti lodarono il valore e la generosità di ser Lancillotto.



Quanto a me, ero totalmente stupefatto che un sol uomo, senza aiuto alcuno, avesse potuto sconfiggere e catturare tali battaglioni di esperti guerrieri. Lo confidai a Clarence ma quel beffardo sventatello disse solo:



- Se ser Kay avesse avuto il tempo di tracannare un altro otre di vino, voi avreste visto il suo calcolo raddoppiare.



Guardai il ragazzo con tristezza e mentre lo guardavo vidi un'aria di profonda costernazione sul suo viso. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi che un uomo molto vecchio dalla barba bianca, avvolto in una veste nera, si era alzato e stava ritto accanto al tavolo sulle gambe malferme, dondolando debolmente il capo e ispezionando la compagnia con occhi acquosi e smarriti. Lo stesso sguardo di sofferenza che era sul volto del paggio si poteva notare su tutti i volti intorno.



- Accidenti, dobbiamo sentirla di nuovo, - sospirò il ragazzo quella stessa vecchia e noiosa storia che ci ha già raccontato migliaia di volte con le stesse parole e che continuerà a raccontare fino alla morte tutte le volte che si è ben riempito di vino e che sente la sua macchina racconta-frottole entrare in azione. Volesse il Cielo che fossi morto piuttosto che vedere questo giorno!



-Ma chi è?



- Merlino, il mago, potente e bugiardo: possa bruciare dannato per la tremenda noia che provoca con la sua unica storia! Se non fosse che lo temono perché ad un suo cenno obbediscono tempeste e lampi e tutti i diavoli dell'inferno, costoro gli avrebbero già tanti anni fa tirato fuori le budella per scovarci questa storia e soffocarla. Mio caro amico, ti prego, chiamami per il vespro. Il ragazzo si rannicchiò sulla mia spalla e finse di addormentarsi.



Il vecchio cominciò la sua narrazione e ben presto il ragazzo si addormentò davvero e così pure i cani, la corte, i servi e le file di armigeri. La voce cantilenante continuò a ronzare, da ogni parte si levò un lieve russare che la sostenne come un accompagnamento di strumenti a fiato. Alcuni avevano chinato la testa sulle braccia conserte, altri l'avevano lasciata cadere all'indietro con la bocca aperta che mandava fuori strani suoni, gli insetti ronzavano e pungevano indisturbati, frotte di topi uscirono silenziosamente da cento buchi e si misero a zampettare tutt'intorno: uno si sedette come uno scoiattolo sulla testa del re e rosicchiando un pezzo di formaggio nelle zampette ne lasciava cadere le briciole sulla sua faccia. Era una scena tranquilla e riposante per gli occhi stanchi e lo spirito estenuato. Questa fu la storia del vecchio. Egli così la raccontò:



"Dunque il re e Merlino partirono e si recarono da un eremita che era un sant'uomo e un gran cerusico. Così l'eremita esaminò tutte le sue ferite e gli diede dei buoni unguenti; e così il re si fermò in quel luogo tre giorni, dopo di che le sue ferite erano così ben guarite che poteva cavalcare e andarsene via, e così ripartì. E mentre cavalcavano Artù disse:



- Non ho spada.



- Non importa - disse Merlino - qui vicino c'è una spada che sarà tua con il mio aiuto.



E così cavalcarono finché giunsero ad un lago e nel mezzo del lago Artù scorse un braccio avvolto in un bianco drappo che teneva una bella spada nella mano.



Mira - disse Merlino - là è la spada di cui ti parlai.



E allora videro una donzella andare sul lago.



- E' la Dama del Lago - disse Merlino - e dentro il lago c'è uno scoglio e lì vi è un luogo bello come nessun altro sulla terra, e questa donzella verrà a te tra breve e allora tu le parlerai cortesemente affinché ti dia quella spada.



E poco dopo venne la donzella da Artù e lo salutò.



- Donzella - disse Artù - che spada è mai quella che il braccio laggiù tiene sospesa sull'acqua? Vorrei che fosse mia poiché io non ho spada.



- Sire - disse la donzella - quella spada è mia e se tu mi darai un dono quando te lo chiederò, puoi averla.



- In fede mia - disse Artù - ti darò qualunque dono tu chiederai.



- Allora - disse la donzella - entra in quella barca laggiù e rema fino a raggiungere la spada, prendila e prendi anche il fodero e io ti chiederò il mio dono a suo tempo.



Così sire Artù e Merlino smontarono e legarono i cavalli a due alberi e così entrarono nella barca, e quando giunsero alla spada che la mano teneva, sire Artù la prese per l'impugnatura e la trasse a sé. E il braccio e la mano sparirono sott'acqua; e così essi tornarono alla terraferma e se ne andarono via a cavallo.



Sire Artù guardò la spada e gli piacque in sommo grado.



- Quale ti piace di più - disse Merlino - la spada o il fodero?



- Mi piace di più la spada - disse Artù.



- Non sei veramente saggio - disse Merlino - poiché il fodero vale dieci volte più della spada, infatti finché lo avrai su di te non perderai mai sangue e non avrai mai gravi ferite; perciò tienilo sempre ben stretto a te".





















Capitolo 6









SER DINADAN L'UMORISTA









A me parve che quella bizzarra serie di menzogne fosse raccontata nel modo più semplice e bello possibile; ma si capisce, io l'avevo sentita solo ora e questo fa una bella differenza. Senza dubbio era stata piacevole anche per gli altri, la prima volta. Ser Dinadan l'Umorista fu il primo a svegliarsi e ben presto svegliò gli altri con uno scherzetto piuttosto di bassa lega. Legò dei boccali di metallo alla coda di uno dei cani e poi lo lasciò andare, e quello si mise a correre in giro nella sala all'impazzata pieno di terrore. Tutti gli altri cani gli abbaiavano dietro e urtavano e sfondavano tutto quello che trovavano davanti, facendo una confusione e un frastuono assordanti, al che tutti gli uomini e le donne di quella gran folla risero fino alle lacrime e alcuni caddero giù dalle sedie e si rotolarono sul pavimento con convulsioni di risa. Erano proprio come tanti bambini. Ser Dinadan era così lanciato che decise di tenere un discorso, naturalmente umoristico. Penso di non aver mai sentito così tante vecchie barzellette cucite insieme, in tutta la mia vita. Era peggio di un suonatore ambulante, peggio di un pagliaccio del circo. Mi sembrava particolarmente triste starmene seduto lì, milletrecento anni prima di esser nato, a riascoltare quelle barzellette ammuffite che mi avevano fatto venire i crampi allo stomaco quand'ero ragazzo, milletrecento anni dopo. Il che mi convinse finalmente che quella cosa che chiamiamo una nuova barzelletta non esiste.



A questo punto si alzò ser Kay e cominciò a mettere in moto la sua macchina di racconti usando me come combustibile. Era giunto per me il momento di ritornare serio e lo feci davvero. Ser Kay disse che mi aveva incontrato in una terra lontana, popolata di barbari che indossavano tutti lo stesso ridicolo costume che portavo io, un costume che era opera magica e aveva lo scopo di rendere immune da ferite di mano umana chi lo indossava. Tuttavia lui aveva annullato la forza dell'incantesimo con la preghiera e aveva ucciso i miei tredici cavalieri in una battaglia durata tre ore.



Poi mi aveva fatto prigioniero risparmiandomi la vita per poter esibire quello strano fenomeno che io ero allo stupore e all'ammirazione del re e della corte. Per tutto il tempo parlò di me, chiamandomi "questo gigante prodigioso", "questo orribile mostro che si eleva torreggiante fino al cielo", "quest'orco mangiauomini con zanne e artigli". E tutti rimasero lì a bere queste fandonie nel modo più ingenuo, senza sorridere, senza pensar di notare se ci fosse una qualche discrepanza tra queste definizioni e me. Disse poi che nel cercar di sfuggirgli io avevo fatto un sol balzo alto circa duecento cubiti in cima ad un albero, ma lui mi aveva snidato con una pietra grossa quanto una vacca, che aveva spezzato completamente la maggior parte delle mie ossa e mi aveva fatto giurare di apparire alla corte di Artù per essere giudicato.



Terminò condannandomi a morire a mezzogiorno del 21, e gliene importava così poco che si fermò a sbadigliare prima di indicare la data.



A questo punto io ero in uno stato di terribile scoramento. A dir la verità, non ero nemmeno abbastanza in me da seguir la disputa che sorse riguardo al modo migliore per farmi morire, poiché alcuni dubitavano che io potessi essere ucciso, dato l'incantesimo dei miei vestiti. E dire che non era nient'altro che un comunissimo abito comprato bell'e fatto per quindici dollari.



Erano così preoccupati della magia dei miei abiti che tirarono un gran respiro di sollievo alla fine quando il vecchio Merlino spazzò via la difficoltà con un suggerimento di buon senso.



Domandò loro perché mai fossero così stupidi e a nessuno fosse venuto in mente di spogliarmi. In un batter d'occhio mi ritrovai bell'e nudo! E, santo cielo, a pensarci bene, io ero la sola persona imbarazzata tra tutti quanti.



Ero oggetto di discussione da parte di tutti; e lo facevano senza alcun riguardo come se stessero parlando di un cavolo. La regina Ginevra era piena di innocente curiosità proprio come gli altri e disse che non aveva mai visto nessuno con gambe esattamente come le mie. Fu l'unico complimento che ricevetti, se era un complimento. Alla fine io fui trascinato via in una direzione e i miei pericolosi vestiti in un'altra. Mi spinsero giù in una cella buia e stretta nei sotterranei, con dei miseri avanzi per cena, della paglia ammuffita per letto e un'infinità di topi per compagni.





















Capitolo 7









UN'ISPIRAZIONE









Ero così stanco che nemmeno tutte le mie paure riuscirono a tenermi sveglio a lungo.



Quando ritornai in me, mi sembrò di aver dormito per un periodo lunghissimo. Il mio primo pensiero fu:



"Mamma mia, che sogno straordinario ho fatto! Credo di essermi svegliato proprio in tempo prima di essere impiccato o affogato o bruciato vivo, o roba del genere... Farò ancora un sonnellino fino a quando suona la sirena e poi andrò giù alla fabbrica di armi a prendermi la rivincita su Ercole".



Ma proprio in quel momento sentii una roca musica di catene e di chiavistelli arrugginiti, una luce improvvisa mi abbagliò e quel farfallino, Clarence, mi comparve davanti! Rimasi senza fiato dallo stupore; non riuscivo quasi più a respirare.



- Come! - dissi - Sei ancora qui tu? Vattene via con il resto dei miei sogni! Sparisci!



Ma lui fece solo una risatina, a cuor leggero come suo solito e si mise a scherzare sulla mia triste condizione.



- E va be' - dissi rassegnato - lasciamo andare avanti questo sogno, tanto io non ho fretta.



- Di grazia, che sogno?



- Che sogno? Ma come! Il sogno che io sono alla corte di re Artù, una persona che non è mai esistita; e che sto parlando con te che sei solo frutto dell'immaginazione.



- Oh, davvero! Ed è solo un sogno il fatto che sarete bruciato vivo domani? Eh, eh, rispondetemi un po'!



La scossa che ne ricevetti fu tremenda. A quel punto cominciai a pensare che la mia situazione era sommamente grave.



- Ah, Clarence, mio buon ragazzo, mio unico amico, tu sei mio amico, non è vero? Non abbandonarmi, aiutami a escogitare qualche modo per scappar via di qui!



- Ma siete fuor di senno? Fuggire? Signor mio, i corridoi sono guardati continuamente da uomini d'arme.



- Certo, certo. Ma quanti, Clarence? Non molti, spero.



- Almeno una ventina. Non c'è speranza di fuga.



E dopo una pausa aggiunse esitante:



- E ci sono altre ragioni, assai più gravi.



- Altre ragioni? E quali sono?



- Be', si dice... oh no, non oso, non ho il coraggio!



- Ma perché, mio povero ragazzo, che ti succede? Perché ti rifiuti di parlare? Perché tremi così?



Esitò, diviso com'era tra il desiderio e il terrore di parlare; poi si avvicinò furtivo alla porta, sbirciò fuori e stette in ascolto, infine mi si avvicinò silenziosamente, portò le labbra al mio orecchio e mi bisbigliò la tremenda notizia:



- Merlino, con la sua astuzia maligna, ha tessuto un incantesimo intorno a questi sotterranei e non c'è nessuno in questo reame che farebbe il gesto disperato di cercar di rompere questa trama insieme a voi! Ora Dio abbia pietà di me, io ho parlato! Oh, siate buono, abbiate pietà di questo povero ragazzo che cerca di aiutarvi; poiché se voi mi tradite, io sono perduto!



Io scoppiai in una risata, l'unica veramente a cuor leggero da un po' di tempo in qua e dissi forte:



- Merlino ha tessuto un incantesimo, Merlino davvero! Quel vecchio impostore da quattro soldi, quel vecchio idiota farfugliante!



Idiozia, idiozia bell'e buona, la più grande idiozia del mondo Oh, all'inferno questo Merlino!



Ma Clarence si era buttato in ginocchio prima che io avessi finito e sembrava uscir di senno dalla paura.



- Oh, guardatevene bene! Queste sono parole tremende! Da un momento all'altro queste mura crolleranno su di noi se parlate così. Oh, ritirate ciò che avete detto, prima che sia troppo tardi!



Questa strana scena mi diede una buona idea e cominciai a far lavorare il cervello. Se tutti quanti in questo paese erano onestamente e sinceramente così spaventati dalla presunta magia di Merlino come lo era Clarence, certamente un uomo superiore come me doveva essere abbastanza furbo da escogitare un sistema di trarre vantaggio da tale stato di cose. Continuai a pensare e tracciai un piano d'azione. Poi dissi:



- Alzati. Calmati. Guardami negli occhi. Lo sai perché ridevo?



- No ma, in nome della Vergine Maria, non fatelo più.



- Bene, ti dirò perché ridevo. Perché anch'io sono un mago!



- Voi!



Il ragazzo arretrò di un passo e trattenne il fiato, perché la cosa lo colpì di sorpresa; ma l'atteggiamento che assunse era molto, molto rispettoso. Ne presi rapidamente nota: questo indicava che un impostore non aveva bisogno di una reputazione in questo manicomio, la gente era pronta a credergli sulla parola senz'altra prova. Ripresi a dire:



- Conosco Merlino da settecento anni e lui...



- Settecen...



- Non interrompermi. E' morto e rinato tredici volte, viaggiando ogni volta sotto nuovi nomi: Smith, Jones, Robinson, Jackson, Peters, Haskins, Merlin, un nuovo pseudonimo ogni volta che ricompare. L'ho incontrato in Egitto trecento anni fa, poi in India cinquecento anni fa. Ovunque io vada me lo trovo davanti a blaterare; mi stanca proprio. Non vale niente come mago; conosce qualcuno dei soliti vecchi trucchi, ma non è mai andato oltre i primi rudimenti e mai ci andrà. Va abbastanza bene per i giri in provincia: una sera qui e una là e roba simile, mi capisci ma santo cielo, non dovrebbe farsi passare per esperto, in ogni caso non là dove c'è un vero artista come me. Adesso fa' attenzione, Clarence, io ti sarò amico fino in fondo e tu in cambio devi esserlo per me. Voglio che tu mi faccia un favore. Voglio che tu faccia arrivare al re la notizia che io stesso sono un mago e per di più il Supremo Grande Sommo Muckamuck, capo della tribù dei maghi. Voglio che lui capisca ben bene che io sto silenziosamente preparando una piccola calamità da creare un vero scompiglio in questo reame se il progetto di ser Kay sarà portato a termine e mi verrà fatto del male. Vuoi farlo sapere al re da parte mia?



Il povero ragazzo era in tale stato che non riusciva a rispondermi. Faceva pena vedere una creatura così terrorizzata. Ma promise tutto. Quanto a me, mi fece promettere più e più volte che io sarei sempre rimasto suo amico e che mai avrei tessuto un incantesimo contro di lui. Poi si fece strada verso l'uscita, tenendosi con la mano al muro come una persona malata. Poco dopo questo pensiero mi colpì:



"Come sono stato stupido! Quando Clarence si calmerà, comincerà a chiedersi perché un grande mago come me ha avuto bisogno di implorare l'aiuto di un ragazzino come lui per uscir da questo luogo; così si accorgerà che sono un impostore".



Mi preoccupai per quello stupido errore per un'ora e intanto continuavo a darmi del cretino. Ma alla fine mi venne in mente di colpo che questi animali non sapevano ragionare, che essi non mettevano mai insieme una cosa con l'altra; e che tutti i loro discorsi mostravano che essi non sapevano riconoscere una contraddizione quando la vedevano. Allora mi calmai.



Ma appena uno è un po' calmo in questo mondo, subito comincia a preoccuparsi per qualcos'altro. Mi venne in mente che avevo fatto un altro errore: avevo spedito via il ragazzo a mettere in allarme i suoi superiori con una minaccia; e se mi avessero chiamato per fare una piccola dimostrazione? E se mi avessero chiesto qual era questa calamità? Sì, avevo fatto un errore; avrei dovuto inventare la mia calamità prima.



Cosa potevo fare? Cosa dire per guadagnare un po' di tempo? Ero di nuovo nei guai...



Ecco dei passi! Stanno venendo. Se avessi solo un momento per pensare... Bene! Trovato. Adesso sono a posto.



Capite, era l'eclissi. Mi venne in mente, appena in tempo.



Clarence entrò, abbattuto e angosciato, e disse:



- Feci pervenire subito il messaggio al re nostro sovrano e subito lui mi ammise alla sua presenza. Era profondamente spaventato e aveva deciso di dar ordini per la vostra immediata liberazione e per farvi vestire con gli abiti più fini e alloggiare come si conviene a sì grande persona; ma poi arrivò Merlino e rovinò tutto. Riuscì a persuadere il re che voi siete pazzo e non sapete di cosa parlate; disse che la vostra minaccia è solo idiozia.



Discussero a lungo, ma alla fine Merlino disse che non avevate menzionato questa vantata calamità perché in verità non eravate in grado di farla. Questa stoccata chiuse di colpo la bocca al re, che non riuscì a pensare nulla per controbatterla. E così, pur con riluttanza e ripugnandogli di farvi tale affronto, vi prega di considerare la sua situazione imbarazzante, notando come stanno le cose, e di menzionare questa calamità. Oh, vi supplico, non tardate. Siate saggio, menzionate la calamità!



Lasciai che il silenzio si facesse più profondo mentre mettevo in moto tutta la mia capacità di impressionare, poi chiesi:- Da quanto tempo sono rinchiuso in questo buco?



- Siete stato rinchiuso qua dentro quando la giornata di ieri era al termine. Sono le 9 del mattino ora.



-Ma no! Allora ho dormito sodo. Oggi è il 20, allora?



- Il 20, sì.



- E devo essere bruciato vivo domani. A che ora?



- A mezzogiorno in punto.



Allora, dunque, ti dirò che cosa devi riferire.



Feci una pausa; poi con voce profonda, misurata e carica di sventura, cominciai a parlare e alzai gradatamente e drammaticamente il tono fino al culmine altissimo dell'annuncio:



- Torna e riferisci al re che a tale ora soffocherò l'intero mondo in una mortale oscurità a mezzo il giorno; annienterò il sole che non brillerà mai più; i frutti della terra marciranno per mancanza di luce e di calore e le popolazioni della terra soffriranno la fame e moriranno, fino all'ultimo uomo! Dovetti essere io a trasportare il ragazzo fuori poiché era crollato. Lo consegnai ai soldati e rientrai nella cella.





















Capitolo 8









L'ECLISSI









Nella quiete e nel buio la conoscenza del fatto che io ero in pericolo mortale assunse un significato sempre più profondo; un qualcosa che era il senso della realtà stillò goccia a goccia nelle mie vene e mi gelò. Poi, però, il mio animo riprese speranza. Mi dissi che la mia eclissi mi avrebbe sicuramente salvato e per di più trasformato nell'uomo più importante del reame; e di colpo le mie ansietà svanirono. Ero l'uomo più felice del mondo. Ero persino impaziente che arrivasse l'indomani, tanto desideravo raccogliere gli allori di quel gran trionfo ed essere il centro della meraviglia e del rispetto di tutta la nazione.



Inoltre, dal punto di vista degli affari, sarebbe stata la mia fortuna: ne ero ben cosciente.



Intanto riflettevo: quando la natura della calamità che intendevo infliggere fosse stata resa nota a quella gente superstiziosa, l'effetto sarebbe stato tale da indurli a chiedere un compromesso.



Perciò poco dopo, quando sentii dei passi avvicinarsi, quel pensiero mi tornò in mente e dissi a me stesso:



"Sicuro come l'oro, questo è il compromesso. Bene, se ne vale la pena, lo accetto; ma diversamente, ho intenzione di tener duro e di giocare le mie carte fino in fondo".



La porta si aprì e comparvero uomini d'arme. Il loro capo disse:



-Il rogo è pronto. Venite!



Il rogo! Le forze mi vennero meno e stavo per crollare. E' difficile tirare il fiato in quei momenti, ti vengono certi nodi in gola. Ma appena riuscii a parlare dissi:



- Ma è un errore, l'esecuzione è domani.



- Ordine cambiato: anticipo di un giorno. Sbrigatevi!



Ero perduto. Non c'era salvezza per me. Ero inebetito, stupefatto; non avevo più padronanza di me. Mi misi a girare intorno senza scopo, come uno fuor di sé. Allora i soldati mi afferrarono, mi trascinarono con loro fuori dalla cella e lungo il labirinto di corridoi sotterranei, e alla fine nell'accecante fulgore del giorno e del mondo soprastante. Appena entrammo nel vasto cortile cintato del castello, ne ebbi un colpo: la prima cosa che vidi fu il rogo, eretto proprio nel mezzo e vicino le fascine accatastate e un frate. Su tutti e quattro i lati del cortile la folla seduta, fila su fila, formava terrazze digradanti ricche di colore. Il re e la regina erano seduti in trono ed erano naturalmente le figure più in vista.



A notar tutto questo ci volle solo un secondo. Il secondo successivo Clarence era sgusciato via da qualche nascondiglio e mi snocciolava una serie di informazioni all'orecchio, con un bagliore di trionfo e di gioia negli occhi. Mi disse:



- Questo cambiamento è tutto merito mio. E ci ho lavorato proprio sodo, per di più. Ma quando ebbi rivelato loro la calamità che gli serbavate ed ebbi visto l'enormità del terrore che generava, allora capii che questo era il momento di attaccare! Perciò io finsi con molta cura che, per un motivo o per l'altro, il vostro potere contro il sole non avrebbe raggiunto la sua pienezza fino a domani. Se si voleva dunque salvare il sole e il mondo, voi dovevate essere ucciso oggi, quando la trama dei vostri incantesimi era appena all'inizio. Santo cielo, era solo una stupida bugia, ma avreste dovuto vedere come se la bevvero. Oh, come si sta risolvendo rapidamente e felicemente la cosa! Voi non avete più bisogno di fare un vero danno al sole. Create solo un pochino d'oscurità, solo proprio un tantino, mi raccomando, e poi smettete. Sarà sufficiente. Loro vedranno che io ho parlato erroneamente, essendo ignorante, come loro penseranno, e con il cadere della prima ombra di quella oscurità li vedrete diventar pazzi di paura. E vi libereranno e vi faranno grande! Ora andate al vostro trionfo! Ma ricordate, mio buon amico, vi imploro di non dimenticare la mia preghiera e di non far alcun danno al sole benedetto.



Nel mio dolore e nella mia miseria riuscii a dire qualche parola soffocata riguardo al fatto che avrei risparmiato il sole. Al che gli occhi del ragazzo mi ripagarono con una gratitudine così profonda e affettuosa che non ebbi cuore di dirgli che la sua benintenzionata stupidità era stata la mia rovina e mi condannava a morte.



Mentre i soldati mi aiutavano ad attraversare il cortile, il silenzio era profondo. Non si percepiva il minimo movimento fra il pubblico: erano tutti rigidi come pietra e altrettanto pallidi. Un profondo timore si leggeva su ogni viso. Questo silenzio continuò mentre venivo incatenato al rogo; continuò ancora mentre le fascine venivano ammucchiate accuratamente intorno alle mie caviglie, alle ginocchia, alle cosce, a tutto il mio corpo. Poi ci fu una pausa e un silenzio ancor più profondo. Un uomo si inginocchiò ai miei piedi con una torcia accesa; il frate alzò le mani sulla mia testa e gli occhi al cielo azzurro e cominciò a dire alcune parole in latino. In quella posizione continuò a biascicare per un po', poi si fermò. Attesi qualche secondo, poi guardai in su; se ne stava là pietrificato. Spinta da un comune impulso, la folla si alzò lentamente e fissò il cielo. Io seguii i loro sguardi: sicuro come l'oro, la mia eclissi stava cominciando!



La vita tornò a ribollirmi nelle vene; ero un uomo rinato! L'orlo nero si diffuse lentamente sul disco solare, il cuore mi batté sempre più forte e ancora gli sguardi della folla e del prete erano fissi al cielo, nell'immobilità più assoluta. Sapevo che un momento dopo quegli sguardi si sarebbero posati su di me. Quando accadde, ero pronto. Ero in una delle pose più grandiose che avessi mai assunto, con un braccio teso puntato sul sole. Era un effetto di gran dignità. Si poteva vedere il brivido che corse per la folla come un'onda. Due grida risonarono, l'una subito dopo l'altra.



- Sia dato il fuoco!



- Lo proibisco!



Uno veniva da Merlino, l'altro dal re. Merlino si mosse dal suo posto, per applicare lui stesso la torcia, pensai. Io dissi:



- Rimani dove sei. Se uno chiunque si muove, anche il re, prima che io gliene dia il permesso, lo fulminerò col tuono, lo consumerò coi lampi!



La folla ricadde docilmente sui sedili, come mi aspettavo. Merlino esitò per un istante o due e fui sulle spine per quel breve momento. Poi si sedette e tirai il respiro, poiché sapevo che ora il padrone della situazione ero io. Il re disse:



- Siate misericordioso, mio buon signore e non procedete oltre in questa faccenda pericolosa, affinché non ne venga un disastro. Ci è stato riferito che i vostri poteri non avrebbero raggiunto la loro pienezza fino a domani; ma...



- Vostra maestà pensa che la notizia fosse una menzogna? Lo era!



Questo fece un immenso effetto. In alto si levarono mani supplichevoli da ogni lato e il re fu assalito da una tempesta di suppliche affinché mi si offrisse qualunque prezzo per fermare tale calamità. Il re fu pronto ad acconsentire. Disse:



- Stabilite qualunque condizione, messere, persino la metà del mio regno; ma bandite questa calamità, risparmiate il sole!



La mia fortuna era fatta. Avrei potuto accettare la sua offerta sull'istante, ma non potevo fermare l'eclissi. Perciò chiesi un po' di tempo per pensarci su. Il re disse:



- Quanto tempo, ah, quanto tempo, mio buon signore? Siate misericordioso. Guardate, diventa sempre più buio. Vi supplico, quanto tempo?



- Non tanto. Mezz'ora, forse un'ora.



Ci furono mille patetiche proteste, ma io non potevo fermarle, poiché non riuscivo a ricordare quanto durasse un'eclissi totale.



In ogni caso, avevo un dubbio e volevo pensarci. C'era qualcosa che non andava. Se questa non era l'eclissi che io credevo, come potevo sapere se questo era veramente il sesto secolo oppure nient'altro che un sogno? Dio mio, se solo avessi potuto provare che si trattava di un sogno! Questa era un nuova e bella speranza.



Se il ragazzo aveva ragione riguardo alla data, ed oggi era sicuramente il 20, allora questo non era il sesto secolo. Afferrai il frate per la manica con grande eccitazione e gli chiesi che giorno del mese fosse. Maledizione, disse che era il 21! Mi fece raggelare tutto a sentirlo. Dunque quello sventato di un ragazzo aveva di nuovo fatto un pasticcio! L'ora del giorno era quella esatta per l'eclissi; lo avevo visto io stesso all'inizio sulla meridiana lì vicino. Sì, ero alla corte di re Artù, e tanto valeva che ne traessi il maggior vantaggio possibile.



L'oscurità andava costantemente aumentando e la gente diventava sempre più spaventata. A questo punto dissi:



- Ho riflettuto, sire. Per darvi una lezione lascerò che quest'oscurità avanzi e diffonda la notte sul mondo; ma che io cancelli il sole completamente o lo riporti in vita, dipende da voi. Queste sono le mie condizioni. Voi rimarrete sire sui vostri domini e riceverete tutti gli onori e le glorie che spettano alla sovranità; ma mi nominerete vostro ministro ed esecutore a vita e mi darete per i miei servigi l'uno per cento dell'aumento di reddito rispetto a quello attuale che io riesca ad ottenere per lo Stato. Se questo non mi sarà sufficiente per vivere, non chiederò aiuto a nessuno. Sono condizioni soddisfacenti?



Ci fu un prodigioso scoppio di applausi e in mezzo a questi si levò la voce del re che disse:



- Via quelle catene e lasciatelo libero! Rendetegli omaggio, nobili e popolo, ricchi e poveri, poiché egli è diventato il braccio destro del re. E' rivestito di potere e di autorità e il suo seggio è sul gradino più alto vicino al trono! Ora spazza via questa notte orrenda e riporta la luce e la gioia, affinché tutto il mondo ti benedica. Ma io dissi:



- Che un uomo comune sia stato umiliato davanti al mondo, non è nulla; ma sarebbe un disonore per il re se chiunque ha visto il suo ministro nudo non dovesse anche vederlo liberato da tale vergogna. Se potessi riavere i miei abiti...



- Essi non sono degni di te - interruppe il re. - Portategli un abbigliamento di altra sorta; vestitelo come un principe!



La mia idea funzionava. Cercavo di mantenere le cose nello stato in cui erano finché l'eclissi era totale, altrimenti avrebbero di nuovo tentato di indurmi a cacciar via le tenebre e naturalmente non potevo farlo. La ricerca degli abiti mi fece guadagnare un po' di tempo, ma non abbastanza. Dovetti inventare un'altra scusa.



Dissi che sarebbe stato naturale per il re cambiare opinione e pentirsi di ciò che aveva promesso in un momento di eccitazione; perciò avrei lasciato aumentare un poco l'oscurità e se alla fine di un tempo ragionevole il re non avesse cambiato opinione, avrei cacciato le tenebre. Né il re né gli altri erano soddisfatti di questa decisione, ma io dovevo attenermici. Divenne sempre più buio e sempre più nero, mentre io lottavo con quei goffi abiti del sesto secolo. Si raggiunse infine l'oscurità totale, e la folla gemette di orrore nel sentire il freddo della notte e nel vedere le stelle apparire nel cielo. Infine l'eclissi fu totale ed io ne fui ben lieto, ma tutti gli altri erano nella più profonda infelicità, logicamente.



Io dissi:



- Il re, col suo silenzio, rispetta le condizioni stabilite.



Poi alzai le braccia, rimasi così un momento e dissi con la più tremenda solennità:



- Che l'incantesimo si dissolva e passi senza lasciar alcun danno!



Non ci fu alcuna reazione per un momento, in quella profonda tenebra e in quel silenzio di tomba. Ma, quando l'orlo argentato del sole riapparve un momento o due più tardi, la folla proruppe in un grido immenso e si rovesciò su di me come un diluvio coprendomi di benedizioni e di gratitudine.





















Capitolo 9









LA TORRE DI MERLINO









Poiché ero adesso il secondo personaggio del regno quanto ad autorità e potere politico, ero trattato con tutti gli onori. I miei abiti erano di seta, di velluto e intessuti d'oro e perciò erano molto vistosi e anche scomodi. Ma ci avrei ben presto fatto l'abitudine, lo sapevo. Mi furono assegnati gli appartamenti più eleganti del castello, dopo quelli del re. Le stanze scintillavano di tendaggi di seta a colori sgargianti, ma i pavimenti di pietra non avevano che stuoie di canne per tappeto, e per di più mal fatte. Quanto a comodità vere e proprie, mancavano del tutto. Non c'erano sapone, fiammiferi, specchi, eccetto uno di metallo che rifletteva tanto quanto un secchio d'acqua. E non una sola stampa alle pareti.



Non c'era nemmeno un campanello o un tubo per trasmettere la voce nel castello. Io avevo un mucchio di servitori e quelli di turno se ne stavano a ciondolare pigramente nell'anticamera; quando avevo bisogno di uno di loro, dovevo andare io stesso a chiamarlo.



Non c'era gas, non c'erano candele. Una coppetta di bronzo riempita a metà di burro irrancidito con uno straccetto acceso, galleggiante sulla superficie, era l'oggetto che produceva quel che veniva considerato un lume. Ce n'erano molti appesi alle pareti: servivano a modificare l'oscurità, attenuandola appena quel tanto che bastava a renderla lugubre. Se si usciva alla sera i servitori portavano delle torce. Non c'erano né libri, né penne, né carta, né inchiostro, e neppure vetri alle finestre. E' una piccola cosa, il vetro, fino a quando ti manca, allora diventa una gran cosa. Ma forse la cosa peggiore era che mancavano lo zucchero, il caffè, il tè e il tabacco. Mi resi conto che ero proprio come un altro Robinson Crusoe abbandonato su un'isola disabitata. Se volevo rendermi la vita sopportabile dovevo fare come aveva fatto lui: inventare, escogitare, creare, riorganizzare le cose; tenere il cervello e le mani occupati nel lavoro. Be', questo mi andava a genio.



Una cosa mi diede molto fastidio all'inizio: l'enorme interesse che la gente mostrò di avere per me. Sembrava che l'intera nazione volesse venire a darmi un'occhiata. Ben presto venne fuori che l'eclissi aveva spaventato quasi a morte l'intero mondo britannico. Quel giorno l'intero paese, da un capo all'altro, era stato preso dal panico e le chiese, gli eremi e i monasteri si erano riempiti di povere creature preganti e piangenti che credevano fosse arrivata la fine del mondo. In seguito era giunta la notizia che l'artefice di questo terribile evento era un forestiero, un mago possente venuto alla corte di re Artù. Ora, se si pensa che tutti credevano a questo fatto, si può facilmente capire come non ci fosse una sola persona in tutta la Britannia che non avrebbe fatto cinquanta miglia a piedi per venire a darmi un'occhiata. Naturalmente non si parlava di altro che di me, ogni altro argomento di conversazione era stato dimenticato. Persino il re diventò improvvisamente una persona di scarso interesse e notorietà. Nel giro di ventiquattr'ore i curiosi cominciarono ad arrivare e da quel momento in poi per una quindicina di giorni continuarono a sfilare. Erano affollati il villaggio e la campagna circostante. Io dovevo uscire in pubblico una dozzina di volte al giorno e mostrarmi a quella gente piena di riverenza e di religioso timore.



C'era una cosa che mi preoccupava un po'. Ben presto le folle cominciarono ad agitarsi chiedendo un altro miracolo. Era naturale. La richiesta diventò sempre più pressante. Ci sarebbe stata un'eclissi di luna; ne conoscevo la data e l'ora, ma era troppo avanti nel tempo. Due anni dopo. Clarence scoprì che il vecchio Merlino si stava dando da fare sotto sotto tra quelle folle. Stava spargendo la voce che io ero un impostore e la ragione per cui non li accontentavo con un miracolo era che non ne ero capace. Mi resi conto che dovevo agire. E ben presto architettai un piano.



In virtù dei miei poteri esecutivi feci gettare Merlino in prigione, nella stessa cella che avevo occupato io. Poi feci annunciare pubblicamente che sarei stato occupato in affari di stato per quindici giorni, ma alla fine di quel periodo mi sarei preso un momento di libertà e avrei fatto saltare in aria per mezzo di fuochi celesti la torre di pietra di Merlino. Nel frattempo chiunque avesse dato ascolto a voci maligne sul mio conto, doveva stare in guardia. E per di più, al momento attuale, io avrei compiuto solo quest'unico miracolo e nient'altro. E se non fosse stato soddisfacente e qualcuno avesse osato mormorare contro di me, avrei trasformato tali mormoratori in cavalli e fatto buon uso di loro. Ne seguì una gran quiete. Confidai il mio progetto a Clarence e ci mettemmo al lavoro segretamente. Gli dissi che era una specie di miracolo che richiedeva un tantino di preparazione e che morte improvvisa avrebbe colpito chiunque osasse parlare di tali preparativi a qualcuno. Questo gli chiuse la bocca quanto bastava. Preparammo di nascosto alcuni barilotti di polvere da sparo di prima qualità, e sotto il mio controllo i miei armieri costruirono un parafulmine e dei fili metallici.



Quella vecchia torre di pietra era molto massiccia ed anche piuttosto cadente, dato che era romana ed aveva almeno quattrocento anni. Si ergeva su una cima solitaria, ben visibile dal castello, a circa mezzo miglio di distanza.



Lavorando di notte, stivammo la polvere nella torre. Ne inserimmo una data quantità per volta, in una dozzina di punti. Avremmo potuto far saltare in aria la torre di Londra con quelle cariche.



Quando giunse la tredicesima notte, tirammo su il parafulmine, ne piantammo la base in uno dei mucchi di polvere e tirammo dei fili metallici da questo agli altri mucchi. Tutti avevano evitato quella località dal giorno del mio proclama; ma al mattino del quattordicesimo giorno pensai bene di far avvertire la gente dagli araldi in modo che si tenesse lontana, ad un quarto di miglio di distanza. Poi aggiunsi con un decreto che ad un certo punto nelle seguenti ventiquattr'ore avrei compiuto il miracolo, ma ne avrei dato un breve preavviso, sventolando bandiere sulle torri del castello, se fosse stato di giorno e agitando torce, se di notte.



I temporali erano stati discretamente frequenti nell'ultimo periodo e non avevo paura di un insuccesso. In ogni caso un ritardo di un giorno o due non mi avrebbe preoccupato: avrei spiegato che ero ancora occupato in affari di stato e che la folla doveva attendere.



Naturalmente fu una giornata di sole splendente, più o meno la prima senza nuvole da tre settimane in qua; le cose vanno sempre così. Io mi tenni nascosto e continuai ad osservare il tempo.



Clarence veniva da me di tanto in tanto a dirmi che l'eccitazione della folla cresceva di continuo e che l'intera contrada si andava riempiendo di gente. Infine si levò il vento ed apparve una nube Per un po' osservai quella nuvola lontana che si allargava e diventava sempre più cupa, poi decisi che era giunto il momento per la mia comparsa. Ordinai che si accendessero le torce e che Merlino fosse liberato e condotto da me. Dopo un quarto d'ora salii sul bastione e vi trovai il re e la corte riuniti con lo sguardo fisso nell'oscurità verso la torre di Merlino. Il buio era già così fitto che non si poteva vedere lontano; la gente del castello e le vecchie torri, parte nell'ombra profonda, parte nel chiarore rossastro delle grosse torce sovrastanti, formavano un quadro impressionante. Merlino arrivò di umor nero. Io dissi:



- Voi volevate bruciarmi vivo quando non vi avevo fatto alcun male e recentemente avete cercato di danneggiare la mia reputazione professionale. Perciò intendo far scendere il fuoco e far saltare in aria la vostra torre. Ma è più che giusto darvi un'ultima possibilità: dunque, se pensate di poter spezzare i miei incantesimi ed evitare questi fuochi, siate pronto a colpire, tocca a voi.



- Lo posso e lo farò, bel messere, non dubitatene.



Tracciò un cerchio immaginario sulle pietre del tetto e vi bruciò dentro un pizzico di polvere che produsse una nuvoletta di fumo aromatico, al che tutti si tirarono indietro e cominciarono a farsi il segno della croce e a sentirsi a disagio. Poi cominciò a biascicare qualcosa e a tracciar segni nell'aria con le mani.



Lentamente e gradualmente si eccitò fino a uno stato di frenesia e prese a roteare le braccia come le pale di un mulino a vento. A questo punto ormai il temporale ci aveva quasi raggiunto, le folate di vento facevano divampare le torce e ondeggiare le ombre, le prime grosse gocce di pioggia cominciavano a cadere. Il mondo intorno era nero come la pece, i lampi cominciavano a balenare.



Naturalmente il mio parafulmine si stava caricando proprio ora.



Gli eventi erano imminenti. Perciò dissi:



- Avete avuto tempo a sufficienza. Vi ho dato ogni possibile vantaggio senza interferire. E' chiaro che la vostra magia è debole. Ed è più che giusto che ora cominci io.



Feci tre segni nell'aria e ci fu un tremendo schianto, la vecchia torre fu proiettata in cielo, in frantumi, insieme ad un immenso getto vulcanico di fuoco che trasformò la notte in mezzogiorno e mostrò un migliaio di acri di esseri umani striscianti a terra in uno stato di crollo e costernazione generali. Ebbene, piovvero calcinacci e pietre per tutto il resto della settimana, secondo quanto fu raccontato forse con un po' di esagerazione.



Fu un miracolo di grande efficacia. Quella gran folla fastidiosa che si era radunata temporaneamente svanì. C'erano molte migliaia di orme nel fango la mattina dopo, ma tutte rivolte ad uscir dal paese.



Il prestigio di Merlino era crollato. Il re intendeva levargli lo stipendio; voleva persino esiliarlo ma io mi intromisi. Dissi che sarebbe stato utile per lavorare sulle condizioni del tempo e occuparsi di cosette del genere, ed io lo avrei aiutato di tanto in tanto, quando la sua povera piccola magia da salotto gli fosse divenuta insufficiente. Non era rimasto in piedi nemmeno un briciolo della sua torre, ma gliela feci ricostruire a spese dello Stato, e gli consigliai di prendere gente a pensione. Ma era troppo altezzoso per abbassarsi a far questo. E in quanto a gratitudine, non mi disse mai neppure grazie. Era un tipo piuttosto duro, da qualunque parte lo si prendesse.





















Capitolo 10









IL CAPO









L'episodio della torre consolidò e ingigantì il mio potere. Se prima di quell'evento c'erano ancora persone gelose o critiche nei miei confronti, costoro avevano ora cambiato parere. Non c'era nessuno in tutto il reame che giudicasse cosa saggia immischiarsi nelle mie faccende.



Io mi stavo adattando rapidamente alla mia condizione e alle circostanze. Per un po' di tempo continuai a svegliarmi al mattino sorridendo di questo mio "sogno" e aspettandomi di sentire la sirena della fabbrica, ma questi fenomeni svanirono a poco a poco e alla fine divenni pienamente cosciente che stavo veramente vivendo nel sesto secolo, alla corte di Artù e non in un manicomio. Dopo di che, mi sentii a mio agio in quel secolo come lo sarei stato in qualunque altro e, in quanto a preferenza, non lo avrei scambiato con il ventesimo secolo. Pensate un po' all'occasione che esso offriva ad un uomo di sapere, ingegno coraggio e intraprendenza per mettersi al lavoro e diventar grande insieme al paese. Il campo d'azione più vasto che ci fosse mai stato e tutto mio senz'ombra di concorrenza, con gente intorno ch'erano bambini rispetto a me in quanto a cognizioni e abilità; invece quanto avrei potuto valere nel ventesimo secolo? Avrei potuto essere caporeparto in una fabbrica, tutt'al più.



Che balzo in avanti avevo fatto! Non riuscivo a smettere di pensarci e di gioirne, proprio come uno che abbia appena scoperto il petrolio. Il mio potere era colossale.



Sì, in quanto a questo ero uguale al re. Al tempo stesso c'era un altro potere che era un tantino più forte dei nostri due messi insieme. Era la Chiesa. Non intendo nascondere questo fatto.



Non potrei, nemmeno volendolo. Ma non pensiamoci per adesso; verrà fuori a tempo debito più tardi. All'inizio non mi diede nessun fastidio.



Be', era proprio un paese curioso e interessante. E che gente! Era la razza più strana, ingenua e fiduciosa: insomma, non erano altro che conigli. Faceva pena ad una persona nata in una atmosfera sana e libera ascoltare le loro umili e sentite confessioni di lealtà verso il re, la Chiesa e la nobiltà. Come se essi avessero maggior motivo di amare ed onorare il re e la Chiesa e la nobiltà di quanto ne abbia uno schiavo di amare e onorare la frusta, o un cane di amare e onorare il forestiero che lo prende a calci! La maggior parte degli abitanti della Britannia di re Artù era composta da schiavi puri e semplici e ne portavano il nome e il collare di ferro intorno al collo. Gli altri erano schiavi di fatto se non di nome; ma si credevano uomini e liberi cittadini e se ne attribuivano il nome. La verità era che la nazione nel suo insieme esisteva per uno scopo, uno solo: strisciare davanti al re, alla Chiesa e ai nobili. Sgobbare per loro, sudar sangue per loro, patir la fame perché essi potessero saziarsi, lavorare perché essi potessero divertirsi, andar nudi perché essi potessero indossare sete e gioielli, pagare le tasse perché essi potessero evitare di pagarle ed usare per tutta la vita il linguaggio e i gesti degradanti dell'adulazione perché essi potessero incedere orgogliosi e credersi gli dei di questo mondo. E in ringraziamento di tutto ciò non ricevevano altro che schiaffi e disprezzo; ed erano così sottomessi che consideravano un onore persino questo tipo di attenzione.



Le idee ereditate sono una cosa curiosa da osservare ed esaminare.



Io avevo le mie, il re e la sua gente avevano le loro. Sia le une che le altre scorrevano in solchi scavati profondamente dal tempo e dalle abitudini e chi avesse avuto intenzione di mutarne il corso con ragionamenti e discussioni, si sarebbe trovato tra le mani un lavoro assai lungo. Per esempio, costoro avevano ereditato l'idea che tutti gli uomini senza titolo e senza un lungo albero genealogico, che avessero o meno grandi doti naturali o grandi conoscenze, non erano creature degne di maggior considerazione di un animale o un moscerino o un insetto. Mi consideravano strano, ma era solo logico. Sapete bene come il guardiano e il pubblico considerano l'elefante nel serraglio: be', questo rende l'idea Sono pieni di ammirazione per la sua mole enorme e la sua forza prodigiosa; parlano con orgoglio del fatto che esso può compiere centinaia di meraviglie ben al di là dei loro propri poteri Ma questo forse lo rende uno di loro? No, persino il mendicante più stracciato del pubblico sorriderebbe a quest'idea. Non potrebbe comprenderla, accettarla, concepirla neppure lontanamente. Ebbene per il re, i nobili e tutta la nazione, giù giù fino proprio agli schiavi e ai vagabondi, io rappresentavo proprio quel tipo di elefante e niente di più. Ero ammirato ed anche temuto, ma come si ammira e si teme un animale. L'animale non è riverito e neppure io lo ero; non ero neppure rispettato. Non avevo alcun albero genealogico, alcun titolo ereditario, perciò agli occhi del re e del nobili non ero che fango. Il popolo mi considerava con meraviglia e timore, ma non c'era alcuna riverenza in ciò. Grazie alle idee ereditate non erano in grado di concepire qualcosa che avesse diritto a tale riverenza ad eccezione della stirpe e dei titoli onorifici. Qui si può vedere la mano di quella tremenda potenza che è la Chiesa Cattolica Romana. In due o tre brevi secoli aveva trasformato una nazione di uomini in una nazione di vermi. Prima dei giorni della supremazia della Chiesa nel mondo, gli uomini erano uomini, tenevano la testa alta e avevano l'orgoglio, o spirito e l'indipendenza di un uomo; e quel che un uomo raggiungeva in quanto a grandezza, lo doveva alle sue azioni e non alla sua nascita. Ma poi la Chiesa iniziò la sua opera, inventò il "diritto divino dei re"; predicò, al plebeo, l'umiltà, l'obbedienza ai superiori, la bellezza del sacrificio; predicò, al plebeo la mitezza di fronte all'insulto; predicò ancora al plebeo, sempre al plebeo, la pazienza, la mediocrità di spirito, la sottomissione di fronte all'oppressione. E introdusse le aristocrazie ereditarie e insegnò a tutte le popolazioni cristiane della terra ad inchinarsi avanti a loro e ad adorarle.



Ma per tornare alla mia strana posizione nel regno di re Artù, ero là, gigante tra pigmei, uomo adulto tra bambini, intelligenza maestra fra talpe intellettuali: secondo la ragione l'unico uomo veramente grande di tutto il mondo britannico. Eppure un conte dal cervello di gallina che potesse vantare una discendenza da una favorita del re, era considerato migliore di me. Un simile personaggio era adulato servilmente nel regno di Artù e trattato con riverenza da tutti, anche se le sue inclinazioni, la sua intelligenza e la sua moralità erano di poco valore. C'erano dei momenti in cui lui poteva sedersi in presenza del re, ma non io.



Io avrei potuto ottenere un titolo con gran facilità e questo mi avrebbe innalzato di gran lunga agli occhi di tutti, persino del re, che me lo concedeva. Ma io non lo chiesi e lo rifiutai quando mi fu offerto. Non avrei potuto sentirmi realmente soddisfatto e orgoglioso di nessun titolo a meno che mi fosse dato dalla nazione stessa, che ne è l'unica legittima fonte. Un tal riconoscimento io sperai di meritare e nel corso di molti anni di onesti e onorevoli sforzi me lo guadagnai e lo portai con orgoglio. Questo titolo cadde per caso dalle labbra di un fabbro, un giorno, in un villaggio, fu afferrato come una bella trovata e rimbalzò di bocca in bocca, con una risata e il consenso generale. Entro dieci giorni aveva percorso tutto il reame ed era diventato popolare come il nome del re. Da allora in poi non ebbi altro nome, sia sulle labbra della gente che nei seri dibattiti delle faccende di Stato alle riunioni di consiglio del sovrano. Questo titolo tradotto in linguaggio moderno, sarebbe "Il Capo". Scelto dalla nazione. Questo mi andava bene. Ed era un titolo ben importante.



C'erano ben pochi "Il" ed io ero uno di loro. Se dicevate il duca, il conte, il vescovo, come si poteva capire di chi intendevate parlare? Ma se dicevate "Il Re" o "La Regina" o "Il Capo", era un'altra faccenda. Be', il re mi piaceva e lo rispettavo, riconoscevo la sua funzione; ma come uomini, io guardavo dall'alto in basso lui e i suoi nobili, in segreto. E lui e i suoi nobili avevano simpatia per me e rispettavano la mia funzione; ma in quanto animale, senza titoli per nascita, essi guardavano me dall'alto in basso e non ne facevano neppure gran segreto.





















Capitolo 11









IL TORNEO









Si tenevano sempre dei grandi tornei là a Camelot. Erano senz'altro delle corride umane molto emozionanti, pittoresche e ridicole, però disturbavano un pochino una mente pratica come la mia. Ma in genere io ero presente, per due ragioni: un uomo, specialmente un uomo di stato, non deve tenersi al di sopra delle cose che i suoi amici e la sua comunità hanno a cuore, se vuole essere amato; inoltre volevo studiare il torneo e vedere se mi riusciva di inventare qualche miglioramento. A questo proposito vorrei far notare, tra parentesi, che il primo atto ufficiale della mia amministrazione - e fu proprio nel primo giorno di carica - fu l'istituzione di un ufficio brevetti. Sapevo infatti che un paese senza un ufficio brevetti e buone leggi in proposito era proprio come un granchio che può viaggiare solo all'indietro o di traverso.



