domenica 26 settembre 2010

Antologia curata da Marco Giorgini - § * * * VALENTINO (SAN) * * * § - Narrativa Contemporanea



Valentino (San),

Antologia a cura di Marco Giorgini.




Questa antologia contiene racconti di Barbara Gennaccari, Massimo Borri, Luca Venturi e




Tutti i fatti raccontati in questo antologia sono opera di finzione. Qualunque somiglianza con persone o


accadimenti reali è puramente casuale.




AA.VV.




Valentino




(San)




antologia a cura di Marco Giorgini




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Sommario


Prefazione




L'altra vita


Un cielo pagano


Variabile nascosta


Il riciclone


C.B.


Il curatore




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Prefazione




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Chi di voi non conosce la festa di San Valentino, il giorno degli innamorati


per antonomasia, spesso festeggiato con scatole di cioccolatini, fiori o regali,


e con cenette romantiche a lume di candela?




Nessuno. E questo perché il 14 febbraio è in qualche modo un giorno


celebrato ovunque, e si porta dietro un immaginario ricco e corposo,


stucchevole, forse, per qualcuno, dolcissimo per altri, o dal sapore più


complesso e meno definibile per altri ancora.




Questa giornata, istituita intorno al 500 rinnovando una festa della fertilità


pagana, ha infatti ispirato nei secoli scritti o poemi, in cui si parla dell'amore


più etereo, o di quello sensuale, o del rumore di fondo, più tetro, legato non


all'amore, ma alla sua fine, alla sua assenza, amore definito dal vuoto di


contorno.




Difficile quindi che non ci sia un aggancio per tutti, un motivo per amare o


odiare questa festa, o per ricordarsi di un anno particolare, in cui questo


momento di metà febbraio è diventato un ricordo importante, nel bene o nel


male.




Quello che abbiamo quindi tentato di fare, con questa piccola antologia


digitale, è stato quello di aggiungere, a questo già ricco campionario di storie,


qualcosa in più. Proponendo testi di genere diverso che potessero però aiutare


a celebrare questo giorno così specifico.




Se poi saremo riusciti a fare qualcosa di degno di memoria oppure no, questo


starà a voi lettori deciderlo. Una volta iniziata la lettura.




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L'altra vita




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Il tuono la fece svegliare di soprassalto.




Si stiracchiò e guardò l'ora dalla radiosveglia sul comodino.




Le sei e trenta. Indugiò un attimo. La giornata sarebbe stata di quelle


memorabili.




O almeno lo sperava. Con quella pioggia, comunque, sarebbe stato


consigliabile rinunciare alle scarpe con il tacco e indossare un paio di stivali.




Mara pensò con rimpianto al prezzo pagato per le scarpe, comprate apposta


per l'occasione, e a quello che avrebbe potuto fare con quei soldi. Che non era


molto, in verità, ma che le avrebbe permesso di togliersi qualche piccolo


sfizio.




Un cinema, un paio di buoni libri e una pizza. Tanto per cominciare.




La priorità, però, in quel momento era un'altra.




La presentazione della campagna pubblicitaria alla quale lavorava da


settimane, che forse le avrebbe fruttato un lavoro stabile.




E l'avrebbe liberata dalla schiavitù dell'affitto per regalarle quella del mutuo.




Forse avrebbe potuto comperarsi un'utilitaria di seconda mano e avrebbe


potuto viaggiare. Senza più dover fare la caccia alle offerte delle compagnie


aeree low cost.




Si fece una doccia, si vestì e si truccò con cura, bevve un caffè amaro e alle


sette in punto era già alla fermata dell'autobus.




A bordo vide ragazzini con scatole di cioccolatini e rose, ragazzine con


pacchettini e sorrisi colmi di speranza. San Valentino. Ormai non ci badava


più, a queste ricorrenze da liceali, o da innamorati puntualmente disillusi.


L'amore era una sorta di contratto a scadenza, pensò con amarezza. Solo che


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non c'era quasi mai da guadagnarci. Lei ci aveva definitivamente ed


irrimediabilmente rinunciato. Non aveva voglia di vedersi un uomo in


mutande e calzini in giro per casa. O marmocchi che le toglievano ogni


energia. Alla solitudine si sarebbe abituata.




Scese alla fermata precedente a quella vicino allo studio dove lavorava, l'aria


fresca del mattino le avrebbe schiarito le idee.




Intuì subito che c'era qualcosa di diverso, ma sulle prime pensò che fosse una


sua sensazione.




Man mano che continuava a camminare su quella strada notò che i negozi


non erano al loro posto. Non c'era l'edicola, e, per quanto si sforzasse, non


riusciva a trovare i soliti punti di riferimento: l'incrocio con l'enorme fontana


al centro, il panettiere. Non c'era nulla che potesse farle pensare di trovarsi


nel suo quartiere.




Non c'era il solito venditore di fiori, anzi, a dirla tutta, non c'era in giro


nessuno. Provò un senso d'inquietudine ma la curiosità ebbe il sopravvento.




Continuò a guardarsi intorno.




Tutto sembrava irreale, il silenzio era assoluto, vischioso.




La pioggia aveva smesso di cadere. Per strada c'erano macchine vuote,


parcheggiate in ordine, lampioni spenti e una serie di costruzioni con le


saracinesche abbassate.