Le cose continuavano per il loro verso, con un torneo alla settimana circa. Ogni tanto i ragazzi, cioè ser Lancillotto e gli altri mi chiedevano di parteciparvi, ma io dicevo che l'avrei fatto più avanti; non c'era fretta, avevo troppo lavoro da svolgere nei miei incarichi.



Ci fu uno dei tornei che andò avanti da un giorno all'altro per più di una settimana e vi presero parte ben cinquecento cavalieri.



Ci misero delle settimane per radunarsi. Arrivarono a cavallo da tutte le parti, dai più lontani confini del paese e persino da oltremare. Molti avevano portato con sé le loro dame e tutti avevano scudieri e schiere di servi.



Si combatteva o si stava a guardare quotidianamente per tutta la durata del giorno; e c'erano canti, scommesse, danze, gozzoviglie ogni notte, fino all'alba. Si divertivano da matti quei nobili.



Gente come non ne avete mai vista.



Il rumore di notte mi avrebbe disturbato, normalmente, ma date le circostanze non mi dava fastidio, poiché mi impediva di sentire i cerusici che tagliavan via gambe e braccia da quelli storpiati nella giornata. Mi rovinarono una speciale vecchia e ottima sega da legna, ma io lasciai perdere. In quanto alla mia scure, be', decisi che se avessi dovuto imprestarla a un chirurgo una seconda volta, avrei scelto io il secolo. Non solo stetti a guardare quel torneo giorno per giorno, ma vi mandai un prete intelligente dal mio Dipartimento della Morale Pubblica e dell'Agricoltura, con l'ordine di stenderne un rapporto. Avevo intenzione in futuro, dopo aver istruito un po' la gente, di iniziare un giornale. La prima cosa di cui avete bisogno in un paese nuovo è un ufficio brevetti, poi organizzate il sistema scolastico, e poi fate uscire il giornale. Un giornale avrà i suoi difetti, forse anche molti, ma non importa: è un risveglio dalla tomba per una nazione morta, non dimenticatevelo. Non potete risuscitare una nazione morta senza giornale. Perciò io volevo mettere insieme un campionario e vedere che razza di materiale da cronaca avrei potuto rastrellare nel sesto secolo, quando se ne fosse presentato il momento. Be', il prete fece un buon lavoro, tutto considerato. Ci mise dentro tutti i dettagli, il che è una buona cosa per un articolo di carattere locale.



Naturalmente il resoconto di questo principiante mancava di elementi sensazionali e descrizioni a fosche tinte e perciò non suonava come un vero articolo di cronaca; ma il suo modo di scrivere antiquato era grazioso, dolce, semplice, e questi piccoli meriti supplivano in parte alle altre importanti manchevolezze.



Eccone un esempio:



"Ser Agwisance re d'Irlanda si scontrò con ser Gareth e ser Gareth lo sbalzò di cavallo con sella e tutto. Poi venne re Carados di Scozia e ser Gareth abbatté a terra lui e il suo cavallo. E in simil guisa servì re Uriens della terra di Gore. E allora se Galahault il nobile principe gridò ad alta voce:



- Cavaliere dai molti colori, bene hai giostrato; preparati or affinché io possa giostrare con te.



Ser Gareth lo udì e afferrò una lancia e si scontrarono e il principe spezzò la sua lancia; ma ser Gareth lo colpì dal lato sinistro dell'elmo ed egli barcollò qua e là e sarebbe caduto se i suoi uomini non lo avessero soccorso. Di certo, disse re Artù, quel cavaliere dai molti colori è un valente cavaliere. Perciò il re chiamò ser Lancillotto e lo pregò di scontrarsi con quel cavaliere.



- Sire - disse Lancillotto - io scopro nel mio cuore indulgenza per lui in questo momento, poiché egli ha avuto abbastanza travaglio in questa giornata e quando un buon cavaliere si comporta così bene in una giornata, non tocca ad un altro buon cavaliere levargli il suo merito. Forse - continuò ser Lancillotto - egli è molto amato da una delle dame che sono qui oggi poiché io vedo bene che ha molto lottato e sofferto per compiere grandi imprese. Perciò, egli merita l'onore di vincere questa giornata, e anche se fosse in mio potere di levarglielo, io non lo farei".



Ci fu un piccolo episodio spiacevole quel giorno che per ragioni di stato cancellai dalla cronaca del mio prete.



Io ero seduto nel palco privato riservato a me, in quanto ministro del re. Ser Dinadan mentre aspettava il suo turno per entrare in lizza, venne da me, si sedette e cominciò a parlare. Cercava sempre di adularmi perché ero un forestiero e a lui piaceva avere un nuovo pubblico per le sue barzellette, le quali per lo più avevano raggiunto quello stadio di usura in cui il narratore deve fare anche la risata finale mentre l'ascoltatore ha l'aria nauseata.



Ser Dinadan, l'umorista, continuò ad annoiare il Capo con le sue barzellette. Alla fine lo mandò su tutte le furie, raccontandogli una storiella che egli aveva già sentito milioni di volte e sperava proprio di non dover sentire mai più.



Proprio mentre finiva la storiella, venne il ragazzo che annunciava il suo turno. Così, sghignazzando come un demonio, se ne andò sferragliando e risonando come una cassetta piena di pezzi di metallo alla rinfusa e io non seppi altro. Ci vollero alcuni minuti prima che io tornassi in me e aprii gli occhi proprio in tempo per vedere ser Gareth assestargli un colpo tremendo.



Inconsciamente pregai ad alta voce:



- Voglia il Cielo che sia ucciso!



Ma per sfortuna, prima che avessi pronunciato metà delle parole ser Gareth colpì ser Sagramor il Desideroso e lo fece volare con rumor di tuono al di là della groppa del suo cavallo e ser Sagramor sentì la mia osservazione e pensò che fosse diretta a lui. Ebbene, quando uno di costoro si metteva qualcosa in testa, non c'era verso di levargliela. Io lo sapevo, perciò risparmiai il fiato e non diedi alcuna spiegazione. Appena ser Sagramor si sentì meglio, mi fece sapere che c'era un conticino da sistemare fra noi due. Gli dissi che al suo ritorno sarei stato pronto. Vedete, lui stava partendo alla ricerca del Santo Graal. I ragazzi, tutti quanti, facevano di tanto in tanto una volata a questo Santo Graal. Era una crociera di parecchi anni. Passavano tutto il tempo della loro lunga assenza a curiosare qua e là nel modo più coscienzioso, benché nessuno di loro avesse la minima idea di dove fosse realmente il Santo Calice e non credo che nessuno di loro si aspettasse di trovarlo in realtà o sapesse che cosa farne, se per caso lo avesse trovato. Ogni anno si mandavano delle spedizioni a sangraallare e l'anno dopo se ne mandavano delle altre alla ricerca delle prime. Si accumulava così una gran fama, ma niente soldi. E loro volevano che io mi ci mettessi. Be', mi vien voglia di sorridere.





















Capitolo 12









ALBORI DI CIVILTA'









La Tavola Rotonda venne ben presto a conoscenza di tale sfida che naturalmente fu discussa a lungo perché questo tipo di cose interessava molto quei ragazzi. Il re pensava che ormai era giunto per me il momento di partire alla ricerca di avventure, per conquistarmi fama ed esser ancor più degno di confrontarmi con ser Sagramor. Io mi scusai per il momento: dissi che mi ci sarebbero voluti tre o quattr'anni per finire di organizzare le cose e avviarle bene. Poi sarei stato pronto.



Ero abbastanza soddisfatto di quanto avevo già potuto creare. In diversi angolini tranquilli avevo dato avvio ad ogni genere d'industria, primi germi di future grandi fabbriche. In esse avevo radunato le menti giovani più brillanti ch'io potessi trovare e mantenevo una pattuglia di agenti che rastrellava continuamente il paese alla ricerca di altre. Addestravo una folla di gente ignorante per farne degli esperti in ogni sorta di lavoro manuale e di occupazione scientifica. Questi asili infantili della civiltà fiorivano tranquillamente nei loro nascosti rifugi di campagna, senza alcuna interferenza, dato che nessuno poteva entrare nel loro territorio senza un permesso speciale, poiché io temevo la Chiesa.



Per prima cosa avevo una fabbrica che sfornava insegnanti e una serie di scuole di istruzione religiosa. Come risultato avevo ora un magnifico sistema di scuole che funzionava a tutto vapore.



Quanto alla religione ciascuno poteva scegliere di essere il tipo di cristiano che preferiva: c'era completa libertà in materia.



Tutte le miniere erano di proprietà reale e ce n'erano parecchie.



Fino a poco tempo prima vi si lavorava come fanno di solito i selvaggi: si scavavano buchi nella terra e si portava su il minerale a mano, in sacchi di cuoio al ritmo di una tonnellata al giorno Ma appena possibile avevo cominciato ad organizzare l'estrazione mineraria su basi scientifiche.



Si, ero veramente a buon punto con i miei progetti quando fui colpito dalla sfida di ser Sagramor. Quattro anni passarono e alla fine...



Le mie scuole e le mie chiese erano diventate adulte ora; le mie piccole officine erano diventate enormi fabbriche; dove avevo una dozzina di uomini bene addestrati, ora ne avevo mille; dove avevo un brillante esperto, ora ne avevo cinquanta. Stavo con la mano sull'interruttore, per così dire, pronto a girarlo da un momento all'altro e ad inondare di luce quel mondo immerso nel buio. Ma non avevo alcuna intenzione di farlo così all'improvviso. Non era quello il mio modo di procedere. Il popolo non sarebbe stato in grado di sopportare una cosa simile e per di più mi sarei tirato addosso nel giro di un minuto la Chiesa Cattolica Romana.



No, avevo sempre proceduto con cautela. Ad un certo punto avevo fatto infiltrare degli agenti segreti per tutto il paese, con l'incarico di indebolire la cavalleria a poco a poco, e corrodere un po' qua e un po' là le varie superstizioni, così da preparare gradatamente la strada per un miglior ordine di cose.



Avevo seminato le mie scuole segretamente per tutto il reame, e prosperavano molto bene. Intendevo estendere sempre più questa organizzazione clandestina col passar del tempo, se niente fosse intervenuto a spaventarmi. Uno dei segreti meglio custoditi era l'accademia militare. La tenevo gelosamente lontana dagli occhi di tutti. Lo stesso era per l'accademia navale che avevo stabilito in un porto lontano e nascosto. Ambedue prosperavano soddisfacentemente. Clarence aveva ormai ventidue anni ed era il mio amministratore capo, il mio braccio destro. Era un vero tesoro all'altezza di tutto: non c'era nulla che non sapesse fare. Negli ultimi tempi avevo cominciato a prepararlo al giornalismo, poiché mi sembrava il momento giusto per un tentativo in quella direzione. Non un gran che, ma solo un piccolo settimanale da far circolare sperimentalmente nei miei asili infantili di civiltà.



Lui ci si mise con un gusto e una facilità come se l'avesse sempre fatto: era veramente un redattore nato. Aveva già raddoppiato se stesso in una cosa: parlava come nel sesto secolo e scriveva come nel diciannovesimo.



Stavamo anche lavorando ad un altro grande lancio: quello di un telegrafo e un telefono. Queste reti per il momento erano solo per uso privato e le dovevamo tenere nascoste fino a che i tempi fossero maturati. Avevamo una squadra di uomini sulla strada che lavorava soprattutto di notte. Stendeva dei fili sotterranei perché avevamo paura ad erigere dei pali nel caso che attirassero troppa curiosità. I miei uomini avevano ordine di avanzare per la campagna, evitando le strade e creando collegamenti tra tutte le città di una certa importanza.



In quanto allo stato generale del paese era virtualmente rimasto come era quando io ero arrivato. Avevo apportato dei mutamenti, ma erano necessariamente minimi e non si notavano. Fino a ora non mi ero nemmeno immischiato dei problemi di tassazione, a parte le tasse che fornivano i redditi del re. Quelle le avevo riorganizzate sulla base di un sistema giusto ed efficace. Il risultato era che questi redditi erano già quadruplicati e il loro peso era più equamente distribuito rispetto al passato. Tutto il regno ne provava un senso di sollievo e le lodi per la mia amministrazione erano sincere e generali.





















Capitolo 13









LO YANKEE IN CERCA DI AVVENTURE









Non è mai esistito un paese simile per i bugiardi erranti. E ce n'erano di ambo i sessi. Non passava mese senza che uno di questi vagabondi non arrivasse generalmente carico di racconti circa questa o quella principessa che, rinchiusa in un lontano castello, chiedeva aiuto per essere liberata dalla prigionia in cui la teneva un ribaldo fuorilegge, quasi sempre un gigante.



Ora, si potrebbe pensare che il re, sentita una simile favola da un perfetto sconosciuto, chiedesse per prima cosa le credenziali e magari un paio di indicazioni sulla località del castello, la strada migliore per arrivarci e così via. Ma nessuno pensava mai a una cosa tanto semplice e sensata. Macché, tutti bevevano le frottole di quella gente e non facevano mai domande di nessun genere, non s'informavano di niente. Ebbene, un giorno in cui io non c'ero, arrivò uno di quei tipi, era una donna questa volta, e raccontò una storiella del solito genere. La sua padrona era prigioniera in un immenso e tetro castello, insieme con altre quarantaquattro giovani e belle fanciulle, tutte più o meno principesse. Esse stavano languendo in quella crudele prigionia da ventisei anni. I padroni del castello erano tre stupefacenti fratelli, ognuno con quattro braccia e un solo occhio in mezzo alla fronte, grosso come un frutto. Genere del frutto: non specificato. La solita negligenza dei rendiconti.



Lo credereste? Il re e l'intera Tavola Rotonda andarono in visibilio davanti a questa assurda occasione di avventure. Ogni cavaliere della Tavola Rotonda si fece prontamente avanti e implorò affinché gli venisse concessa questa opportunità, ma con loro rabbia e dolore il re accordò l'onore a me che non l'avevo chiesto affatto.



Con uno sforzo contenni la mia "gioia" quando Clarence mi portò la notizia. Ma egli non riuscì a contenere la sua. Dalla sua bocca sgorgavano a fiotti gioia e gratitudine: gioia per la mia buona fortuna, gratitudine verso il re per questa splendida prova del suo favore per me.



Da parte mia avrei voluto maledire il favore che conferiva a me questa buona azione, ma, per ragioni di diplomazia, tenni ben nascosta la mia contrarietà e feci del mio meglio per apparire contento.



Be', bisogna cavarsela alla meno peggio e non sprecare tempo in vane recriminazioni, ma mettersi al lavoro e vedere cosa si può fare.



Mandai a chiamare la ragazza, e lei venne. Era abbastanza graziosa, dolce e modesta, ma dalle apparenze ne doveva sapere quanto un orologio da signora. Le domandai:



- Mia cara, sei stata interrogata sui particolari?



Rispose di no.



- Dove abiti quando sei al tuo paese?



- Nella terra di Moder, gentil messere.



- Terra di Moder? Non mi sembra di averla mai sentita prima. I tuoi genitori sono vivi?



- In verità non so se sono ancora in vita, poiché per molti anni sono rimasta chiusa nel castello.



- Il tuo nome, per favore?



- Mi chiamo damigella Alisanda la Carteloise, se non vi dispiace.



- Conosci qualcuno qui che ti possa identificare?



- Questo non è probabile, mio signore, essendo venuta qui ora per la prima volta.



- Hai portato delle lettere, dei documenti, delle prove, a dimostrare che sei persona degna di fiducia?



- Certamente no. Per quale ragione avrei dovuto? Non ho io una lingua e non posso dire tutto ciò io stessa?



- Ma vedi, che sia "tu" a dirlo e che lo dica un altro, è diverso.



- Diverso? Come può essere? Temo di non capire.



- Non "capisci"? Per la terra di... Ma vedi, vedi. Oh, perbacco, come fai a non capire una cosina tanto semplice? Non capisci la differenza fra la tua... Ma perché mi guardi con quell'aria innocente e idiota?



- Io? In verità non lo so, ma forse questo è il volere di Dio.



- Sì, sì, suppongo che sia più o meno così. Non farci caso se sembro un po' agitato. Non lo sono. Ma cambiamo argomento.



Ora parliamo di questo castello con quarantacinque principesse prigioniere dentro e tre orchi che comandano il tutto. Dimmi, dov'è questo harem?



- Harem?



- Il castello, hai capito. Dov'è il castello?



- Oh, in quanto a quello, è enorme, forte e ben difeso ed è situato in un lontano paese. Sì, a molte leghe da qui.



- Quante?



- Ah, messere, sarebbe estremamente complicato stabilirlo. Sono tante e si sovrappongono una all'altra ed essendo tutte uguali e dello stesso colore non si può distinguere una lega da quella accanto, né si sa come contarle...



- Basta, basta, lasciamo andare la distanza. Dove si trova il castello? In quale direzione da qui?



- Oh, non vi dispiaccia, messere, non c'è direzione da qui, perché la strada non va dritta, ma gira sempre. Quindi la direzione del luogo non è sempre la stessa, ma ora è posta sotto un cielo e poco dopo sotto un altro.



- Oh, va bene, va bene, lascia perdere. Non importa la direzione, "al diavolo" la direzione. Chiedo scusa, chiedo mille scuse, non mi sento bene oggi. Non far caso ai miei brontolii: è una vecchia abitudine, una vecchia e cattiva abitudine, difficile da vincere quando la digestione è sottosopra per aver mangiato roba coltivata secoli e secoli prima che venissi al mondo. Diamine! Un uomo non può avere funzioni regolari se mangia pollastrelli vecchi di milletrecento anni. Ma, suvvia, lasciamo perdere questo. Andiamo avanti. Hai con te una mappa di quella regione? Intendo una buona mappa...



- E' per caso quella specie di cosa che ultimamente gli infedeli hanno portato dai grandi mari e che, bollita nell'olio e con l'aggiunta di una cipolla e di sale fa...



- Che? Una mappa? Che stai dicendo? Non sai che cosa è una mappa?



Via, via, non importa, non spiegare nulla, detesto le spiegazioni:



confondono le cose in modo tale che poi non si capisce più niente.



Va', va', mia cara. Buongiorno. Clarence, accompagna madamigella Alisanda alla porta.



Ora, era abbastanza chiaro perché quei somari non tentassero neppure di interrogare quei bugiardi per conoscere i particolari.



Poteva darsi che questa ragazza fosse a conoscenza di qualche fatto, ma non credo che si sarebbe riusciti a cavarglielo fuori con una pompa idraulica e nemmeno con i primi rudimentali metodi esplosivi; quello era un caso da dinamite. Ma sì, era un'oca perfetta. Eppure il re e i suoi cavalieri erano stati ad ascoltarla come fosse stata una pagina del Vangelo. Questo, in un certo qual modo, dà un'idea di tutta quanta la compagnia.



Mentre concludevo queste mie riflessioni rientrò Clarence. Egli sembrò un po' sorpreso e mi fece capire che veramente si era chiesto perché mai io avessi fatto tutte quelle domande alla ragazza.



- Ma, per mille bombe! - dissi io - non devo trovare il castello?



E in che altro modo potrei sapere dove si trova?



- Ma, mio dolce signore, è facile rispondere a ciò, io penso. Lei verrà con te. E così che fanno. Lei cavalcherà con te.



- Cavalcare con me? Che assurdità!



- Ma così farà. Cavalcherà con te. Vedrai.



- Che cosa? Lei a esplorare i colli e perlustrare i boschi con me, sola, e io che sono quasi fidanzato? Ma è scandaloso! Pensa che figura Ci farei.



Oh, il caro viso che mi sorse davanti! Il ragazzo moriva dalla voglia di sapere tutto di quella tenera vicenda. Gli feci giurare di mantenere il segreto e poi gli sussurrai il suo nome, "Puss Flanagan". Sembrò deluso e disse che non ricordava quella contessa. Era naturale per il piccolo cortigiano attribuirle un titolo. Mi chiese dove abitava.



- Nella zona est di Har... - Mi fermai in tempo, un po' confuso.



Poi dissi:



- Non ora, te lo dirò un'altra volta.



E avrebbe mai potuto vederla? Gli avrei permesso di vederla, un giorno? Ci voleva così poco a promettere. Milletrecento anni o giù di lì... e lui ci teneva tanto: così gli dissi di sì. Ma sospirai.



Non potevo farne a meno. In verità, non aveva molto senso sospirare perché lei non era ancora nata. Ma noi siamo fatti così, non ragioniamo quando siamo presi da un sentimento: sentiamo e basta. Per tutto il giorno e la notte non si parlò che della mia spedizione e i ragazzi si comportarono molto bene con me e mi trattarono con tutti i riguardi. Sembrava avessero dimenticato la loro rabbia e la loro delusione e fossero diventati ansiosi di vedermi sconfiggere quegli orchi e rimettere in libertà quelle damigelle come se fossero loro stessi impegnati nell'azione.



Insomma erano buoni bambini, ma appunto bambini e non più di questo. Mi diedero consigli a non finire sul modo migliore per scovare giganti e attirarli in una trappola. Mi rivelarono ogni genere di sortilegi contro gli incantesimi e mi regalarono balsami e altra robaccia da mettere sulle ferite.



Secondo l'usanza avrei dovuto fare colazione di buon'ora e partire prima dell'alba; ma faticai come un diavolo con l'armatura e questo mi fece tardare un po'. E' difficile infilarsi dentro e ci sono tanti dettagli. Prima bisogna avvolgere un paio di coperte intorno al corpo, come cuscino di protezione e per non sentire il freddo del ferro; poi si infilano le maniche e la camicia di maglia d'acciaio, che è molto pesante ed è il materiale più scomodo del mondo per camicie da notte. Poi si mettono le scarpe, barche a fondo piatto con la parte superiore fatta di strisce di acciaio intrecciate, e si avvitano ai tacchi i rozzi speroni. Poi si affibbiano gli schinieri alle gambe e i cosciali alle cosce, dopo vengono lo schienale e il pettorale e si comincia a sentirsi pesanti. Poi si aggancia alla corazza il mezzo gonnellino, di larghe strisce di metallo sovrapposte, che pende davanti, ma dietro è tagliato più corto per permettere di sedersi; questo espediente non è affatto un miglioramento rispetto a un secchio di carbone capovolto, né come aspetto, né come indumento e neppure per asciugarsi le mani. Poi si cinge la spada; poi si mettono alle braccia i raccordi da tubi di stufa, i guanti di ferro alle mani e alla testa la trappola da topi in ferro, da cui penzola uno straccio di ragnatela di acciaio che ricade sulla nuca, ed eccoci pronti, immobilizzati come una candela nel suo stampo. Questo non è il momento di ballare. Insomma, un uomo così impacchettato è come una noce che non vale la pena di schiacciare.



I ragazzi mi aiutarono, altrimenti non sarei mai riuscito a entrare nell'armatura. Il sole si era appena levato, il re e la corte mi aspettavano per vedermi partire e augurarmi buona fortuna, perciò non sarebbe stata buona creanza da parte mia farli attendere. Non si può montare a cavallo da soli, no, puoi provarci ma rimarresti deluso. Ti portano fuori, proprio come si porterebbe in farmacia un uomo che ha preso un colpo di sole, ti mettono su, ti aiutano a sistemarti, ti fissano i piedi nelle staffe e intanto tu ti senti tanto strano e soffocato, come un'altra persona...



come uno che si è sposato all'improvviso, o che è stato colpito da un fulmine, o qualcosa di simile, e che non si è ancora riavuto del tutto, si sente stordito e non riesce a orientarsi. Poi issarono quell'albero maestro, che chiamavano lancia e io lo afferrai con la mano. Infine mi appesero lo scudo intorno al collo ed ero al completo, pronto ad alzare l'ancora e a prendere il mare. Furono tutti molto buoni con me e una damigella d'onore mi offrì personalmente la coppa della staffa. Non era rimasto altro da fare se non far salire la fanciulla dietro di me, su di un sellino, cosa che fece e poi mi mise un braccio intorno alla vita per reggersi. E così incominciammo il nostro viaggio. Tutti ci dissero addio e agitarono i fazzoletti o gli elmi.





















Capitolo 14



LENTA TORTURA









Presto fummo in aperta campagna. Era bello e piacevole trovarsi in quelle solitudini silvane, nell'aria fresca del mattino, nella prima frescura autunnale. Dalla cima dei colli vedevamo stendersi laggiù ampie vallate verdi, traversate da corsi d'acqua serpeggianti, e qua e là isole di boschetti, e, sparse intorno, delle enormi querce solitarie che gettavano scure macchie d'ombra.



Al di là delle valli si vedevano file di colli azzurri nella foschia, che si estendevano in lontananza fino all'orizzonte, in un paesaggio ondulato interrotto ogni tanto da un'indistinta macchia di bianco o di grigio e si sapeva che quello era un castello. Attraversavamo vasti prati naturali scintillanti di rugiada e ci muovevamo come spiriti su quel morbido terreno erboso che non dava alcun suono di passi. Passavamo come in sogno per le radure, in una nebbia di luce verde che prendeva il suo colore dal tetto di foglie bagnato di sole. Ai nostri piedi i più limpidi e freschi ruscelletti scorrevano saltellando e mormorando sui sassi, facendo una musica sussurrante piacevole ad udirsi. A volte lasciavamo il mondo alle spalle e penetravamo nelle profondità grandi e solenni e nelle intense tenebre della foresta, dove creature furtive e selvatiche guizzavano, scappavano e scomparivano ancor prima che si potesse volgere l'occhio verso il luogo da dove proveniva il rumore. Soltanto gli uccelli più mattinieri erano in piena attività, occupati con una canzone qua e una baruffa là e, in distanza, un misterioso martellare e tambureggiare sul tronco di un albero a caccia di vermi, laggiù, in qualche impenetrabile recesso dei boschi. E poco dopo riemergevamo di nuovo nello splendore della luce. La terza o la quarta o la quinta volta che riemergemmo alla luce viva del giorno, circa un paio d'ore dopo il sorgere del sole, non fu più così piacevole come prima. Cominciava a far caldo e in modo notevole e dovevamo percorrere un lunghissimo tratto senza ombra alcuna. E' un fatto curioso come le piccole irritazioni crescano e si moltiplichino progressivamente, una volta che iniziano. Cose a cui non avevo dato alcuna importanza all'inizio, cominciarono a infastidirmi ora, e sempre di più, via via che il tempo passava.



Le prime dieci o quindici volte che mi trovai ad aver bisogno del fazzoletto non me ne ero preoccupato; avevo tirato avanti, avevo detto:



"Non importa, non fa nulla" e non ci avevo pensato più.



Ma ora era diverso: ne avevo bisogno continuamente. Era un incessante fastidio che non mi dava tregua; non me lo potevo togliere dalla mente. Così, alla fine, persi la pazienza e dissi:



"S'impicchi quello che ha fatto quest'armatura senza tasche".



Dovete sapere che avevo il fazzoletto nell'elmo insieme ad altre cose, ma era quel tipo d'elmo che non ci si può togliere da soli.



L'avevo messo là dentro senza riflettere, poiché avevo immaginato che sarebbe stato particolarmente comodo averlo lì dentro E ora, il pensiero che era lì, così a portata di mano e tanto vicino eppure irraggiungibile peggiorava la situazione e la rendeva insopportabile. Già, la cosa che non si può avere è la cosa che più si desidera; tutti lo sanno. Insomma, quel pensiero distolse la mia mente da qualsiasi altra cosa, la occupò interamente e la concentrò sull'elmo e lì rimase per miglia e miglia, a immaginare il fazzoletto, a raffigurarsi il fazzoletto. Ed era amaro ed esasperante sentire il sudore salato che continuamente gocciolava fin dentro gli occhi e non essere in grado di raggiungere il fazzoletto.



Sembra una piccolezza, qui sulla carta, ma non lo era affatto: era la più autentica forma di tormento. Non lo direi se non fosse stato così. Decisi che la prossima volta mi sarei portato dietro una reticella, senza preoccuparmi dell'aspetto e di quello che la gente avrebbe detto. Naturalmente, quei bellimbusti di ferro della Tavola Rotonda l'avrebbero considerato scandaloso e avrebbero fatto un putiferio, ma quanto a me, le comodità prima e lo stile poi. Così proseguivamo lentamente e di tanto in tanto capitavamo su un sentiero polveroso e la polvere si alzava in nugoli e mi penetrava nel naso e mi faceva starnutire e piangere. E, naturalmente, dicevo cose che non avrei dovuto dire, non lo nego.



Non sono migliore degli altri. Sembrava non si dovesse incontrare nessuno in quella solitaria Britannia, neppure un orco e, dato il mio umore in quel momento, era una fortuna per l'orco, soprattutto se avesse avuto un fazzoletto. La maggior parte dei cavalieri non avrebbe pensato ad altro che a prendergli l'armatura; per conto mio mi sarebbe bastato prendergli il fazzoletto di seta e lui avrebbe potuto tenersi tutta la sua ferraglia. Intanto, lì dentro faceva sempre più caldo. Capirete, il sole picchiava e riscaldava sempre di più il ferro. Be', quando si ha caldo a quel modo qualunque piccolezza irrita. Quando andavo al trotto facevo rumore come un cesto di stoviglie e questo mi infastidiva. Inoltre non riuscivo più a sopportare quello scudo che mi sbatacchiava rintronando ora sul petto, ora sulla schiena. Se mi mettevo al passo i miei giunti cigolavano e stridevano con quel rumore noioso delle carriole; poi, siccome a quell'andatura non c'era un filo d'aria, correvo il rischio di finire arrosto in quella stufa.



Quanto più adagio andavo tanto più il peso del ferro mi gravava addosso e ogni minuto che passava mi sembrava di pesare qualche tonnellata di più. E dovevo continuamente cambiar di mano e passare la lancia da una parte all'altra tanto era faticoso reggerla a lungo con una mano sola.



Ebbene, quando si suda a quel modo, a fiumi, viene il momento in cui... in cui... be', in cui tutto dà prurito. Tu sei dentro, le tue mani sono fuori ed eccoti là; e in mezzo non c'è altro che ferro.



Può sembrare una sciocchezza, ma non lo è. All'inizio è un punto solo, poi un altro, e poi un po' di più e continua a diffondersi e a dilagare. Alla fine tutto il corpo è occupato e nessuno può immaginare come ci si sente e quanto sia sgradevole. Quando fui arrivato al colmo e mi pareva di non poter più resistere, una mosca s'infilò tra le sbarre dell'elmo e mi si posò sul naso.



Volevo alzare la visiera ma le sbarre si erano inceppate e non c'era verso di farle funzionare. Non potevo far altro che scuotere la testa che nel frattempo era cotta e tostata, e la mosca - be', si sa come si comporta una mosca quando si sente sicura - si preoccupava dello scotimento solo quel tanto da spostarsi dal naso al labbro e dal labbro all'orecchio, e ronzava, ronzava lì dentro, e continuava a posarsi e a pungere in un modo che una persona, già tribolata come ero io, non poteva assolutamente sopportare. Così mi arresi, mi feci smontare l'elmo da Alisanda e me ne liberai.



Poi ella lo svuotò di tutte le cose che vi avevo riposto e me lo riportò pieno d'acqua e io bevvi. Mi alzai in piedi ed ella mi versò l'acqua rimasta dentro l'armatura. Non si può immaginare che refrigerio fosse. Alisanda continuò a portare acqua e a versare finché non fui inzuppato ben bene e mi sentii completamente a mio agio.



Era bello avere un po' di riposo e di pace. Ma nulla è perfetto in questa vita in nessun momento. Tempo addietro mi ero fatto una pipa e anche un discreto tabacco, non quello vero, ma qualcosa di simile a quello che usano gli indiani: l'interno della corteccia di salice disseccato. Questi generi di conforto erano stati messi nell'elmo e ora li avevo di nuovo, ma non avevo fiammiferi. Pian piano, col passar del tempo, cominciai a rendermi conto di una spiacevole realtà: eravamo nell'impossibilità di proseguire. Un novizio in armatura non può montare a cavallo senza un aiuto e gliene occorre parecchio.



Sandy non bastava, almeno per me. Dovevamo aspettare che passasse qualcuno. Aspettare in silenzio sarebbe stato abbastanza piacevole, perché avevo molte cose a cui pensare e volevo approfittare di questa occasione per riflettere. Volevo cercare di capire perché uomini ragionevoli, o anche semi-ragionevoli, avessero potuto imparare a indossare l'armatura, considerandone gli inconvenienti, e come avessero fatto a conservare tale usanza per tante generazioni, quando era evidente che quello che avevo sofferto io quel giorno essi lo dovevano soffrire ogni giorno della loro vita. Inoltre volevo trovare il modo di eliminare questo male e di persuadere la gente a lasciar morire quella stupida usanza; ma pensare, in quelle circostanze, era fuori discussione. Dove si trovava Sandy era impossibile pensare. Era una creatura docilissima e di buon cuore, ma quel suo incessante macinar parole come un mulino, faceva venire il mal di testa, come il rumore di carri in città. Se avesse avuto un tappo, sarebbe stato un sollievo.



Ma non si possono tappare tipi siffatti: ne morrebbero. Il suo cianciare andava avanti tutto il giorno e veniva fatto di pensare che, a un certo punto, sarebbe sicuramente accaduto qualcosa agli ingranaggi. Macché, non si guastavano mai, e non era mai costretta a rallentare per mancanza di parole. Era capace di macinare, pompare, frullare e ronzare per settimane, senza mai fermarsi per mettere un po' d'olio o aprire lo sfiatatoio. Non avevo badato al suo mulino durante la mattinata perché mi trovavo in un vespaio di altri guai; ma in quel pomeriggio dovetti dirle più di una volta:



- Riposati, bambina, se vai avanti così a consumare tutta l'aria del paese, il regno sarà costretto a importarne dell'altra per domani, e le finanze dello Stato sono già abbastanza povere senza questa spesa.





















Capitolo 15









UOMINI LIBERI!









E' davvero strano come si possa essere contenti solo per così breve tempo alla volta. Soltanto poco prima, mentre cavalcavo e soffrivo, che paradiso mi sarebbero sembrati questo riposo, questa pace, questa dolce serenità, in questo angolo solitario e ombroso presso il ruscello mormorante.



Eppure, già incominciavo a sentirmi insoddisfatto, non potevo accendere la pipa poiché, sebbene avessi avviato da molto tempo un fabbrica di fiammiferi, avevo dimenticato di portarmene dietro un po'. E c'era un altro problema: non avevamo niente da mangiare.



Questo è un altro esempio dell'infantile imprevidenza di quell'epoca e di quella gente. Un uomo in armi si affidava sempre alla sorte per trovare cibo quand'era in viaggio e si sarebbe scandalizzato all'idea di appendere un cestino di panini alla sua lancia. Probabilmente non c'era un solo cavaliere in tutta la compagnia della Tavola Rotonda che non avesse preferito morire, piuttosto che farsi vedere in giro con un oggetto simile appeso sull'asta della sua bandiera. Eppure sarebbe stata la cosa più sensata da fare. Avevo avuto l'idea di mettere di nascosto un paio di panini nell'elmo, ma ero stato colto sul fatto e avevo dovuto trovare una scusa e metterli da parte, così un cane se li era presi.



Si avvicinava la notte e con essa un temporale. Stava facendosi buio rapidamente. Dovevamo accamparci ovviamente. Trovai un buon riparo sotto una roccia per la damigella, poi andai a cercarne un altro per me. Ma fui costretto a tenermi l'armatura perché non potevo togliermela da solo, d'altronde non potevo permettere che Alisanda mi aiutasse perché mi sarebbe sembrato di spogliarmi davanti alla gente. In realtà, non sarebbe stato proprio così, perché sotto ero vestito. Ma non è facile liberarsi così di colpo dei pregiudizi della propria educazione e sapevo che, quando fosse venuto il momento di togliermi quel gonnellino di ferro a coda mozza, mi sarei sentito imbarazzato.



Con il temporale si verificò un cambiamento di temperatura e più il vento soffiava forte e più violentemente la pioggia scrosciava, tanto più il freddo si faceva intenso. Ben presto vari tipi di insetti, formiche, vermi e altre bestioline presero a uscire a frotte dal bagnato e a strisciare dentro la mia armatura per stare al calduccio; e mentre alcuni tennero un contegno discreto, si accomodarono fra i miei abiti e non si mossero, i più, di una razza irrequieta e agitata, non stavano mai fermi e scorrazzavano continuamente a caccia di chissà che cosa. Specialmente le formiche che percorrevano il mio corpo da una estremità all'altra in irritante processione, per ore ed ore, facendomi il solletico.



A una persona che dovesse trovarsi in una simile situazione consiglierei di non rigirarsi o dimenarsi, perché ogni movimento desta l'interesse di tutti i diversi tipi di bestioline, che vengono fuori dal primo all'ultimo a vedere quel che succede; ciò peggiora le cose, naturalmente, e vi fa imprecare ancora di più, se è possibile. D'altra parte, se uno non si rigirasse e non si dimenasse, morrebbe. Allora, forse, una cosa vale l'altra, non c'è scelta vera e propria. Perfino dopo, quando non ero che un blocco di ghiaccio, sentivo ancora quel formicolio, proprio come succede a un cadavere sottoposto alla cura elettrica. Giurai che dopo quel viaggio non avrei più indossato un'armatura.



Quando finalmente giunse il mattino ero in uno stato davvero pietoso; malconcio, stordito, sfinito dalla mancanza di sonno, spossato per il continuo dimenarmi, affamato per il lungo digiuno, desideroso di un bagno e di liberarmi degli insetti e paralizzato dai reumatismi. E come era andata alla nobile, aristocratica e titolata damigella Alisanda la Carteloise? Ebbene, era vispa come uno scoiattolo: aveva dormito come un ghiro. Quanto al bagno, probabilmente né lei, né alcun altro nobile del paese, l'aveva mai fatto e perciò non ne sentivano la mancanza. Secondo i principi moderni quegli individui non erano che una massa di selvaggi. E la nobile damigella non dava alcun segno d'impazienza per la colazione. Quando viaggiavano, quei Britanni, erano abituati ai lunghi digiuni e sapevano come sopportarli, dal momento che si riempivano di cibo prima della partenza, in vista di eventuali digiuni. Probabilmente Sandy si era preparata per una tirata di tre giorni.



Riprendemmo il cammino prima dell'alba. Sandy a cavallo e io dietro zoppicando. Dopo una mezz'ora incontrammo un gruppo di povere creature cenciose, che si erano riunite ad aggiustare quella cosa che veniva considerata una strada. Nei miei riguardi si dimostrarono umili come animali e quando proposi di far colazione con loro, furono così lusingati che quasi non riuscivano a convincersi che io dicessi sul serio. La mia damigella arricciò il naso sdegnosa e si fece da parte. Eppure quegli uomini non erano schiavi, non erano proprietà altrui. Per ironia della legge e della parola, essi erano uomini liberi. I sette decimi della popolazione libera del paese erano della loro stessa classe e condizione sociale: piccoli agricoltori "indipendenti", artigiani e così via.



Vale a dire che essi erano la nazione, la nazione vera e propria e della nazione essi rappresentavano tutto quello che era utile e degno di essere salvato. Gli altri, il re, i nobili e i gentiluomini, oziosi, improduttivi, esperti soltanto nelle arti dello spreco e della distruzione e di nessuna utilità o valore in un qualsiasi mondo razionalmente costruito, non erano la nazione.



Eppure, grazie a un ingegnoso inganno, questa dorata minoranza, invece di essere in coda alla processione, dove meritava di stare, marciava a testa alta e a bandiere spiegate, a capo del corteo. Si era autoeletta a nazione, e quegli innumerevoli molluschi lo avevano permesso per tanto tempo che avevano finito con l'accettare il fatto come una verità. Non solo, ma anche col crederlo giusto.



I discorsi di quella gente sottomessa suonavano molto strani a un orecchio che era stato americano. Erano uomini liberi, ma non potevano lasciare i possedimenti del loro signore o del loro vescovo, senza permesso; non potevano preparare il pane in casa propria, ma dovevano macinare il grano e cuocere il pane al mulino e al forno del padrone e pagare adeguatamente; non potevano vendere un solo pezzo del proprio terreno senza pagargli una bella percentuale sul ricavato; se compravano un pezzo di terreno da qualcun altro dovevano mostrargli la loro gratitudine con denaro contante per il privilegio; dovevano mietere il suo grano senza compenso ed essere pronti ad accorrere in qualsiasi momento, anche se il loro raccolto rimaneva esposto al pericolo di essere distrutto da un temporale imminente; dovevano lasciargli piantare alberi da frutta nei loro campi e poi mangiarsi il fegato dalla rabbia quando, durante la raccolta della frutta, il grano attorno agli alberi veniva calpestato senza riguardo: e dovevano soffocare l'ira quando le sue comitive di cacciatori galoppavano per i campi distruggendo il frutto del loro duro lavoro. Infine, quando il raccolto era ammassato, allora arrivava la processione dei ladroni a riscuotere il tributo dei loro ricatti. Prima di tutti la Chiesa si portava via la sua pingue decima, poi l'incaricato del re si prendeva il suo ventesimo, poi le genti del padrone facevano man bassa su quello che era rimasto; dopo di che allo spellato uomo libero era concesso di riporre i resti nel suo granaio, se ne valeva la pena. Poi c'erano tasse e tasse e tasse e altre tasse e poi ancora tasse addosso a quel poveraccio libero e indipendente ma non ce n'era alcuna per il suo signore, barone o vescovo, nessuna per la nobiltà sprecona o per l'avida Chiesa.



Ed eccoli qui questi uomini liberi, riuniti di buon mattino a lavorare alla strada del loro signore, il vescovo, tre giorni ciascuno, gratis. Ogni capo famiglia e ogni figlio di famiglia, tre giorni ciascuno, gratis, più un giorno da aggiungere per i loro servi. Eppure quei poveri uomini, apparentemente liberi, che spartivano con me la loro colazione e i loro discorsi, erano pieni di umile riverenza verso il re, la Chiesa e i nobili. C'era in quell'atteggiamento qualcosa di penosamente ridicolo. Chiesi loro se pensavano che se fosse stato introdotto il libero voto di tutti i cittadini in una nazione, essi avrebbero eletto a regnare per sempre un'unica famiglia e i suoi discendenti, intelligenti o rimbambiti, ed avrebbero dato potere ed autorità a poche centinaia di famiglie investendole di glorie e privilegi ereditari e dannosi ad esclusione di tutte le altre famiglie della nazione, comprese le loro.



Nessuno sembrò impressionato e risposero che non sapevano, che non ci avevano mai pensato prima e che non era mai venuto loro in mente che una nazione potesse trovarsi nella situazione in cui ogni uomo avesse voce nel governo. Io dissi che ne avevo vista una e che sarebbe durata finché non avesse avuto una Chiesa costituita. Anche questa volta nessuno sembrò reagire, dapprima.



Ma poi un uomo alzò lo sguardo e mi chiese di ripetere quell'affermazione, lentamente in modo che potesse entrargli in testa.



Così feci e dopo un po' egli afferrò l'idea. Batté il pugno e disse che "egli" non credeva che una nazione dove ognuno aveva il diritto di voto si sarebbe volontariamente buttata giù nel fango e nel sudiciume in quel modo e che rubare a una nazione la sua volontà e la sua libertà di scelta doveva essere un delitto, il peggiore di tutti. Io pensai:



"Questo è un uomo. Se fossi sostenuto da un numero sufficiente di uomini di tal stampo, scenderei in campo armato per il benessere di questo paese e cercherei di dimostrarmi il suo cittadino più leale, cambiando totalmente il suo sistema di governo".



Il lato istrionico della mia natura mi avrebbe spinto a dare le dimissioni da Capo e a provocare un'insurrezione e scatenare una rivoluzione. Ma sapevo che chi fa simili tentativi senza prima educare il popolo e prepararlo allo stato rivoluzionario, può essere quasi assolutamente certo di essere piantato in asso. Io non avevo l'abitudine di essere piantato in asso. Non parlai, dunque, di sangue e di insurrezione a quell'uomo che stava lì seduto a masticare pane nero con quel maltrattato e ignorante branco di pecore umane, ma lo presi da parte e gli feci discorsi di altro genere. Quando ebbi finito, mi feci dare un po' d'inchiostro delle sue vene e con questo e una scheggia di legno scrissi su un pezzo di corteccia:



"Mettilo nella Fabbrica d'Uomini". Glielo diedi e dissi:



- Portalo a Camelot, al palazzo, e consegnalo nelle mani di Clarence, egli capirà.



- Allora egli è un prete - disse l'uomo, e un po' d'entusiasmo scomparve dal suo viso.



- Come, un prete? Non ti ho detto che nessun servo della Chiesa, nessuno schiavo di papa o di vescovo può entrare nella mia Fabbrica d'Uomini?



L'uomo appariva tutt'altro che persuaso. Disse:



- Non è un prete, eppure sa leggere.



- Non è un prete eppure sa leggere, sì e anche scrivere per questo. Gliel'ho insegnato io.



Il viso dell'uomo si rischiarò.



- E sarà la prima cosa che insegneranno anche a te in quella Fabbrica...



-A me? Darei il sangue del mio cuore per conoscere tale arte.



Invero sarò il tuo schiavo, il tuo...



- No, non lo sarai, non sarai lo schiavo di nessuno. Prendi la tua famiglia e va'... Il tuo signore, il vescovo, confischerà la tua proprietà, ma non importa, Clarence ti sistemerà benissimo.





















Capitolo 16









DIFENDITI, SIGNORE!









Pagai tre soldi per la colazione, una somma davvero esagerata se si considera che con quel denaro avrebbero potuto far colazione una dozzina di persone. Ma in quel momento mi sentivo molto generoso e poi ero sempre stato un po' spendaccione: senza contare che quella gente aveva voluto offrirmi la colazione senza alcun compenso, benché le loro provviste fossero assai scarse. Fu dunque un vero piacere dimostrare il mio apprezzamento e la mia sincera gratitudine. A dire il vero, in quei giorni spendevo il denaro con notevole prodigalità, ma una delle ragioni era che non mi ero ancora abituato al senso delle proporzioni, neanche dopo un così lungo soggiorno in Britannia. Non ero ancora riuscito a rendermi conto chiaramente che un soldo nel paese di Artù e un paio di dollari nel Connecticut erano proprio la stessa cosa, in quanto a potere d'acquisto. Se la mia partenza da Camelot fosse stata rimandata di qualche giorno, avrei potuto pagare quella gente con belle monete nuove fiammanti della nostra zecca e questo avrebbe fatto molto piacere sia a me, sia a loro. Avevo adottato esclusivamente i valori americani. Ancora una settimana o due e poi continui rivoli di centesimi, nichelini, monetine d'argento, quarti di dollaro, mezzi dollari e anche un po' d'oro avrebbero cominciato a scorrere attraverso tutto il regno ed io ero ansioso di vedere quel sangue nuovo rinvigorirne la vita. I contadini ci tenevano a darmi qualcosa per compensare un po' la mia generosità, che io volessi o no: così lasciai che mi regalassero una pietra focaia e un acciarino. Appena ebbero sistemato comodamente me e Sandy sul cavallo, accesi la pipa. Quando il primo sbuffo di fumo uscì attraverso le sbarre del mio elmo, tutta quella gente fuggì verso il bosco e Sandy cadde all'indietro e precipitò al suolo con un gran tonfo. Pensavano che io fossi uno di quei draghi sputafuoco di cui avevano tanto sentito parlare dai cavalieri e da altri bugiardi di professione. Dovetti faticare un bel po' per convincerli ad avvicinarsi di nuovo a me, quel tanto da poter udire le mie spiegazioni.



Li rassicurai dicendo che quello era soltanto un piccolo esempio di magia che non avrebbe recato danno a nessuno, tranne che ai miei nemici. E promisi, con la mano sul cuore, che se tutti quelli che mi erano amici si fossero avvicinati e mi fossero passati davanti, avrebbero potuto vedere che soltanto quelli che rimanevano indietro sarebbero caduti morti. Il corteo si mosse verso di me con molta prontezza. Non ci furono perdite perché nessuno fu abbastanza curioso da rimanere indietro a vedere che cosa sarebbe successo.



Qui persi del tempo, perché quei fanciulloni, scomparsa la paura, erano talmente sbalorditi dai miei impressionanti fuochi d'artificio che fui costretto a trattenermi un po' e a fumare un paio di pipe prima che mi lasciassero andare. Tuttavia l'indugio non fu del tutto inutile, perché a Sandy ci volle tutto quel tempo per abituarsi completamente alla novità della cosa, dato che ci si trovava tanto vicina. La meraviglia arrestò anche il suo mulino di parole per un tempo considerevole e questo fu un vantaggio. Ma oltre a tutti i benefici risultanti, avevo imparato qualcosa. Ora ero pronto a sfidare qualsiasi orco o gigante che si trovasse a passare da quelle parti.



Passammo quella notte ospiti di un santo eremita. Verso la metà del pomeriggio seguente, stavamo attraversando un vasto prato per abbreviare la strada, quando Sandy improvvisamente interruppe un'osservazione che aveva cominciato al mattino, con un grido:



- Difenditi, o signore! Pericolo di morte ci sovrasta!



Si lasciò scivolare giù da cavallo, si allontanò un po' correndo e poi si fermò. Alzai gli occhi e scorsi, in lontananza, all'ombra di un albero, una mezza dozzina di cavalieri armati, con i loro scudieri. Immediatamente ci fu un gran trambusto fra di loro e un serrar di cinghie per montare in sella. Io avevo pronta la pipa e sarebbe stata accesa se non fossi stato immerso nei miei pensieri:



come eliminare l'oppressione dal paese e come restituire al popolo i diritti che gli erano stati sottratti e la sua dignità umana, senza far torto a nessuno. Accesi subito la pipa e avevo già una buona riserva di vapore quando quelli arrivarono. Venivano avanti tutti insieme a testa bassa, con le piume ondeggianti al vento e le lance abbassate in avanti. Era uno spettacolo splendido, bellissimo... per un uomo in cima a un albero. Misi la lancia in resta e aspettai, col cuore che mi batteva, finché quella marea di ferro fu quasi sul punto di abbattersi su di me, poi cacciai fuori una colonna di fumo bianco attraverso le sbarre dell'elmo. Avreste dovuto vedere l'ondata frantumarsi e disperdersi! Era uno spettacolo ancora più bello del primo.



Ma quelli si fermarono, a due o trecento metri di distanza e questo mi rese perplesso. La mia soddisfazione crollò e subentrò la paura; mi sentii un uomo perduto. Sandy, al contrario, era raggiante e si preparava a far sfoggio di eloquenza, ma io la fermai per dirle che la mia magia, chissà come, aveva mancato allo scopo e che lei doveva salire a cavallo in tutta fretta e che bisognava galoppare per salvare la vita. Ma lei non voleva. Disse che il mio incantesimo aveva paralizzato quei cavalieri, non avanzavano perché non potevano. Bastava aspettare e sarebbero caduti di sella da un momento all'altro e noi avremmo potuto prendere i loro cavalli e le loro bardature. Non potevo deludere tanta fiduciosa semplicità, perciò le dissi che era un errore.



Quando i miei fuochi d'artificio uccidevano veramente, uccidevano di colpo; no, quegli uomini non sarebbero morti, c'era qualcosa che non funzionava nella mia magia, ma non sapevo che cosa.



Dovevamo affrettarci ad andarcene, se no, tra poco, quella gente ci avrebbe attaccato di nuovo. Sandy disse ridendo:



- Non sono di quella razza, signore! Ser Lancillotto darebbe battaglia ai draghi e non li lascerebbe, li assalirebbe, una volta, un'altra e poi un'altra ancora finché non li avesse vinti e distrutti. Guarda quei vili attaccabrighe laggiù, credi che non ne abbiano avuto abbastanza e che ne desiderino dell'altro?



- Be', allora che cosa aspettano? Perché non se ne vanno? Nessuno glielo impedisce.



- Andarsene? Oh, sta tranquillo, non se lo sognano neppure, no davvero. Essi attendono per fare atto di sottomissione.



- Suvvia, davvero è questo "fededegno", come dite voi? Se hanno questa intenzione, perché non lo fanno?



- Ne avrebbero gran desiderio, ma se tu sapessi che fama hanno i draghi, non li biasimeresti. Essi hanno paura di accostarsi.



- Ebbene, allora supponiamo che vada io da loro e...



- Ah, sappi, allora, che essi non starebbero ad attenderti. Andrò io.



E così fece. Lei era molto utile come compagna di scorrerie. Per conto mio l'avrei considerata una missione pericolosa. Poco dopo vidi i cavalieri che si allontanavano e Sandy che ritornava.



Mi raccontò che quando aveva detto a quella gente che io ero il Capo, essi erano sbiancati di paura impietriti dallo sgomento; poi si erano dichiarati pronti ad accettare ogni sua richiesta. Così, li aveva fatti giurare che si sarebbero presentati alla corte di re Artù entro due giorni per fare atto di sottomissione, con cavalli e bardature e divenire, da allora in poi, miei cavalieri, soggetti al mio comando.



Sandy aveva condotto le trattative molto meglio di quanto avrei saputo fare io stesso. Era un tesoro.





















Capitolo 17









LA FATA MORGANA









- Così sono diventato proprietario di qualche cavaliere - dissi, mentre ci allontanavamo a cavallo. Chi poteva mai immaginare che avrei avuto un giorno un patrimonio simile? Non so davvero che farmene, a meno che non li metta in lotteria. Quanti sono, Sandy?



- Sette, se così ti aggrada, messere, e i loro scudieri.



Stavamo avvicinandoci a un castello che si ergeva su un'altura; una enorme, massiccia, antica costruzione le cui grigie torri e merlature erano abbellite da un manto d'edera e la cui mole imponente era immersa nello splendore del tramonto. Era il castello più grande che avessimo visto finora e così pensai che potesse essere quello che stavamo cercando, ma Sandy disse di no.



Ella non sapeva a chi appartenesse. Disse che ci era passata vicino senza fermarsi quando era venuta a Camelot.



Se c'era da fidarsi della parola dei cavalieri erranti, non tutti i castelli erano luoghi desiderabili per chiedervi ospitalità. In realtà, la loro parola non era degna di fede, ma seguendo i criteri del loro tempo e facendo la debita tara, si otteneva la verità. Era molto semplice: bastava eliminare il novantasette per cento di un'affermazione e quello che restava era vero. Ora, pur tenendo conto di questo, rimaneva il fatto che scoprire qualcosa sul castello prima di bussare alla porta era la cosa più ragionevole da fare. Perciò mi rallegrai quando scorsi a una certa distanza un uomo a cavallo che svoltava l'ultima curva della strada tortuosa che scendeva dal castello.



Appena ci avvicinammo, vidi che portava un elmo piumato e che per il resto pareva vestito d'acciaio, ma con qualcosa di bizzarro in più, un indumento rigido e quadrato simile alla cotta di un araldo. Ma non potei fare a meno di sorridere della mia smemoratezza, appena fui un po' più vicino e lessi questa scritta sull'indumento:



"Sapone Persimmons. Usato da tutte le Prime Donne".



Era stata una mia trovata che si prefiggeva diversi scopi per civilizzare ed elevare il livello della nazione. Anzitutto era un bel colpo mancino a quella balorda istituzione della cavalleria errante. Avevo mandato in giro un certo numero di cavalieri, i più valorosi che avevo potuto trovare, ciascuno inserito tra due cartelloni con scritte pubblicitarie diverse. Pensavo che, un po' alla volta, quando fossero arrivati ad essere abbastanza numerosi, avrebbero cominciato ad apparire ridicoli; e allora, anche quell'asino ferrato che fosse andato in giro senza cartellone, avrebbe cominciato ad apparire ridicolo, perché sarebbe stato fuori moda. In secondo luogo questi missionari, gradualmente e senza creare sospetti, avrebbero introdotto i primi rudimenti di pulizia fra la nobiltà, e da questa la pulizia si sarebbe fatta strada giù fino al popolo. Ai miei missionari veniva insegnato a leggere l'insegna dorata della loro cotta. Dovevano quindi leggere queste insegne e poi spiegare ai signori e alle dame che cosa era il sapone; e se i signori e le dame ne avevano timore, persuaderli a farne la prova su di un cane. Il passo successivo del missionario consisteva nel riunire tutta la famiglia e provare il sapone su se stesso. Non si doveva fermare davanti a nessun esperimento, per quanto disperato, pur di convincere i nobili che il sapone era innocuo. Se rimaneva ancora qualche ultimo dubbio doveva acchiappare un eremita - i boschi erano pieni di questi uomini che tutti credevano santi e capaci di fare miracoli. Se un eremita sopravviveva a una lavata e questo non bastava a convincere un duca, meglio rinunciarci e lasciarlo perdere.



Tutte le volte che i miei missionari s'imbattevano per la strada in un cavaliere errante, lo lavavano; poi, quando si era rimesso, gli facevano giurare di andare a farsi dare un cartellone pubblicitario e di diffondere sapone e civiltà per il resto dei suoi giorni. Di conseguenza, i lavoratori in questo campo andavano aumentando e la riforma si diffondeva costantemente. La mia fabbrica di sapone ne risentì ben presto gli effetti. All'inizio c'erano solo due operai, ma prima che io partissi da casa ne impiegavo già quindici e la fabbrica funzionava giorno e notte.



L'inquinamento si era fatto così rilevante che il re andava in giro ansimando e boccheggiando e dicendo che non credeva di poter resistere più a lungo. Ser Lancillotto era arrivato a un tale stato che non faceva altro che passeggiare su e giù per il tetto, imprecando; continuava a lamentarsi, dicendo che un palazzo non era un posto adatto per una fabbrica di sapone e che se qualcuno avesse provato a impiantarne una in casa sua, lo avrebbe strangolato, dannazione!



Il nome di questo cavaliere missionario era La Cote Male Taile.



Egli disse che quel castello era la dimora della fata Morgana; sorella di re Artù, e moglie di re Uriens. La Cote era molto abbattuto perché aveva subito qui il peggiore insuccesso della sua campagna pubblicitaria. Non era riuscito a smerciare un solo pezzo di sapone; eppure aveva provato tutti i trucchi del mestiere, aveva persino lavato un eremita. Ma l'eremita era morto.



Venne il momento in cui, arrivati al castello, i guardiani ci dettero il chi va là dall'alto delle mura, e dopo aver parlamentato, ci lasciarono entrare.



Non ho niente di bello da raccontare a proposito di quella visita.



Non restai deluso perché conoscevo di fama la signora Morgana e non mi aspettavo niente di piacevole. Tutti quanti, nel reame, la temevano perché aveva fatto credere di essere una grande maga.



Tutte le sue azioni erano malvagie, tutti i suoi istinti diabolici. Era piena fino agli occhi di fredda perfidia. Tutta la sua vita era un'oscura trama di delitti. Per lei ammazzar la gente era cosa abituale. Ero molto curioso di vederla, tanto curioso quanto lo sarei stato di vedere Satana. Ma con mia grande sorpresa vidi che era bella. La malvagità non era riuscita a rendere repellente la sua espressione, né l'età a segnare di rughe la sua pelle di seta. Avrebbe potuto passare per la nipote del vecchio Uriens e la si poteva credere la sorella del proprio figlio.



Appena arrivati oltre la porta del castello, ricevemmo l'ordine di presentarci al suo cospetto. C'erano anche re Uriens, un mite vecchio dall'aria sottomessa e il figlio, ser Uwaine Blanchemains.



Ma Morgana era la principale attrazione, la personalità più notevole lì. Era evidente che il capo famiglia era lei. Ci fece sedere e poi cominciò con modi graziosi e moine a farmi delle domande Dio mio! Era come se ascoltassi un uccellino, o il suono di un flauto, o qualcosa di simile. Mi stavo convincendo che quella donna doveva essere stata calunniata e messa in cattiva luce. Mentre trillava e cinguettava, un paggio giovane e bello, vestito come un arcobaleno, con movimenti leggeri e flessuosi arrivò con qualcosa su di un vassoio d'oro e, inginocchiandosi per presentarlo a lei, perse l'equilibrio urtando leggermente il suo ginocchio. Morgana gli fece scivolare una daga in corpo, con la naturalezza che un'altra persona avrebbe avuto nell'infilzare un topo.



Povero ragazzo! Si accasciò al suolo, contorse le sue membra morbide in una sola gran convulsione di dolore e morì. Il vecchio re si lasciò sfuggire un involontario "Oh!..." di compassione.



L'occhiata che ricevette glielo fece bruscamente interrompere. Ser Uwaine, a un cenno di sua madre, andò in anticamera a chiamare dei servitori e madama, nel frattempo, continuò a parlare dolcemente.



Che donna meravigliosa! E che sguardo aveva: quando si posava con un'espressione di rimprovero sui servitori, questi si facevano piccini e tremavano come fa la gente che ha paura quando il lampo balena tra le nubi. Avrei potuto prendere anch'io quell'abitudine.



Era lo stesso per quel povero vecchio re Uriens: era sempre sulle spine e trasaliva prima ancora che ella si voltasse verso di lui.



Nel bel mezzo della conversazione, mi lasciai sfuggire una parola di complimento per re Artù, dimenticando per un attimo quanto quella donna odiasse il fratello. Quell'unico piccolo complimento fu sufficiente. Si fece scura come un cielo tempestoso, chiamò le guardie e disse:



- Rinchiudete questi furfanti nelle segrete.



Mi sentii gelare, perché le sue prigioni avevano una certa fama.



Non mi venne in mente niente da dire, o da fare. Ma non fu così per Sandy. Appena la guardia mi mise le mani addosso, ella alzò la sua vocina con la massima tranquillità e disse:



- In nome del cielo, sei pazza? Brami tu lo sterminio? Costui è il "Capo"!



Che bella idea fu! E così semplice! Eppure a me non sarebbe mai venuta in mente.



L'effetto su madama fu elettrico. Il suo viso si rischiarò: il suo sorriso, la sua grazia persuasiva e le sue moine riapparvero ma, nonostante ciò, non riuscì a nascondere del tutto il fatto che moriva di paura. E disse:



- Orsù, ascolta dunque la tua ancella! Come se una dotata di poteri quali i miei, potesse dire quel che ho detto a colui che ha vinto Merlino, se non per scherzo! In virtù dei miei incantesimi avevo previsto la tua venuta e ti ho riconosciuto appena sei entrato qui. Ti ho giocato questo tiro nella speranza di sorprenderti a fare sfoggio della tua arte. Pensavo che tu avresti arso le guardie con le fiamme e ridotti i loro corpi in cenere sul posto meraviglia questa di gran lunga superiore alla mia abilità.



Da molto tempo sono curiosa di vederla.



Le guardie erano meno curiose e se ne andarono svelte, non appena ne ebbero il permesso.





















Capitolo 18









UN BANCHETTO REALE









Morgana, vedendomi pacifico e senza risentimento, senza dubbio pensò che mi fossi lasciato ingannare dalle sue parole. Infatti ogni suo timore scomparve e ben presto divenne talmente insistente perché io dessi spettacolo e uccidessi qualcuno, che la cosa cominciò ad essere imbarazzante. Tuttavia, con mio sollievo, di lì a poco fu interrotta dalla chiamata alla preghiera. Devo dire in favore dei nobili che per quanto fossero tiranni, assassini, rapaci e moralmente corrotti, essi erano profondamente religiosi.



Niente poteva distoglierli dall'adempimento regolare e fedele delle pratiche religiose imposte dalla Chiesa. Più di una volta avevo visto un nobile che, dopo aver sopraffatto il suo nemico, si era fermato a pregare prima di tagliargli la gola. Più di una volta avevo visto un nobile che, dopo aver attirato in un'imboscata e spedito all'altro mondo il suo nemico, si era ritirato nel più vicino santuario a rendere umilmente grazie al cielo.



Dopo le preghiere ci fu un banchetto in una grande sala illuminata da centinaia di lampade a sego: ogni cosa era bella e fastosa, come si conveniva alla regale nobiltà degli ospiti. A capo della sala, sopra un palco rialzato, c'era la tavola del re, della regina e del loro figlio, il principe Uwaine. Di qui si stendeva lungo il salone, senza alcun rialzo, la tavola comune. Qui, al posto d'onore sedevano i nobili, nei posti meno importanti sedevano i funzionari subalterni della casa, con i loro principali dipendenti: era un bellissimo spettacolo. In una galleria, una banda composta di cembali, corni, arpe e altri orrori, aprì le manifestazioni con qualcosa che sembrava la brutta copia o l'originale agonia del lamento noto nei secoli futuri come "Nelle dolci braccia degli angeli". Era nuovo e avrebbe avuto bisogno di altre prove. Non so bene per quale ragione, la regina fece impiccare il compositore, dopo pranzo.



Dopo questa musica, il prete che stava in piedi dietro la tavola reale recitò un nobile e lungo ringraziamento in qualcosa che sembrava latino. Poi l'esercito dei servitori ruppe le file e si lanciò, prese a correre, a volteggiare, a portar roba avanti e indietro e il festino ebbe inizio. Non una parola, da nessuna parte. Le file di mascelle si aprivano e si chiudevano in unisono con un rumore che era simile al rombo attutito di un macchinario sotterraneo.



Quel saccheggio durò un'ora e mezza e incredibile fu lo scempio delle vivande. Del piatto forte del banchetto, l'enorme cinghiale che all'inizio giaceva disteso in tutta la sua imponente e maestosa interezza, non rimaneva più nulla; e quello non era che un esempio di quanto era accaduto a tutte le altre portate.



Quando arrivarono i dolci, si cominciò a bere in grande abbondanza e a parlare. Galloni e galloni di vino e idromele sparivano uno dopo l'altro, e tutti - uomini e donne cominciarono a sentire un senso di benessere, di allegria. Un po' alla volta, diventarono alquanto rumorosi.



Gli uomini raccontavano aneddoti terribili e tutta la compagnia scoppiava in risate fragorose che facevano tremare la fortezza.



Verso mezzanotte erano tutti sfiniti, indolenziti dal gran ridere e, come di regola, ubriachi. Parecchi erano tramortiti sotto la tavola.



A un tratto, proprio mentre il prete alzava le mani e le teste ancora coscienti si inchinavano in reverente attesa della benedizione, apparve in fondo al salone una vecchia dama, curva e bianca di capelli, che si appoggiava ad un bastone. Lo sollevò e puntandolo verso la regina gridò:



- Lo sdegno e la maledizione di Dio ricadano su te, donna senza cuore, che hai ucciso il mio innocente nipote e straziato questo vecchio cuore che non aveva figli, né amici, né sostegno, né conforto al mondo, all'infuori di lui.



Tutti si segnarono in preda al panico, perché una maledizione era qualcosa di tremendo per quella gente. Ma la regina scattò in piedi con fare maestoso, con una luce di morte nello sguardo e per tutta risposta lanciò questo ordine spietato:



-Prendetela! Mandatela al rogo!



Le guardie si mossero pronte a ubbidire. Era una vergogna, una cosa crudele da vedere. Che cosa si poteva fare? Sandy mi lanciò un'occhiata ed io capii che le era venuta un'altra ispirazione.



Dissi:



- Fa', come vuoi.



In un attimo Sandy fu in piedi di fronte alla regina. Ella mi indicò e disse:



- Madama, "egli" dice che ciò non si farà. Annullate il comando oppure egli farà scomparire il castello che svanirà nell'aria come un sogno!



Accidenti! Che impegno pazzesco da mantenere! E se la regina... Ma la mia costernazione ebbe breve durata e ogni timore svanì, poiché la regina, in preda a smarrimento, non mostrò nessun segno di resistenza, ma annullò con un cenno l'ordine dato e ricadde sul suo seggio. Quando lo toccò, i fumi del vino erano svaniti e lo stesso era accaduto a molti dei presenti. L'assemblea si alzò e infischiandosene delle cerimonie si precipitò verso le porte come una turba in tumulto, rovesciando seggiole, rompendo stoviglie, trascinandosi, lottando, dando spallate, accalcandosi, tutto pur di uscire prima che io cambiassi idea e con un soffio facessi svanire il castello nello sconfinato, oscuro vuoto dello spazio.



Ebbene, erano proprio una massa di superstiziosi.



Era piuttosto tardi e io ero stanco e avevo un gran sonno.



Rimpiangevo di non essermene andato a letto quando ne avevo avuto l'occasione. Ora dovevo resistere fino alla fine, non c'era via di scampo. E così la voce squillante della regina seguitò a risuonare nel profondo e spettrale silenzio del castello addormentato, finché di lì a poco giunse, come se uscisse da una caverna sotto di noi, un suono lontano, simile a un urlo soffocato, con un tono così angoscioso che mi fece accapponare la pelle. La regina si interruppe e i suoi occhi s'illuminarono di piacere. Inclinò da un lato il grazioso capo, come fa un uccellino quando sta in ascolto.



Il suono si fece strada nel silenzio ancora una volta.



- Che cos'è? - domandai.



- E' davvero un'anima ostinata e resiste a lungo. Sono ormai molte ore.



-Resiste a che cosa?



- Al cavalletto. Vieni, vedrai un lieto spettacolo. E se non svela il suo segreto ora, lo vedremo fare a pezzi.



Che dolce e delicata demone era costei e com'era composta e serena! Guidati da guardie armate che portavano torce ardenti, passammo attraverso corridoi echeggianti e giù per scale di pietra umide e gocciolanti che avevano odor di muffa e di chiuso secolare. Era un gelido, misterioso, interminabile cammino, che le chiacchiere della maga sulla vittima e sul suo delitto, non rendevano certo più breve o più allegro. L'uomo era stato accusato da un informatore anonimo di avere ucciso un cervo delle riserve reali. Io dissi:



- Una testimonianza anonima non è un'accusa molto attendibile Altezza. Sarebbe più leale mettere a confronto l'accusato con l'accusatore.



- Non ci avevo pensato, poiché non era cosa importante. Ma anche se avessi voluto non lo avrei potuto fare, perché l'accusatore venne di notte, mascherato, parlò con il guardiacaccia e se ne andò via immediatamente. Così il guardiacaccia non lo conosce affatto.



- Allora questo sconosciuto è la sola persona che abbia visto uccidere il cervo?



- In verità, nessuno vide l'uccisione, ma questo sconosciuto vide questo miserabile scellerato vicino al luogo dove giaceva il cervo e con vero leale zelo venne a denunciarlo al guardiacaccia.



- Così anche lo sconosciuto era vicino al cervo ucciso? Non è possibile che sia stato lui ad ucciderlo? Il suo zelo leale appare un po' sospetto. Ma perché, Vostra Altezza, ha fatto mettere il prigioniero alla tortura?



- Altrimenti egli non confesserà e allora l'anima sua sarà dannata. Per il suo delitto, la legge vuole che egli paghi con la vita e certo io avrò cura che egli paghi, ma metterei in pericolo la mia stessa anima se lo lasciassi morire senza confessione e senza assoluzione. No, dovrei essere pazza e gettarmi nell'inferno per la sua comodità.



- Ma, Altezza, supponiamo che non abbia niente da confessare?



- Quanto a ciò, lo sapremo presto. Se io lo torturo a morte ed egli non confessa, ciò mostrerà che egli davvero non aveva nulla da confessare. Ammetterai che questo è innegabile. Allora io non sarò dannata per un reo non confesso che non aveva nulla da confessare e, quindi, sarò salva.



Era il caparbio assurdo modo di ragionare dell'epoca. Era inutile discutere con lei. Gli argomenti non hanno alcun effetto contro l'educazione pietrificata.



Come entrammo nella cella della tortura mi si presentò una scena che non mi uscirà più dalla mente. Un giovane gigante del luogo, sui trent'anni, giaceva supino sul cavalletto con i polsi e le caviglie legati a corde collegate ad argani alle due estremità.



Non vi era ombra di colore su quel volto; i lineamenti erano contorti e rigidi e la fronte era imperlata di sudore. Ai lati, due preti erano chini su di lui. Il boia gli stava vicino. C'erano delle guardie di servizio; torce fumose erano infilate in cavità lungo i muri. In un angolo stava accovacciata una povera giovane creatura con il viso stravolto dal dolore, con un'espressione selvaggia negli occhi di animale braccato e con un bambino addormentato in grembo.



Nel momento in cui varcavamo la soglia, il boia dette un giro al suo strumento di tortura, che strappò un urlo sia al prigioniero che alla donna. Ma io cacciai un grido e il boia allentò subito la stretta senza aspettare di vedere chi aveva gridato. Non potevo permettere che quell'atrocità continuasse; sarei morto solo a vederla.



Chiesi alla regina di consentirmi di fare allontanare tutti quanti dalla cella e di parlare da solo con il prigioniero e quando ella stava per protestare, le parlai a voce bassa e dissi che non volevo fare una scena davanti ai suoi servi, ma che si doveva fare a modo mio, perché io ero il rappresentante del re Artù, e parlavo in suo nome.



Ella si rese conto che doveva cedere e disse:



- Per tutte le cose, farete come questo signore comanderà. Egli è "Il Capo".



Le guardie della regina si misero in fila e uscirono con lei e si allontanarono marciando con i portatori di torce, ridestando gli echi delle gallerie cavernose con il rumore cadenzato dei loro passi. Ordinai di togliere il prigioniero dal cavalletto, di adagiarlo sul suo letto e di applicare dei medicamenti alle ferite. Poi gli feci bere qualche sorso di vino. La donna si avvicinò strisciando e rimase a guardarlo, intenta, con tenerezza e al tempo stesso con timore.



- Oh, Signore - dissi - accarezzalo, figliola, se vuoi. Fa' tutto quello che vuoi: non badare a me.



I suoi occhi esprimevano gratitudine come quelli di un animale quando riceve un atto di bontà e lo capisce. Subito si liberò del bambino e poggiò la sua guancia contro quella del marito, mentre le sue mani gli accarezzavano i capelli e lacrime di gioia le sgorgavano dagli occhi. L'uomo si riprese e carezzò con lo sguardo la moglie, dato che non poteva fare nulla di più. Pensai che fosse giunto il momento di far sgombrare la tana e così feci uscire tutti, tranne quella famiglia. Poi dissi:



- Ora, amico mio, raccontami la tua versione della storia; l'altra la conosco già.



L'uomo scosse la testa in segno di rifiuto. Ma la donna sembrò contenta della mia proposta, almeno così mi parve. E continuai:



- Tu mi conosci di nome?



- Sì, tutti conoscono il tuo nome nei reami di Artù.



- Se la mia fama è arrivata a te nel modo giusto e corretto, non dovresti aver paura di parlare. La donna intervenne concitatamente:



- Ah, mio buon signore, convincilo tu. Tu che puoi, se vuoi. Ah, quanto egli soffre, e per me, per me! Come posso sopportarlo?



Vorrei vederlo morire, di una morte dolce e rapida. Oh, mio Ugo, non posso sopportare questa morte!



E si mise a singhiozzare e a strisciare ai miei piedi, sempre implorando. Implorando che cosa? La morte dell'uomo? Non riuscivo proprio a raccapezzarmi. Ma Ugo la interruppe e disse:



- Calmati! Tu non sai quel che chiedi. Dovrei forse far morire di fame coloro che amo per guadagnarmi una morte dolce? Credevo che tu mi conoscessi meglio.



- Insomma, - dissi io - non riesco proprio a capire. E' un enigma.



Ora...



- Ah, mio dolce signore, se tu soltanto volessi persuaderlo!



Considera come queste sue torture mi feriscono! Ed egli non vuol parlare! Mentre il rimedio, il sollievo che sono in una rapida e beata morte...



- Ma che stai farneticando? Egli uscirà di qui libero, sano salvo, non deve morire.



Il volto pallido dell'uomo si illuminò e la donna si slanciò verso di me in una sorprendente esplosione di gioia, gridando:



- E' salvo! Perché il re ha parlato per bocca del suo ministro.



Artù il re la cui parola è oro!



- Dunque, ora credete che ci si può fidare di me, dopo tutto.



Perché non vi siete fidati prima?



- Chi dubitava? Non io, davvero, né lei.



- Malgrado tutto non sono ancora certo di aver capito bene. Tu hai resistito alla tortura senza confessare, e ciò dimostra nel modo più evidente, anche al cervello più ottuso, che non avevi niente da confessare...



- Io, messere? Ma come? Fui io ad uccidere il cervo!



- Sei stato tu? Oh, Dio, questa è la storia più complicata che mai...



- Dolce signore, io l'ho supplicato in ginocchio di confessare, ma...



- Tu? La cosa diventa sempre più confusa. E perché volevi che lo facesse?



- Perché ciò gli avrebbe concesso una morte rapida e gli avrebbe risparmiato tante sofferenze.



- Be', sì, tutto ciò è ragionevole. Ma lui non voleva una morte rapida.



- Lui? Oh, sì, certamente la desiderava.



- E allora, perché mai non ha confessato?



- Ah, dolce messere, e lasciare la mia sposa e il mio bambino senza pane e senza tetto?



- Oh cuore generoso, ora capisco! La legge spietata spoglia dei beni il reo confesso e riduce alla miseria la vedova e gli orfani.



Ti potevano torturare a morte, ma, senza prove e senza confessione, non potevano derubare tua moglie e il tuo bambino. Tu li hai affrontati da uomo. E tu, moglie e donna leale quale sei avresti voluto la sua liberazione dalla tortura a costo di pagarla con una lenta morte per fame... Davvero ci si sente umiliati quando si pensa a quello che può fare il tuo sesso, quando si tratta di sacrificio. Vi prenoto tutti e due per la mia colonia; vi ci troverete bene. E' una Fabbrica dove mi propongo di trasformare degli automi brancolanti, sfiancati dal lavoro, in altrettanti "uomini".





















Capitolo 19



NELLE SEGRETE DELLA REGINA









Così, sistemai tutto quanto e feci rimandare quell'uomo a casa sua.



La regina rimase molto offesa quando, la mattina seguente, venne a sapere che non avrebbe avuto né la vita di Ugo, né la sua proprietà. Ma io le dissi che doveva rassegnarsi a portare quella croce, poiché, mentre per legge ella aveva certamente diritto sia alla vita sia alla proprietà di quell'uomo, c'erano delle circostanze molto attenuanti per cui, in nome di Artù il re, io lo avevo perdonato. Il cervo rovinava i campi dell'uomo ed egli l'aveva ucciso in un impeto d'ira, e non per guadagno personale.



Poi l'aveva trasportato nella foresta reale, sperando così di rendere impossibile la scoperta del colpevole. Al diavolo! Non riuscivo a farle capire che un impeto d'ira è una circostanza attenuante nell'uccisione di selvaggina, o di una persona, e così rinunciai e lasciai che tenesse il broncio. Ero sicuro che sarei riuscito a farglielo capire, facendole notare come la sua stessa collera, nel caso del paggio, avesse attenuato il suo delitto.



- Delitto! - esclamò la regina - Ma che dici! Delitto, in fede mia! Io "pagherò" per lui!



Era inutile discutere con lei. L'educazione, l'educazione è tutto; l'educazione è tutto in una persona. Parliamo di natura: è una follia. Non esiste quella cosa che noi chiamiamo natura, ciò che noi definiamo con questo ingannevole nome è semplicemente ereditarietà ed educazione. Non abbiamo pensieri nostri, opinioni nostre. Ci vengono trasmessi, impressi con l'educazione.



Accidenti, la sua intelligenza era buona, aveva cervello a sufficienza, ma la sua educazione aveva fatto di lei un'asina, almeno dal punto di vista di molti secoli dopo. Uccidere il paggio non era un delitto, era un suo diritto. Ella era il risultato di generazioni educate nella convinzione, indiscussa e incrollabile, che la legge che le permetteva di uccidere un suo suddito quando le pareva, era perfettamente giusta e retta. Alcune leggi invece erano troppo ingiuste, veramente troppo malvagie. Un padrone poteva uccidere il proprio schiavo senza motivo, semplicemente per dispetto o per malvagità o per passatempo, proprio come abbiamo visto fare da quella testa coronata con il "suo" schiavo. Un gentiluomo poteva uccidere un libero cittadino e pagare per lui, in contanti o in natura. Un nobile poteva uccidere un altro nobile senza spese, per quanto riguardava la legge, ma doveva aspettarsi rappresaglie dello stesso tipo. Chiunque poteva uccidere qualcuno.



Il cittadino comune e lo schiavo, invece non avevano questi privilegi. Se uccidevano, era omicidio, e la legge non tollerava l'omicidio. Si sbarazzavano di chi tentava l'esperimento e anche della sua famiglia, se egli aveva assassinato qualcuno che apparteneva alla nobiltà. Ne avevo ormai abbastanza di quel luogo spaventoso.



Ma c'era qualcosa che volevo fare prima di andarmene, anche se era una faccenda spiacevole e detestavo doverci mettere mano. Mi tenne preoccupato per tutta la mattina. Alla fine mi feci coraggio e sottoposi la mia richiesta a Sua Altezza Reale. Dissi che stavo facendo uno svuotamento generale delle prigioni di Camelot e dei castelli vicini e che, con il suo permesso, avrei avuto piacere di vedere la sua collezione, vale a dire i suoi prigionieri. Ella fece resistenza, ma questo me l'aspettavo. Ma alla fine acconsentì. Anche questo mi aspettavo ma non così presto. E con ciò ebbe fine il mio disagio. La regina chiamò le guardie e i portatori di torce e andammo giù nelle segrete. Queste erano situate sotto le fondamenta del castello e per lo più erano piccole celle scavate nella roccia viva. Alcune celle erano del tutto prive di luce. In una di esse c'era una donna coperta di luridi cenci, accovacciata a terra. Non rispose a una sola domanda e non pronunciò una sola parola, si limitò a guardare in su un paio di volte attraverso una ragnatela di capelli arruffati, come se si volesse rendere conto della novità che veniva a turbare con suoni umani e con luci il vacuo monotono sogno che era diventata la sua vita. Poi rimase seduta, curva, con le dita incrostate di sporcizia, intrecciate e abbandonate in grembo, e non diede altri segni di vita. Quel povero mucchio di ossa era apparentemente una donna di mezza età, ma solo apparentemente. Era là dentro da nove anni e ne aveva diciotto quando vi era entrata. Era una donna del popolo ed era stata mandata lì dentro la sera delle sue nozze da ser Breuse Sans Pitié, un signorotto dei dintorni, perché a quel signore ella aveva rifiutato ciò che gli storici moderni chiamano "le droit du seigneur". Inoltre, aveva opposto violenza a violenza e aveva versato un quarto di pinta di quel sangue quasi sacro. A quel punto il giovane marito era intervenuto, credendo la vita della sua sposa in pericolo, e aveva scaraventato il nobiluomo nel salotto, in mezzo agli umili e tremanti invitati alle nozze e l'aveva lasciato là, sbalordito da quell'inaspettato trattamento e implacabilmente inasprito contro la sposa e lo sposo. Il signore, che aveva le celle delle segrete stipate, aveva chiesto alla regina di ospitare i suoi due criminali, e da allora erano rimasti in questa prigione. Quando vi giunsero non era trascorsa neppure un'ora dal loro delitto e dal quel momento non si erano più rivisti. Erano rintanati lì dentro come rospi nella stessa roccia; avevano passato nove anni nelle tenebre a venti metri l'uno dall'altro, e nessuno dei due sapeva se l'altro era vivo o morto.



Per i primi anni l'unica loro domanda chiesta con suppliche e lacrime, era stata: "E' vivo?", "E' viva?". Ma non avevano mai ottenuto risposta. E alla fine quella domanda non era più stata fatta né nessun'altra.



Dopo aver sentito tutto ciò, volli vedere l'uomo. Aveva trentaquattro anni e ne dimostrava sessanta. Stava seduto su un blocco squadrato di pietra, il capo chino sul petto, le braccia poggiate sulle ginocchia, i lunghi capelli pendenti sul viso come una frangia, borbottava fra sé e sé. Alzò il viso e ci guardò lentamente da capo a piedi, con aria ottusa e indifferente, sbattendo le palpebre, infastidito dalla luce delle torce. Poi lasciò ricadere il capo e riprese a mormorare tra sé senza più badare a noi. Ai polsi e alle caviglie aveva delle cicatrici, vecchie ferite ormai rimarginate. Assicurata alla pietra su cui sedeva c'era una catena collegata a manette e ceppi; ma questo apparato giaceva abbandonato ricoperto da uno spesso strato di ruggine. Le catene non sono più necessarie quando lo spirito ha abbandonato il prigioniero.



Non riuscii a scuotere quell'uomo, e allora decisi che lo avremmo portato da lei per vedere... Dalla sposa che una volta era stata per lui la cosa più bella della terra. La vista di lei avrebbe fatto palpitare il suo sangue intorpidito, la vista di lei...



Ma fu una delusione. Rimasero tutti e due seduti a terra a guardarsi in viso con un vago stupore e con una specie di debole curiosità animalesca, poi dimenticarono la presenza l'uno dell'altra e abbassarono lo sguardo. Si vedeva che erano di nuovo lontani, vaganti in qualche remota terra di sogni e di ombre. Li feci liberare e li rimandai ai loro amici. Questo non fece molto piacere alla regina. Non che avesse alcun interesse personale nella faccenda, ma pensava che fosse una mancanza di riguardo nei confronti di ser Breuse Sans Pitié. Tuttavia le assicurai che se egli avesse considerato il fatto intollerabile, avrei trovato io il modo di farglielo tollerare.



Tirai fuori da quella spaventosa topaia quarantasette prigionieri.



Dio mio! Per quali insignificanti reati la maggior parte di quei quarantasette uomini e donne erano stati rinchiusi là dentro.



Anzi, alcuni erano lì senza aver commesso nessuna trasgressione precisa, ma soltanto per soddisfare la malvagità di qualcuno, magari un semplice amico della regina. Il delitto dell'ultimo prigioniero arrivato consisteva in una piccola osservazione che aveva fatto. Aveva detto che, a suo parere, gli uomini erano su per giù tutti uguali e che un uomo valeva l'altro, a parte gli abiti. Aveva detto che, a suo parere, se avessero denudato tutta la popolazione e avessero mandato in giro tra la folla uno straniero, questi non sarebbe riuscito a distinguere un re da un medicante, né un duca da un portiere d'albergo. A quel che sembrava, questo era un uomo il cui cervello non era stato ridotto in poltiglia da un'educazione idiota. Lo feci rimettere in libertà e lo mandai alla Fabbrica.



Pensate, fra quei quarantasette prigionieri ce n'erano cinque di cui non si sapevano più né i nomi, né le colpe, né le date d'incarcerazione!



Una donna e quattro uomini, tutti d'età avanzata, curvi, raggrinziti, e svaniti di mente. Essi stessi avevano dimenticato da molto tempo quei particolari o, perlomeno, avevano in proposito delle vaghe idee, nulla di preciso. L'unica cosa che poteva essere provata fu che nessuno dei cinque vedeva la luce del giorno da almeno trentacinque anni. Il re e la regina non sapevano niente sul conto di quelle povere creature, se non che erano lasciti, beni ereditati, insieme al trono, dalla ditta precedente. Nulla era stato trasmesso della loro storia, solo le loro persone fisiche e così i nuovi proprietari li avevano considerati di nessun valore e non avevano provato per loro alcun interesse.



Chiesi alla regina:



- Ma allora, perché mai non li avete rimessi in libertà?



La domanda era sconcertante. Ella non sapeva "perché" non lo aveva fatto; la cosa non le era mai venuta in mente. Ora mi appariva chiaro, data la sua educazione, come quei prigionieri ereditati non fossero altro, per lei, che proprietà, né più né meno. Ebbene, quando si ereditano dei beni, non si pensa di buttarli via anche se non si apprezzano.



Quando portai la mia processione di pipistrelli umani all'aperto, nella luce splendente del sole pomeridiano, dopo averli bendati per proteggere i loro occhi da tanto tempo disabituati alla luce, era uno spettacolo che meritava di essere visto. Scheletri, spaventapasseri, folletti, spauracchi patetici, tutti quanti.



Mormorai distrattamente:



- Vorrei poterli fotografare!



Vi sarà certamente capitato d'incontrare quel tipo di persone che non vuole mai ammettere di non conoscere il significato di una parola nuova. Più sono ignoranti, tanto più sono penosamente sicuri nel far finta di avervi capito. La regina apparteneva proprio a questo genere e commetteva sempre i più grossolani sbagli per questa ragione. Ebbe un attimo di esitazione, poi il suo viso s'illuminò d'improvvisa comprensione e disse che l'avrebbe fatto lei per me. Pensai fra me: "Lei? Ma che cosa può sapere sulla fotografia?".



Ma non era quello il momento adatto per pensare. Quando mi guardai attorno vidi che si stava incamminando verso il gruppo con una scure in mano!



Be', era davvero una donna bizzarra quella fata Morgana. Ho visto molti tipi di donne nella mia vita, ma ella le superava tutte per varietà. E com'era tipico del suo carattere questo episodio. Ella non ne sapeva più di un cavallo sul modo di fotografare, ma nel dubbio, era proprio nel suo stile provarsi a farlo con una scure.





















Capitolo 20









IL CASTELLO DELL'ORCO









Il giorno seguente io e Sandy riprendemmo il cammino, allegri e mattinieri. Era così bello aprire i polmoni e respirare interi barili di aria benedetta da Dio, pura, fresca di rugiada, profumata di bosco, dopo essersi sentiti soffocare il corpo e l'anima per due giorni e due notti dal fetore fisico e morale di quell'intollerabile vecchio covo di avvoltoi! Parlo per me, perché per Sandy, abituata fin dalla nascita alla vita dell'alta società, quel luogo andava benissimo ed era più che piacevole.



Fra le 6 e le 9 percorremmo una decina di miglia, che era molto per un cavallo con triplo carico: uomo, donna e armatura. Poi ci fermammo per una lunga siesta sotto l'ombra degli alberi, vicino a un limpido ruscello.



Ripreso il cammino, verso la metà del pomeriggio incontrammo, alle porte di un povero villaggio, uno dei cinque vecchi liberati dalle segrete, la sera prima. Si stava godendo l'affetto dei parenti e degli amici che non vedeva da cinquant'anni. Intorno a lui ad accarezzarlo c'erano anche i suoi diretti discendenti che non aveva mai visto prima di allora; ma per lui erano tutti estranei, la sua memoria era svanita e la sua mente intorpidita. Pareva incredibile che un uomo avesse potuto resistere per mezzo secolo rinchiuso in un buco al buio come un topo, ma c'erano lì la sua vecchia moglie e alcuni vecchi compagni a testimoniarlo. Lo ricordavano com'era nella freschezza e nel pieno vigore della sua virilità, quando aveva baciato il suo bambino e lo aveva affidato alle mani della madre per poi scomparire in quel lungo oblio. La gente del castello non aveva saputo dire quanto tempo quell'uomo fosse rimasto rinchiuso là dentro per una trasgressione non registrata e dimenticata ma lo sapevano la sua vecchia moglie e sua figlia.



Era una strana situazione. Ma non è per questa ragione che ho dato spazio a questo episodio, bensì per via di un fatto che mi parve ancora più strano. Vale a dire che quella dolorosa storia non aveva provocato in quella gente vilipesa nessuna ribellione contro gli oppressori. Erano stati eredi e sudditi della crudeltà e dell'oltraggio da tanto tempo che niente poteva scuoterli se non un atto di bontà. Sì, questa era davvero una singolare rivelazione: l'abisso di schiavitù in cui era sprofondato questo popolo. Il loro essere era ridotto a un monotono, inerte livello di pazienza, rassegnazione e muta accettazione senza lamenti, di qualsiasi cosa potesse accadere loro in questa vita. Anche la loro immaginazione era morta. Quando si può dire questo di un uomo, significa che ha toccato il fondo; non può scendere più in basso.



Due giorni dopo, verso mezzogiorno, Sandy cominciò a dar segni di agitazione e di febbrile attesa. Disse che ci stavamo avvicinando al castello dell'orco. L'annuncio mi colse di sorpresa e m'inquietò. L'oggetto della nostra ricerca mi era a poco a poco passato di mente. Questa improvvisa rievocazione lo fece apparire per un momento come una cosa vera e sensazionale e destò in me un vivo interesse. L'eccitazione di Sandy cresceva di momento in momento, e anche la mia, perché questo genere di cose è contagioso. Il cuore cominciò a battermi forte. Di lì a poco, Sandy si lasciò scivolare giù da cavallo, facendomi cenno di fermarmi e avanzò strisciando furtiva, con il capo chino fin quasi alle ginocchia, in direzione di alcuni cespugli sul ciglio di un declivio. I battiti del cuore si fecero più forti e più frequenti.



E continuarono così finché ella raggiunse il posto di osservazione e lanciò un'occhiata oltre il declivio. Io la raggiunsi strisciando sulle ginocchia. I suoi occhi ora scintillavano, mentre mi indicava col dito la direzione e disse in un bisbiglio:



- Il castello! Il castello! Guarda come si erge in lontananza!



Che gradita delusione provai! Dissi:



- Castello? Ma non è che un porcile; un porcile con un recinto di canne.



Sandy apparve sorpresa e sgomenta. L'animazione scomparve dal suo viso e rimase per qualche istante in silenzio, immersa nei suoi pensieri. Poi:



- Non era incantato prima d'ora - disse in tono meditabondo, come parlando fra sé. - E come appare strano e terribile questo prodigio, alla percezione di uno esso appare incantato e di miserando aspetto, e tuttavia alla percezione di un altro non è incantato e non ha subito cambiamenti, ma spicca solido e maestoso, cinto dal suo fossato, con i suoi stendardi sulle torri ondeggianti nel cielo azzurro. E che Dio ci protegga, come fa male al cuore vedere quelle graziose prigioniere e l'impronta del dolore sui loro dolci volti! Abbiamo indugiato troppo a lungo e siamo da biasimare.



Compresi l'imbeccata. Il castello era incantato ai "miei" occhi, ma non ai suoi. Sarebbe stato tempo sprecato cercare di toglierle quell'illusione, non ci sarei riuscito. Dovevo soltanto assecondarla. Quindi risposi:



- E' un caso comune: una cosa appare incantata agli occhi di una persona e conserva la propria forma agli occhi di un'altra. Tu ne hai certo sentito parlare prima d'ora, Sandy, anche se non ti era mai capitato di farne l'esperienza. Ma non c'è niente di male.



Anzi è un fortuna che sia così. Se queste dame sembrassero maiali a tutti quanti, anche a se stesse, allora bisognerebbe rompere l'incantesimo, cosa forse impossibile se non si riuscisse a scoprire il procedimento esatto della magia. E' rischioso anche perché tentando di sciogliere un incantesimo senza conoscerne la chiave giusta ci si potrebbe sbagliare e mutare i maiali in cani e i cani in gatti e i gatti in topi e così via. Ma qui, per fortuna, soltanto i miei occhi sono sotto l'effetto dell'incantesimo e perciò non ha alcuna importanza spezzarlo. Queste signore restano signore per te, per se stesse, e per tutti gli altri. Del resto non avranno da soffrire in alcun modo della mia delusione, perché quando io so che ciò che mi appare maiale è una signora, questo per me è sufficiente. So benissimo come trattarla.



- Grazie, o dolce mio signore, tu parli come un angelo. E sono certa che le libererai, perché tu sei bramoso di grandi imprese e sei cavaliere tanto forte di braccio e tanto audace nel pensiero e nell'azione quanto nessun altro cavaliere vivente.



- Non lascerò una sola principessa nel porcile, Sandy. Sono forse quei tre laggiù che al mio sguardo turbato paiono poveri guardiani di porci mezzi morti di fame, sono...



- Gli orchi? Anch'essi trasformati? E' davvero un prodigio. Adesso ho paura. Come potrai tu colpire con sicura mira se cinque dei loro nove cubiti di statura sono a te invisibili? Oh, sii cauto, dolce messere: questa impresa è assai più pericolosa di quanto potessi immaginare.



- Sta' tranquilla, Sandy. Quel che mi occorre sapere è quanta parte di un orco è invisibile; allora saprò dove sono le sue viscere. Non aver paura, me la sbrigherò presto con questi imbroglioni. Resta dove sei.



Lasciai Sandy là, in ginocchio e pallida come un cadavere, ma piena di coraggio e di speranza, mi diressi a cavallo giù verso il recinto e cominciai a mercanteggiare con i porcari. Mi guadagnai la loro gratitudine acquistando tutti i maiali per la cifra tonda di sedici pennies, che era un prezzo alquanto superiore alle ultime quotazioni. Ero arrivato appena in tempo, perché all'indomani la Chiesa, il signore del castello e tutti gli altri esattori delle tasse sarebbero arrivati e avrebbero fatto razzia, lasciando i porcari a corto di porci e Sandy senza principesse.



Mandai via i tre uomini, poi aprii il porcile e feci segno a Sandy di avvicinarsi. Ella si precipitò con la rapidità del fuoco in una prateria. E quando la vidi gettarsi su quei maiali con lacrime di gioia che le scendevano sulle guance e stringerseli al cuore e baciarli e accarezzarli chiamandoli rispettosamente con grandiosi titoli principeschi, mi vergognai di lei, mi vergognai della razza umana.



Dovemmo guidare quegli animali verso casa per dieci miglia; mai ci furono dame più capricciose e ostinate. Non volevano seguire nessuna via, nessun sentiero. Scappavano attraverso i cespugli sui lati della strada e fuggivano in tutte le direzioni, su per le rocce, per i colli, nei posti più impervi che riuscivano a trovare.



E non dovevano essere né picchiate, né trattate rudemente. Sandy non sopportava di vederle trattare in modo non conforme al loro rango. La più turbolenta fra le vecchie scrofe del branco doveva essere chiamata Milady e Vostra Altezza come tutte le altre. E' fastidioso e difficile correre all'inseguimento dei porci con l'armatura addosso. C'era una contessina con un anello di ferro al grugno che era un demonio di perversità. Mi fece fare una corsa di un'ora attraverso sentieri e ostacoli di ogni sorta, finché ci ritrovammo proprio al punto di partenza, senza aver progredito di un passo. Infine riuscii ad afferrarla per la coda e me la trascinai dietro mentre lanciava acutissime strida. Quando raggiunsi Sandy ella fu inorridita e disse che era estremamente indelicato trascinare una contessa per lo strascico.



Riuscimmo a ricondurre a casa i maiali proprio sull'imbrunire, perlomeno la maggior parte di essi. Mancavano la principessa Nerovens de Morganamore e due delle sue dame di compagnia, vale a dire miss Angela Bohum e madamigella Elaine Courtemains: la prima era una giovane scrofa nera con una stella bianca in fronte, la seconda una scrofa bruna con le zampe sottili. Mancavano inoltre all'appello varie semplici baronesse e volevo lasciarle perdere.



Ma no, tutta quella carne da salsicce doveva essere ritrovata.



Così, a questo scopo furono mandati in giro dei servitori con torce a perlustrare il bosco e le colline. Naturalmente tutto il branco fu sistemato in casa e, corpo di mille bombe, non avevo mai visto né sentito niente di simile. E neanche annusato niente di simile. Era come una irrefrenabile fuga di gas.





















Capitolo 21









I PELLEGRINI









Quando finalmente riuscii ad andare a letto, ero stanco morto: che delizia, che piacere distendersi e rilassare i muscoli tanto a lungo tesi!



Ma questo fu tutto il mio riposo, dormire era fuori discussione per il momento. Le corse e le strida della nobiltà su e giù per le sale e per i corridoi erano un vero pandemonio e mi tennero ben sveglio. Essendo sveglio, i miei pensieri erano in piena attività e pensavo soprattutto alla stramba illusione di Sandy. Ecco, una persona tanto sana di mente, dal mio punto di vista, si comportava come una pazza. Santo cielo, il potere dell'educazione!



Dell'ambiente! Dell'istruzione! Può portare una persona a creder a qualsiasi cosa. Dovevo mettermi al posto di Sandy per convincermi che non era una pazza. Sì, e poi mettere lei al mio, per dimostrare quanto sia facile apparire pazzi a una persona che ha avuto un'educazione diversa dalla nostra. Se avessi detto a Sandy di aver visto una vettura che, senza incantesimi, filava a cinquanta miglia all'ora o di aver visto un uomo non dotato di poteri magici, entrare in un canestro, librarsi in volo e sparire tra le nubi, o di aver ascoltato i discorsi di una persona a parecchie centinaia di miglia di distanza, Sandy non avrebbe avuto dubbi, sarebbe stata certa della mia pazzia. Tutti intorno a lei credevano negli incantesimi: nessuno ne dubitava. Dubitare che un castello potesse essere trasformato in un porcile e i suoi occupanti in maiali sarebbe stato come se io, fra i miei concittadini del Connecticut, avessi messo in dubbio la realtà del telefono e le sue meraviglie e, in entrambi i casi, il dubbio sarebbe stato la prova certa di una mente malata, di una ragione sconvolta. Sì, Sandy era sana di mente, questo bisognava ammetterlo. Se anch'io volevo apparire sano a lei, dovevo tenere per me le mie superstizioni sulle locomotive, gli aerostati, i telefoni, che non erano né magici né miracolosi. E inoltre, io credevo che il mondo non fosse piatto e che non avesse sotto dei pilastri a sorreggerlo, né un cupola sopra per proteggerlo dall'universo d'acqua che riempiva tutto lo spazio superiore. Ma dato che io ero la sola persona del reame afflitta da tali empie e criminali opinioni, riconoscevo che sarebbe stato saggio mantenere il silenzio anche a questo proposito, se non volevo, di colpo, essere evitato e allontanato da tutti come pazzo.



La mattina seguente Sandy radunò i maiali nella sala da pranzo e diede loro la colazione. Avrei potuto mangiare insieme ai maiali se fossi stato per nascita all'altezza del mio alto grado ufficiale; ma non era così e quindi accettai l'inevitabile affronto senza lagnarmi.



Io e Sandy facemmo colazione alla seconda tavola. La famiglia non era in casa. Chiesi:



- Quanti sono in famiglia, Sandy, e dove sono?



- Quale famiglia, mio buon signore?



- Diamine, questa famiglia, la tua.



- A dire il vero, non ti comprendo. Io non ho famiglia.



- Non hai famiglia? Ma come, Sandy, non è casa tua questa?



- Invero, come potrebbe essere ciò? Io non ho casa.



- Be', allora di chi è questa casa?



- Ah, ben volentieri te lo direi, se lo sapessi.



- Suvvia, non conosci neppure questa gente? Allora chi ci ha invitati qui?



- Nessuno ci ha invitati, ci siamo venuti.



- Ma, benedetta donna, questo è un comportamento davvero incredibile. La tua sfrontatezza mi lascia stupefatto. Noi entriamo qui tranquillamente in casa di un uomo, gliela riempiamo zeppa della sola nobiltà veramente preziosa che il sole abbia mai illuminato sulla terra e poi viene fuori che non sappiamo nemmeno il nome di quest'uomo. Come mai ti sei arrischiata a prenderti questa stravagante libertà? Naturalmente io immaginavo che fosse casa tua. Cosa dirà quest'uomo?



- Cosa dirà? In fede mia che potrà dire se non ringraziarci?



- Ringraziarci di che?



Sul suo viso apparve un'espressione di confuso stupore.



- In verità tu confondi la mia mente con strane parole. Pensi forse che a uno della sua condizione possa capitare un'altra volta in vita sua l'onore di intrattenere una tale compagnia come quella da noi condotta qui ad onorare la sua dimora?



- Be', no, se le cose stanno così. No, possiamo scommettere che è la prima volta che gli capita una fortuna simile.



- E allora deve esserci grato per questo e manifestarlo con parole di riconoscenza e con la debita umiltà. Altrimenti sarebbe un cane, figlio di cani e progenitore di cani.



A mio parere la situazione era spiacevole, e poteva diventarlo ancora di più. Ci conveniva radunare i maiali e andarcene. Perciò dissi:



- Si sta facendo tardi, Sandy. E' ora di riunire la nobiltà e di mettersi in cammino.



- Per quale ragione, bel messere e Capo?



- Le portiamo a casa loro, no?



- Oh, ma sentite questa! Esse provengono da tutte le regioni della terra!



-Allora chi accompagnerà a casa l'aristocrazia?



- I loro amici. Essi verranno a cercarle dalle più lontane contrade della terra.



Questo fu come un fulmine a ciel sereno, quanto a sorpresa, ma il sollievo che mi arrecò fu come la grazia per un prigioniero.



Pensai che lei sarebbe rimasta a consegnare la merce.



- Bene, allora Sandy, ora che la nostra impresa è giunta a termine lietamente e con successo, io torno a casa a riferire. Se mai un'altra...



- Anch'io sono pronta. Vengo con te.



Questo era come revocare la grazia.



- Come? Vieni con me? E perché?



- Credi che io voglia tradire il mio cavaliere? Sarebbe un disonore. Non mi è lecito dipartire da te fino a quando, in cavalleresca tenzone sul campo, un avversario di forze superiori mi conquisterà lealmente e mi porterà lealmente con sé. Mi meriterei biasimo se pensassi che ciò mai avvenire possa.



"Eletto a vita" sospirai fra me. "Tanto vale che faccia di necessità virtù". E così dissi:



- E va bene, cominciamo a muoverci.



Mentre Sandy era andata a piangere le sue lacrime d'addio sui maiali, io regalai quell'aristocratico branco ai servi. E chiesi loro di prendere una scopa e di dare una pulitina qua e là, dove la nobiltà aveva alloggiato e passeggiato più a lungo.



La prima cosa in cui ci imbattemmo quel giorno fu una processione di pellegrini. Non andavano nella nostra direzione, ma noi ci unimmo a loro lo stesso, perché d'ora in ora cresceva in me la convinzione che, se volevo governare bene questo paese, dovevo mettermi al corrente di tutti gli aspetti della sua vita, e non per sentito dire, ma attraverso l'osservazione e il giudizio miei personali.



In questa compagnia di pellegrini c'erano uomini e dame, giovani e vecchi, persone di ogni condizione.



Era un branco di gente simpatica, cordiale, socievole: gente pia, lieta, allegra, candidamente grossolana e sboccata, senza malizia.



Ciò che essi consideravano come un'allegra storiella circolava continuamente e non causava maggior imbarazzo di quanto ne avrebbe causato nella migliore società inglese dodici secoli più tardi.



Scherzi di cattivo gusto scaturivano qua e là lungo il corteo e provocavano deliziati applausi. Qualche volta, quando un'osservazione brillante veniva fatta a una estremità della processione e cominciava il suo viaggio verso l'altro capo, si poteva seguire il suo avanzare dallo spumeggiante getto di risate che erompevano dalla sua prua, via via che questa fendeva le onde.



Sandy conosceva la meta e lo scopo di quel pellegrinaggio e mi mise al corrente:



- Essi viaggiano verso la Valle Santa per essere benedetti dai pii eremiti e per bere l'acqua miracolosa ed essere purificati dal peccato.



- Dove si trova questa sorgente?



- Si trova a due giorni di viaggio da qui, presso i confini della terra che si chiama il Regno del Cuculo.



- Dimmi, è un posto famoso?



- Oh, in verità lo è. Non ve n'è un altro che lo sia di più. Nei tempi antichi viveva colà un abate con i suoi monaci. Non c'era forse nessuno al mondo più santo di loro. Essi si dedicavano allo studio dei libri sacri, non parlavano tra di loro e nemmeno con altri, mangiavano erbe marce e niente altro, dormivano su un duro giaciglio e pregavano molto e non si lavavano mai. Inoltre portavano la stessa veste fino a che per vecchiaia e consunzione cadeva a brandelli dai loro corpi. Ben presto furono conosciuti nel mondo intero proprio per questa loro santa austerità e furono visitati e venerati da ricchi e poveri.



- Prosegui.



- Ma c'era sempre scarsità d'acqua. E allora, una volta il santo abate pregò e, in risposta, un grande getto d'acqua limpida scaturì miracolosamente in un luogo deserto. Poi quei deboli monaci furono tentati dal demonio e incessantemente assillarono l'abate con preghiere e suppliche affinché costruisse un bagno.



Quando egli si stancò e arrivò al punto di non poter resistere oltre, acconsentì e concesse ciò che essi chiedevano. Osserva ora che cosa significa abbandonare le vie della purezza e farsi sedurre dai piaceri mondani e peccaminosi. Questi monaci entrarono nel bagno e ne uscirono lavati, bianchi come neve, ed ecco, in quell'istante apparve il segno divino, in forma di miracoloso rimprovero: le oltraggiate acque cessarono di sgorgare, e scomparvero completamente! Preghiere, lacrime, mortificazioni della carne, tutto fu vano per indurre quell'acqua a sgorgare di nuovo. Persino le processioni, i sacrifici, le candele votive alla Vergine, ogni tentativo fallì, e tutti nel paese rimasero stupiti.



- Va avanti, Sandy.



- E così, una volta, dopo un anno e un giorno, il buon abate si arrese umilmente e distrusse il bagno. E "miracolo" la collera divina si placò: le acque presero a sgorgare di nuovo abbondanti e fino a questo giorno non hanno mai cessato di scorrere in tale generosa quantità.



- Allora immagino che da quel momento non si sia più lavato nessuno.



- Chi lo tentasse avrebbe il suo capestro per ricompensa. Sì, e ne avrebbe anche bisogno velocemente.



- La comunità ha prosperato da allora?



- Da quel giorno stesso. La fama del miracolo si sparse per tutte le terre. Da ogni contrada vennero monaci per unirsi a loro; venivano come vengono i pesci, a frotte. E il monastero aggiunse edificio a edificio. E vennero monache anche, e altre ancora e ancora altre. E costruirono altri edifici di fronte al monastero, fino a che quel convento divenne possente. E diventarono amici gli uni degli altri, unirono il loro amorevole lavoro e insieme costruirono un bel rifugio per i trovatelli.



- Tu avevi parlato di eremiti, Sandy.



- Questi si sono radunati colà dai confini della terra. Un eremita vive meglio dove ci sono moltitudini di pellegrini. Troverai che non ci manca alcun tipo di eremita.



Nel primo pomeriggio raggiungemmo un'altra processione di pellegrini, ma in questa non c'era allegria, né burle, né risate, né modi scherzosi, né gaia spensieratezza, sia fra i giovani sia fra i vecchi. Eppure erano presenti entrambe le età, la vecchiaia e la gioventù: vecchi dai capelli grigi, uomini e donne di mezza età, giovani mariti e giovani mogli, bambini e bambine e tre neonati. Neanche i bambini sorridevano: non c'era un solo volto in quel mezzo centinaio di persone che non fosse abbattuto e che non avesse impressa quell'espressione fissa di sconforto che nasce da prolungate e dure esperienze. Erano schiavi. Dai loro piedi serrati in ceppi e dalle mani ammanettate partivano delle catene fissate a una cintura di cuoio che cingeva loro la vita. Tutti, eccetto i bambini, erano incatenati insieme, in fila, a due metri di distanza, da un'unica catena che passava da un collare all'altro per tutta la lunghezza della fila. Viaggiavano a piedi e avevano percorso trecento miglia in diciotto giorni; nutrendosi di povero cibo e rimasugli, anche questi razionati con avarizia.



Avevano dormito con quelle catene tutte le notti, ammucchiati insieme come porci. Erano ricoperti di miseri stracci, non si poteva dire che fossero vestiti. I ceppi avevano scorticato la pelle delle caviglie producendo delle piaghe ulcerose e purulente.



I loro piedi nudi erano lacerati e nessuno di loro camminava senza zoppicare. In origine questi disgraziati erano un centinaio, ma la metà era stata venduta durante il viaggio. Il mercante che li aveva in consegna era a cavallo e teneva in mano una frusta dal manico corto e dal nerbo lungo e pesante. Con questa frusta sferzava le spalle di quelli che barcollavano per la stanchezza e la sofferenza e li faceva raddrizzare. Non parlava: la frusta comunicava il suo volere senza bisogno di parole. Nessuna di queste povere creature alzò lo sguardo quando passammo vicino a loro; non mostrarono in alcun modo di aver notato la nostra presenza. E non si udiva che un suono: quel cupo e lugubre clangore delle loro catene, da un capo all'altro della lunga fila, quando quarantatre piedi in ceppi si alzavano e ricadevano all'unisono.



La fila avanzava in una nube di polvere. Ma notai i volti di alcune di quelle donne, giovani madri che portavano fra le braccia bambini già vicini alla morte e alla liberazione. Una di queste giovani madri non era che una ragazzina e mi fece male al cuore leggere quella sofferenza e pensare che scaturiva dall'animo di una bambina, un animo che non avrebbe dovuto ancora conoscere il dolore, ma soltanto la gioia del mattino della vita; e senza dubbio...



Proprio in quel momento ella vacillò, stordita dalla fatica, e la frusta, venne giù strappando un lembo di pelle dalla sua spalla nuda. Mi fece male come se fossi stato colpito io. Il padrone arrestò la fila e saltò giù da cavallo. Si scagliò e imprecò contro la ragazza dicendo che gli aveva già dato abbastanza fastidi con la sua pigrizia e che essendo quella l'ultima occasione che egli aveva, ora avrebbe fatto i conti con lei.



La ragazza si buttò in ginocchio, alzò le mani e cominciò a pregare, a piangere, a implorare, folle di terrore, ma il padrone non ne tenne conto. Le strappò il bambino e poi ordinò agli schiavi, che erano incatenati davanti e dietro a lei, di gettarla a terra, di tenerla ferma e di denudarla. Poi, come un pazzo, si mise a colpire con la frusta, finché la schiena di lei non fu tutta piagata, mentre ella urlava e si dibatteva pietosamente. Uno degli uomini che la reggevano distolse il viso e per questa prova di umanità fu insultato e frustato.



Avrei voluto mettere fine a tutto questo e ridare la libertà agli schiavi, ma sarebbe stato un errore. Non dovevo intromettermi e farmi la fama di uno che calpesta le leggi del paese. Se fossi vissuto abbastanza e avessi avuto successo, avrei stroncato la schiavitù. Su questo avevo già deciso, ma avrei cercato di fare in modo che quando fossi diventato il giustiziere, lo sarei stato per ordine della nazione.



Proprio in quel punto, lungo la via, c'era la bottega di un fabbro, e qui giunse un proprietario di terre che, poche miglia prima aveva comprato questa ragazza che gli doveva essere consegnata in questo luogo dove le si potevano togliere i ferri.



Questi furono rimossi. Non appena la ragazza fu liberata dai ferri si gettò piangendo e singhiozzando violentemente tra le braccia dello schiavo che aveva voltato la testa quando era stata frustata. Egli se la strinse al petto e coprì di baci il suo volto e quello del bambino e li inondò in un diluvio di lacrime. Mi venne un sospetto. Indagai. Sì, avevo ragione, erano marito e moglie. Dovettero separarli con la forza e trascinare via la ragazza che si dibatteva, lottava e urlava come se fosse impazzita, fino a che una svolta della strada la nascose alla vista. Ma anche dopo potevamo ancora distinguere il debole lamento di quelle grida che si allontanavano.



Ci fermammo alla locanda di un villaggio proprio al cader della notte. Il mattino dopo quando mi alzai e guardai fuori scorsi un cavaliere che veniva cavalcando nella luce dorata del nuovo giorno e lo riconobbi come uno dei miei uomini, ser Ozana le Cure Hardy.



Era nel ramo abbigliamento maschile e la sua specialità missionaria erano i cappelli a cilindro. Era tutto vestito in acciaio, con la più bella armatura dell'epoca. Ma non aveva elmo; al suo posto portava un lucente cilindro ed era lo spettacolo più ridicolo che si potesse desiderare di vedere. Era un altro dei miei piani segreti per distruggere la cavalleria errante, rendendola grottesca e assurda.



Alla sella di ser Ozana erano appese delle cappelliere di cuoio e ogni volta che egli sconfiggeva un cavaliere errante gli faceva giurare di mettersi al mio servizio, gli forniva un cilindro e glielo faceva indossare. Mi vestii e scesi ad accogliere ser Ozana e a ricevere notizie.



- Come va il commercio? - gli chiesi.



- Noterete che me ne sono rimasti soltanto quattro, ed erano sedici quando partii da Camelot.



- Caspita, ti sei comportato da prode, ser Ozana. Dove sei stato a vendere ultimamente?



- Vengo or ora dalla Valle Santa, a voi piacendo, signore.



- Sono diretto anch'io da quella parte. Sta succedendo qualcosa di diverso dal solito al monastero?



- Perdinci, e me lo domandate!... Messere, sono inaudite le notizie che io vi reco e... e questi sono pellegrini? Allora non potreste far cosa migliore, buona gente, che radunarvi qui e ascoltare il racconto che ho da narrare, perché riguarda voi, in quanto voi andate a trovare ciò che non troverete e a cercare quel che invano cercherete, e sia la mia vita pegno della mia parola.



Un fatto è accaduto di cui non si è visto l'eguale, se non una volta sola in duecento anni, e fu la prima e l'ultima volta che quella sventura colpì la Valle Santa in quella forma, per comando dell'Altissimo.



- La fonte miracolosa ha cessato di sgorgare!



Questo grido proruppe dalle bocche di venti pellegrini nello stesso istante.



- Dite bene, buona gente. Ci stavo arrivando proprio quando voi parlaste.



- Qualcuno si è lavato di nuovo?



- No. Si sospetta, ma nessuno lo crede. Si pensa che sia per qualche altro peccato, ma nessuno sa quale.



- Come hanno preso questa sciagura i frati?



- Non ci sono parole per descriverlo. La sorgente è secca ormai da nove giorni. Da allora le preghiere, le lamentazioni in cilicio e cenere, le sante processioni non sono cessate, né di giorno né di notte. Così i monaci, le monache e i trovatelli sono tutti esausti e appendono preghiere scritte su pergamene, perché non è rimasta forza a nessuno per alzare la voce. E infine hanno mandato a cercare te, messer Capo, per tentare con la magia e gli incantesimi. Se voi non potevate recarvi, allora il messaggero doveva condurre Merlino. Ed ora egli è là da tre giorni e dice che farà ritornare quell'acqua anche se per riuscirci dovesse far scoppiare il globo e mandare in rovina tutti i reami. E con grande destrezza fa uso della sua magia e invoca gli spiriti infernali affinché si rechino ad aiutarlo. Ma finora non ha ottenuto nemmeno uno sbuffo di vapore, nemmeno quel tanto che si potrebbe definire come umidità su uno specchio di rame, se non si tiene conto del barile di sudore che egli versa fra un sole e l'altro durante le fatiche della sua impresa. Se voi...



La colazione era pronta. Non appena fu terminata, mostrai a ser Ozana queste parole che avevo scritto nell'interno del suo cappello: "Reparto Chimica. Laboratorio. Sezione G. Pxxp. Mandate due articoli della prima misura, due del numero 3, e sei del numero 4, insieme con i rispettivi accessori complementari, e due dei miei assistenti specializzati". Poi dissi:



- Ora vola a Camelot più veloce che puoi, bravo cavaliere, e mostra questo scritto a Clarence: digli di mandare il materiale richiesto alla Valle Santa con la maggiore sollecitudine possibile.



- Ben lo farò, ser Capo.



E partì.





















Capitolo 22









LA SACRA fontE









Se prima i pellegrini erano ansiosi di vedere la fonte miracolosa ora, dopo gli ultimi eventi, lo erano quaranta volte di più. Non c'è spiegazione per il comportamento degli esseri umani.



Camminammo di buon passo e un paio d'ore prima del tramonto eravamo sulle alture che limitavano la Valle Santa. La percorremmo con lo sguardo da un'estremità all'altra: le masse dei suoi tre edifici erano distanti e isolate, ridotte a proporzioni di giocattoli in quella desolata distesa che pareva un deserto... Una scena simile è sempre lugubre, così solenne nel suo silenzio, così impregnata di morte. Ma qui si udiva un suono che interrompeva il silenzio solo per renderlo ancora più lugubre: fievoli e lontani rintocchi di campane arrivavano fino a noi a tratti con il soffio della brezza, così fiochi, così sommessi, che non sapevamo nemmeno se li sentivamo con le orecchie o con lo spirito.



Giungemmo al monastero sull'imbrunire e qui fu dato alloggio agli uomini, mentre le donne furono mandate al convento delle monache.



Le campane erano vicine ora e il loro solenne rintocco colpiva l'orecchio come un messaggio funesto. Una superstiziosa disperazione dominava il cuore di tutti i monaci, la si leggeva sui loro volti spettrali. Dappertutto questi fantasmi in tonaca nera, dai passi felpati, dai visi cerei, apparivano, svolazzavano intorno e scomparivano, silenziosi come le creature di un sogno angoscioso, altrettanto inquietanti.



La gioia del vecchio abate nel vedermi fu commovente fino alle lacrime; ma fu lui a versarle. Disse:



- Non indugiare, figliolo, ma dà inizio alla tua opera di salvezza. Se non riportiamo l'acqua, e subito, saremo rovinati e tutto il buon lavoro di duecento anni avrà fine. E bada bene di operare con incantesimi che siano sacri, perché la Chiesa non tollera che il lavoro per la sua causa sia fatto con magie del demonio.



- Quando lavoro io, padre, siate certo che l'opera del diavolo non c'entra. Ma Merlino lavora seguendo una linea esclusivamente pia?



- Ah, egli disse che così avrebbe operato, figlio mio, soltanto in quel modo e fece giuramento di mantenere la sua promessa.



- Be', in questo caso lasciamolo continuare.



- Ma sicuramente non resterai lì a guardare. Lo aiuterai?



- Non servirebbe allo scopo mescolare i metodi, padre, né sarebbe correttezza professionale. Due dello stesso mestiere non devono farsi sleale concorrenza. Tanto varrebbe abbassare subito le tariffe e farla finita; si arriverebbe comunque a questa conclusione. Merlino ha avuto questo contratto e nessun altro mago può intervenire, finché egli non vi rinuncia.



- Ma glielo toglierò io. E' un caso di assoluta emergenza e tale azione sarebbe perciò giustificata.



- Forse non è possibile, padre. Merlino nel suo piccolo è un ottimo mago e gode di una buona reputazione in provincia. Sta lottando, sta facendo del suo meglio e non sarebbe educato da parte mia accettare di fare il suo lavoro finché egli non lo abbandoni di sua iniziativa. Il viso dell'abate si illuminò.



- Ah, ma allora è semplice. Ci sono modi per persuaderlo ad abbandonarlo.



- No, no, padre, non conviene, come dice questa gente. Se lo si allontanasse contro la sua volontà egli graverebbe quel pozzo con un incantesimo che mi ostacolerebbe fino a che non riuscissi a scoprirne il segreto. Ci vorrebbe forse un mese. Sì, voi capite, mi potrebbe bloccare per un mese. Vorreste voi rischiare un mese in un periodo di siccità come questo?



- Un mese! Il solo pensiero mi fa fremere. Fa' dunque come vuoi, figlio mio. Ma il mio cuore è oppresso da questa delusione. Va' ora e lasciami logorare lo spirito nell'inattività e nell'attesa, così come ho fatto in questi dieci lunghi giorni.



Naturalmente sarebbe stato meglio, tutto sommato, che Merlino avesse messo da parte il protocollo, abbandonando l'impresa a metà, giacché mai sarebbe riuscito a far ritornare quell'acqua.



Egli infatti era un vero mago del suo tempo, il che significa che i grandi miracoli, quelli che gli avevano dato la celebrità, avevano sempre avuto la fortuna di essere compiuti quando nessuno, eccetto lui, era presente. Non poteva certo far funzionare quel pozzo con tutta quella folla intorno a guardare. Ma non volevo che Merlino rinunciasse all'incarico finché io non fossi stato pronto ad occuparmene in modo efficace, e non lo potevo fare finché non avessi ricevuto le mie cose da Camelot: per questo ci sarebbero voluti due o tre giorni.



La mia presenza dette speranza ai monaci e li rallegrò moltissimo, tanto che quella sera consumarono un buon pasto per la prima volta in dieci giorni. Non appena ebbero lo stomaco adeguatamente rinforzato dal cibo, il loro spirito cominciò a risollevarsi rapidamente, quando l'idromele cominciò a circolare, si risollevò più rapidamente che mai. Allorché furono tutti brilli la santa comunità era in buona forma per passare una nottata di veglia, così restammo a tavola e facemmo tutta una tirata. La situazione diventò molto allegra. Vennero raccontate vecchie storielle di dubbio gusto che facevano scorrere le lacrime e spalancare le bocche cavernose e scuotere dalle risa le rotonde pance. E canzoni poco pulite vennero cantate con voce tonante in un coro poderoso che copriva il rombo delle campane.



Il giorno seguente andai al pozzo per tempo. Merlino era là intento a fare incantesimi raspando il suolo come un castoro senza però riuscire ad ottenere una sola goccia d'acqua. Non era di buon umore e ogni volta che io alludevo al contratto che era forse un po' troppo gravoso per un principiante, egli scioglieva la lingua e bestemmiava come un vescovo.



Le cose stavano su per giù come mi aspettavo. La "fonte" era il solito pozzo: era stato scavato e rivestito nel solito modo. Non c'era nessun miracolo. Il pozzo era in una stanza buia che si trovava al centro di una cappella costruita con pietre tagliate, le cui pareti erano ricoperte di pie immagini: scene commemorative di guarigioni miracolose, per virtù delle acque, avvenute quando non c'era nessuno a guardare. Cioè nessuno all'infuori degli angeli.



La stanza del pozzo era fiocamente illuminata da lampade. L'acqua, quando ancora c'era, veniva tirata su dai monaci per mezzo di un argano e una catena e poi versata in canali che la distribuivano in vasche di pietra all'esterno, nella cappella. Soltanto i monaci potevano entrare nella stanza del pozzo. Io entrai perché avevo un permesso provvisorio per gentile concessione del mio collega e mio subordinato. Ma egli non vi era entrato. Faceva tutto per incantesimo, non usava mai il cervello. Se fosse entrato là dentro un momento e avesse usato i suoi occhi invece della sua mente sconvolta, avrebbe potuto curare il pozzo con mezzi naturali e poi farlo credere un miracolo, com'era consuetudine. Ma no, era un vecchio testardo, un mago che credeva nella sua magia, e nessun mago, se è ostacolato da una simile superstizione, può prosperare.



La mia idea era che nel pozzo si fosse aperta una falla: forse qualche pietra della parete sul fondo aveva ceduto, lasciando scoperte delle fessure che facevano scorrere via l'acqua. Misurai la catena: trentadue metri. Allora chiamai dentro un paio di monaci, chiusi a chiave la porta, presi una candela e mi feci calare giù nel secchio. Quando la catena fu mollata tutta, la candela confermò il mio sospetto: una considerevole parte della parete era rovinata, scoprendo una grossa fessura.



Quando risalii, mandai fuori i monaci e calai nel pozzo una lenza da pesca. Il pozzo era profondo cinquanta metri e c'erano quattordici metri d'acqua. Chiamai dentro un monaco e gli chiesi:



- Quanto è profondo il pozzo?



- Questo, messere, io non so, nessuno mai me lo disse.



- Fin dove arriva l'acqua di solito?



- Vicino all'orlo, negli ultimi due secoli, secondo le testimonianze a noi tramandate dai nostri predecessori.



Era vero - almeno per il periodo più recente - perché c'era una testimonianza molto più attendibile di quella del monaco: soltanto otto o dieci metri circa della catena mostravano tracce di uso e di logorio, il resto era intatto e arrugginito. Che cosa era accaduto quando il pozzo si era inaridito la volta precedente?



Senza dubbio era venuta una persona che sapeva il fatto suo e aveva riparato la falla, poi era risalita e aveva detto all'abate di aver scoperto per divinazione che, se fosse stato distrutto il bagno peccaminoso, l'acqua sarebbe fluita di nuovo nel pozzo. Ora si era riaperta la falla e quei bambinoni avrebbero continuato a pregare, a fare processioni e a suonare le campane per invocare l'aiuto divino fino a che tutti si fossero rinsecchiti e polverizzati. E neanche uno di quei semplicioni avrebbe mai pensato di scandagliare il pozzo o di scendervi dentro per vedere come stavano veramente le cose. Dissi al monaco:



- E' un miracolo laborioso restituire l'acqua a un pozzo inaridito, ma ci proveremo, se mio fratello Merlino fallisce.



Fratello Merlino è un artista abbastanza bravo, ma solo nel ramo "magia da salotto", e può darsi che non ci riesca. Infatti, è poco probabile che ci riesca. Ma questo non dovrebbe andare a suo discredito: l'uomo che sa fare questo genere di miracoli ne sa abbastanza per dirigere un "hotel".



- Hotel? Non ricordo di aver mai udito...



- Nominare un "hotel"? E' quello che voi chiamate ostello. L'uomo che può fare questo miracolo può dirigere un ostello. Io posso fare questo miracolo: io farò questo miracolo. Tuttavia non cerco di nascondervi che è un miracolo che metterà alla prova i poteri occulti fino all'estremo limite.



- Invero nessuno conosce tale verità meglio della confraternita, poiché è documentato che in passato fu estremamente difficile e ci volle un anno. Nondimeno vi conceda Iddio buon successo, e a tal fine noi pregheremo.



A scopo pratico era una buona idea mettere in giro la voce che era una cosa difficile. Molte cose di nessun conto sono diventate importanti grazie al tipo giusto di pubblicità. Questo monaco era più che convinto della difficoltà dell'impresa e avrebbe convinto anche gli altri. Entro due giorni l'ansia dell'attesa avrebbe raggiunto la fase più acuta.



Mentre tornavo a casa a mezzogiorno incontrai Sandy. Era andata a esaminare da vicino gli eremiti. Dissi:



- Lo farei volentieri anch'io. Oggi è mercoledì. C'è uno spettacolo pomeridiano?



- Un che, a voi piacendo, messere?



- Spettacolo pomeridiano. Tengono aperto, il pomeriggio?



- Gli eremiti, s'intende.



- Tengono aperto?



- Tengono aperto. Non è abbastanza chiaro? O staccano a mezzogiorno?



- Staccano?



- Staccano. Sì, staccano. Ma che c'è che non va con "staccano"?



Non ho mai visto una testona simile. Ma non capisci proprio nulla?



In parole povere, chiudono bottega, levano le tende, smontano la baracca...



- Chiudono bottega, levano...



- Via, non importa, lasciamo andare. Mi hai stancato. Sembra che tu non capisca le cose più elementari.



Vagammo da un eremita all'altro tutto il pomeriggio. Era un serraglio strano davvero. Si sarebbe detto che la principale forma di competizione fra di loro consistesse nel gareggiare a chi riusciva ad essere il più sudicio e il più ricco di parassiti. Per un anacoreta era motivo di orgoglio giacere nudo nel fango e lasciare che gli insetti indisturbati lo pungessero e lo ricoprissero di vesciche; per un altro, rimanere appoggiato a una roccia per tutto il giorno, ben esposto all'ammirazione della moltitudine di pellegrini, e di pregare; per un altro, girare nudo, camminando a quattro zampe; per un altro trascinarsi dietro continuamente ottanta libbre di ferro; per un altro non sdraiarsi mai per dormire, restando in piedi in mezzo ai rovi e russando quando c'erano dei pellegrini intorno a guardare. Una donna, che aveva i capelli bianchi per vecchiaia, era nera da capo a piedi per quarantasette anni di santa astinenza dall'acqua.



Gruppi di pellegrini curiosi stavano intorno a questi strani esseri, rapiti in reverente stupore e invidiosi dell'immacolata santità che essi avevano conquistato con quelle pie austerità.



Dopo un po' andammo a vederne uno dei più riveriti. Era una gran celebrità, la sua fama si era sparsa in tutto il mondo cristiano; uomini nobili e famosi venivano dalle più remote terre del globo a rendergli omaggio. Il suo "posto" era nel centro della parte più larga della valle, spazio necessario per contenere la folla dei suoi ammiratori.



L'eremita stava su una colonna alta venti metri, con una larga piattaforma in cima: ripetendo quello che andava facendo lassù ogni giorno da vent'anni, chinava il corpo incessantemente e rapidamente fin quasi a livello dei piedi. Era il suo modo di pregare. Gli controllai il tempo con il mio cronometro e vidi che faceva 1.244 piegamenti in 24 minuti e 46 secondi. Mi sembrava un peccato che tutta quella energia andasse sprecata. Il movimento a pedale era uno dei movimenti più utili in meccanica, così ne presi nota nella mia agenda, proponendomi di applicargli un giorno o l'altro un sistema di corde elastiche per far azionare una macchina da cucire.



In seguito realizzai questo progetto e ricavai da quell'uomo cinque anni di redditizio lavoro, nei quali egli produsse più di diciottomila camicie di lino di prima qualità, ossia dieci al giorno. Lo facevo lavorare anche la domenica. Quelle camicie non mi costavano nulla - a parte una sciocchezza per la stoffa che fornivo io perché non sarebbe stato giusto farlo fare a lui - si vendevano facilmente ai pellegrini ad un dollaro e mezzo l'una, prezzo di cinquanta mucche o di un purosangue da corsa nel regno di Artù. Erano considerate come una sicura protezione contro il peccato e i miei cavalieri ne facevano la pubblicità in questo senso ovunque, con il secchiello della vernice e lo stampino per le lettere, tanto che in tutta l'Inghilterra non c'era una scogliera, o un masso o un muro in rovina su cui non si potesse leggere a un miglio di distanza: "Comprate l'unico prodotto genuino San Stilita. Fornitore della Nobiltà. Rilascio di brevetto in corso".





















Capitolo 23









LA FONTE VIENE RIPRISTINATA


Sabato a mezzogiorno mi recai al pozzo e mi fermai un po' a guardare. Merlino stava ancora producendo fumo con le sue polveri, agitando le mani nell'aria e mormorando parole incomprensibili con più impegno che mai, ma con un'aria piuttosto avvilita, perché, naturalmente, non era riuscito a ricavare dal pozzo nemmeno un po' di umidità. Infine dissi:



- Allora, socio, c'è qualche prospettiva di successo?



- Guardate, proprio adesso mi accingo a tentare la più potente magia nota ai principi delle arti occulte nelle terre d'Oriente:



se fallisce, nulla più vale tentare. Tacete, finché ho finito.



Questa volta sollevò un nuvolone di fumo che oscurò tutta la regione, procurando parecchio disagio agli eremiti, perché il vento soffiava nella loro direzione e rotolava giù sulle loro tane in ondate di densa nebbia.



Insieme al fumo Merlino rovesciò torrenti di parole, contorcendosi e tagliando l'aria con le mani in una maniera veramente straordinaria. Dopo una ventina di minuti si accasciò al suolo ansimando e quasi del tutto esausto. A questo punto arrivarono l'abate e parecchie centinaia di monaci e monache e dietro di loro una moltitudine di pellegrini. L'abate s'informò ansiosamente sui risultati. Merlino disse:



- Se l'opera di un mortale potesse spezzare l'incantesimo che trattiene queste acque, questa che io ho appena tentato l'avrebbe fatto. E' fallita. Ragion per cui ora io so che ciò che temevo è verità stabilita. Il segno di questo fallimento è che il più potente spirito noto ai maghi dell'Oriente, il cui nome nessuno può pronunciare senza perdere la vita, ha posto il suo incantesimo su questo pozzo. Non esiste né mai esisterà uomo che possa penetrare il segreto di quell'incantesimo. L'acqua non sgorgherà mai più, buon padre. Io ho fatto quanto a un uomo mortale era concesso di fare. Permettetemi di andarmene.



Queste parole, naturalmente, gettarono l'abate in uno stato di grande costernazione. Egli si rivolse a me, coi segni di questo turbamento impressi sul volto, e disse:



- L'avete sentito. E' vero?



- In parte.



- Non tutto, allora, non tutto! Quale parte è vera?



- Che quello spirito con il nome russo ha messo un incantesimo sul pozzo.



- Per le piaghe di Dio! Allora siamo rovinati!



- Può darsi.



- Ma non con certezza? Intendete dire non con certezza?



- Proprio così.



- Quindi, intendete anche dire che quando egli afferma che nessuno può rompere l'incantesimo...



- Sì, quando dice questo, egli dice cosa che non è necessariamente vera. Ci sono condizioni in cui uno sforzo per rompere la magia può avere qualche probabilità, cioè qualche piccola, infinitesima probabilità di successo.



- Le condizioni...



- Oh, non sono affatto difficili. Soltanto queste: voglio il pozzo e i dintorni per un raggio di mezzo miglio interamente per me, dal tramonto di oggi fino a quando revocherò il bando e che a nessuno sia permesso di attraversare questo territorio senza la mia autorizzazione.



- E' tutto?



-Sì.



-E non avete timore di tentare?



- Oh, no, nessun timore. Si può fallire, naturalmente, ma si può anche riuscire. Si può provare e io sono pronto a farlo. Accettate le mie condizioni?



- Queste e tutte le altre che vogliate richiedere. Darò ordini a tal scopo.



- Aspettate - disse Merlino, con un sorriso maligno. - Voi sapete che colui che voglia spezzare questo incantesimo deve conoscere il nome di quello spirito?



- Sì, io conosco il suo nome.



- E sapete anche che il conoscerlo non basta, ma che dovete anche pronunciarlo? Ah, ah, sapevate questo?



- Sì, sapevo anche questo.



- Eravate a conoscenza di ciò! Siete pazzo? Avete intenzione di pronunciare quel nome e morire?



-Pronunciarlo? Ma certo.



- Allora siete già un uomo morto: vado a riferirlo ad Artù.



- Benissimo. Prendete la vostra roba e andatevene. Quel che dovete fare voi è andare a casa e fare previsioni sul tempo, mister Merlino.



Avevo colpito nel segno ed egli sussultò poiché egli era il peggior fallimento meteorologico di tutto il reame. Ogni volta che ordinava di alzare i segnali di pericolo lungo la costa si aveva di sicuro una settimana di bonaccia e ogni volta che prediceva bel tempo, pioveva a catinelle. Ma io lo tenevo apposta nell'ufficio meteorologico per minare la sua reputazione. Però quella frecciata aumentò la sua rabbia e invece di incamminarsi verso casa per dare la notizia della mia morte, disse che sarebbe rimasto a godersela.



I miei due esperti arrivarono in serata, piuttosto affaticati perché avevano viaggiato giorno e notte. Avevano con loro muli da carico e tutto quello che mi occorreva, attrezzi, pompe, tubi di piombo, fuoco greco, fasci di grossi razzi, candele romane, girandole colorate, apparecchi elettrici e una quantità di oggetti vari, tutto il necessario per il più grandioso dei miracoli.



Cenarono e si presero un po' di riposo. Verso mezzanotte uscimmo in totale solitudine. Prendemmo possesso del pozzo e dei dintorni.



I miei ragazzi erano esperti in ogni campo, dalla costruzione delle pareti di un pozzo a quella di uno strumento di precisione.



Un'ora prima dell'alba avevano riparato quella perdita in modo perfetto e l'acqua cominciò a risalire. Poi mettemmo i fuochi artificiali nella cappella, la chiudemmo a chiave e andammo a casa a dormire. Prima che la messa di mezzogiorno fosse finita eravamo di nuovo al pozzo, perché c'era ancora tanto da fare ed io avevo deciso di eseguire il miracolo prima di mezzanotte per ragioni di convenienza: se un miracolo eseguito per la Chiesa in un giorno feriale vale parecchio, se lo si fa di domenica vale sei volte tanto.



In nove ore l'acqua era salita al livello normale, vale a dire a circa otto metri dall'apertura del pozzo. Montammo una piccola pompa di ferro, una delle prime prodotte dalle mie officine. Poi aprimmo un foro in una vasca di pietra, contro il muro esterno della stanza del pozzo, e vi inserimmo un pezzo di tubo di piombo.



Era abbastanza lungo da arrivare alla porta della cappella e sporgere oltre la soglia, dove il getto d'acqua sarebbe stato visibile ai duecentocinquanta acri di persone che io volevo fossero presenti al momento giusto nella pianura davanti a quel sacro poggio.



Togliemmo la parte superiore a un barile vuoto e lo issammo sul tetto piatto della cappella, dove lo fissammo saldamente. Ci versammo dentro della polvere da sparo, poi mettemmo nel barile tanti razzi quanti ce ne potevano entrare, dritti senza forzarli, razzi di ogni tipo che formavano un fascio grandioso ed imponente.



Facemmo passare sotto quella polvere il filo di una pila elettrica tascabile, disponemmo un intero deposito di fuoco greco ad ogni angolo del tetto - azzurro in un angolo, verde in un altro, rosso in un altro ancora e viola nell'ultimo- e in ciascuno affondammo un filo elettrico.



A circa duecento metri di distanza, sul terreno pianeggiante, costruimmo un recinto di assicelle su cui appoggiammo delle tavole in modo da formare una piattaforma. La ricoprimmo con sontuosi arazzi e, come tocco finale, vi mettemmo il trono personale dell'abate. Quando ci si accinge a compiere un miracolo per una razza di gente ignorante, bisogna curare tutti quei particolari che possono valorizzare l'effetto; bisogna preparare tutta l'attrezzatura in modo che s'imponga agli occhi del pubblico. Io so il valore di queste cose perché conosco la natura umana. Non è mai troppo lo stile con cui si organizza un miracolo. Costa lavoro fatica e qualche volta denaro, ma alla fine rende. Portammo, dunque, i fili elettrici a terra nella cappella e poi li facemmo passare sotto il terreno fino alla piattaforma e là nascondemmo le pile. Intorno alla piattaforma, per tenere lontana la folla mettemmo un recinto di corde e con ciò i nostri preparativi erano terminati.



La mia idea era: ingresso alle dieci e trenta; inizio dello spettacolo alle undici e venticinque in punto. Mi sarebbe piaciuto far pagare l'ingresso, ma naturalmente non era il caso. Diedi istruzione ai miei ragazzi di trovarsi nella cappella non più tardi delle 10, prima che ci fosse qualcuno in giro, pronti a manovrare le pompe al momento giusto. Poi andammo a casa a cenare.



Ormai la notizia della sventura del pozzo era giunta lontano e già da due o tre giorni una costante valanga di gente si riversava nella valle. La parte più bassa della valle era diventata un immenso accampamento: avremmo avuto il teatro pieno, su questo non c'era dubbio. Sul far della sera dei banditori andarono in giro ad annunciare l'imminente avvenimento, il che provocò in tutti uno stato di febbrile attesa. Poi fu reso noto che l'abate e il suo seguito ufficiale avrebbero fatto un ingresso solenne e avrebbero occupato la piattaforma alle dieci e mezza. Fino a quell'ora tutta la regione che era sotto il mio bando doveva essere sgombra; allora le campane avrebbero cessato di suonare e questo sarebbe stato il segnale che la folla poteva avvicinarsi e prendere posto.



Io ero sulla piattaforma, già pronto a fare gli onori di casa quando il solenne corteo dell'abate fosse apparso all'orizzonte.



Con il corteo arrivò anche Merlino che prese posto in prima fila sulla piattaforma, una volta tanto aveva mantenuto la parola data.



Poi il buio.



Non si riusciva a vedere la moltitudine di gente assiepata al di là della zona proibita, ma si sentiva lo stesso la loro presenza.



Non appena le campane tacquero, quella massa contenuta irruppe e si rovesciò oltre la linea di confine, come un'immensa ondata nera che continuò a scorrere per una buona mezz'ora e poi si solidificò. Si sarebbe potuto camminare su quel pavimento di teste umane per miglia.



A questo punto ci fu una solenne attesa di circa venti minuti, cosa su cui contavo per creare maggior effetto - è sempre bene accrescere l'aspettativa degli spettatori. Alla fine, dal silenzio, un nobile canto latino, di voci maschili, si alzò, si gonfiò e si allontanò nella notte come una maestosa ondata melodica. Avevo organizzato anche quello e fu uno degli effetti più riusciti che io avessi mai creato. Quando fu finito salii sulla piattaforma e stesi le braccia, per due minuti, col viso rivolto verso l'alto, il che produce sempre un silenzio di tomba, e poi lentamente pronunciai questa spaventosa parola con tono terrificante, che fece tremare centinaia di persone e svenire molte donne:



- Constantinopolitanischerdudelsackpfeifenmachersgesellschaft!



Proprio mentre stavo pronunciando lamentosamente l'ultima parte di questa parola, toccai lievemente uno dei miei contatti elettrici e tutto quell'oscuro mondo di gente risaltò in un raccapricciante bagliore azzurro! L'effetto fu enorme! Una quantità di gente si mise a urlare, le donne si curvarono e scapparono in ogni direzione. L'abate e i monaci si fecero il segno della croce in fretta e le loro labbra mormorarono agitate preghiere. Merlino tenne duro, ma era chiaramente sbalordito fino ai calli; non aveva mai visto niente che cominciasse così. Ora era il momento di accumulare i colpi di scena. Alzai le braccia e pronunciai gemendo, questa parola, come in uno spasimo:



Nihilistendynamittheaterkaestchensprengungsattentaetsversuchungen!



- e feci scaturire il fuoco rosso! Avreste dovuto udire quell'oceano di gente lamentarsi e ululare quando l'inferno rosso si unì a quello azzurro! Dopo sessanta secondi urlai:



Transvaaltruppentropentransporttrampelthiertreibertrauungsthraenen tragoedie! - e accesi il fuoco verde! Dopo aver atteso soltanto quaranta secondi, questa volta, spalancai le braccia e con voce tonante pronunciai le sconvolgenti sillabe di questa parola:



Mekkamuselmannenmassenmenchenmoerdermohrenmuttermarmormonumentenma cher! - e scatenai il bagliore viola!



Eccoli là divampare tutti insieme, rosso, azzurro, verde, viola!



Quattro vulcani infuriati che eruttavano enormi nubi di fumo luminoso che si spandeva con accecanti luci variopinte fino ai più lontani confini della valle. Sapevo che ora i ragazzi erano pronti alle pompe. Perciò dissi all'abate:



- E' giunto il momento, padre. Sto per pronunciare quel terribile nome e comandare all'incantesimo di dissolversi. Dovete raccogliere le vostre forze e aggrapparvi a qualcosa. Poi urlai alla folla:



- Guardate, un minuto ancora e l'incantesimo sarà spezzato, o nessun mortale potrà mai spezzarlo. Se si spezzerà, tutti lo sapranno, perché vedrete l'acqua sacra sgorgare dalla porta della cappella!



Aspettai qualche attimo per dare la possibilità a quelli che avevano sentito di spargere la voce del mio annuncio fra coloro che non avevano udito e per farlo arrivare fino alle ultime file, poi mi esibii in una posa grandiosa, accompagnata da gesti speciali, e urlai:



- Guardate! Comando al corrotto spirito che si è impossessato della fontana sacra di scaricare ora in cielo tutto il fuoco infernale che ancora rimane in lui e di sciogliere all'istante il suo incantesimo, di scomparire nell'abisso e di rimanere là confinato per mille anni. Con il suo stesso nome spaventoso io lo comando:



- BGWJJILLIGKKK! - Poi detti la corrente al barile dei razzi, e un'immensa fontana di abbaglianti lance di fuoco eruttò verso il cielo con un sibilo impetuoso scoppiando in una tempesta di gioielli scintillanti. Un possente grido di terrore si levò dalla folla ammassata, poi, improvvisamente si mutò in uno sfrenato osanna di gioia, poiché là, bella e chiara, nel magico bagliore, videro sgorgare l'acqua liberata!



Il vecchio abate non riuscì a dire una parola, a causa delle lacrime e del nodo che gli stringeva la gola. Mi prese fra le braccia, stritolandomi. Fu più eloquente di un discorso.



Avreste dovuto vedere quegli acri di persone che si buttavano nell'acqua e la baciavano, l'accarezzavano, la coccolavano e le parlavano come se fosse stata un'amica e la salutavano con gli appellativi affettuosi che davano ai loro cari, come se fosse stata un'amica partita da tanto tempo e perduta, che ora fosse tornata a casa. Sì, era bello a vedersi e me li fece stimare più di quanto avessi fatto fino allora.



Mandai Merlino a casa in barella. Aveva ceduto ed era crollato come una frana quando avevo pronunciato quel terribile nome e non si era più riavuto. Non aveva mai udito quel nome prima di allora - e nemmeno io - ma per lui era quello giusto. Qualsiasi guazzabuglio sarebbe stato quello giusto. Egli ammise, in seguito, che neppure la stessa madre dello spirito sarebbe riuscita a pronunciare quel nome meglio di me. Non riuscì mai a capire come io avessi potuto sopravvivere e io non glielo dissi. Sono i maghi giovani che svelano segreti come questo. Merlino passò tre mesi a fare incantesimi per cercare di scoprire il misterioso trucco che permetteva di pronunciare quel nome e sopravvivere. Ma non ci riuscì.



Quando mi avviai verso la cappella, la plebaglia si scoprì il capo e si trasse da parte rispettosamente per lasciarmi un ampio passaggio, come se fossi stato una sorta di essere superiore, e lo ero. Me ne rendevo conto. Portai con me dei monaci per il turno di notte, insegnai loro il mistero della pompa e li misi al lavoro, perché era chiaro che una buona parte della gente che era là fuori sarebbe rimasta a vegliare l'acqua tutta la notte: quindi era più che giusto che ne avessero quanta ne volevano. Per quei monaci la pompa era un grande miracolo di per sé, e la guardavano colmi di stupore e di ammirazione per l'eccezionale efficienza del suo funzionamento.



Fu una grande nottata, una nottata memorabile. La mia influenza nella Valle Santa era considerata ora come qualche cosa di prodigioso.





















Capitolo 24









UN MAGO RIVALE









Ero pronto ora a proseguire il viaggio, ma mi capitò un contrattempo. Presi un forte raffreddore che ridestò un mio vecchio reumatismo, che naturalmente andò a scovare il punto più debole e lì si stabilì. Era il punto dove le braccia dell'abate mi avevano stretto, stritolandomi, quella volta che aveva sentito l'impulso di esprimere la sua gratitudine con un abbraccio.



Quando finalmente ne uscii, ero un'ombra. Ma tutti furono pieni di attenzioni e di gentilezze e queste riportarono l'allegria nella mia vita: così mi rimisi presto.



Sandy si era sfinita nell'assistermi perciò decisi di andarmene in giro da solo, lasciandola all'abbazia a riposare. La mia idea era di travestirmi da uomo libero di classe contadina e di girare per il paese una settimana o due, a piedi.



Questo mi avrebbe dato la possibilità di mangiare e di alloggiare con la classe più umile e più povera dei cittadini liberi, in condizioni di parità. Non c'era altro modo per raccogliere informazioni precise sulla loro vita quotidiana e su come la legge agiva nei loro confronti.



Una mattina ero uscito a fare una lunga passeggiata per rinforzare i muscoli in vista del mio viaggio, quando mi trovai davanti ad un'apertura artificiale sulla parete di un basso dirupo e riconobbi la tana di un eremita molto rinomato per la sua sporcizia e la sua austerità.



Sapevo che gli era stata offerta, di recente, una sistemazione nel Gran Sahara, dove i leoni e le zanzare rendevano la vita d'eremita particolarmente attraente e difficile, ed egli era andato in Africa per prenderne possesso, perciò pensai di dare un'occhiata dentro.



La mia sorpresa fu grande: il luogo era stato spazzato e pulito da poco. Poi ebbi un'altra sorpresa. In fondo, nell'oscurità della caverna udii il tintinnare di un campanello e questa esclamazione:



- Pronto, centralino! Parlo con Camelot? Ascoltate: c'è qui il Capo in carne ed ossa e lo udirete parlare con le vostre stesse orecchie.



Che fantastica combinazione di cose opposte e inconciliabili: la dimora del miracolo artificiale diventata dimora di un miracolo vero, la tana di un eremita medievale trasformata in ufficio telefonico!



Il telefonista si mosse verso la luce e io riconobbi uno dei miei giovani. Dissi:



- Da quanto tempo è stato impiantato qui questo ufficio, Ulfio?



- Soltanto da mezzanotte, messer Capo, a voi piacendo. Vedemmo molte luci nella valle e così reputammo conveniente mettere qui una stazione, poiché la necessità di così tante luci indicava una città di grandi dimensioni.



- Giustissimo. Non è una città nel vero senso della parola, ma è comunque una buona posizione. Sapete dove siete?



- Non avemmo tempo di informarci su ciò, poiché quando i miei compagni se ne andarono da qui, lasciandomi di guardia, io mi presi un po' di riposo, proponendomi di indagare al mio risveglio e poi riferire il nome del luogo a Camelot, affinché venisse documentato.



- Ebbene, questa è la Valle Santa.



La notizia non lo sorprese. Disse semplicemente:



-Lo riferirò.



- Ma come, in tutte le regioni circostanti non si fa che parlare degli ultimi prodigi che sono accaduti qui! Non hai udito nulla?



- Ah, ricorderete che noi ci muoviamo di notte ed evitiamo di parlare con tutti. Sappiamo soltanto ciò che apprendiamo per telefono da Camelot.



- Ma "essi" sanno tutto su questa cosa. Non ti hanno detto niente sul grande miracolo della reintegrazione della fonte Sacra?



- Ah, quello? Sì, certo, ma il nome di "questa" Valle è diverso grandemente dal nome di "quella": davvero, differire di più non sarebbe possibile...



- Che nome era quello, allora?



- La Valle di Satana.



- Questo spiega tutto. Accidenti al telefono. E' un vero demonio nel rendere somiglianze di suono quando la differenza di significato è così sorprendente. Ma non importa, ora tu sai il nome del luogo. Chiama Camelot.



Egli eseguì e fece chiamare Clarence. Fu un piacere riudire la voce del ragazzo. Era come essere di nuovo a casa. Dopo uno scambio di parole affettuose e un breve resoconto della mia malattia, dissi:



- Che c'è di nuovo?



- Il re, la regina e molti cortigiani stanno partendo proprio ora per venire alla vostra Valle a rendere devoto omaggio alle acque che voi avete restituito e a purificarsi dal peccato.



- Il re sa la strada per venire qui?



- No, e forse nessun altro nel reame. Ma i giovani che vi aiutarono nel miracolo saranno la sua guida e gli mostreranno la via.



- Con tutto ciò, quando si troveranno qui?



- Il terzo giorno, a metà pomeriggio o più tardi.



Quando ritornai al monastero, trovai che stava succedendo qualcosa d'interessante. L'abate e i monaci erano riuniti nella grande sala e stavano osservando con fanciullesca meraviglia e fiducia un nuovo mago, arrivato di fresco. Il suo abito era vistoso e stravagante come quel genere di cose che indossano gli stregoni indiani. Falciava l'aria con le mani, borbottava e gesticolava e tracciava figure simboliche nel vuoto e sul pavimento... La solita messa in scena, capite.



Era una celebrità venuta dall'Asia, così diceva lui, e tanto bastava. Quel genere di testimonianza veniva preso per oro colato, ed era accettato ovunque.



Come era facile e a buon mercato essere un gran mago, così come lo faceva questo individuo. La sua specialità consisteva nel dire quello che stava facendo in quel momento una persona qualsiasi sulla faccia della terra, quello che aveva fatto in qualunque momento del passato e quello che avrebbe fatto in qualunque momento del futuro. Egli domandò se qualcuno desiderava sapere che cosa stesse facendo in quel momento l'imperatore d'Oriente. Gli occhi scintillanti e le soddisfatte fregatine di mani davano un'eloquente risposta: questa veneranda folla "voleva" sapere che cosa stesse facendo quel monarca proprio in quel momento.



L'imbroglione eseguì qualche altra pagliacciata e poi fece questo solenne annuncio:



- L'alto e potente imperatore d'Oriente in questo momento sta mettendo del denaro nella mano di un santo frate: una, due, tre monete, e sono tutte d'argento.



Un brusio di esclamazioni ammirative sorse da ogni parte:



- E' prodigioso! Straordinario!



Forse il pubblico desiderava sapere quello che stava facendo il sommo imperatore delle Indie? Sì. Egli lo disse loro immediatamente. Poi disse loro in che cosa era occupato il sultano d'Egitto ed anche di che cosa si stesse occupando il sovrano dei Mari Remoti. E così via, di seguito. E ad ogni nuova meraviglia lo stupore per la sua precisione aumentava sempre più.



Mi resi conto che se questa cosa fosse andata avanti avrei perduto la mia supremazia: questo mago si sarebbe accattivato i miei seguaci e io sarei stato tagliato fuori. Dovevo mettergli il bastone fra le ruote e bisognava farlo subito. Dissi:



- Se mi è concesso fare una domanda, ci terrei molto a sapere che cosa sta facendo una certa persona.



- Parlate liberamente, ve lo dirò.



- Sarà difficile, forse impossibile.



-La mia arte non conosce tale parola. Quanto più è difficile, tanto più chiaramente vi svelerò ciò che volete sapere. Sferrai l'ultimo attacco:



- Se voi non commettete errori, se mi dite veramente quello che voglio sapere, vi darò duecento monete d'argento.



- Tal fortuna è già mia! Vi dirò ciò che volete sapere.



- E allora ditemi che cosa sto facendo con la mano destra.



- Ah...! - Ci fu un generale sussulto di sorpresa. Non era venuto in mente a nessuno della folla quel semplice trucco di far domande su qualcuno che non fosse a diecimila miglia di distanza. Fu un duro colpo per il mago: era un caso imprevisto che nella sua esperienza non gli era mai capitato prima, e gli tappò la bocca.



Non sapeva come risolverlo. Appariva sbigottito, confuso, non riusciva a spiccicar parola.



- Suvvia - dissi - che cosa state aspettando? E' mai possibile che voi sappiate rispondere immediatamente su ciò che sta facendo una qualunque persona all'altro capo della terra e non sappiate poi dire che cosa sta facendo una persona che si trova a meno di tre metri da voi? Le persone che sono dietro a me sanno quello che sto facendo con la mano destra e vi daranno conferma se la vostra risposta sarà corretta.



Egli continuava a rimanere muto.



- Benissimo, vi dirò io perché non parlate. La ragione è che non lo sapete. "Voi" un mago! Cari amici, questo vagabondo non è che un imbroglione e un bugiardo.



- Queste parole sgomentarono i monaci e li atterrirono. Non erano abituati a sentire ingiuriare questi esseri spaventosi, non sapevano quali potevano essere le conseguenze. C'era un silenzio di tomba, ora. Il mago cominciava a riprendere la sua baldanza e quando, di lì a poco sorrise, un gran sollievo si propagò intorno, perché questo significava che il suo stato d'animo non era distruttivo. Disse:



- La frivolezza del linguaggio di costui mi ha lasciato senza parole. I maghi del mio rango non si degnano di interessarsi delle azioni di nessuno se non di re, principi, imperatori, di coloro che sono nati nella porpora e soltanto di questi. Se voi mi aveste chiesto che cosa stava facendo il grande re Artù, sarebbe stato diverso e io ve l'avrei detto. Ma le azioni di un suddito non m'interessano.



- Oh! Vi avevo frainteso. Mi pareva che aveste detto "chiunque" e così supponevo che "chiunque" includesse... beh, chiunque, cioè tutti.



- Così è, chiunque sia di nobile nascita.



- Questo, mi sembra, potrebbe essere giusto - disse l'abate, che voleva cogliere l'opportunità per appianare le cose ed evitare una catastrofe - perché non è possibile che un dono meraviglioso come questo sia conferito per la rivelazione di fatti riguardanti esseri inferiori a quelli che per nascita sono vicini alle vette della grandezza. Il nostro re Artù...



- Volete sapere di lui? - lo interruppe il mago.



- Sì, molto volentieri.



Immediatamente quegli incorreggibili idioti furono, di nuovo, tutti pieni di timore e di curiosità.



- Il re è stanco per la caccia e giace nel suo palazzo da due ore, immerso in un sonno senza sogni.



- La benedizione di Dio sia con lui - disse l'abate.



- E così sarebbe, se dormisse - dissi - ma il re non sta dormendo, egli cavalca.



Qui ci fu un'altra difficoltà, un conflitto di autorità. Nessuno sapeva a chi di noi due credere.



L'abate allora chiese notizie della regina e della corte ed ottenne questa informazione:



- Stanno tutti dormendo sopraffatti dalla stanchezza, come il re.



Io dissi:



- Questa è soltanto un'altra bugia. Metà della corte è occupata a divertirsi: la regina e l'altra metà non stanno dormendo, ma cavalcando. Ora, forse, potreste fare un piccolo sforzo e dirci dove stanno andando il re, la regina e tutti quelli che in questo momento cavalcano con loro.



- Dormono tutti ora, come ho detto. Ma domani cavalcheranno, poiché faranno un viaggio verso il mare.



- E dove saranno dopodomani, al vespro?



- Lontano, a nord di Camelot e avranno percorso metà del loro viaggio.



- Ecco un'altra bugia della grandezza di centocinquanta miglia. Il loro viaggio non sarà solo a metà, ma sarà finito. Essi saranno qui, in questa valle.



"Quello" sì che fu un bel colpo. Gettò l'abate e i monaci in uno stato di grande agitazione e scosse il mago fino alle fondamenta.



Io incalzai:



- Se il re non arriverà mi farò mettere alla berlina; ma se arriverà ci farò mettere voi.



Il giorno dopo andai all'ufficio telefonico e appresi che il re era passato per due città che erano lungo il percorso. Il giorno successivo seguii le tappe del suo viaggio allo stesso modo. Tenni queste notizie per me. Dai bollettini del terzo giorno potei calcolare che, se avesse mantenuto quell'andatura, sarebbe arrivato verso le 4 del pomeriggio. Non si vedeva ancora da nessuna parte alcun segno d'interesse per il suo arrivo: sembrava che non ci fossero preparativi per riceverlo con grandi feste, una cosa davvero strana. C'era una sola spiegazione plausibile:



l'altro mago doveva avermi giocato qualche brutto tiro. Ed era vero. Chiesi a un monaco, mio amico, informazioni a questo proposito, ed egli mi disse che il mago aveva fatto altri incantesimi ed aveva scoperto che la corte aveva deciso di non fare nessun viaggio e di restare a casa. Pensate un po'! Notate che valore aveva la reputazione in un tale paese. Questa gente mi aveva visto eseguire il più spettacolare esempio di magia della storia, eppure eccoli lì, pronti a intendersela con un avventuriero che non poteva dare nessuna prova dei suoi poteri, se non la sua parola che non era controllabile.



Ad ogni modo non era una buona politica permettere che il re arrivasse senza alcun festeggiamento, né pennacchi al vento. Così scesi a procurarmi un corteo di pellegrini, e verso le due li mandai incontro al re. E quello fu tutto il cerimoniale che Artù trovò al suo arrivo. L'abate rimase annichilito per la rabbia e l'umiliazione quando lo portai fuori sul balcone a vedere il capo dello Stato che entrava senza nemmeno un monaco presente a dargli il benvenuto, né un gioioso suono di campane per allietargli l'animo. Lanciò una sola occhiata e poi volò via a radunare la sua gente. Un minuto dopo le campane risuonavano furiosamente e i vari edifici vomitavano monaci e monache che si precipitarono a frotte verso il corteo che si avvicinava. E con loro c'era il mago, alla berlina, per ordine dell'abate. La sua reputazione era nel fango e la mia era di nuovo alle stelle.





















Capitolo 25









IL PRIMO GIORNALE









Quando il re viaggiava per cambiare aria, o faceva un viaggio ufficiale, o andava a far visita a qualche nobile lontano che egli voleva mandare in rovina con le spese del suo mantenimento, una parte dell'amministrazione si muoveva con lui. Era un'usanza di quei tempi.



E sebbene questa spedizione fosse esclusivamente una gita di piacere, il re continuò lo stesso a svolgere le sue funzioni.



Toccava i malati come di solito, presiedeva il tribunale alle porte del paese al sorgere del sole e giudicava le cause, perché egli stesso era il Presidente del Tribunale della Regia Corte.



Le sentenze del re causavano frequenti ingiustizie, ma la colpa era soltanto della sua educazione, delle sue naturali e inalterabili simpatie. Era tanto adatto ad amministrare la giustizia quanto una madre sarebbe adatta a distribuire la razione di latte ai bambini affamati in tempo di carestia: i suoi bambini sarebbero nutriti un po' meglio degli altri.



Il popolo di Artù rappresentava sicuramente un materiale misero per una repubblica, perché era stato degradato per troppo tempo dalla monarchia. Eppure anch'essi sarebbero stati abbastanza intelligenti da sbarazzarsi di quelle leggi ingiuste, se fossero state sottoposte al loro voto libero e universale.



Quando dissi al re che sarei andato in giro per il paese travestito da comune uomo libero, per conoscere da vicino la vita più umile del popolo, egli si accese subito di entusiasmo per la novità della cosa e decise di prendere parte egli stesso all'avventura. Nulla lo avrebbe fermato, avrebbe lasciato perdere ogni cosa e sarebbe partito con me; era l'idea più bella che gli fosse capitata negli ultimi tempi. Voleva svignarsela dalla porta di servizio e cominciare subito, ma io gli dimostrai che non era la risoluzione migliore. Capirete, era scritturato per la scrofola, voglio dire per guarire grazie al tocco delle sue mani, e non sarebbe stato giusto deludere il pubblico. E poi pensavo che avrebbe dovuto informare la regina della sua partenza.



A queste parole il re si rabbuiò e prese un'aria triste. Mi dispiacque di aver parlato, specialmente quando mi disse in tono cupo:



- Tu dimentichi che Lancillotto è qui e quando c'è Lancillotto ella non nota né la partenza del re, né in qual giorno egli ritorni.



Naturalmente cambiai argomento. Sì, Ginevra era bella, è vero, ma nell'insieme era piuttosto dissoluta. Non mi sono mai immischiato in queste faccende, non erano affar mio, ma non mi piaceva affatto vedere il modo in cui andavano le cose e non m'importava affatto di dirlo. Molte e molte volte ella mi aveva chiesto:



- Messer Capo, hai visto ser Lancillotto? Ma non si era mai preoccupata di sapere dove fosse il re.



C'era un'ottima messa in scena per la cerimonia della scrofola, tutto molto ordinato e lodevole. Il re sedeva sotto un baldacchino di gala e intorno a lui era raccolta una vasta rappresentanza del clero in paramenti da cerimonia. Spiccava, fra tutti, sia per il posto che occupava, sia per l'abbigliamento, Marinel, un eremita del genere medico-ciarlatano, che introduceva i malati.



Tutt'intorno, sul pavimento spazioso, giù giù fino alle porte, in un fitto guazzabuglio, giacevano o sedevano gli scrofolosi sotto una luce intensa.



Erano presenti ottocento malati. Il lavoro procedeva lentamente.



Per me mancava l'interesse della novità, perché avevo già visto queste cerimonie. Ben presto la cosa divenne noiosa, ma la buona creanza esigeva che io resistessi fino alla fine.



C'era anche il dottore per la ragione che in una tale folla c'erano molte persone che immaginavano di avere qualche cosa e molti che erano sani, ma che volevano l'onore immortale del contatto fisico con un re e altri ancora che fingevano di essere malati per ricevere la monetina che accompagnava l'imposizione delle mani.



Marinel riceveva i pazienti via via che arrivavano. Esaminava il candidato: se questi non era idoneo, gli veniva intimato di allontanarsi; se lo era veniva passato al re. Un prete pronunciava le parole:



- Essi imporranno le loro mani sugli infermi, ed essi guariranno.



Poi il re dava un leggero tocco alle ulcere, mentre la lettura continuava e finalmente il paziente veniva "guarito", dopodiché riceveva il suo nichelino, e veniva congedato.



Certo che guariva. Qualsiasi ciarlataneria può guarire, se la fede del paziente in essa è forte.



Ebbene, dopo tre ore che il prete andava biascicando e il buon re lustrando le piaghe e i malati continuavano ad avanzare più numerosi che mai, io cominciai a provare una noia intollerabile.



Ero seduto vicino a una finestra aperta, non lontano dal baldacchino reale. Per la cinquecentesima volta un paziente si fece avanti per farsi toccare le repellenti piaghe, quando là fuori squillò chiaro come una tromba un suono che m'incantò l'animo e fece crollare tredici secoli senza valore:



- L'Osanna Settimanale e il Vulcano letterario di Camelot! Solo due cents. Tutto sul grande miracolo della Valle Santa!



Era arrivato qualcuno più grande dei re, lo strillone! Ma io ero la sola persona, in tutta quella folla, che conoscesse il significato di quel grandioso evento e che cosa fosse venuto a fare nel mondo questo mago imperiale. Lasciai cadere un nichelino fuori dalla finestra ed ebbi il mio giornale.



Era un piacere vedere di nuovo un giornale, tuttavia avvertii un segreto disagio quando il mio sguardo cadde sulla prima serie di titoli a grandi caratteri.



Ero vissuto così a lungo in un'atmosfera di viscida riverenza, di rispetto e di deferenza, che nel leggere quei titoli sentii un brivido di freddo:









AVVENIMENTI SENSAZIONALI NELLA VALLE SANTA!



Gli impianti dell'acqua bloccati!



FRATELLO MELRINO mette in opera le sue Arti, ma fallisce!



INVECE IL CAPO SEGNA ALLA PRIMA BATTUTA!



IL POZZO MIRACOLOSO STURATO FRA TREMENDE ESPLOSIONI DI FUOCO E FUMO E TUONI INFERNALI!



SBIGOTIMENTO NEL COVO DEI FALCHI!



INCOMPARABILI FESTEGGIAMENTI!



e così via, e così via. Sì, era troppo vistoso. Una volta me ne sarei rallegrato e non vi avrei trovato nulla da ridire, ma ora c'era una nota stridente. Era un buon giornalismo dell'Arkansas, ma questo non era l'Arkansas. Inoltre, l'articolo, dalla prima all'ultima riga, sembrava fatto apposta per offendere gli eremiti e farci correre il rischio di perdere la loro pubblicità.



In verità c'era un tono troppo frivolo e leggero in tutto il giornale. Era evidente che io avevo subito un notevole mutamento senza accorgermene. Mi sentivo spiacevolmente colpito nel leggere impertinenti irriverenze che nel precedente periodo della mia vita mi sarebbero parse ben appropriate. C'erano in abbondanza esempi del seguente tipo, che mi davano un senso di disagio:









FATTI LOCALI E CRONACA SPICCIOLA









Ser Lancillotto ha avuto uno scontro imprevisto con il vecchio re d'Irlanda Agrivance la settimana scorsa nella pianura a sud del pascolo di porci di ser Balmoral le Merveilleuse. La vedova è stata avvertita.



I lettori dell'Osanna apprenderanno con rincrescimento che il popolare ser Charolais di Gaul, che nelle quattro settimane del suo soggiorno al "Toro e Passera" di questa città ha conquistato tutti i cuori con i suoi bei modi e la sua elegante conversazione, partirà oggi per tornare a casa. Torna a farci un'altra visita, Carletto!



I preparativi per il funerale del defunto ser Dalliance figlio del duca di Cornovaglia, ucciso in uno scontro con il Gigante del Randello Nodoso martedì scorso ai confini del Pian dell'Incantesimo, era nelle mani del sempre efficiente Mumble, il principe degli impresari di pompe funebri, di cui non vi è alcuno dal quale si possa avere maggiore soddisfazione e piacere nell'esecuzione degli ultimi tristi uffici. Mettetelo alla prova.



I più cordiali ringraziamenti della redazione dell'Osanna, dal direttore giù fino al galoppino, al sempre cortese e premuroso Trezo Assistente Valletto del Lord Cerimoniere di Palazzo per le numerose coppette di gelato di qualità tale da fare inumidire di gratitudine gli occhi dei riceventi; e così avvenne. Quando questa amministrazione vorrà segnalare un nome per una rapida promozione, l'Osanna sarà lieto di avere l'opportunità di proporlo.



Il giovane Barker aggiustatore di mantici è tornato a casa ed appare assai migliorato grazie al suo giro di vacanze tra i fabbri dei dintorni. Vedere la sua pubblicità.















Senza dubbio era un giornalismo discreto come esordio, me ne rendevo conto benissimo, eppure era in qualche modo deludente.



"L'Effemeride di Corte" mi piacque di più, la sua semplice e dignitosa deferenza fu un vero sollievo per me dopo tutte quelle riprovevoli familiarità. Ma anche questo avrebbe potuto essere migliorato. Per quanto si faccia, non si può ottenere un'apparenza di varietà in un bollettino di corte, lo riconosco. C'è una profonda monotonia nei suoi avvenimenti che annienta i più sinceri sforzi per renderli vivaci ed entusiasmanti. Il modo migliore per descrivere questi fatti è di mascherare la ripetizione con la varietà della forma.



Questo inganna l'occhio. Si crede che sia un fatto nuovo, dà l'idea che la corte funzioni a tutto vapore. Questo stimola l'interesse e si divora l'intera colonna di buon appetito e forse non ci si accorge neppure che è un barile di minestra fatto con un fagiolo solo.



Il metodo di Clarence era buono, semplice, dignitoso. Era diretto e pratico; dico soltanto, però, che non era il metodo migliore.









EFFEMERIDE DI CORTE









Lunedì, il re ha cavalcato nel parco.



Martedì, il re ha cavalcato nel parco.



Mercoledì, il re ha cavalcato nel parco.



Giovedì, il re ha cavalcato nel parco.



Venerdì, il re ha cavalcato nel parco.



Sabato, il re ha cavalcato nel parco.



Domenica, il re ha cavalcato nel parco.









Tuttavia, considerando il giornale nel suo insieme, ne fui ampiamente soddisfatto. Si notavano qua e là piccoli errori di carattere tecnico, ma non ce n'erano così tanti da farci caso.



Di regola la grammatica lasciava a desiderare e la costruzione era più o meno zoppicante, ma io non mi preoccupavo molto di queste cose. Sono difetti miei abituali e non bisogna criticare gli altri su un terreno in cui non riusciamo a rimanere dritti noi stessi.



Ero tanto affamato di parole scritte che mi sarei divorato il giornale intero in un pasto solo, ma ne gustai appena qualche boccone. Poi dovetti rimandare a più tardi, perché i monaci intorno a me mi assillavano di domande impazienti:



"Che cos'è questa strana cosa? A che serve? E un fazzoletto? Una coperta per sella? Un pezzo di camicia? Di che cosa è fatta? Com'è sottile, e com'è delicata e fragile! E come fruscia! Credete che durerà e che la pioggia non la danneggerà? E' una scritta quella che appare su di essa, o è soltanto un ornamento?" Sospettavano che fosse scrittura, perché quelli tra loro che sapevano leggere il latino e avevano un'infarinatura di greco, riconobbero alcune lettere, ma non riuscirono a concludere nulla nell'insieme. Presentai la mia spiegazione nella forma più semplice che potei:



- E' un giornale pubblico: vi spiegherò che cosa vuol dire un'altra volta. Non è una stoffa, è fatto di carta. Vi spiegherò una volta o l'altra che cos'è la carta. Le righe rappresentano il materiale per lettura; e non sono scritte a mano, ma stampate. Vi spiegherò poi che cos'è la stampa. Sono stati fatti un migliaio di questi fogli, tutti esattamente come questo, in ogni minimo particolare. Non si distinguono uno dall'altro.



Allora tutti scoppiarono in esclamazioni di sorpresa e di ammirazione:



- Un migliaio! Davvero un'opera straordinaria, un anno di lavoro per molti uomini.



- No, semplicemente una giornata di lavoro per un uomo e un ragazzo.



I monaci si fecero il segno della croce e bisbigliarono un paio di preghiere invocanti protezione.



- Ah, miracolo, meraviglia! Oscura opera di incantesimo!



Lasciai correre. Poi lessi a bassa voce, a quanti di loro riuscirono a spingere le loro teste rasate a portata di voce, parte del resoconto del miracolo del ripristino del pozzo. La lettura fu accompagnata dall'inizio alla fine da esclamazioni di stupore e di riverenza:



- Ah! Com'è vero! Sorprendente! Sorprendente! Sono gli eventi proprio come sono accaduti, con meravigliosa esattezza!



E chiesero se potevano prendere in mano quella strana cosa, toccarla ed esaminarla. Sarebbero stati molto attenti. Col mio permesso, la presero, toccandola con tale cautela e devozione come se fosse stato un oggetto sacro venuto da qualche regione soprannaturale: delicatamente si accertavano della sua consistenza, ne accarezzavano la superficie gradevolmente liscia con lenti movimenti e ne scrutavano i caratteri misteriosi con occhi affascinati. Che soddisfazione vedere tutte quelle teste chine raggruppate, quei volti incantati, quegli occhi parlanti!



Che bello per me! Non era forse questa la mia amata creatura? E tutto quel muto stupore e quell'interesse e quell'omaggio non erano forse il più eloquente e il più spontaneo complimento ad essa?



Durante tutto il resto della seduta il mio giornale viaggiò da un gruppo all'altro, su e giù, intorno a quella immensa sala. Il mio sguardo felice lo seguiva sempre, mentre stavo seduto immobile, immerso nella soddisfazione, ebbro di piacere. Sì, quello era il paradiso; se non avessi potuto più gustarlo, almeno lo stavo assaporando una volta.





















Capitolo 26









LO YANKEE E IL RE VIAGGIANO IN INCOGNITO









Quando si avvicinò l'ora di andare a letto, condussi il re nel mio alloggio per tagliargli i capelli e aiutarlo a prendere dimestichezza con l'umile abbigliamento che doveva indossare. Le classi ricche portavano i capelli tagliati a frangetta sulla fronte ma lunghi fino alle spalle, mentre i ceti più bassi li avevano a frangetta davanti e dietro; gli schiavi erano senza frangia e lasciavano crescere i loro capelli liberamente. Così gli misi sulla testa una scodella rovesciata e tagliai via tutte le ciocche che pendevano. Gli spuntai anche le basette e i baffi, lasciandone appena un centimetro e mezzo di lunghezza. Cercai di farlo in modo non artistico e ci riuscii. Era un'abominevole deturpazione. Quando ebbe indossato i goffi sandali e la lunga veste di rozza tela marrone che ricadeva dritta dal collo alle caviglie, non era più l'uomo più avvenente del suo regno, ma uno dei meno belli, dei più comuni. Eravamo vestiti e pettinati allo stesso modo e potevamo passare per dei piccoli proprietari di terre, o fattori, o pastori, o carrettieri. Sì, oppure per artigiani di villaggio, se volevamo, perché il nostro costume era in realtà quello adottato universalmente dalla povera gente, per la sua robustezza e il suo basso prezzo. Non voglio dire che fosse veramente a buon mercato per una persona molto povera, ma intendo dire che era la stoffa più a buon mercato che ci fosse per abbigliamento maschile, a roba confezionata beninteso.



Uscimmo di soppiatto un'ora prima dell'alba e quando il sole era alto avevamo già fatto otto o dieci miglia ed eravamo in mezzo a una campagna scarsamente abitata. Portavo uno zaino piuttosto pesante, carico di provviste che dovevano servire al re, fino a che non si fosse assuefatto, senza inconvenienti, al cibo grossolano della campagna.



Trovai per il re un posto comodo vicino al ciglio della strada poi gli diedi un boccone o due per calmare lo stomaco. Poi dissi che sarei andato a cercargli un po' d'acqua e me la svignai. Il mio piano era di sottrarmi alla sua vista per sedermi e riposare un po' anch'io.



Trovai l'acqua a circa trecento metri più avanti e mi stavo riposando già da una ventina di minuti, quando udii delle voci.



"Non è niente" pensai "saranno dei contadini che vanno al lavoro" non poteva esserci nessun altro in giro così presto. Ma un istante dopo i nuovi arrivati apparvero alla vista a una svolta della strada. Erano persone d'alto rango, elegantemente vestite, con un seguito di muli da carico e di servitori! Partii come un razzo attraverso i cespugli e le scorciatoie. Per un momento sembrò che quella gente sarebbe passata davanti al re prima che io potessi raggiungerlo. Ma la disperazione, si sa, dà le ali. Tesi il corpo in avanti, gonfiai il petto, trattenni il respiro e volai.



Arrivai. E anche parecchio in anticipo.



- Perdonate, mio re, ma non c'è tempo per le cerimonie, alzatevi!



Alzatevi in piedi: sta arrivando gente di alto rango!



- Che c'è da stupirsi? Lasciateli venire.



- Ma, mio signore! Non devono vedervi seduto. Alzatevi! E assumete un atteggiamento umile mentre passano. Siete un contadino, ricordatevelo.



- Vero, me n'ero dimenticato, tanto ero immerso nel progetto di una grandissima guerra contro la Gallia.



Intanto si era alzato, ma una fattoria si sarebbe mossa più alla svelta, se ci fosse un qualche tipo di attività nei beni immobili.



-Un atteggiamento più umile, mio signore e re, e presto! Chinate la testa!... Di più!... Ancora di più!... Più giù!



Faceva del suo meglio, ma, buon Dio, non era gran che. Aveva un aspetto umile quanto la torre pendente di Pisa. E' il massimo che si può dire. A dire il vero fu un insuccesso talmente clamoroso che sollevò sguardi di sorpresa lungo tutta la fila e un servitore in sgargiante livrea, che chiudeva il corteo, alzò la frusta. Ma io feci un balzo in tempo e mi ci trovai sotto quando ricadde.



Coperto dalla scarica di rozze risate che seguì, parlai al re in tono brusco e lo avvertii di non badarci. Egli riuscì a dominarsi sul momento, ma fu una dura imposizione; voleva mangiarsi tutto il corteo. Io dissi:



- Sarebbe la fine delle nostre avventure prima che comincino.



Essendo noi senza armi non potremmo fare nulla con quella banda armata. Se vogliamo riuscire nella nostra impresa, dobbiamo non soltanto avere l'aspetto di contadini, ma comportarci da contadini.



- Questa è saggezza, nessuno può negarlo. Proseguiamo, ser Capo.



Prenderò nota, imparerò e farò meglio che potrò.



Mantenne la parola. Fece del suo meglio, ma io ho visto fare di meglio. Se avete mai osservato un bambino attivo, spericolato, intraprendente, passare diligentemente da un danno all'altro per tutto il giorno e una madre ansiosa di continuo alle sue calcagna, che lo salva proprio per un pelo dall'annegarsi o dal rompersi il collo ad ogni nuovo esperimento, ebbene, avete visto il re e me.



Mi faceva avere continui spaventi, riservandomi sempre nuove sorprese nei luoghi più inaspettati. Il secondo giorno, verso sera, che fece? Tirò fuori tranquillamente un pugnale da sotto la veste!



- Per mille bombe, mio signore, dove l'avete preso?



- Da un contrabbandiere alla taverna, ieri sera. Come diamine vi è saltato in mente di comprarlo?



- Siamo scampati a diversi pericoli grazie all'astuzia, la tua astuzia, ma ho pensato che sarebbe prudente se anch'io avessi un'arma. La tua potrebbe venirti meno in qualche tranello.



- Ma alla gente della nostra condizione non è permesso portare armi. Che cosa direbbe un nobile, o qualsiasi altra persona di qualsivoglia condizione, se sorprendesse un villano con indosso un pugnale?



Fu per noi una vera fortuna che in quel momento non passasse nessuno. Riuscii a convincerlo a gettar via il pugnale e fu tanto facile quanto persuadere un bambino a rinunciare a un bel modo nuovo per ammazzarsi. Continuammo a camminare in silenzio, assorti nei nostri pensieri. Alla fine il re disse:



- Quando tu sai che sto meditando una cosa inopportuna, o che possa recare qualche pericolo, perché non mi avverti di desistere da tale progetto?



Era una domanda sorprendente e imbarazzante. Non sapevo bene come prenderla, né che rispondere, e così, naturalmente, finii col dire la cosa più naturale:



- Ma, sire, come posso "io" sapere quali sono i vostri pensieri?



Il re si fermò di colpo e mi guardò sbalordito.



- Credevo che tu fossi più grande di Merlino. E, in verità, nelle arti magiche tu lo sei. Ma la profezia è più grande della magia. E Merlino è un Profeta.



Mi resi conto di aver fatto un errore grossolano. Dovevo riguadagnare il terreno perduto. Dopo lunga riflessione e accurato calcolo, dissi:



- Sire, sono stato frainteso. Mi spiegherò meglio. Ci sono due tipi di profezia. Una è il dono di predire avvenimenti non lontani nel tempo, l'altra è il dono di predire eventi che distano da noi epoche e secoli interi. Qual è secondo voi, il dono più straordinario?



- Oh, quest'ultimo, senza dubbio!



- Giusto. E Merlino lo possiede?



- In parte, sì. Predisse misteri sulla mia nascita e sul mio futuro regno a distanza di venti anni.



- E' mai andato oltre quel tempo?



- Non credo che egli potrebbe spingersi oltre.



- Questo probabilmente è il suo limite. Tutti i profeti hanno un loro limite. Il limite di alcuni dei grandi profeti è stato di cento anni.



- Questi sono pochi, immagino.



- Ce ne sono stati due ancora più grandi il cui limite era di quattrocento o seicento anni e un altro il cui limite era arrivato persino a settecentoventi.



- Cielo! E' meraviglioso!



- Ma che sono mai costoro al mio confronto? Non sono niente.



- Che? Puoi veramente vedere persino oltre un così enorme periodo di tempo come...



- Settecento anni? Mio signore, il mio occhio profetico, acuto come la vista di un'aquila, penetra e rivela il futuro del mondo per quasi tredici secoli e mezzo!



Perdinci, avreste dovuto vedere come si spalancavano gli occhi del re. Questo sistemò fratello Merlino. Non succedeva mai di dover dimostrare la verità dei fatti, con questa gente, tutto quello che si doveva fare, era di affermarli. Non veniva mai in mente a nessuno di mettere in dubbio l'affermazione.



- Or dunque - continuai - io "potrei" esercitare tutti e due i tipi di profezia, la lunga e la breve, se volessi prendermi la pena di mantenermi in esercizio. Ma è raro che io mi occupi di profezia che non sia a lunga distanza, perché l'altra è al di sotto della mia dignità. Naturalmente, di tanto in tanto, come spuntino, mi diletto anche di qualche profezia minore, ma non spesso, quasi mai, in verità. Ricorderete che si fece un gran parlare, quando giungeste alla Valle Santa, del fatto che io avevo profetizzato la vostra venuta e l'ora precisa dell'arrivo, due o tre giorni prima.



- Sì, invero, ora mi sovviene.



- Ebbene, avrei potuto farlo quaranta volte più facilmente, se fosse stato a una distanza di cinquecento anni invece di due o tre giorni.



- Sembra incredibile!



- Sì, un vero esperto può sempre predire una cosa a cinquecento anni di distanza più facilmente di una cosa che sia soltanto a cinquecento secondi di distanza.



- Eppure, a lume di ragione, dovrebbe essere esattamente l'opposto: dovrebbe essere cinquecento volte più facile predire la cosa più vicina anziché quella più lontana, poiché in realtà è così vicina che potrebbe vederla anche uno non ispirato.



Era una persona saggia. Un berretto da contadino non era un travestimento sicuro per quella testa; la si sarebbe riconosciuta per quella di un re anche sotto un casco da palombaro, se si fosse riusciti a udire il suo intelletto in funzione.



Ora avevo una nuova occupazione che mi avrebbe dato molto da fare.



Il re era così avido di scoprire tutto quello che sarebbe accaduto nei prossimi tredici secoli, come se si aspettasse di viverli. Da quel momento in poi feci profezie fino a diventare calvo, nel tentativo di soddisfare la richiesta.



Ogni giorno incontravamo uno o più cavalieri erranti e ogni volta, a quella vista, lo spirito guerriero del re si infiammava. Si sarebbe di certo dimenticato della sua parte e avrebbe detto loro qualcosa in uno stile superiore al suo grado apparente, se non lo avessi sempre trascinato via dalla strada in tempo. Allora restava là a guardare, attentissimo. Nei suoi occhi balenava un lampo di orgoglio e le sue narici si dilatavano come quelle di un cavallo da guerra ed io capivo che moriva dalla voglia di scontrarsi con loro. Verso il mezzodì del terzo giorno mi ero fermato per la strada per prendere una precauzione che mi era stata suggerita da quella frustata che mi ero preso due giorni prima. Avevo deciso dapprima di non prenderla, ma ora qualcosa me l'aveva fatta venire in mente di nuovo: mentre camminavo a grandi passi, sbadatamente, ero inciampato ed ero caduto lungo disteso. Ero impallidito al punto che, per un momento non riuscii neppure a pensare. Poi mi alzai pian piano e con cautela mi sfilai lo zaino. Lì dentro, in una scatola, c'era una bomba di dinamite avvolta nella lana. Era una cosa utile da portarsi dietro: forse sarebbe venuto il momento in cui avrei potuto usarla per compiere un prezioso miracolo, ma mi rendeva nervoso portarla addosso e non volevo chiedere al re di portarla lui. Dovevo buttarla via, o trovare un modo sicuro per andare avanti in sua compagnia. La tirai fuori e la feci scivolare nella bisaccia e proprio in quel momento sopraggiunsero un paio di cavalieri. Il re stava ritto, maestoso come una statua, con lo sguardo fisso su di loro. Naturalmente si era dimenticato di nuovo della sua parte e, prima che io potessi pronunciare una parola di avvertimento, era già tempo per lui di farsi da parte; e buon per lui che lo fece. Si aspettava che quelli si sarebbero scostati.



Scostarsi per evitare di calpestare un sudicio contadino? Quando mai si era scostato lui stesso, o quando mai gli si era presentata l'occasione di farlo, se un contadino vedeva lui o qualunque altro nobile cavaliere in tempo ragionevole per risparmiargli il disturbo? I cavalieri non prestarono alcuna attenzione al re:



toccava a lui stare attento e se non si fosse tirato da parte in tempo, sarebbe stato tranquillamente calpestato e per di più beffato. Il re avvampò di collera e lanciò la sua sfida e i suoi epiteti con un vigore veramente regale. I cavalieri erano già a una certa distanza. Si fermarono, molto stupiti, si girarono sulla sella e guardarono indietro, come per chiedersi se valesse la pena di prendersela con della feccia come noi. Voltarono i cavalli e si lanciarono verso di noi. Non c'era un istante da perdere. Io mi lanciai verso di loro. Li sorpassai a gran carriera e nel passargli vicino scagliai un insulto da far rizzare i capelli e da bruciare l'anima. Lo avevo attinto dal diciannovesimo secolo, dove in questo campo sono degli esperti. I due cavalieri avevano preso un tale slancio che arrivarono quasi addosso al re, prima che riuscissero a fermarsi. Allora, pazzi di rabbia, fecero impennare i cavalli, li fecero rigirare rapidamente e un istante dopo eccoli venire fianco a fianco. Io in quel momento ero a una settantina di metri di distanza e stavo arrampicandomi su un grosso masso al margine della strada. Quando furono a circa trenta metri da me, abbassarono le loro lunghe lance orizzontalmente, chinarono le loro teste protette dall'elmo; così, con le criniere piumate svolazzanti questo treno sfrecciante si lanciò alla carica contro di me! Quando furono a una quindicina di metri lanciai con mira sicura la bomba, che colpì il suolo proprio sotto il naso dei cavalli.



Sì, fu una cosa ben fatta, molto ben fatta e bella a vedersi.



Rassomigliava all'esplosione di un battello a vapore sul Mississippi. Per i quindici minuti che seguirono rimanemmo fermi sotto una pioggerella costante di frammenti microscopici di cavalieri, di ferraglia e di carne di cavallo. Dico noi, perché il re, naturalmente, si unì agli spettatori, non appena ebbe ripreso fiato. Là c'era rimasto un buco che avrebbe dato lavoro ininterrotto a tutta la popolazione di quella regione per alcuni anni a venire.



Diedi delle spiegazioni al re. Dissi che avevo agito con una bomba alla dinamite. Questa informazione non gli fece alcun danno, perché lo lasciò intelligente come prima. Tuttavia, a parer suo, era stato un nobilissimo miracolo e questo fu un altro duro colpo per Merlino. Pensai bene di spiegare che si trattava di un miracolo di tipo tanto raro che non si poteva compiere se non in determinate condizioni atmosferiche. Altrimenti il re mi avrebbe chiesto un bis ogni volta che avessimo avuto un buon pretesto e questo sarebbe stato spiacevole, perché non avevo con me altre bombe.





















Capitolo 27









LA CAPANNA DEL VAIOLO









A metà del pomeriggio del quarto giorno arrivammo a una capanna.



Non scorgemmo intorno alcun segno di vita. Il campo vicino era stato spogliato del raccolto già da qualche tempo e sembrava spellato tanto a fondo era stato mietuto e spigolato. Il recinto, le tettoie, ogni cosa aveva un aspetto di rovina, segno eloquente di miseria. Non c'erano animali in giro, non un essere vivente in vista. Il silenzio era spaventoso, simile al silenzio della morte.



La capanna era a un solo piano, con il tetto di paglia a pezzi per mancanza di riparazioni. La porta era socchiusa. Ci avvicinammo furtivamente.



Il re bussò. Aspettammo. Nessuna risposta. Bussò di nuovo. Nessuna risposta ancora. Spinsi piano la porta e guardai dentro. Intravidi delle forme vaghe: una donna si alzò di scatto da terra e mi fissò, come succede quando si è svegliati dal sonno.



- Abbiate pietà! - supplicò. - Hanno preso tutto, non è rimasto niente.



- Non sono venuto a prendere nulla, povera donna.



- Non siete un prete?



- No.



- Né venite da parte del signore del maniero?



- No, sono uno straniero.



- Oh, allora, per timore di Dio, che manda sventure e morte a coloro che sono innocenti, non indugiate qui, fuggite! Questo luogo è sotto la Sua maledizione e quella della Sua Chiesa.



Lasciate che entri e che vi aiuti, siete malata e nei guai.



Ormai mi ero assuefatto a quella luce fioca. Potevo vedere gli occhi infossati della donna fissi su di me. Potevo vedere quanto fosse emaciata.



- Vi dico che questo luogo è al bando della Chiesa. Salvatevi...



andatevene prima che qualche viandante vi veda qui e lo racconti.



- Non datevi pensiero per me: non me ne importa niente della maledizione della Chiesa. Lasciate che vi aiuti - Che tutti gli spiriti buoni ti benedicano per queste parole.



Volesse Iddio che io potessi avere un sorso d'acqua!



Ma fermati, fermati, dimentica quel che ho detto e fuggi, perché c'è qualcosa qui che anche colui che non teme la Chiesa deve temere: questa malattia di cui moriamo. Lasciaci, coraggioso e buon straniero, e porta con te tutta la sincera benedizione che possono dare coloro che son maledetti.



Ma prima che avesse finito, avevo raccolto una ciotola ed ero andato di corsa, oltrepassando il re, verso il ruscello distante una decina di metri. Quando ritornai nella capanna, il re era dentro e stava aprendo l'imposta della finestra per far entrare aria e luce. Il luogo era pieno di un disgustoso fetore. Accostai la ciotola alle labbra della donna e mentre ella l'afferrava con avidi artigli, l'imposta si aprì e la luce viva inondò il suo viso. Vaiolo! Mi precipitai verso il re e gli dissi all'orecchio:



- Fuori di qui all'istante, sire! La donna sta morendo di quella malattia che ha funestato i dintorni di Camelot due anni fa. Egli non si mosse.



- In verità rimarrò e anch'io darò soccorso.



Bisbigliai un'altra volta:



- Sire, non è possibile. Dovete andare.



Il vostro intento è buono e savio il vostro parlare, ma sarebbe un disonore per un re conoscere la paura e disonore per un cavaliere ritirare la sua mano là dove son coloro che hanno bisogno di soccorso. Calmatevi, non me ne andrò.



Era estremamente pericoloso per lui restare in questo luogo e gli poteva costare la vita, ma era inutile discutere. Se riteneva che fosse in gioco il suo onore di cavaliere, non c'era più niente da discutere. Sarebbe rimasto e nulla glielo avrebbe potuto impedire, me ne rendevo conto. E così lasciai cadere l'argomento. La donna parlò:



- Bel messere, volete essere così gentile di salire quella scala e darmi notizia di quel che troverete? Non abbiate timore di riferire, poiché può venire il momento in cui anche il cuore di una madre non può più spezzarsi, perché è già spezzato.



Restate - disse il re - e date da mangiare alla donna. Andrò io. E depose lo zaino. Feci l'atto di muovermi, ma il re si era già avviato. Si fermò e chinò lo sguardo su un uomo che giaceva nella penombra e che fino a quel momento non si era accorto di noi, né aveva parlato.



- E' tuo marito? - chiese il re.



- Sì.



- Dorme?



- Dio sia ringraziato per quest'unica carità: sì, da tre ore.



Dissi:



- Staremo attenti. Non lo sveglieremo.



- Ah, no, quello non lo farete, perché è morto.



- Morto?



- Sì, che gioia il saperlo! Nessuno può fargli del male, ora, nessuno può insultarlo. Egli è in cielo, ora, e felice. Se invece non è là, ha dimora migliore all'inferno ed è contento, perché in quel luogo non troverà né abati, né vescovi. Siamo cresciuti insieme da bambini; siamo stati marito e moglie per venticinque anni e fino a questo giorno non ci siamo mai separati. Pensate quanto tempo per amare e soffrire insieme.



Si udì un leggero rumore in direzione dell'angolo oscuro dov'era la scala. Era il re che scendeva. Vidi che portava qualcosa su un braccio, mentre con l'altro si aiutava a scendere. Venne avanti nella luce: contro il suo petto era adagiata un'esile fanciulla di quindici anni. Era solo a metà cosciente. Stava morendo di vaiolo.



Questo era eroismo nella sua estrema e più alta espressione.



Questa era una sfida alla morte in campo aperto, disarmato, con tutte le probabilità a svantaggio dello sfidante, senza nessun premio nella contesa, senza un pubblico di ammiratori in abiti di seta ed oro intento a guardare e ad applaudire. Eppure, il contegno del re era serenamente coraggioso come lo era sempre stato in quelle contese di poco valore, dove un cavaliere si scontra con un cavaliere ad armi pari e protetto dall'armatura d'acciaio. Era grande, ora, grande in modo sublime. Alle rozze statue dei suoi antenati nel suo palazzo doveva esserne aggiunta un'altra, a questo avrei provveduto io. E non sarebbe stata l'immagine di un re in armatura nell'atto di uccidere un gigante o un drago, come tutti gli altri; sarebbe stato un re in abiti popolani, recante fra le braccia la morte affinché una madre contadina potesse dare un ultimo sguardo alla propria creatura e riceverne conforto. Egli depose la fanciulla accanto alla madre che riversò su di lei tutta la tenerezza e le carezze di un cuore palpitante e si poté scorgere una vaga luce tremula di reazione negli occhi della figlia. Ma questo fu tutto. La madre si chinò su di lei baciandola, carezzandola amorosamente, implorandola di parlare, ma le labbra si mossero appena e non uscì alcun suono.



Presi in fretta dallo zaino la fiaschetta del liquore, ma la donna mi trattenne dicendo:



- No, ella non soffre, è meglio così. Potrebbe richiamarla alla vita. Nessuno che sia buono e gentile come voi vorrebbe colpirla così crudelmente. Perché, vedete, qual ragione di vivere le resta mai? Scomparsi sono i suoi fratelli, scomparso suo padre, sua madre sta per andarsene, la maledizione della Chiesa è su di lei e nessuno può darle protezione o esserle amico, anche se giacesse morente sulla strada. Ella è derelitta. Non vi ho chiesto, cuore generoso, se sua sorella è ancora in vita di sopra. Non ce n'era bisogno, altrimenti voi sareste tornato indietro e non avreste lasciato quella povera creatura abbandonata.



- Ella giace in pace - interruppe il re sottovoce.



- Non vorrei che fosse altrimenti. Com'è ricco di felicità questo giorno! Ah, mia Annis, presto raggiungerai tua sorella, sei già in cammino, e questi che sono amici pietosi non te lo impediranno. E allora ricominciò a bisbigliare e a sussurrare tenere parole alla fanciulla, carezzandole dolcemente il viso e i capelli, baciandola e chiamandola coi nomi più affettuosi; ma ormai non c'era più segno di risposta negli occhi vitrei. Vidi delle lacrime sgorgare dagli occhi del re e colargli giù per il viso. Anche la donna se ne accorse e disse:



- Ah, conosco questo segno. Tu hai una moglie a casa, povera creatura, e tu e lei tante e tante volte siete andati a letto affamati affinché i piccoli potessero avere il vostro tozzo di pane. Tu conosci la miseria e i quotidiani insulti dei tuoi superiori e la mano pesante della Chiesa e del re.



Il re trasalì a questa stoccata casuale, ma rimase in silenzio.



Stava imparando la sua parte, recitandola anche bene per un principiante piuttosto ottuso.



Introdussi una diversione, Offrii alla donna cibo e liquore, ma ella rifiutò l'uno e l'altro. Non accettava nulla che venisse a frapporsi fra lei e la liberazione della morte. Allora sgusciai di sopra, portai giù la bambina morta e gliela adagiai accanto.



Questo la riportò in uno stato di prostrazione e ci fu un'altra scena da spezzare il cuore. Di lì a poco trovai un'altra diversione e la indussi a descriverci sommariamente la sua vita.



- La conoscete bene voi stessi, avendola sofferta, perché in verità in Britannia nessuno della nostra condizione ne sfugge. E' la vecchia, solita storia. Abbiamo combattuto e lottato e siamo riusciti, voglio dire che siamo riusciti a vivere e non siamo morti: più di tanto non ci è permesso pretendere. Non giunsero mai tribolazioni che non potessimo superare, finché quest'anno le recò. Allora arrivarono tutte insieme e fummo sopraffatti. Anni fa il signore del maniero aveva piantato degli alberi da frutta nel nostro terreno, proprio nella parte migliore, una grave ingiustizia e una vergogna...



- Ma era suo diritto - interruppe il re.



- Nessuno lo nega, infatti: ma ha un qualche senso la legge che stabilisce che quel che è del signore è suo e quel che è mio è anche suo? La nostra campagna era solo in affitto e perciò era anche sua e poteva disporne come voleva. Qualche tempo fa, tre di quegli alberi furono trovati abbattuti. I nostri tre figli grandi corsero spaventati a dar notizia del fatto criminoso. Ebbene, furono rinchiusi nelle segrete di sua signoria, il quale dice che là giaceranno e marciranno finché non avranno confessato. Essi non hanno nulla da confessare, essendo innocenti e perciò là rimarranno fino alla morte. Voi sapete questo molto bene, immagino. Pensate come eravamo rimasti dopo questa sciagura: un uomo, una donna e due bambine a mietere un raccolto che era stato seminato da forze tanto più grandi, sì, e a proteggerlo giorno e notte dai colombi e dagli animali da preda che sono sacri e non devono essere colpiti da gente della nostra specie. Quando il raccolto del signore fu quasi pronto per la mietitura, così era anche il nostro. Quando la sua campana suonò per farci accorrere nei suoi campi a raccogliere le sue messi senza alcun compenso, egli non volle concedere che io e le mie due bambine contassimo per i nostri tre figli prigionieri, ma solo per due di loro; perciò, per quello mancante, fummo multati giornalmente. Nel frattempo il nostro raccolto andava in rovina per l'incuria. Così, sia il prete sia sua signoria ci multarono perché la loro quota risentiva del danno. Alla fine le multe divorarono il raccolto ed essi se lo presero tutto e dovemmo mietere per loro, senza paga né cibo e noi stavamo morendo di fame. Poi arrivò il peggio, quando io, uscita di senno per la fame, la perdita dei miei ragazzi e la pena di vedere mio marito e le mie bambine in cenci, in miseria e in disperazione, pronunciai un'orrenda bestemmia - oh! un migliaio di esse - contro la Chiesa e il comportamento della Chiesa.



Accadde dieci giorni fa. Mi aveva già colto questo morbo e fu al prete che dissi queste parole, perché era venuto a rimproverarmi per la mia mancanza di dovuta umiltà sotto la mano castigatrice di Dio. Egli riferì la mia trasgressione ai suoi superiori. Io fui ostinata e così, dopo poco sulla mia testa e su quella di tutti coloro che mi erano cari, cadde la maledizione di Roma.



Da quel giorno siamo evitati, sfuggiti con orrore. Nessuno si è più avvicinato a questa capanna per sapere se siamo vivi o morti... Poi anche gli altri della famiglia vennero colti dal morbo. Allora io mi feci forza e mi alzai, come deve fare una mamma e una moglie. In ogni caso avrebbero potuto mangiare ben poco, c'era dell'acqua e gliela diedi. Come la desideravano! E come la benedirono! Ma ieri giunse la fine, le mie forze cedettero. Ieri fu l'ultima volta che vidi mio marito e la mia bambina più piccola ancora in vita. Sono rimasta distesa qui tutte queste ore, secoli, si può dire, in ascolto, in ascolto di un suono che da lassù... Rivolse uno sguardo rapido e penetrante alla figlia maggiore, poi gridò forte:



- Oh! mia diletta - e debolmente raccolse fra le sue braccia protettrici il corpo che stava irrigidendosi. Aveva riconosciuto il rantolo della morte.



Il re e il Capo ripresero il viaggio e furono ospitati nella capanna di un carbonaio, di nome Marco, il quale li trattò con cortesia e disse che avrebbero potuto fermarsi per tutto il tempo che avessero voluto. L'invito venne accettato.



Il Capo voleva visitare il vicino villaggio di Abblasoure: fu Marco ad accompagnarlo, mentre il re - che si era presentato con il falso nome di Jones - rimase nella capanna a riposare.





















Capitolo 28









MARCO









Ora io e Marco camminavamo senza fretta, con una certa indolenza, e discorrevamo. Io volevo soddisfare una curiosità che non si era mai affievolita e non aveva ancora perso la sua novità per me, da quando mi trovavo nel regno di Artù: osservare il comportamento - nato da precise e rigide suddivisioni di casta - dei passanti, l'uno verso l'altro. Verso il monaco sbarbato che arrancava, con il suo cappuccio buttato all'indietro e il sudore che gli scorreva giù per le guance paffute, il carbonaio Marco era profondamente rispettoso; verso il gentiluomo era servile; con il piccolo fattore e il libero artigiano era loquace e cordiale; quando passava uno schiavo, con il viso rispettosamente abbassato, il naso di questo compare era volto per aria, non lo vedeva nemmeno.



Beh, ci sono dei momenti in cui si vorrebbe impiccare l'intera razza umana e finire la farsa.



Non fu una passeggiata noiosa per me. Trovai il modo d'impiegare bene il mio tempo. Feci diverse conoscenze e, nella mia qualità di straniero, potei fare tutte le domande che volevo. Una cosa che mi interessava come uomo di stato era, naturalmente, la faccenda dei salari. In quel pomeriggio raccolsi sull'argomento tutte le informazioni che potei.



Feci parecchie conoscenze nel villaggio e una cosa che mi procurò un gran piacere fu il vedere in circolazione le nostre nuove monete: una quantità di decimillesimi, millesimi e centesimi 1, un bel po' di nichelini e qualche moneta d'argento. Vidi perfino qualche moneta d'oro, ma queste alla banca, vale a dire dall'orefice. Capitai lì mentre Marco, figlio di Marco, stava mercanteggiando con un bottegaio l'acquisto di un po' di sale e chiesi di cambiare una moneta d'oro da 20 dollari. Me la cambiarono, ma soltanto dopo averla provata coi denti e fatta risuonare sul banco e provata con l'acido e avermi chiesto dove l'avevo avuta e chi ero e da dove venivo e dove andavo e quando prevedevo di arrivarci e così via, con un paio di centinaia di altre domande. Sì, mi cambiarono la moneta da venti dollari, ma mi resi conto che ciò doveva aver stremato alquanto la banca e c'era da aspettarselo, perché era come se fossi entrato in una misera bottega di paese nel diciannovesimo secolo e avessi chiesto al principale di cambiare lì per lì un biglietto di banca da duemila dollari. Forse ce l'avrebbe fatta ma al tempo stesso si sarebbe domandato come mai un modesto agricoltore si trovasse a portare in tasca tanto denaro. E forse se lo stava chiedendo anche questo orefice, perché mi seguì sino alla porta e rimase là a guardarmi con reverente ammirazione.



Non solo la nostra nuova moneta stava circolando molto bene, ma anche le sue denominazioni erano usate comunemente, vale a dire che la gente aveva smesso di usare i nomi delle vecchie monete e ormai parlava delle cose valutandole in tanti dollari o centesimi o millesimi o decimillesimi. Era molto soddisfacente. Stavamo facendo progressi, questo è certo.



Feci la conoscenza di parecchi mastri operai. Il più interessante fra questi era il fabbro ferraio Dowley. Era un uomo energico e un vivace parlatore. Aveva due uomini a giornata e tre apprendisti e i suoi affari andavano a gonfie vele. Infatti si stava rapidamente arricchendo ed era notevolmente rispettato. Marco era molto orgoglioso di avere un tale uomo come amico. Mi aveva portato lì con il pretesto di mostrarmi la grande azienda che comprava tanto del suo carbone, ma in realtà per farmi vedere in che buoni rapporti, quasi familiari, egli fosse con questo grand'uomo.



Dowley ed io fraternizzammo: avevo avuto uomini proprio così scelti, splendidi giovani, alle mie dipendenze, nella fabbrica d'armi. Ero certo che l'avrei rivisto spesso, così lo invitai a venire la domenica da Marco a cenare con noi. Marco rimase esterrefatto e trattenne il fiato. Quando il grand'uomo accettò, fu così riconoscente che quasi dimenticò di stupirsi di tanta condiscendenza.



La gioia di Marco fu grande, ma soltanto per un momento. Poi diventò pensieroso, poi triste. Quando mi udì dire a Dowley che avrei voluto avere, insieme con lui, anche Dickson, il mastro muratore, e Smug, il mastro carraio, la polvere di carbone sulla sua faccia diventò gesso ed egli vacillò. Ma io sapevo che cosa lo preoccupava: la possibile spesa. Vedeva davanti a sé la rovina, pensava che finanziariamente i suoi giorni erano contati. Ma mentre ci avviammo ad invitare gli altri, dissi:



- Mi devi permettere di far venire questi amici, e mi devi anche permettere di pagare le spese. Il suo viso si rischiarò e rispose con animazione:



- Ma non tutto, non tutto. Non potete sostenere da solo un carico simile. Lo interruppi e dissi:



- Ora, parliamoci chiaramente, vecchio mio. Io non sono che un fattore, è vero; ciononostante, non sono povero. Sono stato molto fortunato quest'anno, saresti stupefatto se sapessi quanto ho prosperato. Ti dico la pura verità quando affermo che potrei sperperare denaro in una dozzina di banchetti come questo, senza badare alla spesa più di così! E feci schioccare le dita.



Mi vidi crescere di una trentina di centimetri per volta nella stima di Marco e quando pronunciai queste ultime parole, ero diventato una vera torre per altezza e imponenza.



- Perciò, vedi bene che mi devi lasciar fare a modo mio. Tu non devi contribuire nemmeno con un centesimo a quest'orgia, inteso.



- E' grande e bello da parte tua...



- No, non lo è. Tu hai aperto la tua casa a Jones e a me nel modo più generoso. Jones ne parlava oggi, un momento prima che tu tornassi dal villaggio. Egli ha un cuore buono e riconoscente e quando è trattato bene lo sa apprezzare. Sì, tu e tua moglie siete stati molto ospitali con noi...



- Ah, fratello, non è niente, un'ospitalità simile!



- Ma è qualcosa; il meglio che un uomo ha, se dato generosamente, è sempre qualcosa. Equivale a quello che può fare un principe e ha la stessa importanza. E così andremo un po' in giro, ora, a fare acquisti e a organizzare questo programma. E non ti preoccupare della spesa. Io sono uno dei peggiori spendaccioni che siano mai venuti al mondo. Ma figurati che, qualche volta, in una sola settimana spendo... Ma lasciamo andare, tanto non ci crederesti.



E così ce ne andammo in giro, facendo una capatina qua e una là, chiedendo i prezzi delle cose e chiacchierando con i bottegai. Le vesti di Marco e di sua moglie erano di rozza canapa e di ruvida mezza lana e rassomigliavano a carte topografiche, essendo fatte quasi esclusivamente di toppe che erano state aggiunte, regione su regione, nel corso di cinque o sei anni, fino a che, del vestito originale era sopravvissuto a malapena un pezzetto non più largo di un palmo. Ora desideravo fornire questa gente di vestiti nuovi, in vista dell'elegante compagnia e non sapevo proprio come proporlo con delicatezza. Alla fine, mi venne un'idea e così dissi:



- E c'è un'altra cosa che mi devi permettere, Marco, per gentilezza verso Jones, perché certo tu non vorresti offenderlo.



Era molto ansioso di testimoniarti il suo apprezzamento in qualche modo, ma è tanto timido che non poteva avventurarsi a farlo di persona. Così mi ha pregato di comprare qualche piccola cosa e di darla a te e a dama Phyllis e di far pagare a lui, senza che voi lo sappiate e così io gli dissi che l'avrei fatto e che avremmo mantenuto il segreto. Beh, la sua idea era un completo di abiti nuovi per voi due...



- Oh, questo è uno spreco! Non può essere, fratello, non può essere. Considera l'immensità della somma...



- Al diavolo l'immensità della somma! Cerca di stare quieto un momento e di pensare all'effetto che farebbe; non si riesce a infilare una parola, tu parli troppo. Dovresti cercare di guarire da questo vizio, Marco. Sì, ora entriamo qui e sentiamo i prezzi della roba che vende quest'uomo e ricordati di non far capire a Jones che sai che lui ha avuto a che fare con tutto questo. Non ti puoi immaginare quanto sia stranamente sensibile e orgoglioso. E' un agricoltore, piuttosto benestante, e io sono il suo fattore.



Sapessi che immaginazione ha quell'uomo! Ebbene qualche volta, quando perde la padronanza di sé e comincia a spararle grosse si potrebbe pensare che sia uno dei grandi della terra. E si potrebbe stare ad ascoltarlo per cento anni, senza prenderlo mai per un agricoltore.



Marco si sentì solleticato fino al midollo nell'udir parlare di un così bizzarro personaggio. Inoltre la cosa lo preparò a possibili incidenti e so, per mia esperienza, che quando si viaggia con un re che vuol passare per qualcos'altro e non riesce a ricordarselo per la metà del tempo, non si prendono mai abbastanza precauzioni.



Questa era la migliore bottega che avessimo trovato finora. Aveva di tutto in piccole quantità, dalle incudini ai tessuti, giù fino al pesce e ai gioielli di similoro. Conclusi che avrei fatto qui tutta l'ordinazione senza andare ancora in giro a chiedere i prezzi.



Quindi mi liberai di Marco mandandolo a invitare il muratore e il carraio, il che mi lasciò il campo libero. Devo ammettere che non provo mai piacere a fare le cose in modo quieto, quello che faccio deve essere teatrale, se no non mi interessa. Mostrai dunque denaro in abbondanza, con fare noncurante, per suscitare il rispetto del bottegaio. Poi scrissi una lista delle cose che volevo e gliela consegnai per vedere se era capace di leggerla.



Era capace ed era fiero di mostrarlo. Disse che era stato istruito da un prete e che sapeva leggere e scrivere. Dette una scorsa alla lista e notò con soddisfazione che era un conto piuttosto grosso.



Non solo richiedevo un pranzo sontuoso, ma anche oggetti vari, extra. Ordinai che tutto quanto fosse caricato e consegnato al domicilio di Marco, per sabato sera e che il conto fosse mandato a me la domenica, all'ora di pranzo.



Egli disse che potevo contare sulla sua prontezza e precisione:



era la regola della ditta. Mi avvertì anche che per Marco avrebbe aggiunto gratis un paio di portamonete a pistola, che ora usavano tutti. Teneva in grande considerazione quell'ingegnosa trovata. Io dissi:



- Per favore, riempiteli fino a metà e aggiungete al conto anche quello.



Lo avrebbe fatto con piacere. Li riempì e io me li portai via. Non potevo rischiare di dirgli che il portamonete a pistola era una mia piccola invenzione e che avevo dato ufficialmente l'ordine che ogni bottegaio del reame dovesse tenerli a portata di mano e venderli al prezzo fissato dal governo.



Il re non si era quasi accorto della nostra assenza quando tornammo all'imbrunire. Era ben presto ricaduto nel suo sogno di una grande invasione della Gallia, con tutte le forze del suo regno a sostenerlo e il pomeriggio era passato senza che egli si fosse ridestato alla realtà.





















Capitolo 29









L'UMILIAZIONE DI DOWLEY









Quando quel carico arrivò, il sabato pomeriggio verso il tramonto, ebbi un bel da fare per impedire a Marco e a sua moglie di svenire. Erano convinti che Jones ed io fossimo rovinati in modo irrimediabile e si rimproveravano di aver contribuito al nostro fallimento. Capirete, oltre alle provviste per il banchetto, avevo comprato una quantità di cose extra per il futuro benessere della famiglia: una gran quantità di grano, una ghiottoneria tanto rara sulla mensa di gente della loro classe, quanto il gelato sulla mensa di un eremita; poi, una tavola da pranzo di legno piuttosto grande; e ancora, due intere libbre di sale, che, agli occhi di quella gente, era un'altra stravaganza; poi stoviglie, sgabelli, vestiti, un barilotto di birra e così via. Raccomandai a Marco di mantenere il segreto su queste ricchezze, così avrei potuto fare una sorpresa agli ospiti e fare bella figura. Quanto ai vestiti nuovi, quei candidi sposi si comportarono come dei bambini; si alzarono mille volte quella notte per vedere se si era fatto già giorno, per poterli indossare e alla fine ci furono dentro almeno un'ora prima dell'alba. Allora il loro piacere fu così naturale, così insolito, che la sua vista mi ripagò abbondantemente delle interruzioni che avevo sofferto nel sonno. Il re aveva dormito, come il solito, come un masso. Marco non poteva ringraziarlo per i vestiti, poiché glielo avevo vietato; ma fece del suo meglio per dimostrargli quanto gliene fosse grato. Il che fu tutto sprecato:



il re non notò alcuna differenza.



Era una di quelle magnifiche e rare giornate d'autunno in cui è un paradiso starsene all'aperto. Verso mezzogiorno arrivarono gl'invitati e ci riunimmo sotto un grande albero e ben presto ci trovammo affiatati come vecchie conoscenze. Persino il riserbo del re si sciolse un pochino, sebbene dapprima trovasse un po' di difficoltà ad assuefarsi al nome di Jones. Lo avevo pregato di cercare di non dimenticarsi che era un agricoltore, perché lui era proprio il tipo di persona su cui si poteva contare per rovinare una piccola festa come quella, se non veniva avvertito prima, tanto la sua lingua era pronta.



Dowley era di ottimo umore e riuscii ben presto ad avviare la conversazione. Poi, con destrezza, feci in modo da fargli scegliere la sua storia come soggetto e se stesso come protagonista e da allora fu un piacere starsene seduti e sentire il suo ronzio. Un uomo che si era fatto da sé, capite. Questi uomini sanno come parlare. Meritano più credito di qualsiasi altra specie di uomini.



Egli ci raccontò che aveva cominciato ad affrontare la vita da ragazzo orfano, senza denaro e senza amici in grado di aiutarlo.



Aveva vissuto come vivevano gli schiavi del più avaro dei padroni:



la sua giornata di lavoro durava dalle sedici alle diciotto ore e gli procurava appena quel tanto di pane nero che lo manteneva in uno stato di denutrizione. Poi le sue incessanti fatiche avevano finalmente attirato l'attenzione di un buon fabbro, il quale poco ci mancò che non lo stendesse morto con la sua bontà, offrendogli all'improvviso di prenderlo come apprendista fisso per nove anni e di dargli vitto, alloggio e vestiario e di insegnargli il mestiere. Questo fu il suo primo grande passo avanti, il primo magnifico colpo di fortuna. E si vedeva che ancora non riusciva a parlarne senza una specie di piacere al pensiero che una tale dorata promozione fosse toccata in sorte a un essere umano qualsiasi. Non gli furono dati abiti nuovi durante il suo tirocinio, ma il giorno in cui venne promosso, il suo padrone lo agghindò con un vestito di canapa nuovo fiammante che lo fece sentire indicibilmente ricco ed elegante.



- Rammento bene quel giorno! - gridò il carraio con entusiasmo.



- Anch'io! - gridò il muratore. - Non potevo credere che quei panni fossero proprio tuoi!



- E nemmeno gli altri! - urlò Dowley, con occhi scintillanti.



Stavo quasi per perdere la mia reputazione, perché era corsa voce fra i vicini che io li avessi rubati. Fu un gran giorno, un gran giorno. Non si dimenticano giorni come quelli.



Sì, il suo padrone era un uomo come si deve, generoso, un signore, per così dire. E col tempo Dowley gli subentrò nell'azienda e ne sposò la figlia.



- Ed ora considerate ciò che è avvenuto - disse in tono solenne.



- Due volte al mese c'è carne fresca sul mio desco.



Qui fece una pausa per permettere che questo fatto fosse bene impresso nella nostra mente, poi aggiunse:



- E otto volte carne salata.



- E' proprio vero - disse il carraio, col fiato mozzo.



- Sul mio tavolo il pane bianco compare ogni domenica dell'anno - aggiunse con solennità il mastro ferraio. - Ditelo voi in coscienza, amici, se anche questo non è vero!



- Sulla mia testa, è vero! - gridò il muratore.



- Io posso testimoniarlo e lo faccio - disse il carraio.



- E quanto alla mobilia, dite voi stessi come ne sono fornito.



Parlate con sincerità, parlate come fareste se io non fossi qui.



- Voi avete cinque sgabelli e della più squisita fattura, benché la vostra famiglia sia di tre persone soltanto - disse il carraio con profondo rispetto.



- E sei coppe di legno e sei piatti di legno e due di peltro per bere e per mangiare - disse il muratore in tono solenne:



- E dico ciò ben sapendo che Dio è mio giudice.



- Adesso voi sapete che tipo di uomo sono, fratello Jones disse il fabbro con cortese e amichevole condiscendenza - e sicuramente sarete propenso a credere che io sia un uomo geloso del rispetto che gli è dovuto e restio a dividerlo con stranieri fino a che il loro valore e le loro qualità non siano state provate. Ma non datevi pena per questo; rassicuratevi, troverete in me un uomo che non tiene conto di queste cose e che è disposto a ricevere chiunque come compagno ed uguale purché abbia in petto un cuore onesto, per modesti che siano i suoi beni terreni. E, in pegno di ciò, ecco la mia mano ed io dico, con la mia stessa bocca, che siamo uguali, "uguali" - e sorrise alla compagnia con la soddisfazione di un dio che sta compiendo un atto di generosità e di clemenza e ne è perfettamente conscio.



Il re prese la sua mano con malcelata riluttanza e la lasciò andare con la stessa prontezza con cui una gentildonna lascerebbe andare un pesce. Tutto ciò fece un buon effetto, perché fu scambiato per imbarazzo naturale in un uomo che era stato illuminato dalla luce di un grande.



A questo punto la dama portò fuori la tavola e la sistemò sotto l'albero. Questo provocò una visibile sorpresa perché era un mobile nuovo di zecca e sontuoso. Ma la sorpresa aumentò ancora di più quando la dama che sprizzava indifferenza da tutti i pori, ma i cui occhi addirittura fiammeggianti di vanità la tradivano in pieno, spiegò lentamente una autentica tovaglia e la stese sulla tavola. Questo era un gradino più su persino delle grandiosità domestiche del fabbro e fu un duro colpo per lui: si vedeva. Ma Marco era in paradiso, si vedeva anche questo. Poi la dama portò due sgabelli nuovi. Che colpo fecero! Si vedeva negli occhi di tutti i convitati. Poi ne portò altri due, con tutta la calma di cui era capace. Altro colpo e mormorii sbigottiti. Ne portò ancora altri due, quasi volando, tanto era soddisfatta. Gli ospiti erano impietriti.



Come la dama si voltò per andarsene, Marco non poté trattenersi dal portare l'effetto al culmine finché la cosa era ancora calda; perciò disse, con un'aria che voleva essere di compostezza:



- Questi bastano; lascia stare gli altri.



Allora ce n'erano altri ancora! Fu un effetto stupendo! Io stesso non avrei potuto giocare meglio quella carta.



Da quel momento in poi, la gentildonna accumulò le sorprese a una velocità che infiammò lo stupore generale fino a raggiungere 65 gradi all'ombra e al tempo stesso ne paralizzò la facoltà di esprimersi, riducendola a boccheggianti: "Oh" e "Ah" e a un muto sollevar di mani e di occhi. Portò tante stoviglie; nuovi boccali di legno ed altri oggetti per la tavola; poi, birra, pesce, pollo, un'oca, uova, manzo arrosto, carne di montone, un prosciutto, un porcellino arrostito e del vero pane bianco di frumento.



Tutto compreso e considerato, tutta quell'abbondanza eclissava di gran lunga tutto quanto quella gente aveva mai visto prima. E mentre quelli rimanevano seduti là, semplicemente inebetiti dalla meraviglia e dalla soggezione, io feci un cenno della mano, come per caso, e il figlio del negoziante emerse dallo spazio e disse che era venuto a riscuotere.



- Va bene - dissi con indifferenza. - Quant'è? Leggi le varie voci.



Allora egli lesse il conto ad alta voce, mentre quei tre uomini ascoltavano stupefatti:



2 libbre di sale 200.



8 dozzine di pinte di birra in barile 800.



3 stai di frumento 2.700.



2 libbre di pesce 100.



3 galline 400.



1 oca 400.



3 dozzine d'uova 150.



1 arrosto di manzo 450.



1 arrosto di montone 400.



1 prosciutto 800.



1 porcellino da latte 500.



2 servizi da tavola di stoviglie 6.000.



1 abito da donna di lana, 1 di mezzalana e biancheria 1.600.



2 abiti da uomo e biancheria 2.800.



8 boccali di legno 800.



Mobili da camera da pranzo 10.000.



1 tavolo di abete 3.000.



8 sgabelli 4.000.



2 portamonete a pistola carichi 3.000.



Il ragazzo aveva finito. Ci fu un momento di tremendo silenzio.



Non si muoveva un muscolo. Non una narice tradiva il passaggio del respiro.



- E' tutto? - chiesi con voce perfettamente calma.



- Tutto, bel messere.



- Ditemi la somma totale, per favore.



Il commesso si appoggiò all'albero per sostenersi e disse:



- Trentanovemilacentocinquanta decimillesimi!



Il carraio cadde dallo sgabello; gli altri si aggrapparono alla tavola per salvarsi e ci fu una profonda e generale esclamazione:



Il commesso si affrettò a dire:



- Mio padre mi ha incaricato di dirvi che onorevolmente non può esigere che voi paghiate tutto subito, perciò vi prega soltanto...



Non gli badai più di quanto si faccia col vano venticello e con un'aria di indifferenza che rasentava la noia, tirai fuori il denaro e buttai sulla tavola quattro dollari. Ah, avreste dovuto vedere che occhi sbarrati!



Il commesso era stupito e incantato. Mi pregò di trattenere un dollaro in garanzia finché egli fosse andato in città e... lo interruppi:



- Che? Per riportarmi nove centesimi? Sciocchezze! Prendete tutto.



Tenete il resto.



Ci fu un mormorio di stupore, come per dire:



"In verità questo essere è fatto di denaro! Lo getta via come se fosse spazzatura".



Il fabbro era annichilito.



Il commesso prese il denaro e si allontanò barcollando, ebbro di ricchezza.



Dissi a Marco e a sua moglie:



- Buona gente, ecco qui una sciocchezza per voi - porgendo loro i portamonete a pistola come se fossero una cosa da nulla, sebbene ciascuno di essi contenesse quindici centesimi in contanti. E mentre le povere creature erano sopraffatte dallo stupore e dalla gratitudine, mi rivolsi agli altri e dissi, con la stessa calma di uno che chiede l'ora:



- Bene, se siamo tutti pronti, mi pare che anche il pranzo lo sia.



Su, cominciamo.



Ah! Fu davvero una cosa straordinaria, sì, una delizia. Non ricordo di aver mai combinato meglio una situazione, o di aver ottenuto effetti spettacolari più felici, tenendo conto del materiale disponibile. Il fabbro, beh, era semplicemente ridotto in polvere. Mio Dio! Non avrei voluto provare quel che provava quell'uomo per nulla al mondo. Era stato lì a pavoneggiarsi e a vantarsi dei suoi grandi banchetti di carne due volte all'anno e la carne fresca due volte al mese e la carne salata due volte alla settimana e il pane bianco ogni domenica per tutto l'anno e tutto ciò per una famiglia di tre persone: il costo totale non superava i sessantanove centesimi, due millesimi e sei decimillesimi all'anno. E all'improvviso, ecco che arriva un uomo che getta fuori quasi quattro dollari in un solo colpo; non solo, ma si comporta come se fosse stanco di maneggiare somme così piccole.



Sì, Dowley era un bel po' ammosciato, rattrappito, crollato. Aveva l'aspetto di una vescica gonfiata che è stata pestata da una mucca.





















Capitolo 30









ECONOMIA POLITICA DEL SESTO SECOLO









Il re si era rimpinzato ben bene e poi, dato che la conversazione non riguardava battaglie, conquiste o duelli in armatura, si lasciò sopraffare dalla sonnolenza e se ne andò a fare un pisolino. La moglie di Marco sparecchiò la tavola, sistemò a portata di mano il boccale di birra e andò a mangiare il suo pranzo di avanzi umilmente appartata, mentre noi altri ci lasciammo presto trascinare in discussioni relative al nostro lavoro, affari e paghe, naturalmente. A prima vista pareva che le cose fossero eccezionalmente floride in quel piccolo reame, il cui signore era re Bagdemagus, in confronto allo stato delle cose nella mia regione. Loro applicavano in pieno il sistema del "protezionismo", mentre noi stavamo procedendo verso il libero scambio a piccole tappe ed eravamo ormai a metà strada. Ben presto i soli a parlare eravamo Dowley ed io, mentre gli altri ci ascoltavano avidamente. Dowley si scaldò, fiutò nell'aria un certo vantaggio e cominciò a farmi domande che egli considerava piuttosto imbarazzanti per me.



- Nel vostro paese, fratello, qual è il salario di un mastro fattore, di un mastro contadino, di un carrettiere, di un pastore, di un porcaro?



- Venticinque decimillesimi al giorno; vale a dire un quarto di un centesimo. Il viso del fabbro era raggiante di gioia. Disse:



- Da noi ricevono il doppio! E che cosa può guadagnare un artigiano, falegname, imbianchino, muratore, pittore, fabbro, carraio e simili?



- In media cinquanta decimillesimi: mezzo centesimo al giorno.



- Oh-oh! Da noi ne prendono cento! Da noi ogni buon artigiano prende un centesimo al giorno! Non includo il sarto, ma tutti gli altri ricevono un centesimo al giorno e quando c'è molto lavoro anche di più, sì, fino a centodieci e perfino centoquindici decimillesimi al giorno. Ne ho pagati io stesso centoquindici questa settimana. Evviva il protezionismo e abbasso il libero scambio! Il suo viso splendeva su tutta la compagnia come uno sprazzo di sole. Ma io non mi impressionai affatto. Gli domandai:



- Quanto pagate una libbra di sale?



- Cento decimillesimi.



- Noi ne paghiamo 40. Quanto pagate il manzo, il montone... quando lo comprate? Questo era un bel colpo che lo fece arrossire.



- Varia un po', ma non molto: si può dire 75 decimillesimi alla libbra.



- Noi lo paghiamo 33. Quanto pagate le uova?



- Cinquanta decimillesimi la dozzina.



- Noi 20. Quanto pagate la birra?



- Ci costa 8 decimillesimi e mezzo la pinta.



- Noi l'abbiamo a 4; 25 bottiglie per un centesimo. Quanto pagate il frumento?



- Al prezzo di 900 decimillesimi lo staio.



- Noi lo paghiamo 400. Quanto pagate un abito da uomo di canapa?



- Tredici centesimi.



- Noi lo paghiamo 6. Quanto pagate un vestito di lana per la moglie di un contadino o di un artigiano?



- Lo paghiamo 8 centesimi e 4 millesimi.



- Ebbene, notate la differenza: voi pagate 8 centesimi e 4 millesimi, noi paghiamo soltanto 4 centesimi. A questo punto mi apprestai a vibrargli il colpo. Dissi:



- Ditemi, caro amico, "che è successo degli alti salari di cui vi vantavate tanto, pochi minuti fa?" - E lanciai un'occhiata in giro a tutta la compagnia con serena soddisfazione, perché, a poco a poco, ero arrivato ad incastrarlo e lo tenevo legato mani e piedi.



- Dove sono andati a finire quei vostri grandiosi alti salari?



Ma lo credereste? Si mostrò soltanto stupito e questo fu tutto!



Non afferrò affatto la situazione, non capì di essere caduto in una trappola, non si accorse che "era" in trappola. L'avrei ucciso, tanto mi faceva rabbia. Con l'espressione annebbiata e la mente in subbuglio, se ne uscì così:



- Davvero, mi pare di non capire. E' "provato" che i nostri salari sono il doppio dei tuoi.



Beh, io ero sbalordito, in parte per quella sua imprevista stupidità e in parte perché i suoi compagni si erano schierati, in modo evidente, dalla sua parte e avevano le sue stesse idee, se così si potevano chiamare. Il mio punto di vista era molto semplice e chiaro. Com'era possibile semplificarlo di più? Ad ogni modo dovevo tentare:



- Insomma, fratello Dowley, come fate a non capire? I vostri salari sono più alti dei nostri solo di nome non di fatto.



- Sentitelo! Sono il "doppio" voi stesso l'avete confessato.



- Sì, sì, non lo nego affatto.



Ma la questione è quanto potete "comprare" coi vostri salari...



Ecco qual è l'idea. Mentre è vero che da voi un buon artigiano prende circa tre dollari e mezzo all'anno e da noi soltanto un dollaro e settantacinque circa...



-Ecco, voi lo confessate ancora, lo confessate ancora!



- Maledizione, non l'ho mai negato, vi dico! Ciò che intendo dire è questo. Da noi con "mezzo" dollaro si compra di più che da voi con "un" dollaro e perciò è evidente, secondo il più comune buon senso, che i nostri salari sono "più alti" dei vostri. Egli parve sgomento e disse in tono disperato:



- Davvero non riesco a capire. Avete appena detto che i nostri sono più alti e nel medesimo istante smentite quello che avete detto.



Ciò che quella gente apprezzava erano gli "alti salari". Pareva che non avesse alcuna importanza per loro il fatto che non potevano comprare nulla o quasi nulla con i salari alti. Essi sostenevano il protezionismo e vi credevano ciecamente, il che era abbastanza logico, perché le parti interessate avevano dato loro a intendere che era stato il protezionismo a creare i loro alti salari. Dimostrai loro che in un quarto di secolo i loro salari erano aumentati soltanto del trenta per cento, mentre il costo della vita era salito del cento per cento; da noi, invece, in minor tempo, i salari erano aumentati del quaranta per cento, mentre il costo della vita era andato costantemente diminuendo. Ma non servì a niente. Nulla poteva scuotere le loro strane convinzioni.



Insomma, sentivo un bruciante senso di sconfitta. Sconfitta immeritata, ma che vuol dire? Questo non la rendeva meno bruciante.



Discussero a lungo di molti argomenti, ma il ragionamento e la logica del Capo non venivano mai compresi dai suoi interlocutori, incapaci di pensare in modi diversi da quelli legati alle loro tradizioni. Questo avvenne anche quando discussero della gogna. Fu Dowley a proporre questa punizione per coloro che non avevano rispetto per l'autorità.



- Oh, aspetta, fratello - lo fermai - non dite bene di questa istituzione. "Io" penso che la gogna dovrebbe essere abolita.



- Un'idea davvero strana. Perché?



- Beh, vi dirò io perché. E' stato mai messo alla gogna un uomo per un delitto capitale?



- No.



- E' giusto condannare un uomo a una lieve punizione per una piccola trasgressione e poi ucciderlo?



Non ci fu risposta. Avevo segnato il mio primo punto! Per la prima volta il fabbro non fu pronto a parare. La compagnia se ne accorse. Bell'effetto.



- Voi non rispondete, fratello. Eppure stavate per glorificare la gogna un momento fa. "Io" penso che dovrebbe essere abolita. Che cosa avviene di solito quando un povero diavolo viene messo alla gogna per qualche piccola trasgressione che non ha la minima importanza? La plebaglia cerca di divertirsi un po' a sue spese, non è vero?



- Sì.



- Cominciano a lanciargli zolle di terra e poi si sganasciano dalle risa quando vedono che cerca di schivare una zolla e viene colpito da un'altra?



- Sì.



- Poi gli buttano gatti morti, non è vero?



- Sì.



- Beh, supponete che egli abbia tra la folla qualche nemico personale, un uomo o una donna con un segreto rancore verso di lui, e supponete soprattutto che non sia benvisto dalla comunità per una qualsiasi altra ragione, sassi e mattoni prenderebbero quanto prima il posto delle zolle e dei gatti, non è vero?



- Non c'è alcun dubbio.



- Di regola resta storpiato per tutta la vita, non è vero?



Mascelle rotte, denti spezzati, oppure gambe mutilate, incancrenite e poi amputate. Oppure un occhio cavato e magari tutti e due.



- E' vero, lo sa Iddio.



- E se non è benvisto può essere sicuro di morire là nei ceppi, non è vero?



- Di certo! Non si può negarlo.



- Immagino che nessuno di voi sia malvisto, per ragioni di orgoglio, di insolenza, di ricchezza, o alcun'altra di quelle cose che destano invidia o malignità tra la feccia di un villaggio...



"Voi" non pensereste di correre un gran rischio a far la prova della gogna?



Dowley vacillò visibilmente. Reputai che fosse colpito. Ma non si tradì a parole. Quanto agli altri, parlarono chiaro, mostrando con veemenza i loro sentimenti. Dissero che della gogna ne avevano visto quanto bastava per sapere quali probabilità rimanevano all'uomo che ci capitava e che non avrebbero mai consentito ad entrarci se avessero avuto l'alternativa di una rapida morte per impiccagione.



- Dunque, per cambiare argomento, giacché credo di aver chiarito la mia idea che la gogna dovrebbe essere abolita, penso che alcune delle nostre leggi siano alquanto ingiuste. Per esempio, se io faccio una cosa che dovrebbe condurmi alla gogna e voi lo sapete e tacete e non mi denunciate, voi sarete condannati alla gogna se qualcuno denuncia voi.



- Ah, ma questo vi servirebbe a dovere - disse Dowley - poiché è un "dovere" denunciare. Così dice la legge. Gli altri si trovarono d'accordo.



- Beh, allora lasciamo andare, dato che siete contro di me. Ma c'è una cosa che certamente non è giusta. Il magistrato fissa il salario di un operaio a un centesimo al giorno, per esempio. La legge dice che, se un padrone si arrischia, sia pure per assoluta necessità di lavoro, a pagare qualche cosa "in più" di quel centesimo, anche per un giorno solo, sarà multato e messo alla gogna. E chiunque lo sappia e non lo denuncia sarà anch'egli multato e messo alla gogna. Ora, mi sembra ingiusto, Dowley, e anche un pericolo mortale per tutti noi, perché, avendo voi sventatamente confessato un momento fa che questa settimana avete pagato un centesimo e quindici mil...



Oh, vi assicuro che fu una mazzata. Avreste dovuto vederli crollare a pezzi, tutti quanti. Mi ero lavorato il sorridente e povero Dowley in modo così sottile, disinvolto e delicato, che egli non aveva mai sospettato che stesse per accadergli qualcosa finché il colpo non gli arrivò addosso riducendolo a brandelli.



Un effetto magnifico. A dire il vero, il più bell'effetto che io avessi mai prodotto, considerando il breve tempo che avevo avuto per prepararlo. Ma mi resi subito conto di avere esagerato un pochino. Mi ero aspettato di spaventarli, ma non di spaventarli a morte. Invece c'erano molto vicini. Capirete, durante un'intera vita erano stati addestrati ad apprezzare la gogna e ora, vedersela proprio di fronte e sentirsi tutti chiaramente alla mercé mia, di un forestiero, se mi fosse piaciuto di andare a denunciarli... Certo era tremendo e pareva che non riuscissero a riaversi dal colpo e che non potessero riprendere coraggio.



Pallidi, tremanti, muti, miserevoli. Beh, non erano certo meglio di altrettanti cadaveri. Era molto imbarazzante. Naturalmente pensai che mi avrebbero pregato di tenere la bocca chiusa e allora ci saremmo stretti la mano, avremmo bevuto insieme e ci avremmo fatto su una risata e sarebbe finita lì... Ma no. Vedete, io ero uno sconosciuto, in mezzo a un popolo crudelmente oppresso e sospettoso, sempre abituato a vedere altri approfittare della sua debolezza, che non si aspettava mai un trattamento giusto e benevolo da nessuno, se non dalla famiglia e dagli amici più intimi. Implorare "me" di essere benigno, leale e generoso? Si capisce che avrebbero voluto ma non osavano.





















Capitolo 31









LO YANKEE E IL RE VENDUTI COME SCHIAVI









Ebbene, che cosa mi conveniva fare? Niente in fretta, sicuramente.



Dovevo escogitare un diversivo: qualunque cosa che mi tenesse occupato e mi lasciasse il tempo per pensare e nel frattempo quei poveri diavoli avrebbero avuto la possibilità di riprendere i sensi.



A questo punto si unì a noi il re, che era completamente ristorato dal suo sonnellino e si sentiva in forma. Ormai qualunque cosa bastava a rendermi nervoso, tanto ero inquieto, perché le nostre vite erano in pericolo. Perciò mi impensierì scorgere negli occhi del re un certo compiacimento che pareva indicare che egli avesse in mente un'impresa di qualche genere. Al diavolo, perché doveva andare a scegliere proprio un momento come questo?



Avevo ragione. Cominciò senza esitazione, nel modo più innocente e goffo, a trattare l'argomento dell'agricoltura. Sentii un sudore freddo per tutto il corpo. Gli volevo sussurrare all'orecchio:



- Amico mio, siamo in un tremendo pericolo! Qui, ogni istante vale un principato, finché non riconquistiamo la fiducia di questi uomini. Non sprecate un attimo di questo tempo prezioso.



Ma naturalmente non lo potevo fare. Sussurrargli qualche cosa?



Poteva sembrare che stessimo cospirando. Così, dovevo star lì seduto e fingere di essere calmo e soddisfatto, mentre il re stava su quel carico di dinamite e farneticava sulle sue maledette cipolle e cose del genere.



- Taluni affermano che la cipolla altro non sia che una bacca malsana strappata anzitempo dall'albero...



Gli ascoltatori mostrarono segni di vita e si guardarono l'un l'altro negli occhi in modo sorpreso e turbato.



- ...mentre altri affermano tuttavia che questo non è necessariamente il caso, citando ad esempio che le prugne e altri simili cereali vengono sempre sradicati allo stato acerbo...



Gli ascoltatori dettero segni palesi di sgomento, sì, e anche di paura.



- ...e pur tuttavia sono sicuramente buoni, in special modo quando le asperità della loro natura siano placate con miscela del succo calmante del cavolo...



Una luce di terrore folle cominciò a balenare negli occhi di quegli uomini e uno di loro mormorò:



- Questi sono spropositi, tutti spropositi... Dio ha sicuramente colpito la mente di questo agricoltore. Io ero in uno stato di penosa apprensione. Ero sulle spine.



- ...e inoltre, portano a riprova la nota verità che, nel caso di animali, i piccoli, che si possono considerare i frutti acerbi della creatura, sono i migliori, poiché tutti confessano...



Quelli si alzarono e gli si scaraventarono addosso, con un urlo feroce:



- L'uno ci vuol tradire e l'altro è pazzo! Ammazziamoli!



Ammazziamoli!



E si scagliarono su di noi. Che gioia fiammeggiò negli occhi del re! Avrà zoppicato in agricoltura, ma queste cose erano proprio il suo genere. Era stato a digiuno per tanto tempo e ora aveva fame di battaglie. Colpì il fabbro sotto la mascella con un diretto che lo sollevò netto da terra e lo mandò lungo disteso sulla schiena.



Poi atterrò il carraio. Il muratore era grosso, ma io lo stesi come niente fosse. I tre si rialzarono e tornarono alla carica:



caddero di nuovo. Tornarono ancora e continuarono a ripetere la stessa cosa con naturale britannico coraggio, finché non furono ridotti a gelatina, barcollanti di spossatezza e talmente accecati da non riuscire più a distinguersi l'uno dall'altro. Eppure continuarono a martellare con quanta forza era rimasta in loro. Si martellavano l'un l'altro perché noi ci eravamo tirati da parte e stavamo a guardarli mentre essi si rotolavano e si dibattevano e si cavavano gli occhi e si pestavano e si mordevano con il preciso e silenzioso accanimento di altrettanti molossi.



Mentre quelli si stavano esaurendo a poco a poco, all'improvviso mi venne fatto di chiedermi che cosa era successo di Marco. Mi guardai intorno: non si vedeva da nessuna parte. Oh, ma quello era un segno funesto! Tirai il re per la manica e insieme sgusciammo via e ci precipitammo verso la capanna. Non c'era né Marco, né la moglie! Erano andati di sicuro verso la strada a chiamare aiuto.



Dissi al re di mettersi le ali ai piedi, che gli avrei spiegato tutto più tardi. Traversammo velocemente il terreno scoperto e mentre ci lanciavamo nel rifugio del bosco, diedi un'occhiata indietro e vidi apparire una turba di contadini in rivolta capeggiati da Marco. Facevano un baccano indiavolato, ma questo non faceva male a nessuno: il bosco era folto e non appena fossimo stati ben addentro ci saremmo arrampicati su di un albero e li avremmo lasciati fischiare. Ah, ma poi si udì un altro suono: i cani! Già, allora era un'altra faccenda. Bisognava mettercisi d'impegno, occorreva trovare un corso d'acqua. Corremmo di gran carriera e ben presto ci lasciammo dietro le voci che diminuirono fino a diventare un mormorio. Trovammo un torrente e ci buttammo dentro. Lo percorremmo a guado per almeno trecento metri, poi trovammo una quercia con un grosso ramo che sporgeva sull'acqua.



Ci arrampicammo su quel ramo e cominciammo a farci strada verso il tronco dell'albero. Ora cominciavamo a sentire le voci più distintamente. Per un po' si avvicinarono piuttosto velocemente.



Poi non si avvicinarono più. Senza dubbio i cani avevano trovato il luogo dove eravamo entrati nel torrente e ora stavano correndo su e giù lungo la sponda, cercando di ritrovare le tracce.



Quando fummo comodamente sistemati sull'albero, nascosti dal fogliame, il re fu soddisfatto. Ma io ero in dubbio. Pensavo che avremmo potuto strisciare lungo un ramo e passare sull'albero vicino e conclusi che valeva la pena di tentare. Provammo e ci riuscimmo.



Trovammo un comodo alloggio e un nascondiglio soddisfacente tra le foglie. Ora non dovevamo fare altro che ascoltare la caccia. Di lì a poco li sentimmo avvicinarsi, da tutte e due le parti del torrente. Più forte, più forte, e un minuto dopo il rumore crebbe rapidamente fino a diventare un rombo di urla, latrati, calpestio.



Poi passò di furia, come un ciclone.



- Venite, mio signore - dissi - sarebbe bene fare buon uso del nostro tempo. Li abbiamo sviati. Fra poco sarà buio. Se riusciamo a traversare il torrente con un buon vantaggio e a prendere a prestito un paio di cavalli al pascolo di qualcuno, saremo salvi.



Cominciammo a scendere ed eravamo quasi arrivati al ramo più basso, quando ci parve di udire i cacciatori che ritornavano. Ci fermammo ad ascoltare.



- Sì - dissi - sono delusi, ci hanno rinunciato, stanno tornando a casa. Risaliamo sul nostro trespolo e lasciamoli passare.



Così ci arrampicammo su un'altra volta. Il re stette un momento in ascolto e disse:



- Cercano ancora, conosco i segni. Abbiamo fatto bene a nasconderci.



Aveva ragione. Ne sapeva più di me in fatto di caccia. Il rumore si avvicinava sempre, ma non di corsa. Il re disse:



- Essi stanno pensando che noi non siamo partiti con un gran vantaggio su di loro e che essendo a piedi non possiamo ancora essere molto lontani dal luogo dove siamo entrati in acqua.



- Sì, sire, ho paura che sia così.



Il rumore si avvicinava sempre più e ben presto l'avanguardia cominciò a passare sotto di noi, ai due lati del torrente. Una voce dette l'alt dall'altra sponda e disse:



- Se tale era il loro intento avrebbero potuto salire su quell'albero per mezzo di questo ramo che pende, senza toccare terra. Fareste bene a mandare su un uomo.



Fui costretto ad ammirare la mia scaltrezza nel prevedere proprio questo, nel cambiare albero per evitarlo. Ma non sapete che ci sono certe cose che possono battere l'astuzia e la previdenza?



Sono l'inettitudine e la stupidità. Il migliore spadaccino del mondo non ha bisogno di temere il secondo migliore spadaccino del mondo. No, la persona di cui deve aver paura è un antagonista ignorante, che non ha mai tenuto una spada in mano in vita sua, perché egli non fa quello che dovrebbe fare. Così, l'esperto non può prevedere le sue mosse: fa quello che non dovrebbe fare e spesso coglie di sorpresa l'esperto e lo ammazza su due piedi.



Beh, come avrei io potuto con tutte le mie doti, fare un qualsiasi intelligente preparativo contro un buffone miope, strabico e tonto che si sarebbe diretto all'albero sbagliato e sarebbe capitato su quello giusto? E fu proprio quello che fece. Andò verso l'albero sbagliato che, s'intende, era quello giusto per sbaglio e cominciò a salire.



Ormai la situazione era grave. Restammo fermi ad aspettare gli sviluppi. Il contadino si arrampicava con difficoltà e fatica. Il re si alzò e rimase in piedi. Tenne pronta una gamba e, quando la testa del nuovo arrivato giunse a tiro, si udì un tonfo sordo e l'uomo volò a terra agitando le braccia. Ci fu un violento scoppio di collera di sotto e la turba giunse a sciami da tutte le parti e così noi restammo in trappola, prigionieri. Un altro uomo cominciò a salire. Il ramo che aveva servito da ponte fu scoperto e un volontario si mise a salire sull'albero che ci aveva fornito il ponte.



Per un po' il nemico ci attaccò rapido e numeroso. Ma poco importava; l'uomo di testa di ogni processione riceveva sempre un colpo che lo buttava giù non appena giungeva a tiro. Il morale del re era alto, la sua gioia era senza limiti. Disse che se non capitava niente a guastarci l'aspettativa, avremmo avuto una bellissima nottata, perché seguendo quella tattica, avremmo potuto tenere l'albero contro l'intero contado.



Tuttavia anche la folla giunse ben presto alla stessa conclusione, per cui l'assalto fu sospeso e cominciarono a discutere altri piani. Non avevano armi, ma c'erano sassi in quantità e i sassi potevano servire allo scopo. Noi non avevamo obiezioni da fare. Un sasso avrebbe potuto penetrare fino a noi di tanto in tanto, ma non era molto probabile. Eravamo ben protetti dai rami e dalle foglie e non eravamo visibili come bersaglio da nessun punto. Se proprio ci tenevano a sprecare una mezz'ora nel lancio di sassi, poi l'oscurità ci sarebbe venuta in aiuto. Ci sentivamo soddisfattissimi. Potevamo sorridere, ridere quasi.



Ma non lo facemmo, il che fu un bene, perché saremmo stati interrotti. Non erano passati quindici minuti da quando i sassi avevano cominciato a infuriare tra le foglie e a rimbalzare sui rami, quando cominciammo a sentire un odore. Un paio di fiutate bastò a darci la spiegazione: era fumo! Il nostro gioco era finito ormai. Lo dovemmo ammettere.



Essi alzavano sempre più alto il loro mucchio di sterpi secchi e di erbacce umide e quando videro che la nube densa cominciava a salire in volute e ad avvolgere l'albero, scoppiarono in una scatenata gioia clamorosa.



Trovai abbastanza fiato per dire:



- Avanti, mio signore, dopo di voi, secondo l'usanza. Il re disse affannosamente:



- Seguimi giù e poi addossati contro un lato del tronco e a me lascia l'altro. Poi combatteremo. Che ciascuno accumuli i suoi morti secondo l'usanza e il gusto suoi propri.



Poi scese abbaiando e tossendo ed io lo seguii. Toccai terra un istante dopo di lui. Balzammo ai nostri posti e cominciammo a darle e a prenderle con tutte le nostre forze. Il baccano e il trambusto erano enormi: era una tempesta tumultuosa di confusione e di colpi che piovevano fitti. Improvvisamente alcuni uomini a cavallo irruppero al galoppo in mezzo alla calca e una voce gridò:



- Fermi, o siete morti!



Che suono gradito! L'uomo che aveva parlato recava nella persona tutte le caratteristiche del gentiluomo: l'abbigliamento pittoresco e costoso, l'atteggiamento di comando, il viso duro.



La plebaglia si tirò indietro umilmente, come tanti leccapiedi. Il gentiluomo ci esaminò con occhio critico, poi disse ai contadini con asprezza:



- Che cosa state facendo a questa gente?



- Sono due pazzi, venerabile signore, che sono capitati qui non si sa da dove, e...



- Non sapete da dove? Fingete dunque di non conoscerli?



- Onorabilissimo signore, diciamo il vero. Sono stranieri e sconosciuti a tutti in questa regione. E sono i più violenti e i più sanguinari che mai...



- Silenzio. Voi non sapete quel che dite. Non sono pazzi. Chi siete voi? E da dove venite? Parlate.



- Non siamo che dei pacifici stranieri, signore - dissi - e viaggiamo per i nostri interessi. Veniamo da un paese lontano e non abbiamo conoscenze qui. Non abbiamo nessuna intenzione di fare del male. Eppure, senza la vostra valorosa intercessione e protezione, questa gente ci avrebbe uccisi. Come voi avete indovinato, signore, non siamo pazzi, né siamo violenti, né assetati di sangue.



Il gentiluomo si rivolse al suo seguito e disse con calma:



- Ricacciate a frustate questi animali nei loro canili.



La turba scomparve in un istante e dietro ad essa si gettarono gli uomini a cavallo, menando all'intorno con gli scudisci.



A poco a poco le grida e le suppliche svanirono in lontananza e ben presto i cavalieri cominciarono a tornare alla spicciolata.



Nel frattempo il gentiluomo ci aveva fatto un interrogatorio più stringente, ma non riuscì a tirar fuori da noi altri particolari.



Quando tutta la scorta fu di ritorno, il gentiluomo disse a uno dei suoi servi:



- Porta i cavalli di ricambio e fa salire queste persone.



Ci misero in coda al corteo, fra i servitori. Viaggiammo abbastanza velocemente e alla fine ci fermammo, poco dopo il tramonto in una locanda lungo la strada, a dieci o dodici miglia dalla scena dei nostri guai. Il milord andò subito in camera sua, dopo aver ordinato la cena e noi non lo vedemmo più. Il mattino seguente all'alba facemmo colazione e ci preparammo a partire.



In quel momento il primo aiutante del milord avanzò con grazia verso di noi e disse:



- Avete detto che avreste proseguito per questa strada che è proprio nella nostra direzione. Perciò il mio signore, il conte Grip, ha dato ordine che voi teniate i cavalli per il vostro viaggio e che alcuni di noi cavalchino con voi per venti miglia, fino a una bella città chiamata Cambenet, ove sarete fuori pericolo.



Non potemmo fare altro che esprimere i nostri ringraziamenti e accettare l'offerta. Ce ne andammo trotterellando in gruppo di sei, a un'andatura moderata e comoda. Durante la conversazione apprendemmo che milord Grip era un personaggio importantissimo nella sua regione che si trovava a una giornata di cammino oltre Cambenet. Indugiammo tanto che era quasi metà mattina quando entrammo nella piazza del mercato della città.



Scendemmo, lasciammo ancora una volta i nostri ringraziamenti per milord e poi ci avvicinammo verso una folla riunita nel mezzo della piazza, per vedere quale poteva essere l'oggetto di tanto interesse.



Era il rimanente di quella vecchia banda errante di schiavi!



Dunque, si erano trascinati dietro le loro catene per tutto quel tempo spossante.



Il re non provava nessun interesse e voleva andare avanti, ma io ero assorto e pieno di compassione. Non potevo distogliere lo sguardo da quei relitti umani, logori e distrutti. Erano seduti là raggruppati a terra, silenziosi, senza lamentarsi, a capo chino.



uno spettacolo penoso. E, come odioso contrasto, un oratore stava rivolgendo un discorso a un altro assembramento a meno di trenta passi di distanza: un nauseante elogio alle "nostre gloriose libertà britanniche!" Mi sentivo ribollire il sangue. Avevo dimenticato di essere un plebeo e mi ero ricordato di essere un uomo. A qualunque costo sarei salito su quel palco e...



Clic! Il re ed io eravamo ammanettati insieme! Erano stati i nostri compagni, quei servitori, a farlo; milord Grip stava lì a guardare. Il re scoppiò come una furia e disse:



- Che significa questo scherzo di cattivo genere?



Il milord disse soltanto, freddamente, al suo capo masnadiere:



- Porta su gli schiavi e vendili!



"Schiavi"! Questa parola aveva un suono nuovo, indicibilmente orribile! Il re alzò le manette e le fece ricadere con tutta forza, ma il milord non era più a tiro quando arrivarono.



Una dozzina di servi di quella canaglia balzò avanti e in un istante fummo ridotti all'impotenza, con le mani legate dietro la schiena. Allora ci proclamammo uomini liberi a voce tanto alta e con tanta veemenza che ottenemmo l'interesse e l'attenzione dell'oratore difensore della libertà e della sua folla patriottica. Questi si riunirono intorno a noi e assunsero un atteggiamento molto deciso. L'oratore disse:



- Se davvero siete uomini liberi non avete nulla da temere. Le libertà della Britannia, date da Dio, sono intorno a voi, a vostro scudo e protezione! (Applausi) Lo vedrete subito. Esibite le vostre prove.



- Che prove?



- Le prove che siete uomini liberi.



"Ah"! Mi ricordai! Tornai in me e non dissi nulla. Ma il re tempestò:



- Tu sei folle! Sarebbe meglio e più logico se questo ladro e fellone provasse che noi "non" siamo uomini liberi.



Vedete, conosceva le sue leggi proprio come le altre persone conoscono le leggi: a parole, non a fatti. Le leggi acquistano un significato molto reale quando vengono applicate a noi stessi.



Tutti i presenti scossero il capo e parvero delusi. Alcuni, non più interessati, si allontanarono.



L'oratore disse, questa volta in tono pratico e distaccato:



- Se voi non conoscete le leggi del vostro paese, è tempo che le impariate. Per noi siete degli stranieri; non potete negarlo.



Potete essere uomini liberi, non lo neghiamo; ma potete anche essere schiavi. La legge è chiara: non richiede che il reclamante provi che voi siete schiavi, essa richiede che voi proviate che non lo siete.



Io dissi:



- Caro signore, dateci soltanto il tempo di mandare qualcuno alla Valle Santa...



- Silenzio, buon uomo, queste sono richieste eccezionali e non puoi sperare che ti siano accordate. Ci vorrebbe troppo tempo e causerebbe un disagio ingiustificato al tuo padrone...



- "Padrone"! Idiota! - tuonò il re. - Io non ho nessun padrone, io sono il pa...



- Silenzio, per l'amor di Dio!



Pronunciai queste parole in tempo per fermare il re. Avevamo già abbastanza guai. Non ci poteva essere di alcun aiuto dare a questa gente l'idea che fossimo pazzi.



E' inutile riferire i particolari. Il conte ci mise all'asta e ci vendette.



Il mercante di schiavi ci comprò tutti e due, ci attaccò a quella sua lunga catena e noi formammo la retroguardia del corteo.



A mezzogiorno ci mettemmo in marcia e uscimmo da Cambenet. Mi sembrava davvero strano e bizzarro che il re d'Inghilterra e il suo primo ministro, marciando ammanettati e incatenati e aggiogati in un convoglio di schiavi, potessero passare vicino a ogni sorta di uomini e donne oziosi e sotto le finestre dove sedevano fanciulle leggiadre e amabili, senza mai attirare uno sguardo di curiosità, o suscitare una sola osservazione.



Mio Dio, mio Dio, questo dimostra soltanto che in un re non vi è nulla di divino, non più di quanto vi sia in un vagabondo. Non è altro che una vuota e meschina artificiosità, quando non si sa che egli è un re.



Ma rivelate il suo grado e, Dio mio, solo a guardarlo vi sentite mancare il fiato. Io credo che siamo tutti degli sciocchi. Nati così, senza dubbio.



Questo è un mondo pieno di sorprese. Il re era meditabondo, questo era naturale. Su che cosa stava meditando, chiederete voi.



Diamine, sulla sorprendente natura della sua caduta, senza dubbio, dal posto più elevato nel mondo al più basso; dalla posizione più illustre a quella più oscura; dalla più grandiosa professione fra gli uomini a quella più umile. No, sono pronto a giurare che la cosa che più lo turbava, tanto per cominciare, non era questa, ma il prezzo al quale era stato venduto!



Pareva che non riuscisse a riaversi dal colpo di quei sette dollari. Al diavolo! Mi stancava con tutti i suoi argomenti per dimostrarmi che in un buon mercato avrebbe raggiunto sicuramente venticinque dollari, cosa chiaramente priva di senso e piena della più arrogante presunzione; io stesso non valevo tanto. Ma era un terreno troppo delicato per avventurarmi a discuterne. Infatti dovetti di proposito evitare l'argomento e fare, invece, il diplomatico. Dovetti mettere da parte la coscienza e ammettere spudoratamente che egli avrebbe dovuto fare venticinque dollari.



Invece ero perfettamente consapevole che, in tutte le epoche, non si era mai visto al mondo un re che valesse la metà di tale somma e nei seguenti tredici secoli non se ne sarebbe visto uno che ne valesse un quarto. Sì, mi stancava. Se cominciava a parlare del raccolto, o del tempo, o della situazione politica, o di cani, o di gatti, o di morale, o di teologia, insomma di qualsiasi argomento, io sospiravo, perché sapevo quello che veniva dopo:



avrebbe finito col tirar fuori con una scusa quella noiosa vendita a sette dollari. La cosa non accennava ad esaurirsi, perché ogni giorno, in un posto o nell'altro, eventuali compratori ci esaminavano e il loro commento sul re era più o meno di questo tipo:



"Ecco qui un babbeo da due dollari e mezzo con uno stile da trenta dollari. Peccato che lo stile non sia commerciabile".



Alla fine, questo genere di commento provocò una brutta conseguenza. Il nostro proprietario era una persona pratica e si accorse che questo difetto doveva essere corretto se voleva trovare un acquirente per il re. Perciò si mise al lavoro con l'intento di togliere lo stile alla sua sacra maestà. Io avrei potuto dare a quell'uomo alcuni preziosi consigli, ma non lo feci.



Non bisogna offrire consigli a un mercante di schiavi, a meno che non si voglia danneggiare la causa per la quale ci si batte. Avevo trovato abbastanza difficile il compito di ridurre lo stile del re a uno stile da contadino, anche quando egli era un allievo volenteroso e ansioso di imparare; quindi, tentare, ora, di ridurre lo stile del re a quello di uno schiavo era un'impresa colossale Alla fine della settimana c'erano abbondanti prove che la frusta; il bastone e il pugno avevano fatto un buon lavoro: il corpo del re era uno spettacolo da vedersi - e da piangerci sopra - Ma il suo spirito? Beh, quello non era nemmeno scalfito. Persino quell'ottuso bestione di mercante di schiavi si rese conto che può esistere qualcosa come uno schiavo che resterà uomo fino alla morte; gli si potranno spezzare le ossa, ma non la sua dignità di uomo.



Così, alla fine, il mercante rinunciò e lasciò il re in possesso del suo stile inalterato. Il fatto è che il re era molto più di un re: era un uomo. E quando un uomo è un uomo non lo si può piegare.



Ce la passammo male per un mese, vagando su e giù per il mondo e soffrendo. E in quel periodo quale inglese era più di ogni altro interessato alla questione della schiavitù? Sua grazia il re! Sì, dall'essere il più indifferente, era diventato il più interessato.



Era diventato il più accanito oppositore di questa istituzione che io avessi mai sentito. E così, mi arrischiai a fargli una domanda:



avrebbe abolito la schiavitù?



La sua risposta fu tagliente e risuonò come musica al mio orecchio. Non avrei potuto desiderare di udirne una più piacevole sebbene il turpiloquio non fosse gran che, messo insieme alla meglio e...



Ora ero pronto e desideroso di riacquistare la libertà: ora era un'atmosfera nuova! La libertà adesso valeva qualsiasi prezzo ci fosse imposto per ottenerla. Ideai un piano e ne fui subito affascinato. Avrebbe richiesto tempo, questo sì, e anche pazienza.



Si sarebbero potuti inventare modi più rapidi e altrettanto sicuri ma nessuno sarebbe stato pittoresco come questo, nessuno sarebbe potuto riuscire più teatrale. Perciò non intendevo rinunciarci.



Avrebbe potuto farci ritardare dei mesi, ma pazienza, l'avrei messo m pratica a costo di spaccare qualcosa.



Di tanto in tanto ci capitava un'avventura. Una notte fummo sorpresi da una bufera di neve a un miglio di distanza dal villaggio dove eravamo diretti. Quasi istantaneamente ci trovammo avvolti come in una nebbia, tanto era fitta la neve che incalzava.



Non si riusciva a vedere niente e ben presto smarrimmo la strada.



Il mercante di schiavi ci sferzava furiosamente, perché si vedeva davanti la rovina, ma le sue frustate non facevano che peggiorare le cose, perché ci ricacciavano lontano dalla strada e da ogni probabilità di soccorso. Così dovemmo fermarci, finalmente, e ci lasciammo cadere nella neve là dove ci trovavamo. La tempesta continuò fin verso mezzanotte, poi cessò. Ma intanto, due dei nostri uomini più deboli e tre delle donne erano morti. E gli altri, non più in grado di muoversi, erano in pericolo di vita. Il nostro padrone era quasi fuori di sé. Fece muovere i vivi e ci costrinse a stare alzati, a saltare, a darci colpi a vicenda per riattivare la circolazione e fece del suo meglio per aiutarci con la frusta.



A questo punto capitò un fatto nuovo. Udimmo delle urla e degli strilli e subito dopo arrivò correndo una donna che piangeva e vedendo il nostro gruppo, si gettò in mezzo a noi implorando protezione. Una turba di gente sopraggiunse inseguendola, alcuni con torce.



Dissero che la donna era una strega, che aveva fatto morire parecchie vacche di una strana malattia e che praticava le sue arti con l'aiuto del diavolo in forma di gatto nero. Questa povera donna era stata lapidata fino al punto che non aveva quasi più aspetto umano, tanto era pesta e sanguinante. La folla voleva bruciarla.



Ebbene, che cosa immaginate che avrebbe fatto il nostro padrone?



Quando ci stringemmo intorno a questa povera creatura per proteggerla, egli approfittò dell'opportunità e disse:



- Bruciatela qui o non l'avrete affatto.



Immaginate un po'! Quelli non chiedevano di meglio. La legarono a un palo, portarono della legna e l'ammucchiarono intorno a lei.



Quindi vi appiccarono il fuoco con la torcia, mentre lei urlava e supplicava e si stringeva al petto le sue figliolette. E il nostro bruto che aveva cuore solo per gli affari, ci costrinse a frustate a prendere posto intorno al rogo, così da farci riacquistare vita e valore commerciale al calore dello stesso fuoco che toglieva l'innocente vita a quella povera madre indifesa. Questo era il tipo di padrone che avevamo noi.



Quella tempesta di neve gli costò la perdita di nove elementi del suo branco. Dopo di che, per molti giorni, fu con noi più brutale che mai, tanto era furente per quella perdita.





















Capitolo 32









UN INCONTRO NELL'OSCURITA'









Londra, per uno schiavo, era un posto abbastanza interessante. Non era altro che un grosso villaggio, fatto per la maggior parte di argilla e paglia. Le vie erano fangose, tortuose e senza selciato.



La popolazione era un continuo sciame, che si accalcava e si disperdeva, di stracci e di splendori, di pennacchi ondeggianti e di risplendenti armature. Il re aveva qui un palazzo; ne vide l'esterno. Ciò lo fece sospirare. Vedemmo cavalieri e personaggi che conoscevamo, ma che non ci riconobbero, ricoperti com'eravamo di cenci sporchi e pieni di piaghe vive, per le sferzate. Non ci avrebbero riconosciuti nemmeno se li avessimo chiamati e non si sarebbero neppure fermati a risponderci, poiché non era lecito parlare con schiavi alla catena. Sandy mi passò a dieci metri di distanza, a dorso di un mulo: andava alla mia ricerca, immagino.



Ma quello che proprio mi spezzò il cuore fu una cosa che accadde di fronte alla nostra baracca, sulla piazza, mentre subivamo lo spettacolo di un uomo che veniva fritto nell'olio bollente per aver falsificato delle monetine. Fu la vista di uno strillone di giornali e io non lo potevo raggiungere! Tuttavia ebbi una consolazione: quella era la prova che Clarence era vivo e si dava da fare. Era mia intenzione ritrovarmi con lui quanto prima. Quel pensiero mi riempì di letizia.



Un giorno intravidi, sia pure fuggevolmente, un'altra cosa che mi diede un gran sollievo. Era un filo metallico teso da tetto a tetto. Telegrafo o telefono di certo. Avrei voluto moltissimo averne un pezzettino. Era proprio quello che mi occorreva per mettere in pratica il mio progetto di fuga. La mia idea era di liberarci dai ferri una notte, insieme al re, poi di imbavagliare e legare il nostro padrone, scambiare i nostri vestiti con i suoi, pestarlo fino a cambiargli i connotati, attaccarlo alla catena degli schiavi, prendere possesso della proprietà e metterci in viaggio verso Camelot, e...



Ma certo avrete capito; immaginate con quale sbalorditiva drammatica sorpresa avrei potuto concludere la vicenda a palazzo.



Era tutto fattibile, se soltanto fossi riuscito a metter mano su di un sottile pezzetto di ferro con cui avrei fatto un grimaldello. Allora avrei potuto aprire gli ingombranti lucchetti con cui erano assicurate le nostre catene, quando avessi voluto.



Ma non avevo mai avuto fortuna; mai un oggetto del genere mi era capitato sottomano. Ma finalmente mi si presentò l'occasione buona. Un gentiluomo che era già venuto due volte a contrattare il mio acquisto senza risultato, venne un'altra volta. Ero ben lontano dall'aspettarmi di diventare proprietà sua, poiché il prezzo richiesto per me, fin da quando ero stato preso come schiavo, era esorbitante e provocava sempre irritazione o derisione. Ma il mio padrone era restato caparbiamente fermo sulla cifra: ventidue dollari. Non voleva ridurla di un centesimo. Il re era molto ammirato per il suo fisico, ma il suo stile regale era a suo svantaggio e non era vendibile: nessuno voleva quel tipo di schiavo. Pensavo di non correre il rischio di una separazione dal re a causa del mio prezzo stravagante. No, non mi aspettavo di dover mai appartenere al gentiluomo di cui ho parlato, ma egli aveva qualcosa che, secondo le mie aspettative, mi sarebbe appartenuto ben presto, se solo fosse venuto a farci visita abbastanza spesso. Era un oggetto di acciaio fornito di un lungo spillo, con cui teneva allacciato il davanti del suo gabbano. Ce n'erano tre. Egli mi aveva deluso due volte, perché non mi era venuto abbastanza vicino da rendere del tutto sicura l'esecuzione del mio progetto. Ma questa volta ci riuscii: mi impadronii della fibbia più bassa e quando egli si accorse che gli mancava pensò di averla perduta per la strada. Ebbi l'occasione di essere contento per circa un minuto e subito dopo quella di essere di nuovo triste. Perché, quando l'acquisto stava come al solito per fallire, il padrone improvvisamente parlò senza riserve e disse:



- Sapete che faccio? Sono stufo di mantenere questi due senza nessun tornaconto. Datemi ventidue dollari per questo qui e vi ci metto anche l'altro per giunta.



Il re non riusciva a tirare il fiato tanto era furente. Cominciò ad ansimare e a boccheggiare e intanto il padrone e il gentiluomo si allontanarono discutendo.



- Se mantenete l'offerta...



- La terrò in sospeso fino a domani a quest'ora. Allora vi darò la risposta entro quell'ora - disse il gentiluomo, e scomparve, seguito dal padrone.



Mi ci volle un bel po' di tempo per calmare il re, ma ci riuscii.



Per ottenere questo gli sussurrai all'orecchio:



- Vostra grazia andrà via per niente, ma in un altro modo. E anch'io. Stanotte saremo liberi entrambi.



- Ah! E come?



- Con questo oggetto che ho rubato aprirò questi lucchetti e ci libereremo di queste catene, stanotte. Quando il padrone verrà, verso le nove e mezzo, a fare l'ispezione notturna, lo acciufferemo, lo imbavaglieremo, lo pesteremo e domattina presto marceremo fuori di questa città, proprietari di questa carovana di schiavi.



Non aggiunsi altro, ma il re era felice e soddisfatto. Quella sera attendemmo pazientemente che i nostri compagni di schiavitù si addormentassero.



Mi sembrava che ci mettessero un'eternità a iniziare il loro regolare russare. Il tempo scorreva lentamente e io cominciavo a temere che non ce ne sarebbe rimasto abbastanza per mettere in atto il nostro piano. Così feci diversi tentativi prematuri e non riuscii che a ritardare le cose, poiché sembrava che non potessi toccare un lucchetto, là in quel buio, senza provocare un tintinnio che interrompeva il sonno di qualcuno e lo faceva svegliare.



Ma alla fine riuscii a sfilarmi l'ultimo ferro e fui di nuovo un uomo libero. Tirai un gran respiro di sollievo e tesi la mano verso i ferri del re. Troppo tardi! Ecco il padrone, con una lanterna in mano e la pesante mazza nell'altra. Mi rannicchiai stretto contro il brago russante per nascondere come meglio potevo il fatto che ero senza i ferri, e tenni gli occhi bene aperti, pronto a balzare sul mio uomo non appena si fosse chinato su di me.



Ma non si avvicinò. Si fermò, diede distrattamente un'occhiata verso la massa scura dei nostri corpi per un minuto, evidentemente pensando a qualcos'altro. Poi posò il lume, si avviò con aria meditabonda verso l'uscio e prima che si potesse prevedere quello che avrebbe fatto, era già fuori dalla porta e se l'era chiusa dietro - Presto! - disse il re - Riportalo indietro!



Era evidente che era questa la cosa da farsi; fui in piedi e fuori dalla porta in un istante. Ma, povero me, non c'erano fanali a quei tempi e la notte era buia. Riuscii però a scorgere una figura indistinta a pochi passi di distanza. Spiccai un balzo e mi ci avventai sopra e allora sì che la situazione divenne animata! Ci battemmo e ci azzuffammo e lottammo e attirammo una folla in men che non si dica. Tutti seguivano il combattimento con immenso interesse e ci incoraggiavano più che potevano. Poi scoppiò una tremenda rissa dietro di noi e almeno metà del pubblico ci lasciò per correre a dare il suo appoggio a quegli altri. Da tutte le parti cominciarono a dondolare delle lanterne: era la scolta che si andava radunando da vicino e da lontano. E di lì a poco un'alabarda mi cadde sulla schiena e capii cosa significava. Ero in arresto. E così il mio avversario. Ci fecero marciare verso la prigione ognuno a fianco della guardia. Che disastro! Ecco il crollo improvviso di un bel progetto! Cercai di immaginare che cosa sarebbe accaduto quando il padrone avesse scoperto che ero stato io a battermi con lui e che sarebbe successo se ci avessero imprigionati insieme nel reparto comune per i turbolenti e i piccoli trasgressori della legge, secondo l'usanza. E che cosa avrebbe potuto...



Proprio in quel momento il mio antagonista voltò il viso dalla mia parte, la luce della lanterna di latta della guardia lo illuminò, e, per san Giorgio, avevo sbagliato uomo!





















Capitolo 33









UNA SITUAZIONE SPAVENTOSA









Dormire? Era impossibile. Sarebbe stato normalmente impossibile in quella rumorosa caverna di prigione, con la sua miserabile folla di furfanti ubriachi, litigiosi e sguaiati. Ma ciò che rendeva il sonno assolutamente impossibile era la bruciante impazienza di scappare da questo luogo e di scoprire per intero quello che era accaduto laggiù, nella baracca degli schiavi, in conseguenza di quel mio imperdonabile fiasco.



Fu una notte lunga, ma finalmente venne mattino. Feci una schietta e completa dichiarazione in tribunale. Dissi che ero uno schiavo di proprietà del grande conte Grip, il quale era arrivato dopo il tramonto alla locanda del Tabarro, nel villaggio dall'altra parte del fiume, ed era stato costretto a fermarsi là per la notte, essendosi gravemente ammalato di uno strano e improvviso malore.



Mi era stato ordinato di traversare la città in tutta fretta per andare a chiamare il miglior medico: naturalmente correvo con tutte le mie forze. La notte era buia ed ero andato ad urtare contro quel popolano, il quale mi aveva afferrato per la gola ed aveva cominciato a pestarmi, sebbene io gli avessi detto la mia incombenza e lo avessi implorato, in nome del mortale pericolo in cui versava l'illustre conte mio padrone...



Il popolano mi interruppe e disse che era una menzogna e stava per spiegare come io gli fossi saltato addosso e lo avessi aggredito senza nemmeno una parola...



- Silenzio, voi! - lo interruppe il giudice. - Portatelo fuori di qui e dategli qualche frustata per insegnargli a comportarsi diversamente, un'altra volta, con il servo di un nobiluomo.



Andate! Poi la corte mi chiese scusa ed espresse la speranza che io non avrei mancato di spiegare a sua signoria che non era assolutamente colpa del tribunale se era accaduto quell'abuso.



Dissi che avrei messo ogni cosa a posto e così presi congedo.



Non persi tempo. Fui presto agli alloggi degli schiavi. Vuoti, tutti spariti! Cioè, tutti eccetto uno, il padrone degli schiavi.



Giaceva lì, ridotto in poltiglia e tutt'intorno c'erano i segni di una lotta terribile. Alla porta, su un carro, c'era una rozza bara di assi e degli operai, aiutati dalla polizia, stavano aprendosi un varco tra la folla, che assisteva a bocca aperta, per riuscire a portarla dentro.



Scelsi un uomo di condizione abbastanza umile da accondiscendere a parlare con uno straccione come me ed ebbi la sua versione dell'accaduto.



- C'erano sedici schiavi qui. Si sono ribellati al loro padrone durante la notte e tu vedi com'è finita.



- Sì, ma com'è cominciata?



- Non c'erano testimoni, se non gli schiavi. Essi dicono che lo schiavo di maggior valore si era liberato dai ceppi ed era scappato in modo misterioso, per mezzo di arti magiche, si pensa, perché non aveva chiavi e i lucchetti non erano spezzati, né danneggiati in alcun modo. Quando il padrone scoprì tale perdita, diventò una furia per la disperazione e si gettò con il suo pesante bastone sulla sua gente, che oppose resistenza e gli spezzò la schiena e in altri diversi modi gli inflisse ferite che lo portarono rapidamente alla morte.



- E' orribile. Andrà male per gli schiavi al processo, senza dubbio.



- Affè, il processo è finito.



- Finito!



- Credi forse che ci avrebbero messo una settimana per decidere una faccenda tanto semplice? Non si sono soffermati nemmeno la metà di un quarto d'ora su tale questione.



- E gli schiavi quando moriranno?



- Probabilmente entro le ventiquattro ore, sebbene vi sia chi dice che attenderanno un paio di giorni in più, perché potrebbe darsi il caso che nel frattempo si trovi quello che manca.



Quello che manca! Queste parole mi fecero sentire a disagio.



- C'è qualche probabilità che lo trovino?



- Sì, prima che sia finito il giorno. Lo cercano ovunque. Sono alle porte della città con alcuni degli schiavi che lo segnaleranno appena lo vedranno e nessuno può uscire senza essere prima esaminato.



- Si può vedere il luogo dove gli altri sono rinchiusi?



- Di fuori. sì.



Presi l'indirizzo di quella prigione per una futura eventualità e poi mi allontanai. Alla prima bottega di abiti usati che incontrai in una strada secondaria, mi procurai un rozzo abbigliamento adatto a un uomo di mare che dovesse partire per un lungo viaggio e mi fasciai la faccia con un'ampia benda, dicendo che avevo mal di denti. Questo nascondeva i miei lividi più evidenti. Fu una trasformazione. Non somigliavo più a quello di prima. Poi mi buttai alla ricerca di quel filo di ferro, lo trovai e lo seguii fin alla sua base segreta. Era una stanzetta sopra a una bottega di macellaio, il che significava che non c'era molta attività nel campo telegrafico. Il giovanotto addetto all'ufficio sonnecchiava al suo tavolo. Chiusi la porta e mi misi in petto la grossa chiave. Questo allarmò il giovane che già si apprestava a far chiasso, ma io gli dissi:



- Risparmia il fiato. Se apri bocca sei morto, garantito. Mettiti all'apparecchio. Svelto, su! Chiama Camelot.



- Ciò mi stupisce! Come può uno come te conoscere tutto di faccende così...



- Chiama Camelot! Sono alla disperazione. Chiama Camelot, o levati dall'apparecchio e lo farò io stesso.



- Che? Tu?



- Sì, certo. Smetti di ciarlare. Chiama il palazzo.



Fece la chiamata.



- E adesso chiama Clarence.



- Clarence "chi"?



- Non importa Clarence chi. Dì che vuoi Clarence: ti risponderanno.



Così fece. Aspettammo cinque logoranti minuti, dieci minuti, e poi si udì un click che mi era familiare quanto una voce umana, perché Clarence era stato mio allievo.



- Ora, ragazzo sgombra!



Egli lasciò libero il posto e drizzò le orecchie per ascoltare, ma non gli servì. Io usai un linguaggio cifrato. Non sprecai il tempo in convenevoli con Clarence, ma andai dritto al fatto, così:



"Il re è qui e si trova in pericolo. Siamo stati catturati e portati qui come schiavi. Non siamo in grado di provare la nostra identità e il fatto è che non sono in condizioni di tentarlo.



Manda cinquecento cavalieri scelti al comando di Lancillotto, e mandali di corsa. Dovranno entrare dalla porta sud-ovest e cercare l'uomo con un panno bianco intorno al braccio destro".



La risposta fu sollecita.



"Partiranno fra mezz'ora".



"Benissimo, Clarence. E ora dì a questo ragazzo che io sono amico tuo e che non pago e che deve essere discreto e non dir nulla di questa mia visita".



Clarence cominciò a parlare al giovane e io mi allontanai in fretta. Mi misi a calcolare. Fra mezz'ora sarebbero state le nove.



Cavalieri e cavalli in armatura pesante non potevano viaggiare molto svelti. Avrebbero marciato al miglior tempo possibile e ora che il terreno era in buone condizioni, senza neve né fango, avrebbero probabilmente tenuto un'andatura di sette miglia.



Avrebbero dovuto cambiare i cavalli un paio di volte. Sarebbero arrivati verso le sei o poco più tardi; ci sarebbe stata ancora luce a sufficienza. Avrebbero visto il panno bianco che mi sarei legato intorno al braccio destro e io avrei assunto il comando.



Avremmo circondato la prigione e avremmo liberato il re in un batter d'occhio. Sarebbe stato abbastanza grandioso e pittoresco, tutto ben considerato, anche se io avrei preferito l'ora di mezzodì, per via dell'aspetto più teatrale che la cosa avrebbe assunto.



Ma il mio progetto colò a picco come un pezzo di piombo! Appena girato l'angolo, andai a cadere in pieno addosso a uno dei nostri schiavi che andava in giro a ficcanasare con una guardia. Io tossii proprio in quel momento e quello mi dette un'occhiata improvvisa che mi penetrò fino al midollo delle ossa. Immagino che pensò di avere già udito quella tosse. Mi infilai immediatamente in una bottega e mi accostai al banco, chiedendo i prezzi degli oggetti e vigilando con la coda dell'occhio. Quei due si erano fermati sulla soglia e parlavano guardando dentro. Decisi di uscire dal retro della bottega e domandai alla bottegaia se potevo uscire un momento di là a cercare lo schiavo fuggito che si credeva fosse nascosto da quelle parti. Dissi che ero un ufficiale travestito e che il mio compagno era là alla porta con uno degli assassini in custodia e chiesi se voleva essere tanto cortese da affacciarsi e dirgli che non mi aspettasse e che, anzi, avrebbe fatto meglio a recarsi subito all'altro capo del vicolo dietro la casa, per essere pronto a tagliargli la strada, non appena io l'avessi scovato.



Ella ardeva dal desiderio di vedere uno di quei criminali ormai celebri, e andò subito a fare la commissione. Io sgusciai fuori dall'uscita posteriore, mi chiusi la porta alle spalle, mi misi la chiave in tasca e mi allontanai ridacchiando soddisfatto fra me e me.



Avevo fatto un altro sbaglio. L'ufficiale, invece di fare la cosa più naturale, entrare nel negozio per poi trovare la porta sbarrata, mi prese in parola e seguì le mie istruzioni. E così, mentre uscivo trotterellando da quel vicolo cieco, soddisfattissimo della mia astuzia, egli girava l'angolo e io entrai dritto nelle sue manette. Se avessi saputo che era un vicolo cieco... ma non ci sono scuse per un errore così grossolano, lasciamo andare.



Naturalmente mi indignai e giurai che ero appena sbarcato da un lungo viaggio per mare e altre cose del genere, tanto per vedere se riuscivo a trarre in inganno quello schiavo. Ma non la bevve.



Mi conosceva. Allora lo rimproverai per avermi tradito. Egli parve più stupito che offeso e disse:



- Ma come, avrei dovuto lasciar fuggire te, fra tutti e non farti impiccare con noi, tu, che sei la vera causa della nostra impiccagione? Ma va' là!



"Ma va' là!" era il loro modo di dire "Mi fai ridere!" oppure "Questa è bella!". Che strano modo di parlare aveva quella gente.



Lasciai cadere il discorso. Quando non si può rimediare una catastrofe con la discussione, a che serve discutere? E così dissi soltanto:



- Tu non sarai impiccato. Nessuno di noi lo sarà. I due uomini risero e lo schiavo disse:



- Non eravate considerato pazzo, fino ad ora. Fareste meglio a cercare di mantenere la vostra reputazione, visto che lo sforzo non durerà a lungo.



- Credo che resisterò. Prima di domani saremo tutti fuori di prigione e, per di più, liberi di andare dove vorremo.



Lo spiritoso ufficiale si portò il pollice all'altezza dell'orecchio sinistro, si schiarì la gola e disse:



- Fuori di prigione... sì... dite il vero. E anche liberi di andare dove vorrete, purché non sia fuori del regno soffocante di sua grazia il diavolo. Restai calmo e dissi con indifferenza:



- Dunque, suppongo che voi crediate davvero che noi saremo impiccati tra un giorno o due.



- Lo credevo fino a pochi minuti fa, perché così è stato deciso e proclamato.



- Ah! Allora avete cambiato parere, non è vero?



- Proprio così. Allora lo pensavo soltanto. Adesso lo so. Mi sentivo sarcastico, perciò dissi:



- Oh, sapiente servitore della legge, accondiscendi a dirci, dunque, ciò che sai.



- Che voi sarete tutti impiccati "oggi", a metà pomeriggio. Oh!Oh!



Questo ha colpito nel segno! Appoggiati a me.



Il fatto è che avevo proprio bisogno di appoggiarmi a qualcuno. I miei cavalieri non potevano arrivare in tempo. Sarebbero arrivati troppo tardi, di almeno tre ore. Nulla al mondo poteva salvare il re d'Inghilterra e neppure me, il che era più importante. Più importante, non solo per me, ma anche per il paese, l'unico paese al mondo che si stava preparando a sbocciare alla civiltà. Mi sentivo male. Non dissi più niente: non c'era più niente da dire.



Sapevo che cosa intendeva dire quell'uomo, che se fosse stato trovato lo schiavo mancante, il rinvio sarebbe stato revocato e l'esecuzione avrebbe avuto luogo in giornata. Beh, lo schiavo mancante era stato trovato.





















Capitolo 34









SER LANCILLOTTO E I CAVALIERI ALLA RISCOSSA









Erano circa le quattro del pomeriggio. La scena era appena fuori delle mura di Londra. Una giornata fresca, serena, magnifica, con un sole splendente, quel tipo di giornata che fa venire la voglia di vivere, non di morire. La moltitudine era imponente e di grande portata. Eppure noi quindici poveri diavoli non avevamo lì in mezzo neppure un amico. C'era qualcosa di doloroso in questo pensiero, comunque lo si volesse considerare.



Eravamo seduti lì, su quell'alto patibolo, bersaglio dell'odio e dello scherno di tutti quei nemici. Avevano fatto di noi lo spettacolo di un giorno di festa. Avevano costruito una specie di grande palco per i nobili e i gentiluomini, e questi erano lì al completo con le loro signore. Ne riconoscemmo parecchi.



La folla ricevette un breve e inaspettato diversivo dal re.



Nell'istante in cui fummo liberati dai legami, egli balzò su, nei suoi pittoreschi cenci, col viso irriconoscibile per le ammaccature e si proclamò Artù, re di Britannia, minacciando tremende pene per tradimento a ogni anima presente, se fosse stato torto un solo capello della sua sacra testa. Rimase sbalordito e interdetto nel sentirli scoppiare in una dilagante, fragorosa risata. Questo ferì la sua dignità ed egli, allora, si chiuse nel silenzio, sebbene la folla lo pregasse di continuare e cercasse di provocarlo a parlare con fischi, lazzi e grida di:



- Lasciatelo parlare! Il re! il re! I suoi umili sudditi hanno fame e sete delle sagge parole che escono dalla bocca del loro padrone, sua Serenissima e Sacra Cenciosità!



Ma tutto fu vano. Egli assunse il contegno più maestoso e rimase impassibile sotto quella pioggia di spregi e d'insulti. Certo, a modo suo, era grande.



Distrattamente mi ero levato la benda bianca e l'avevo avvolta intorno al braccio destro. Quando la folla se ne accorse, incominciò a prendersela con me. Dissero:



- Senza dubbio questo marinaio è il suo ministro, osservate la sontuosa insegna della sua dignità!



Li lasciai continuare, finché non furono stanchi e poi dissi:



- Sì, sono il suo ministro, il Capo. E domani udrete ciò da Camelot che...



Non potei proseguire. Mi subissarono di festosa derisione. Ma di lì a poco si fece il silenzio, poiché gli sceriffi di Londra, in abito da cerimonia, cominciarono a muoversi, segno che lo spettacolo stava per avere inizio. Nel silenzio che seguì fu dichiarato a voce alta il nostro delitto, fu letta la sentenza di morte, poi tutti si scoprirono il capo mentre un prete recitava una preghiera.



Poi uno schiavo fu bendato; il boia sciolse la sua corda. Sotto di noi si stendeva la strada liscia. Noi su un lato di essa e la moltitudine assiepata formava un muro sull'altro lato: una bella strada libera, tenuta sgombra dalla polizia. Come sarebbe stato bello vedere arrivare al galoppo i miei cinquecento cavalieri. Ma no, era assolutamente impossibile. Seguii con lo sguardo il suo percorso che si perdeva in lontananza: non si vedeva un cavaliere.



Ci fu uno strattone e lo schiavo penzolò dondolando e divincolandosi orrendamente, perché le sue membra non erano legate.



Una seconda corda fu sciolta e un momento dopo un secondo schiavo penzolava dondolando.



Un altro minuto e un terzo schiavo si dibatteva per aria. Era orribile. Distolsi il viso per un momento e quando mi voltai di nuovo non vidi più il re! Lo stavano bendando! Ero paralizzato:



non mi potevo muovere, soffocavo, avevo la lingua pietrificata.



Finirono di bendarlo e lo condussero sotto la corda. Non riuscivo a scuotermi da quello stato di impotenza che mi pesava addosso.



Ma quando vidi che gli mettevano il nodo scorsoio intorno al collo, qualcosa mi scattò dentro e balzai alla riscossa. Nel fare questo, lanciai un'altra occhiata in distanza. Per Giove! Eccoli che arrivano, a gran carriera! Cinquecento cavalieri in cotta di maglia e cintura, in bicicletta!



Lo spettacolo più grandioso che mai si era visto. Signore, come sventolavano i pennacchi, come fiammeggiava e balenava il sole da quell'interminabile corteo di ruote raggiate!



Agitai il braccio destro, mentre Lancillotto giungeva in volata.



Egli riconobbe il mio cencio. Strappai cappio e benda e urlai:



- In ginocchio, tutti voi furfanti, e rendete omaggio al re! Chi non lo farà cenerà all'inferno stanotte!



Uso sempre uno stile altezzoso quando voglio portare al massimo un effetto. Ah, fu bellissimo vedere Lancillotto e i miei ragazzi buttarsi all'arrembaggio di quel patibolo e rovesciare di sotto sceriffi e compagni. E fu bello vedere quella sbalordita moltitudine cadere in ginocchio e supplicare di avere salva la vita da quel re che poco prima aveva deriso e insultato.



Ero immensamente soddisfatto. Considerando la situazione nel suo insieme, era uno degli effetti più spettacolari che avessi mai provocato.



E dopo poco ecco che arriva Clarence in carne ed ossa e mi strizza l'occhio e dice in stile molto moderno:



- Bella sorpresa, non è vero? Sapevo che ti sarebbe piaciuta.



Avevo fatto allenare i ragazzi per parecchio tempo, segretamente.



E non vedevano l'ora di mettersi in mostra.





















Capitolo 35









IL COMBATTIMENTO FRA LO YANKEE E I CAVALIERI









Di nuovo a casa, a Camelot. Una mattina o due dopo trovai il giornale, ancora umido di stampa, vicino al mio piatto sul tavolo della colazione. Andai a guardare la colonna della pubblicità, sapendo che ci avrei trovato qualcosa che mi avrebbe interessato personalmente. Era questo:



Sappiate che il grande signore e illustre cavaliere, SER SAGRAMOR IL DESIROSO, avendo consentito di incontrare il Ministro del re, Hank Morgan, il quale è soprannominato Il Capo, per soddisfazione di offesa anticamente data, si impegneranno in lizza presso Camelot verso l'ora quarta del mattino del sedicesimo giorno di questo prossimo seguente mese. La pugna sarà a oltranza, dato che la detta offesa fu di carattere mortale e che non ammetteva conciliazione.



Fino al giorno fissato, in tutta la Britannia non si parlò d'altro che di questo combattimento. Non perché un torneo fosse un avvenimento di grande importanza; non perché ser Sagramor avesse trovato il Santo Graal, poiché non era riuscito a trovarlo; non perché il secondo personaggio del regno fosse uno dei duellanti.



No, tutte queste caratteristiche erano molto comuni. Tuttavia c'era una buona ragione che giustificava lo straordinario interesse suscitato da questa imminente contesa. Questo nasceva dal fatto che tutto il paese sapeva che non sarebbe stato un duello fra semplici uomini, per così dire, bensì un duello fra due maghi potenti. Un duello non di muscoli, ma di intelletti, non di umane abilità, ma di arte e abilità sovrumane, la lotta decisiva fra i due maestri incantatori dell'epoca. Tutti si rendevano conto che le gesta più prodigiose dei più celebri cavalieri non potevano reggere al paragone di uno spettacolo come questo.



Sì, il mondo intero comprendeva che si sarebbe trattato, in realtà, di un duello fra Merlino e me, la misura dei suoi poteri magici contro i miei.



Si sapeva che Merlino si era affaccendato giorno e notte a infondere alle armi e all'armatura di ser Sagramor poteri soprannaturali e che si era procurato per lui dagli spiriti dell'aria un velo impalpabile che avrebbe reso chi lo portava invisibile al suo antagonista, pur lasciandolo visibile agli altri uomini. Contro ser Sagramor così armato e protetto, mille cavalieri non avrebbero potuto fare nulla, nessuno degli incantesimi conosciuti avrebbe potuto prevalere.



Questi fatti erano certi. A questo proposito non c'erano dubbi.



Non c'era che un interrogativo: ci potevano essere altri incantesimi "ignoti" a Merlino che potessero rendere trasparente a me il velo di ser Sagramor e vulnerabile alle mie armi la sua cotta di maglia incantata? Questa era l'unica cosa che si sarebbe decisa nella lizza. Fino a quel momento il mondo doveva restare nell'incertezza.



Perciò il mondo pensava che ci fosse una gran posta in gioco ed aveva ragione; ma non era la posta che tutti avevano in mente. No, era in gioco una puntata molto più alta: l'esistenza della cavalleria errante. Io ero un campione, è vero. Ma non il campione della frivola magia nera: io ero il campione del più sincero buon senso e della ragione. Scendevo in lizza per distruggere la cavalleria errante o per rimanerne vittima.



Per quanto vasto fosse il campo del torneo, non c'era un solo posto libero fuori dell'arena, alle dieci del mattino del sedici.



Il gigantesco palco era rivestito di bandiere, pennacchi e ricchi arazzi e stipato di parecchi ettari di piccoli re con i loro seguiti, e dall'aristocrazia britannica, con la nostra comitiva reale al posto d'onore. L'immenso campo di tende vivacemente colorate e imbandierate, con le sentinelle in piedi immobili ad ogni ingresso e uno scudo lucente appeso accanto per la sfida, formavano un altro bello spettacolo. Vedete, ogni cavaliere che avesse una certa ambizione o un certo spirito di casta era presente, poiché i miei sentimenti verso la loro categoria non erano un segreto e, quindi, questa era l'occasione buona per loro.



Se vincevo il mio combattimento contro ser Sagramor, gli altri avrebbero avuto il diritto di chiamarmi in campo, finché io avessi avuto voglia di rispondere. Alla nostra estremità del campo c'erano due tende soltanto: una per me e una per i miei servi.



All'ora fissata il re fece un cenno e gli araldi lessero il proclama, dicendo i nomi dei combattenti e dichiarando la ragione della sfida. Ci fu una pausa, poi un alto squillo di tromba che era per noi il segnale di presentarci. Tutta la moltitudine trattenne il fiato e una viva curiosità balenò su tutti i volti.



Dalla sua tenda uscì cavalcando il grande ser Sagramor, imponente torre di ferro, solenne e rigida, l'enorme lancia in resta e stretta nella forte mano, il muso e il petto del suo grande destriero ricoperti d'acciaio, il corpo rivestito di ricchi drappi che si trascinavano quasi sul terreno. Si levarono alte grida di accoglienza e di ammirazione.



E poi venni fuori io. Ma non fui accolto da nessuna acclamazione.



Ci fu un eloquente silenzio di sorpresa per un momento e poi una grande ondata di risa cominciò a dilagare su quel mare umano. Ma uno squillo ammonitore di tromba ne interruppe il corso. Io indossavo il più semplice e il più comodo dei costumi da ginnasta:



maglia color carne dal collo alle calcagna, con sbuffi di seta azzurra intorno ai fianchi ed ero a capo scoperto. Il mio cavallo non era di corporatura superiore alla media, ma era agile e snello, con muscoli come molle d'orologio e veloce come un levriero. Era una bellezza, lucente come seta e nudo come quando era venuto al mondo, salvo la briglia e la sella militare. La torre di ferro e la sgargiante coperta imbottita avanzarono, ingombranti, ma graziosamente piroettanti, lungo l'arena, e noi trotterellammo con leggerezza verso di loro.



Ci fermammo: la torre salutò, io risposi. Poi ci rigirammo e cavalcammo fianco a fianco sino al palco e ci fermammo di fronte al re e alla regina ai quali facemmo un inchino.



Le trombe squillarono ancora e noi ci separammo e cavalcammo verso le opposte estremità dell'arena, dove ci mettemmo in posizione.



Allora si fece avanti il vecchio Merlino che gettò una delicata trama di fili di garza su ser Sagramor, che lo trasformò nello spettro di Amleto.



Il re fece un cenno, le trombe squillarono, ser Sagramor mise la sua gran lancia in resta e l'istante dopo caracollava con rombo di tuono giù per l'arena con il velo che gli svolazzava dietro. Io gli andai incontro sibilando nell'aria come una freccia, mentre tendevo l'orecchio, come per indovinare la posizione e l'avanzare invisibile del cavaliere con l'udito e non con la vista.



Un coro di grida d'incoraggiamento si alzò per lui e una voce animosa lanciò una parola di conforto per me, dicendo:



- Metticela tutta, amico!



C'era da scommettere che era stato Clarence. Quando quella formidabile punta di lancia fu a un metro e mezzo dal mio petto, feci fare al mio cavallo uno scarto da una parte, senza sforzo e il grosso cavaliere mi passò accanto segnando un punto nullo.



Questa volta ebbi uno scroscio di applausi. Ci voltammo, raccogliemmo le forze e di nuovo ci lanciammo avanti. Altro punto nullo per il cavaliere e applausi fragorosi per me. La stessa cosa si ripeté un'altra volta e io riscossi un tal vortice di applausi che ser Sagramor perse la calma, mutò subito tattica e prese l'iniziativa di darmi la caccia. Figuratevi, in questo non aveva la minima probabilità a suo favore: era come giocare a rincorrersi con tutti i vantaggi dalla mia parte. Io giostravo agevolmente fuori della sua portata, quando volevo e una volta gli diedi una pacca sulla schiena mentre gli giravo dietro. Alla fine presi io l'iniziativa dell'inseguimento, e da quel momento, per quanto facesse, girasse e si contorcesse, non riusciva mai a trovarsi dietro di me. Alla fine di ogni sua manovra si ritrovava sempre davanti. Perciò rinunciò a questa tattica e si ritirò alla sua estremità dell'arena.



La sua calma era scomparsa del tutto ormai. Aveva perso il controllo di sé e mi lanciò un insulto che fece perdere le staffe anche a me. Sfilai il laccio dall'arcione e afferrai la fune arrotolata con la mano destra. Questa volta avreste dovuto vederlo avvicinarsi! Era animato da serie intenzioni di sicuro e, a giudicare dall'andamento, i suoi occhi dovevano essere iniettati di sangue. Io sedevo comodo sul mio cavallo facendo ruotare il gran cappio del mio laccio in ampi cerchi sopra la mia testa. Nel momento in cui prese l'avvio, io mi mossi per andargli incontro.



Quando lo spazio fra me e lui fu ridotto a dodici metri, lanciai la fune a fendere l'aria, poi sfrecciai da una parte, mi voltai e bloccai il mio cavallo addestrato, con le quattro zampe puntate, pronto per il contraccolpo. L'istante dopo la fune si tese di scatto e scaraventò ser Sagramor giù dalla sella! Per Giove, che sensazione!



Indiscutibilmente la cosa che ha più successo in questo mondo è la novità. Quella gente non aveva mai visto prima d'allora nulla di queste cose da cowboy e fu addirittura travolta dall'entusiasmo.



Tutt'intorno e da ogni parte si levò un grido:



- Bis! Bis!



Non appena il mio laccio fu allentato e ser Sagramor venne aiutato a rientrare nella sua tenda, raccolsi la fune, mi rimisi in posizione e ricominciai a far roteare il cappio intorno alla testa. Ero sicuro che avrei avuto modo di usarlo non appena avessero eletto un successore a ser Sagramor.



Infatti ne elessero uno immediatamente: ser Hervis de Revel. Bzzz!



Eccolo venire come un fulmine; lo schivai. Passò come un lampo con le spire della mia fune che gli si adagiavano intorno al collo e un secondo o due dopo... la sella era vuota.



Ebbi un'altra richiesta di bis, poi un'altra e un'altra ancora.



Quando ebbi disarcionato cinque uomini, la cosa cominciò ad apparire seria a quelli rivestiti di ferro e si fermarono per consultarsi. La conclusione fu che decisero che era ora di mettere da parte l'etichetta e di mandarmi contro i più grandi e i migliori. Con grande stupore di quel piccolo mondo, presi al laccio ser Lamorak de Galis e dopo di lui ser Galahad. Quindi non c'era proprio più niente da fare, se non giocare la carta decisiva, tirar fuori il più superbo dei superbi, il più potente dei potenti, il gran ser Lancillotto in persona!



Se fu un momento di orgoglio per me? Lo credo bene. Laggiù c'era Artù, re di Britannia, laggiù c'era Ginevra. Sì, l'intera tribù di piccoli re e reucci di provincia e laggiù, nell'attendamento, famosi cavalieri di molte contrade, il corpo più scelto della cavalleria che si conoscesse, i Cavalieri della Tavola Rotonda, i più illustri di tutta la Cristianità.



E, fatto più importante di tutti, il sole stesso del loro risplendente sistema era laggiù che puntava la lancia. E io, tutto solo, ero là ad aspettarlo.



Ecco dunque arrivare "l'Invincibile" con l'impeto di un vortice.



Il mondo dei cortigiani si alzò in piedi e si chinò in avanti. Le spire fatali rotearono in aria e, in un batter d'occhio, mi rimorchiavo per il campo ser Lancillotto, steso sulla schiena, e lanciavo baci con la mano all'uragano di fazzoletti sventolanti e al rombo tonante degli applausi che mi salutavano!



Mentre arrotolavo il mio laccio e lo riappendevo all'arcione, mi dissi: "La vittoria è completa, nessun altro si avventurerà contro di me. La cavalleria errante è morta".



Immaginate dunque il mio stupore, e anche quello di tutti gli altri, nell'udire quel particolare squillo di tromba che annuncia che un altro contendente sta per scendere in lizza! Qui c'era un mistero: non riuscivo a trovare una spiegazione. Poi osservai Merlino che si allontanava furtivamente da me e allora mi accorsi che il mio laccio era sparito! Il vecchio esperto giocoliere me l'aveva rubato di certo e l'aveva fatto scivolare sotto la veste.



La tromba squillò un'altra volta. Guardai e vidi tornare ser Sagramor nuovamente a cavallo, ben spolverato e col velo rimesso a posto per benino. Gli andai incontro al trotto e finsi di individuare la sua presenza per il rumore degli zoccoli del suo cavallo.



Egli disse:



- Tu sei proprio d'orecchio, ma ciò non ti salverà da questa! - e toccò l'elsa dello spadone. - Se non siete in grado di vederla a cagione dell'influsso del velo, sappiate che non è una lancia ingombrante, bensì una spada e mi aspetto che non riusciate ad evitarla.



La sua visiera era alzata: c'era la morte nel suo sorriso. Io non sarei mai riuscito a schivare la sua spada, questo era chiaro.



Questa volta qualcuno doveva morire. Se il primo colpo era il suo, avrei potuto dire chi. Avanzammo insieme e salutammo i reali.



La tromba diede il segnale e noi ci separammo e cavalcammo verso i nostri posti. Lì ci fermammo, a distanza di cento metri, l'uno di fronte all'altro.



E così restammo, in un silenzio assoluto, per un buon minuto.



Tutti ci fissavano, nessuno si muoveva.



Il re alzò la mano e lo squillo chiaro della tromba seguì al cenno. La lunga lama di ser Sagramor descrisse una curva lampeggiante nell'aria ed era uno spettacolo superbo vederlo arrivare. Io rimasi fermo. Egli si avvicinava. Io non mi mossi. La gente eccitatissima mi gridava:



- Fuggi, fuggi. Salvati! E' un assassino!



Io non mi spostai di un pollice, finché quella tonante apparizione non fu che a quindici passi da me. Allora presi con rapida mossa la rivoltella dalla fondina della sella. Ci fu un lampo, un rombo, e la rivoltella rientrò nella fondina prima che qualcuno potesse dire con esattezza quel che era successo.



Qui caracollava un cavallo senza cavaliere e là giaceva ser Sagramor, morto stecchito.



La gente che era accorsa rimase ammutolita nel vedere che la vita aveva veramente abbandonato quell'uomo senza alcuna ragione apparente, nessun danno alla persona, nulla che assomigliasse a una ferita.



C'era un buco sul petto della sua cotta di maglia, ma non venne data importanza a una piccolezza come quella e poiché la ferita di un proiettile in quel punto non produce molto sangue, nessuno se ne accorse, a causa delle vesti e dell'imbottitura sotto la corazza.



Il corpo fu trascinato fuori perché il re e i dignitari potessero vederlo. Naturalmente rimasero tutti stupefatti e sbalorditi. Fui pregato di andare a spiegare il prodigio. Ma io rimasi dov'ero, fermo come una statua e dissi:



- Se questo è un ordine verrò, ma il re, mio signore, sa che io sono dove le leggi del combattimento esigono che io rimanga, finché vi sia qualcuno che desideri battersi con me. Attesi.



Nessuno lanciò la sfida. Allora dissi:



- Se c'è qualcuno che dubiti che io abbia conquistato il campo in modo degno e leale, non attendo che egli mi sfidi, lo sfido io.



- E' un'offerta da prode cavaliere - disse il re - e ben ti si addice. Chi nominerai per primo?



- Non nominerò nessuno. Li sfido tutti! Io sono qui e sfido tutta la cavalleria d'Inghilterra a misurarsi con me, non individualmente, ma in massa!



- Che?! - gridarono una ventina di cavalieri.



- Avete udito la sfida. Raccoglietela, o io vi proclamo cavalieri felloni e sconfitti, dal primo all'ultimo! Era un bluff, capite.



Ma quella volta... beh, le cose assunsero un aspetto minaccioso.



In un lampo cinquecento cavalieri balzarono in sella e in un batter d'occhio un'estesa mandria in ordine sparso, si mise in moto e venne verso di me scalpitando. Strappai le due rivoltelle dalle fondine e cominciai a misurare le distanze e a calcolare le probabilità.



Bum! Una sella vuota. Bum! Un'altra. Bum, bum, e ne seminai due.



Era un duello all'ultimo sangue fra noi e io lo sapevo. Se sparavo l'undicesimo colpo senza convincere quella gente, il dodicesimo cavaliere avrebbe certamente ammazzato me. Perciò, non mi sentii mai tanto felice come quando il nono colpo abbatté il suo uomo e io scorsi nella folla quell'ondeggiare che è segno premonitore di panico. Alzai tutte e due le rivoltelle e le puntai.



L'orda che si era fermata rimase immobile, giusto un momento poi ruppe le file e si dette alla fuga.



La giornata era mia. La cavalleria errante era un'istituzione ormai condannata. La marcia della civiltà era cominciata. Quello che io provavo? Ah, non lo potreste mai immaginare.



E fratello Merlino? Il suo prestigio era di nuovo a terra. Non si sa come, ogni volta che la magia del saltimbanco gareggiava con quella della scienza, la magia del saltimbanco aveva la peggio.





















Capitolo 36









TRE ANNI DOPO









Quando, quella volta, spezzai la schiena alla cavalleria errante, non mi sentii più obbligato a lavorare in segreto. Perciò, sin dal giorno dopo esposi le mie scuole nascoste, le mie miniere e il mio vasto sistema di fabbriche e di officine clandestine a un mondo stupefatto. Vale a dire che esposi il diciannovesimo secolo allo sguardo del sesto.



E' sempre un buon sistema approfittare subito di un vantaggio. I cavalieri, per il momento, erano a terra, ma se volevo che ci restassero, dovevo semplicemente paralizzarli, non c'era nient'altro da fare.



Rinnovai la mia sfida, la feci incidere sull'ottone e affiggere dove qualsiasi prete avrebbe potuto leggerla a loro e la feci anche inserire nelle colonne della pubblicità del giornale.



Non solo la rinnovai, ma ne aumentai le proporzioni. Dissi di indicare il giorno e io avrei preso cinquanta assistenti e "avrei tenuto testa alla cavalleria in massa di tutta la terra e l'avrei distrutta".



Dicevo sul serio; ero in grado di fare quello che promettevo.



Durante i tre anni che seguirono non mi dettero nessun fastidio che valga la pena di essere menzionato.



Fate conto che i tre anni siano passati. Ora date un'occhiata all'Inghilterra. Un paese felice e fiorente e stranamente cambiato. Scuole dappertutto e parecchie università, un certo numero di discreti giornali. Perfino la letteratura cominciava a prendere l'avvio. Ser Dinadan, l'Umorista, fu il primo a scendere in campo con un volume di vecchie barzellette che mi erano familiari da tredici secoli. Se avesse lasciato fuori quella storiella che mi aveva fatto infuriare tanto non avrei detto nulla. Ma quella proprio no, non la potevo sopportare. Feci sopprimere il libro e impiccare l'autore.



La schiavitù era morta e sepolta. Tutti gli uomini erano uguali di fronte alla legge, le tasse erano state equamente distribuite. Il telegrafo, il telefono, il fonografo, la macchina da scrivere, la macchina da cucire e tutte le migliaia di invenzioni derivate dal vapore e dall'elettricità si facevano strada nel favore popolare.



Avevamo un paio di battelli a vapore sul Tamigi, avevamo navi da guerra a vapore e l'inizio di una marina mercantile a vapore. E io mi preparavo a mandare una spedizione alla scoperta dell'America.



Stavamo costruendo varie linee ferroviarie e la nostra linea fra Camelot e Londra era già finita e in funzione.



Non c'era più in tutto il paese un cavaliere che non fosse impiegato in qualche cosa di utile. Andavano da un capo all'altro del paese con ogni genere di utili incarichi missionari. La loro tendenza alla vita errabonda e la loro esperienza in materia facevano di loro i più efficaci divulgatori di civiltà che avessimo. Andavano vestiti di acciaio ed equipaggiati di spada, lancia e ascia. Se non riuscivano a persuadere una persona a provare una macchina da cucire, o una fisarmonica, o una staccionata di filo spinato, o un giornale, o una qualsiasi delle mille e una cosa di cui sollecitavano l'acquisto, toglievano di mezzo la persona e proseguivano. Io ero felicissimo. Le cose procedevano costantemente verso una meta segretamente agognata.



Vedete, avevo due progetti in mente che erano i più grandiosi fra tutti i miei progetti. Uno era di rovesciare la Chiesa Cattolica e di elevare sulle sue rovine la fede protestante; l'altro di ottenere in breve tempo, un decreto in forza del quale, alla morte di Artù sarebbe stato istituito il suffragio universale e sarebbe stato concesso tanto agli uomini che alle donne.



Artù sarebbe andato bene per altri trent'anni, dato che aveva quasi la mia età, vale a dire quarant'anni. Poi ci doveva essere una repubblica. Beh, tanto vale che lo confessi, sebbene provi un senso di vergogna quando ci ripenso: cominciavo a sentire un forte e meschino desiderio di esserne io il primo presidente. Sì, c'era in me, più o meno, l'ambizione della natura umana. Me ne resi conto.



Discutevo di questo con Clarence, quando entrò di corsa Sandy, pazza di terrore e quasi soffocata dai singhiozzi, che per un minuto non riuscì a ritrovare la voce. Le corsi incontro, la presi tra le braccia, la coprii di carezze e le dissi in tono implorante:



- Parla, cara, parla! Che cosa c'è?



Abbandonò il capo sul mio petto e mormorò con voce affannosa, appena udibile:



- Pronto-Centralino!



- Presto! - gridai a Clarence - Telefona al medico del re di venire.



- Due minuti dopo ero inginocchiato accanto al lettino della bambina e Sandy mandava i servi di qua, di là e da tutte le parti del palazzo. Mi resi conto della situazione quasi alla prima occhiata: laringite acuta! Mi chinai e sussurrai:



- Svegliati amore! Pronto-Centralino!



Ella aprì languidamente i dolci occhi e riuscì a dire:



- Papà.



Mi sentii sollevato. Era ancora ben lontana dall'essere in pericolo di vita. I dottori dissero che dovevamo portar via la bambina se volevamo ridarle forza e salute. E doveva respirare aria di mare. Così prendemmo una nave da guerra con un seguito di duecentosessanta persone e partimmo in crociera. Dopo quindici giorni sbarcammo sulla costa francese e i dottori furono del parere che sarebbe stato bene soggiornare lì per un po' di tempo.



Il reuccio di quella provincia ci offerse ospitalità e noi fummo lieti di accettarla.



Dopo un mese mandai il vascello in patria a prendere nuove provviste e notizie. Lo aspettavamo di ritorno dopo tre o quattro giorni. Mi avrebbe dovuto riportare, insieme ad altre notizie, il risultato di un certo esperimento che avevo iniziato. Avevo in progetto di sostituire i tornei con qualcosa che offrisse una valvola di sfogo all'eccesso di energia dei cavalieri. Qualcosa che tenesse quei caproni occupati e fuori dai guai e nello stesso tempo conservasse quanto c'era di meglio in loro, vale a dire il loro tenace spirito di emulazione.



Questo esperimento era il baseball. Affinché la cosa prendesse piede fin dall'inizio e per tenerla fuori da ogni critica, avevo scelto le squadre di nove uomini secondo i titoli nobiliari e non secondo le capacità. Non c'era un cavaliere in ciascuna delle squadre che non fosse un re fornito di scettro. S'intende che non riuscii a persuadere quella gente a mettere da parte l'armatura:



non se la levavano nemmeno per fare il bagno. Acconsentirono a differenziare le armature in modo che si potesse distinguere una squadra dall'altra, ma quella fu la massima concessione che fecero.



Dapprima avevo nominato come arbitri uomini non titolati, ma fui costretto a cambiare idea. Questa gente non si accontentava facilmente, non più delle solite squadre. La prima decisione di un arbitro era generalmente anche l'ultima. Lo facevano in due pezzi con un colpo di mazza e i suoi amici lo raccattavano e lo portavano a casa in barella.



Quando si cominciò a osservare che l'arbitro non sopravviveva mai a una partita, l'arbitraggio diventò impopolare. Perciò fui obbligato a nominare qualcuno il cui grado e posizione elevata nel governo lo proteggessero. Ecco i nomi delle due squadre:









BESSEMER



Re Artù.



Re Lot di Lothian.



Re di Northgalis.



Re Marsilio.



Re di Piccola Britannia.



Re Labour.



Re Pellam di Listengese.



Re Bagdemagus.



Re Tolleme La Feintes.









ULSTER



Imperatore Lucius.



Re Logris.



Re Marhalt d'Irlanda.



Re Morganore.



Re Marco di Cornovaglia.



Re Nentres di Garlot.



Re Meliodas di Liones.



Re del Lago.



Il Soldano di Siria.



Arbitro: Clarence.









La prima partita in pubblico avrebbe certamente attirato cinquantamila persone e quanto al divertimento valeva la pena di fare il giro del mondo per andare a vederla. Tutto pareva essere favorevole.





















Capitolo 37









L'INTERDETTO









Ma la mia attenzione fu bruscamente distolta da tali faccende. La nostra bambina cominciò di nuovo a peggiorare e dovemmo riprendere a vegliarla, perché il suo caso era diventato molto grave. Non potevamo permettere a nessuno di aiutarci in questo compito e così noi due ci alternavamo a vegliarla senza tregua.



Ah, Sandy che cuore onesto aveva, e come era semplice, schietta e buona. Era una madre e una moglie perfetta. Eppure io l'avevo sposata senza una ragione particolare, ma solo perché, secondo l'usanza della cavalleria, ella era mia proprietà finché qualche altro cavaliere me l'avesse conquistata in campo. Sandy mi aveva cercato per tutta la Britannia. Mi aveva finalmente ritrovato alla periferia di Londra sul palco della forca e aveva ripreso immediatamente il suo posto di prima al mio fianco, con naturalezza, come di diritto. E ci eravamo sposati.



Allora non sapevo di aver vinto un terno al lotto, ma fu proprio così. Prima che fosse passato un anno ero diventato il suo adoratore e il nostro amore era il più caro e il più perfetto che sia mai esistito.



Da principio, nei miei sogni vagavo ancora nel mondo lontano tredici secoli e il mio spirito inquieto errava, chiamando e ascoltando, su e giù nel vuoto senza risposta di un mondo svanito.



Molte volte Sandy aveva udito quel grido implorante sfuggire dalle mie labbra nel sonno. Con grande generosità, ella trasferì quella mia invocazione sulla nostra bambina, credendo che fosse il nome di un mio amore perduto. Mi sentii commosso fino alle lacrime e per poco non caddi tramortito quando ella mi guardò in faccia con un sorriso e mi fece questa bizzarra e graziosa sorpresa:



- Il nome di una persona che a te fu cara è qui conservato, qui fatto sacro, e il suo dolce suono dimorerà sempre con noi. Ora tu mi bacerai ben sapendo il nome che ho dato alla bambina.



Ma nonostante ciò, io non lo sapevo. Non ne avevo la più lontana idea, ma sarebbe stato crudele confessarlo e guastarle il suo giuoco affettuoso. Così non la delusi e dissi:



- Sì, lo so, amore, e quanto è buono e caro da parte tua! Ma voglio udire da queste tue labbra, che sono anche mie, pronunciarlo per la prima volta.



Profondamente compiaciuta ella mormorò:



- Pronto-Centralino!



Ella non si accorse mai del suo errore. La prima volta che udì quella forma di saluto al telefono fu sorpresa e non ne fu affatto contenta. Ma le dissi che avevo dato io quell'ordine, in onore di nostra figlia. Ebbene, vigilammo presso la culla per due settimane e mezzo. Poi venne la nostra ricompensa: la bambina superò la crisi e cominciò a migliorare. Tornammo a questo mondo in un istante! E allora ci guardammo e nel medesimo istante leggemmo l'uno negli occhi dell'altro lo stesso pensiero di stupore: erano passate più di due settimane e la nave non era ancora ritornata.



Un minuto dopo ero alla presenza del mio seguito. I miei compagni erano sprofondati in tristi presentimenti per tutto quel tempo, lo si leggeva sui loro volti. Non riuscivamo a immaginare una spiegazione logica. C'era stata un'invasione? Un terremoto? Una pestilenza? La nazione era stata cancellata dalla faccia della terra? Ma non serviva a niente cercare di indovinare. Dovevo partire subito. Presi a prestito dalla flotta del re una "nave" non più grande di una lancia a vapore e fui subito pronto.



La separazione, ah sì, fu dura. Mentre divoravo di baci la bambina, ella si animò e cominciò a balbettare nel suo vocabolario, per la prima volta in più di due settimane e questo ci rese pazzi di gioia tutti e due.



Accostai l'Inghilterra il mattino seguente, con la vasta distesa di acqua salata tutta per me. C'erano navi nel porto di Dover, ma erano prive di vele e intorno a loro non c'era segno di vita. Era domenica, eppure a Canterbury le vie erano vuote. E, cosa più strana di tutte, non c'era nemmeno un prete in vista e non si sentiva alcun suono di campane. Il lugubre aspetto della morte era dovunque. Non riuscivo a capire.



Finalmente, all'estremo limite di quella città vidi un piccolo corteo funebre: soltanto una famiglia e alcuni amici seguivano una bara, non un prete. Un funerale senza campane, senza messale e senza candele. C'era una chiesa lì vicino ma essi vi passarono accanto piangendo e non entrarono. Diedi un'occhiata al campanile e vidi penzolare la campana avvolta in un sudario nero, col batacchio legato. Ora mi rendevo conto! Ora capivo l'immensa calamità che era piombata sull'Inghilterra. Un'invasione?



Un'invasione è niente al confronto. Era l'Interdetto!



Non feci domande, non ce n'era bisogno. La Chiesa aveva colpito.



Quello che dovevo fare era trovare un travestimento e andare in giro con cautela. Uno dei miei servi mi diede un abito e, quando fummo al sicuro al di là della città, lo indossai e da quel momento viaggiai solo. Non potevo rischiare l'impaccio di una compagnia. Fu un triste viaggio. Un silenzio desolato dappertutto.



Perfino a Londra. Il traffico era cessato; gli uomini non parlavano, non ridevano, non andavano in gruppi e neppure a coppie; si aggiravano senza scopo, ciascuno per conto suo, e capo chino con il dolore e lo spavento nel cuore. La Torre recava recenti segni di guerra. In verità molte cose erano accadute.



Naturalmente era mia intenzione prendere il treno per Camelot.



Treno! Macché! La stazione era vuota come una caverna. Andai avanti. Arrivai a notte inoltrata. La città meglio illuminata del regno, era diventata semplicemente una macchia scura. Mi diede la sensazione di una specie di avvertimento; che ora la Chiesa avrebbe mantenuto il predominio e avrebbe soffocato tutta la mia bella civiltà, proprio così. Non vidi segno di vita nelle strade buie. Avanzai a tentoni col cuore pesante. L'enorme castello si ergeva nero sulla cima del colle e non si vedeva un barlume di luce. Il ponte levatoio era abbassato, il gran portone era spalancato. Entrai senza incontrare ostacoli. Il rumore dei miei passi era l'unico suono che udii, ed era un suono sepolcrale, in quelle immense corti vuote.





















Capitolo 38









GUERRA









Trovai Clarence solo nel suo alloggio, sprofondato nella malinconia. Al posto della luce elettrica aveva rimesso in uso la vecchia lampada e stava lì seduto in una cupa penombra con tutte le tende abbassate. Balzò in piedi e mi corse incontro con slancio, dicendo:



- Vale un miliardo di decimillesimi rivedere una persona ancora viva!



Mi riconobbe senza difficoltà, come se non fossi stato travestito.



- Presto su dimmi, che cosa significa questo terribile disastro.



Come è avvenuto? - chiesi.



- Beh, se non ci fosse stata la regina Ginevra non sarebbe successo così presto, ma sarebbe successo in ogni modo. Sarebbe avvenuto per causa tua, prima o poi. Per fortuna è accaduto a causa della regina.



- E di ser Lancillotto?



- Proprio così.



- Dammi i particolari...



Clarence spiegò al Capo che Lancillotto aveva comprato alla Borsa le azioni della ferrovia e ne aveva moltiplicato il valore, mandando in rovina molti cavalieri che erano in concorrenza con lui. Questi cavalieri, guidati da ser Mordred, avevano svelato al re l'amore tra Ginevra e Lancillotto, provocando una grande guerra: da una parte erano schierati i seguaci di Artù, dall'altra quelli di Lancillotto. Per inseguire Lancillotto nella sua città il re aveva abbandonato il regno, affidandolo a ser Mordred.



Questi non solo non volle restituirlo, ma tentò di sposare la regina Ginevra che fuggì e si rifugiò nella Torre di Londra. Ser Mordred tentò di assalire la Torre ed il Vescovo gli piombò addosso con l'Interdetto. Il re ritornò. Vi fu un terribile combattimento in cui nessuno rimase vivo. Lo stesso ser Mordred, morendo, aveva trafitto con la spada il corpo di Artù.



- E' un buon pezzo di corrispondenza di guerra, Clarence. Sei un giornalista di prim'ordine. Beh, sta bene il re? Si è rimesso?



- Poveretto, no. E' morto.



Rimasi completamente stordito: non mi pareva possibile che una ferita potesse essere mortale per lui.



- E la regina, Clarence?



- Si è fatta monaca, ad Almesbury.



- Che cambiamenti! E in così breve tempo. E' incredibile. Mi chiedo che altro accadrà.



- Te lo posso dire io quello che avverrà.



- Ebbene?



- Metteremo in gioco le nostre vite e le difenderemo!



- Che intendi dire con ciò?



- La Chiesa è padrona ora. L'Interdetto ha incluso anche te con Mordred e non sarà rimosso finché tu sarai vivo. Le fazioni si stanno formando. La Chiesa ha riunito tutti i cavalieri che sono rimasti in vita e, non appena ti avranno scoperto, avremo parecchio da fare.



- Ma via! Con il nostro potente materiale scientifico di guerra con le nostre schiere di specialisti...



- Risparmia il fiato, ci sono rimasti meno di sessanta fedeli!



- Che vai dicendo? Le nostre scuole, le nostre università, le nostre fabbriche, le nostre...



- Quando arriveranno quei cavalieri, quelle fabbriche si vuoteranno e tutti passeranno al nemico. Credevi di avere sradicato la superstizione da questa gente con l'educazione?



- Ne ero proprio sicuro.



- Beh, è meglio che tu non lo sia. Hanno resistito facilmente a tutte le pressioni, fino all'Interdetto. Da allora semplicemente fingono un atteggiamento coraggioso, ma in cuor loro stanno tremando. Convinciti, quando gli eserciti arriveranno la maschera cadrà.



- Queste son brutte notizie. Siamo perduti. Ritorceranno la nostra stessa scienza contro di noi.



- No, non lo faranno.



- Perché?



- Perché io e un pugno di fedeli abbiamo bloccato la possibilità di un tiro simile. Ti dirò quello che ho fatto e cosa mi ha indotto a farlo. Per quanto tu sia scaltro, la Chiesa è stata ancora più scaltra. E' stata la Chiesa a mandarti in crociera, con l'aiuto dei suoi servi, i medici.



- Clarence!



- E' la verità. Lo so. Ogni ufficiale della tua nave era un servitore scelto della Chiesa e così tutti gli uomini dell'equipaggio. Mentre eri via la nostra flotta era improvvisamente e misteriosamente scomparsa! E anche, altrettanto misteriosamente e improvvisamente, le ferrovie e il telegrafo e il telefono cessarono di funzionare. Tutti gli uomini disertarono, i pali della luce furono abbattuti e la Chiesa mise al bando la luce elettrica! Dovevo darmi da fare e subito... La tua vita era al sicuro. Nessuno in questo regno, eccetto Merlino, si sarebbe arrischiato a toccare un mago come te, senza avere diecimila uomini alle spalle. Non dovevo pensare che a mettere a punto nel modo più efficiente i preparativi per il tuo ritorno. Mi sentivo anch'io al sicuro: nessuno avrebbe tentato di colpire un tuo beniamino. Così, ecco quel che feci. Scelsi, dalle nostre varie fabbriche tutti gli uomini, voglio dire i ragazzi, sulla cui fedeltà sottoposta a qualsiasi pressione potevo giurare, li riunii in segreto e diedi loro le istruzioni. Ce ne sono cinquantadue:



uno non ha ancora quattordici anni e non ce n'è nessuno al di sopra dei diciassette.



- Perché hai scelto dei ragazzi?



- Perché tutti gli altri sono nati in un'atmosfera di superstizione e sono stati allevati in essa. Ce l'hanno nel sangue e nelle ossa. Noi credevamo di avergliela sradicata con l'educazione. Lo credevano anche loro. L'Interdetto li ha svegliati come un improvviso scoppio di tuono! Con i ragazzi è stato diverso. Coloro i quali sono stati istruiti da noi per sette o dieci anni non hanno conosciuto il terrore della Chiesa e proprio fra questi trovai i miei cinquantadue. Come seconda mossa, feci una visita segreta a quella vecchia grotta di Merlino, quella grande...



- Sì, quella in cui avevamo messo di nascosto il nostro primo grande impianto elettrico.



- Proprio così. Ho approvvigionato la caverna per un assedio...



Una buona idea, un'idea di prim'ordine.



Clarence continuò, spiegando che aveva collegato alla caverna, con dei fili elettrici, i depositi di dinamite messi in precedenza sotto le fabbriche, i mulini, le officine. Così dalla caverna si poteva far saltare tutto in aria, senza lasciare nelle mani del nemico le modernità fatte costruire dal Capo. Inoltre, attorno alla grotta, per un diametro di cento metri, erano state disposte dodici barriere di filo elettrico ad alta tensione, alle quali la corrente poteva essere attaccata o tolta dalla grotta. Poi erano state piazzate su una piattaforma, alta due metri, vicino alla caverna, tredici mitragliatrici. Infine tutto il terreno circostante le barriere esterne era stato minato.



- Clarence, hai fatto un mucchio di lavoro e l'hai fatto alla perfezione.



- Abbiamo avuto tanto tempo per farlo. Non c'era ragione di affrettarsi.



Restammo in silenzio per un po' a pensare. Poi presi la mia decisione e dissi:



- Sì, tutto è pronto. Tutto è in perfetto ordine, non manca nessun particolare. Ora so quel che bisogna fare.



- Anch'io: sedersi e aspettare.



- Nossignore! Alzarsi e colpire!



- Dici sul serio?



- Sì, certamente! La difensiva non è il mio genere, l'offensiva sì, lo è. Oh sì, ci alzeremo e colpiremo. Questo sarà il nostro giuoco.



- Cento contro uno che hai ragione tu. Quando incomincia lo spettacolo?



- Ora"! Proclameremo la Repubblica!



- Beh, questo precipiterà le cose, di sicuro.



- Li farà ronzare, te lo dico io! L'Inghilterra sarà un vespaio prima di domani a mezzogiorno, se la mano della Chiesa non ha perso la sua abilità, e noi sappiamo che non l'ha persa. Ora scrivi e io ti detto, così:









PROCLAMA









SIA RESO NOTO A TUTTI. Poiché il re è morto e non ha lasciato eredi, è mio dovere mantenere l'autorità esecutiva di cui sono stato investito, fino a che non venga creato e messo in funzione un governo. La monarchia è finita, non esiste più. Ne consegue che ogni potere politico ritorna alla sua fonte originaria, il popolo della nazione. Con la monarchia sono morte anche le sue istituzioni; perciò non c'è più un'aristocrazia, non più una classe privilegiata, non più una Chiesa Costituita. Tutti gli uomini sono diventati uguali, sono tutti allo stesso livello e la religione è libera.









CON IL PRESENTE MANIFESTO VIENE PROCLAMATA LA REPUBBLICA.



E' dovere del popolo britannico radunarsi immediatamente e, con il proprio voto, eleggere i rappresentanti e affidare nelle loro mani il governo.









Firmai "Il Capo" e lo datai dalla caverna di Merlino.









Clarence disse:



- Ma questo indica loro dove siamo e li invita a farci una visita immediatamente.



- E' proprio quello che intendo. Noi "colpiamo" con il Proclama, poi è il loro turno. E adesso fa preparare questa cosa, falla stampare e distribuire. Poi se hai a disposizione un paio di biciclette ai piedi della collina, via, alla caverna di Merlino!



- Sarò pronto fra dieci minuti. Che ciclone ci sarà domani, quando questo pezzo di carta comincerà a funzionare!





















Capitolo 39









LA BATTAGLIA DELLA CINTURA DI SABBIA









Nella caverna di Merlino, dunque, con me c'erano Clarence, e cinquantadue giovani ragazzi britannici, freschi, brillanti, bene educati, dall'animo puro. All'alba mandai alle fabbriche e a tutte le nostre grandi officine l'ordine di fermare il lavoro e di trasferire tutti a una buona distanza di sicurezza, perché ogni cosa sarebbe saltata in aria ad opera di mine segrete "e non si sapeva in quale momento, quindi bisognava evacuare immediatamente". Quella gente mi conosceva e si fidava della mia parola.



Dovemmo attendere una settimana. Non mi annoiai perché scrissi tutto il tempo. Per i primi tre giorni finii di mettere il mio vecchio diario in questa forma narrativa. Mancava soltanto un capitolo per aggiornarlo. Passai il resto della settimana a scrivere a mia moglie.



Ogni notte mandavo fuori delle spie, a raccogliere informazioni.



Ad ogni rapporto le cose apparivano sempre più impressionanti. Le schiere si stavano riunendo e ammassando; lungo tutte le strade e i sentieri d'Inghilterra cavalcavano i cavalieri e, con loro, cavalcavano i preti per incoraggiare questi originali crociati, poiché questa era la guerra della Chiesa.



Tutta l'aristocrazia, grande e piccola, era in marcia e anche la piccola nobiltà terriera. Tutto questo era stato previsto...



Dovevamo assottigliare le file di questa gente a tal punto, che il popolo non avrebbe poi avuto altro da fare che farsi avanti con la repubblica e... Ah, che somaro ero! Verso la fine della settimana cominciai a rendermi conto di questa grave e deludente realtà: la massa del popolo si era unita a loro. Aveva sventolato i berretti e inneggiato alla repubblica per un giorno ed era finito tutto lì.



La Chiesa, i nobili e la piccola nobiltà avevano rivolto su di loro un solo sguardo severo e disapprovatore e li avevano ridotti a un branco di pecore! Da quel momento le pecore avevano cominciato a radunarsi nell'ovile, vale a dire negli accampamenti, per offrire le loro vite senza valore e la loro preziosa forza alla "giusta causa".



Il gran giorno arrivò puntualmente. All'alba, la sentinella di guardia nel recinto venne nella caverna e riferì che una gran massa scura si muoveva all'orizzonte e che si udiva un fievole suono che, a suo parere, doveva essere musica militare. La colazione era pronta, sedemmo e ci mettemmo a mangiare.



Poi feci un breve discorso ai ragazzi e mandai un distaccamento a presidiare la batteria, con Clarence al comando.



Il sole sorse di lì a poco e riversò sulla terra il suo trionfante splendore. Vedemmo un'armata enorme che si muoveva lentamente verso di noi con l'impeto costante e la compattezza di un'onda del mare. Nel suo avanzare sempre più vicino, il suo aspetto diveniva sempre più solenne e imponente. Sì, tutta l'Inghilterra era là, evidentemente.



Ben presto vedemmo sventolare le innumerevoli bandiere e poi il sole illuminò quel mare di armature e ne fece tutto un bagliore.



Era un spettacolo magnifico: non avevo mai visto niente che lo superasse. Improvvisamente si udì uno squillo di trombe; il passo lento si mutò in galoppo e poi - beh, era meraviglioso a vedersi - quell'immensa ondata a forma di cavallo si rovesciò in avanti e si avvicinò alla cintura di sabbia. Più vicino, sempre più vicino...



Mio Dio! L'intero fronte di quell'armata schizzò in cielo con un boato di tuono e si trasformò in una vorticosa tempesta di stracci e di frammenti. Sul terreno era rimasta una densa muraglia di fumo che nascondeva alla nostra vista quel che rimaneva di quella moltitudine. Via con la seconda parte del piano strategico! Toccai un bottone e le ossa dell'Inghilterra si staccarono dalla sua spina dorsale!



In quell'esplosione tutte le nostre grandiose fabbriche di civiltà saltarono in aria e sparirono dalla faccia della terra. Era un peccato, ma fu necessario. Non potevamo rischiare che il nemico rivolgesse contro di noi le nostre stesse armi.



Dopo seguì uno dei più noiosi quarti d'ora che io abbia mai sopportato. Attendemmo in silenziosa solitudine, chiusi dai nostri cerchi di filo elettrico e da un cerchio di denso fumo all'esterno. Non potevamo vedere oltre. attraverso il muro di fumo. Ma alla fine esso cominciò a diradarsi pigramente e, in capo a un altro quarto d'ora, il terreno era sgombro e potemmo soddisfare la nostra curiosità. Non una creatura vivente in vista!



Ci accorgemmo allora che si era aggiunto qualcosa alle nostre difese. La dinamite aveva scavato un fosso largo più di trenta metri, tutt'intorno a noi, e aveva alzato un argine alto circa otto metri, ai due margini del fosso. Quanto alla distruzione di vite umane, era spaventosa.



Non c'era traccia di vita in vista, ma dovevano certamente esserci dei feriti nelle ultime file che dovevano essere stati portati via dal campo, sotto la protezione del muro di fumo. Fra gli altri, ci saranno stati dei casi di nausea, ce ne sono sempre dopo episodi del genere. Ma non ci sarebbero stati rinforzi: questa era l'ultima resistenza della cavalleria d'Inghilterra. Era tutto quello che era rimasto dell'ordine, dopo le recenti guerre distruttrici. Perciò mi sentivo perfettamente al sicuro nella convinzione che la massima forza che avrebbero potuto portare contro di noi in futuro, non poteva essere che piccola. Quindi mi congratulai con il mio esercito:



- Soldati, campioni della libertà umana e dell'uguaglianza, il vostro generale si congratula con voi!



La guerra contro la nazione inglese sta per concludersi. La nazione si è ritirata dal campo e dalla guerra. Prima che possa essere persuasa a ritornare, la guerra sarà finita. Abbiamo finito con la nazione: d'ora in poi avremo a che fare soltanto con i cavalieri. I cavalieri inglesi si possono uccidere, ma non si possono sconfiggere. Sappiamo quello che ci aspetta. Finché uno solo di questi uomini resterà vivo, il nostro compito non sarà finito, la guerra non sarà finita. Li uccideremo tutti. (Clamorosi e prolungati applausi).



Misi un picchetto sui grandi argini sorti sulle nostre linee dopo l'esplosione, una semplice scolta di un paio di ragazzi per segnalare il nemico quando fosse ricomparso.



Poi mandai un meccanico e quaranta uomini a deviare un ruscello montano che era al di là delle nostre linee, in direzione sud, per portarlo entro le nostre linee e sotto il nostro controllo, in modo che io potessi farne uso immediato in caso di necessità. In dieci ore l'opera era compiuta.



Ormai era il tramonto e io ritirai i picchetti. Quello che era stato di sentinella dal lato nord riferì che c'era in vista un accampamento, ma che era visibile solo con il cannocchiale.



Riferì, anche, che alcuni cavalieri si erano spinti con cautela nella nostra direzione e avevano mandato avanti alcuni capi di bestiame attraverso le nostre linee, ma che i cavalieri non si erano avvicinati molto. Era proprio quello che mi ero aspettato.



Tastavano il terreno, capite. Volevano sapere se avevamo l'intenzione di scatenare nuovamente su di loro quel terrore rosso. Forse si sarebbero fatti più arditi durante la notte.



Potevo immaginarmi che piano avrebbero tentato, perché era chiaramente la cosa che avrei tentato anch'io, se fossi stato al posto loro e ignorante come loro. Ne accennai a Clarence.



- Credo che tu abbia ragione - rispose. - E' per loro la cosa più ovvia da tentare.



- Beh, allora - dissi - se lo fanno, è la fine per loro.



- Certamente.



- Non avranno la minima possibilità di scampo.



- Non l'avranno di certo.



- E' terribile, Clarence. Mi fanno veramente pena.



Ma era ora di mettersi all'opera. Provai i segnali elettrici che andavano dalla piattaforma delle mitragliatrici alla caverna e mi assicurai che funzionassero. Provai e riprovai quelli che comandavano i reticolati: erano segnali per mezzo dei quali potevo interrompere e immettere la corrente elettrica in ciascuna barriera, indipendentemente dalle altre, a volontà. Misi il contatto per la deviazione del ruscello sotto la sorveglianza e la responsabilità di tre dei miei migliori ragazzi pronti a obbedire al mio segnale, se si fosse presentata l'occasione di darlo, tre colpi di rivoltella in rapida successione.



Non appena fu completamente buio, tolsi la corrente da tutte le barriere e poi mi feci strada a tentoni fino all'argine che limitava il nostro lato del grande fossato aperto dalla dinamite.



Strisciai fino alla cima e mi stesi là, sul pendio di terriccio per vigilare. Ma era troppo buio per poter vedere qualcosa. Rumori non ce n'erano. C'era un silenzio di morte. E' vero che c'erano i soliti rumori notturni della campagna, il fruscio degli uccelli notturni, il ronzio degli insetti, l'abbaiare dei cani in lontananza, il distante sommesso muggire di mucche, ma questi suoni non rompevano il silenzio, anzi, lo intensificavano e vi aggiungevano una lugubre malinconia.



Dopo un po' rinunciai a guardare, talmente buia si era fatta la notte, e tenni le orecchie tese per afferrare il minimo suono sospetto, poiché ero convinto che non dovevo far altro che aspettare e non sarei stato deluso. Tuttavia dovetti aspettare a lungo.



Finalmente colsi quello che si potrebbe chiamare un vago barlume di suoni, un rumore metallico attutito. Allora drizzai le orecchie e trattenni il respiro, poiché era proprio quello che stavo aspettando. Il suono si fece più cupo e più vicino. Poi mi parve di vedere una fila di punti neri apparire lungo quella sommità.



Udii il rumore metallico che scendeva nel grande fossato. Aumentò rapidamente e dilagò tutto intorno, dandomi la prova, senza possibilità di dubbio, di questo fatto: un esercito armato si andava schierando nel fossato. Sì, questa gente ci stava organizzando una piccola sorpresa. Potevamo aspettarci lo spettacolo verso l'alba e forse prima.



Tornai a tentoni dentro il recinto: avevo visto quanto bastava.



Andai sulla piattaforma e feci il segnale di dare la corrente ai reticolati interni. Poi andai nella caverna e lì trovai che tutto funzionava in modo soddisfacente. Svegliai Clarence e gli dissi che il grande fossato si andava riempiendo di uomini e che pensavo che i cavalieri si preparassero ad attaccarci in forza. Ero convinto che all'appressarsi dell'alba potevamo aspettarci che i migliaia di uomini in agguato si sarebbero mossi in frotte sull'argine e ci avrebbero attaccato, seguiti immediatamente dal rimanente dell'esercito.



Ben presto distinguemmo un suono attutito e pesante e subito intuimmo di che si trattava. Era una sorpresa in forza che avanzava! Bisbigliai a Clarence di andare a svegliare l'esercito e di avvertirlo di aspettare in silenzio nella caverna ulteriori ordini. Egli fu presto di ritorno e restammo presso il reticolato interno a guardare il fulmine silenzioso che compiva la sua opera spaventosa su quell'esercito brulicante. Si poteva vedere ben poco dei particolari, ma si poteva notare una grande massa scura che si andava addensando oltre il secondo reticolato. Quella grande massa crescente di morti fulminati. Il nostro campo era recintato da una solida muraglia di morti, un bastione, un baluardo di cadaveri, per così dire. La cosa terribile in tutto questo, era l'assenza di voci umane: non si udivano né inneggiamenti né grida di guerra.



Intenti com'erano alla sorpresa, quegli uomini si muovevano più silenziosamente che potevano. E sempre, quando la prima fila era abbastanza vicina alla meta e al momento propizio per prepararsi a lanciare il grido, essi, naturalmente, urtavano la linea fatale e stramazzavano senza renderne testimonianza. A questo punto mandai la corrente attraverso il terzo reticolato e quasi contemporaneamente attraverso il quarto e il quinto, rapidamente.



Pensai che fosse ormai giunto il momento dell'effetto culminante; sapevo che l'intero esercito era in trappola. Ad ogni modo era ora di accertarsene. Perciò toccai un bottone e feci fiammeggiare cinquanta soli elettrici in cima al nostro precipizio.



Mio Dio, che spettacolo! Eravamo circondati da tre muraglie di morti! L'improvviso bagliore paralizzò questo esercito, lo pietrifico. Lanciai la corrente attraverso tutti i reticolati e fulminai tutto l'esercito nemico sul posto! Ci fu un gemito udibile! Esprimeva lo spasimo di morte di undicimila uomini. Si dilatò nella notte con una tremenda drammaticità.



Ci bastò un'occhiata per vedere che il resto dell'esercito, forse diecimila uomini, era fra noi e il fossato circostante, e si spingeva avanti all'assalto. Di conseguenza, li avevamo in pugno "tutti" e non avevano più speranza di salvezza. Era il momento per l'ultimo atto della tragedia. Sparai i tre colpi di rivoltella stabiliti per far aprire l'acqua.



Si udirono un improvviso scroscio e un rombo e un minuto dopo il ruscello montano scorreva impetuoso nel grande fossato e formava un fiume largo trenta metri e profondo otto.- Alle mitragliatrici, uomini! Aprite il fuoco!



Le tredici mitragliatrici cominciarono a vomitare la morte sui diecimila condannati. Essi si fermarono, restarono fermi un momento ai loro posti contro quel fulminante diluvio di fuoco, poi si scompigliarono, fecero dietro front e si precipitarono verso il fossato come pula spazzata dall'uragano. Un buon quarto delle loro forze non raggiunse neppure la cima dell'alto argine; gli altri tre quarti la raggiunsero e si tuffarono dall'altra parte, per morire annegati.



Entro dieci brevi minuti da quando avevamo aperto il fuoco, la resistenza era del tutto annientata, la campagna era finita e noi cinquantaquattro eravamo padroni dell'Inghilterra! Venticinquemila uomini giacevano morti intorno a noi.



Ma come è infida la fortuna! In breve tempo, un'ora, accadde una cosa, per colpa mia, che... ma mi manca il coraggio per scriverla.



Lasciamo che la relazione finisca qui.





















Capitolo 40









POSTSCRIPTUM DI CLARENCE









Io, Clarence, devo scrivere per lui. Egli aveva proposto che noi due andassimo a vedere se qualche aiuto poteva essere offerto ai feriti. Mi opposi energicamente a questo progetto. Dissi che se ce n'erano molti si sarebbe potuto fare ben poco per loro e che, ad ogni modo, non sarebbe stato prudente da parte nostra fidarci di andare in mezzo a loro. Ma raramente egli si lasciava distogliere da un proposito, una volta che se lo era messo in testa. Così, togliemmo la corrente elettrica dai reticolati, prendemmo con noi una scorta, ci arrampicammo sui circostanti bastioni di cavalieri morti e uscimmo nel campo. Il primo ferito che invocò soccorso era seduto con la schiena appoggiata a un compagno morto. Quando il Capo si chinò su di lui e gli parlò, l'uomo lo riconobbe e gli vibrò un colpo di pugnale. Quel cavaliere era ser Meliagraunce, lo riconobbi quando gli strappai via l'elmo. Non chiederà più aiuto a nessuno.



Portammo il Capo nella caverna e curammo la sua ferita, che non era molto grave, come meglio potemmo. In questa funzione avemmo l'aiuto di Merlino, sebbene non lo sapessimo. Era travestito da donna e sembrava una semplice vecchia massaia paesana. Sotto questo travestimento, con la faccia tinta di bruno e ben rasata, si era presentato pochi giorni dopo che il Capo era stato ferito e si era offerto di cucinare per noi, dicendo che i suoi erano andati via per raggiungere certi nuovi accampamenti che il nemico stava formando e che ella moriva di fame. Il Capo si stava rimettendo molto bene e si divertiva a finire la sua relazione.



Fummo ben lieti di avere questa donna, perché eravamo a corto di mano d'opera. Eravamo in trappola, capite, una trappola tesa da noi stessi. Se restavamo dove eravamo, l'aria avvelenata esalata dai cadaveri ci avrebbe ucciso; se uscivamo dalle nostre difese, non saremmo stati più invincibili. Avevamo vinto e a nostra volta eravamo vinti.



Il Capo se ne rendeva conto: noi tutti ce ne rendevamo conto. Se fossimo potuti andare fino a uno di quei nuovi accampamenti a rimediare un qualche genere di accordo con il nemico. Già, ma il Capo non poteva andare e nemmeno io, perché ero stato fra i primi a cadere ammalato per l'aria avvelenata. Altri furono colpiti e altri ancora. Domani...



Domani. Eccolo. E con questo la fine. Verso mezzanotte mi svegliai e vidi quella strega che faceva dei segni strani nell'aria intorno al capo e al viso del Capo. Mi chiesi che cosa mai significassero.



Tutti erano immersi nel sonno: non si udiva nessun rumore. La donna cessò il suo misterioso gesticolare e si avviò verso la porta in punta di piedi. Io gridai:



- Ferma! Che cosa stavi facendo?



Ella si fermò e disse, con accento di maligna soddisfazione:



- Eravate vincitori, ora siete vinti! Costoro stanno morendo, e anche tu. Morrete tutti in questo luogo, tutti, eccetto "lui".



Egli dorme, ora, e dormirà tredici secoli. Io sono Merlino!



E allora lo colse un tale accesso di insane risate, che cominciò a barcollare come un ubriaco e poco dopo andò a urtare contro uno dei nostri fili. La sua bocca è ancora spalancata, apparentemente ride ancora. Immagino che la sua faccia conserverà quel riso pietrificato finché il suo cadavere non diventerà polvere.



Il Capo non si è più mosso. Dorme come un sasso. Se oggi non si sveglia, sapremo che genere di sonno è il suo e il suo corpo sarà, allora, portato in uno dei più remoti recessi della caverna, dove nessuno lo troverà mai per profanarlo.



Quanto a noi, ebbene siamo d'accordo che, se qualcuno di noi uscirà mai vivo da questo luogo, scriverà il fatto qui, e poi fedelmente nasconderà questo manoscritto assieme al Capo, il nostro caro e buon capo, a cui esso appartiene, sia egli vivo o morto.





















Capitolo 41









POSTSCRIPTUM DEFINITIVO DI MARK TWAIN









Quando deposi il manoscritto l'alba era spuntata. La pioggia era quasi cessata, il mondo era grigio e triste. Andai fino alla camera dello sconosciuto e ascoltai alla porta che era leggermente socchiusa. Udii la sua voce e allora bussai. Non ci fu risposta, ma sentivo ancora la sua voce. Diedi un'occhiata dentro. L'uomo giaceva supino sul letto e parlava a scatti, ma con animazione, dando enfasi alle parole con gesti delle braccia, che agitava qua e là incessantemente, come fanno i malati nel delirio. Entrai dentro pian piano e mi chinai su di lui. I suoi borbottii e le sue esclamazioni continuavano. Io parlai, soltanto una parola, per richiamare la sua attenzione. Gli occhi vitrei e il viso pallido si illuminarono istantaneamente di piacere, di gratitudine, di gioia e di lieta accoglienza:



- Oh, Sandy, finalmente sei venuta. Quanto ardentemente ho desiderato la tua presenza! Siedi vicino a me, non mi lasciare, non mi lasciare mai più, Sandy, mai più. Dov'è la tua mano?



Dammela, cara, lascia che io la stringa... Sandy... Sì, sei qui.



Mi sono smarrito e ho creduto che tu fossi andata via... Sono stato malato a lungo? Dev'essere così. Mi sembra per mesi e mesi.



E che sogni! Dei sogni così strani e spaventosi, Sandy! Beh, credevo che il re fosse morto, credevo che tu fossi in Gallia e non potessi tornare in patria, che ci fosse la rivoluzione. Nel fantastico farneticare di questi giorni, credevo che Clarence ed io e un pugno dei miei cadetti avessimo combattuto e sterminato l'intera cavalleria d'Inghilterra! Ma neppure quello è stato il sogno più strano. Mi sembrava di essere una creatura di un'età lontana, ancora da venire, a secoli di distanza. Sì, mi sembrava di aver fatto un salto indietro da quell'epoca in questa nostra, e poi avanti in quella di nuovo e di essermi trovato straniero e derelitto in quella strana Inghilterra, con un abisso di tredici secoli spalancato fra me e te! Fra me e la mia casa e i miei amici! Fra me e tutto quello che mi è caro, tutto quello che può rendere la vita degna di essere vissuta! Era tremendo, più tremendo di quanto tu possa immaginare, Sandy. Ah, veglia vicino a me, Sandy... rimani vicino a me, ogni istante... non mi lasciare uscir di senno ancora. La morte non è nulla, venga pure, ma non con quei sogni, non con la tortura di quegli orrendi sogni, non potrei sopportare "quello" un'altra volta... Sandy...



Continuò a mormorare incoerentemente per breve tempo. Poi per un po' restò in silenzio, evidentemente sprofondato sempre più verso la morte. Poco dopo le sue dita cominciarono a stringere affannosamente la coperta e da questo segno capii che la fine era prossima. Con il primo accenno del rantolo della morte in gola, egli si sollevò appena, parve stare in ascolto, poi disse:



- Uno squillo?... E' il re! Il ponte levatoio, là! Uomini, ai bastioni! Alzate il...



Stava allestendo il suo ultimo "effetto". Ma non arrivò a finirlo.
F I N E

                                    §>>>>>>> M A R K  T W A I N <<<<<<§ 

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