Il suo sguardo fu attratto da un garage con una porticina rossa, in legno, in


un vicoletto laterale.




Una manciata di secondi dopo, stava spingendo la porta che, sebbene molto


solida, si aprì al semplice tocco della sua mano.




Entrata in quella che si rivelò essere una minuscola stanzetta, la porta le si


richiuse silenziosamente alle spalle.




Il cuore di Mara mancò un battito. Di fronte a lei, seduta ad un tavolino, c'era


una vecchia che sembrava avere sulle spalle tutti gli anni del mondo.




Indossava un tailleur blu e aveva i capelli neri con una voglia bianca.




Le fece segno di accomodarsi su di una poltroncina comparsa dal nulla.




Per qualche istante le due donne si studiarono




«Benvenuta, Mara», disse la più anziana con voce ferma.




Mille domande le si affacciarono alla mente ma le parole si fermarono in


7


L'altra vita


gola.




Non riusciva a parlare.




La donna le mostrò tre piccole sfere lucide, di colore diverso.




«Prendine una», la esortò.




La ragazza non si mosse. Qualcosa le diceva di non farlo, di non scegliere.




La vecchia rinnovò l'invito.




Mara, con riluttanza, prese quella di colore rosso.




Lo scenario cambiò immediatamente. Scomparse il garage, l'anziana in


tailleur e il vicolo. Mara si ritrovò alla fermata dell'autobus da cui era scesa.


Ancora stordita, guardò l'ora sul piccolo orologio da polso. Le sette e


quaranta. Camminò verso l'ufficio, con la piccola sfera rossa stretta nella


mano.




Lo scenario, intanto, le era diventato familiare, tutto era tornato al suo posto.




Il solito incrocio, la fontana, l'edicola, il venditore di fiori.




Entrata nell'atrio del palazzo il portiere, che di solito non rispondeva al suo


saluto, le sorrise e piegò la testa in segno di deferenza.




Salì all'ultimo piano e si infilò nel corridoio dov'erano situati gli uffici. Si


diresse verso la stanza con la fotocopiatrice nella quale era stato sistemato un


pc perché lei potesse lavorare e la trovò colma di scaffali.




«Dottoressa, il caffè e i giornali sono sulla scrivania. Un fattorino, poco fa, ha


portato anche un pacchetto».




Quello che era sempre stato il suo capo, incompetente e mellifluo, la


precedette verso quello che la ragazza scoprì, dalla targhetta sulla porta,


essere il suo ufficio.




La luminosità dell'ambiente, arredato in stile moderno ed essenziale, sembrò


accoglierla come in un abbraccio.




Rimasta sola, chiuse la porta, si sedete sulla poltrona in pelle nera e chiuse gli


occhi. Quando gli riaprì, si rese conto che non stava sognando, o almeno così


credeva.




Diede uno sguardo alla corrispondenza e prese in mano il pacchetto.




Conteneva due piccole sfere, una nera e l'altra verde. Ed un biglietto senza


firma che diceva solo: “Hai scelto bene, scegliendo l'amore hai avuto anche il


resto”.




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L'altra vita


Solo in quel momento si accorse che sulla scrivania c'era una foto che


ritraeva lei con un uomo e due splendidi bambini. La femmina aveva sui


capelli una voglia bianca.




La trovarono il giorno dopo nel suo letto. Sorrideva. Sembrava addormentata.


Il medico legale disse che si era trattato di morte naturale.




Barbara Gennaccari: nata a Lecce 36 anni fa, si è laureata in giurispridenza all'Università "La


Sapienza" di Roma nel '96. Nel 2000 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di


avvocato e nel 2002 l'abilitazione all'esercizio della professione giornalistica. Vive a Vignola con


il marito e la figlia. Lavora all'Università di Modena e Reggio Emilia dal 2002. Continua a


collaborare con giornali e riviste e scrive racconti. Sta ultimando il suo primo romanzo.




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L'altra vita


Un cielo pagano




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La serata era stata perfetta.




Lei era splendida, e gli aveva subito sorriso quando gli aveva aperto la porta.


Non c'era stato nessun imbarazzo iniziale, nessun silenzio impacciato, né in


seguito, durante la serata, alcuna occhiata all'orologio o chiamata al cellulare.


Dopo essersi presentati si erano messi a parlare, come se si conoscessero da


sempre. Poi lui l'aveva portata da Ermes. Un antipasto in due, due primi e due


dolci. Un paio di bottiglie di vino (un rosso e uno spumante) lasciate


entrambe a metà. Due caffé, niente amari. Poi una passeggiata, lunga e


tranquilla, per le vie del centro.




Erano poi entrati in quel locale alla moda, dove lo conoscevano molto bene e


non avevano avuto problemi a farli entrare senza attese, nonostante la fila


fuori e la tanta gente all'interno.




Avevano ordinato un cosmopolitan e un succo di frutta. Poi, due mojito.




Un po' di movimento in pista, abbracciati, mentre la musica lounge saturava


l'udito, lasciando agli occhi il compito, arduo ma piacevole, di preservare la


comunicazione.




Poi ancora una camminata, soli, nella notte. E altre chiacchiere, impastate


dalla stanchezza che iniziava a farsi sentire, ma ancora brillanti, speziate da


una sobria euforia, dalla sensazione di benessere che era cresciuta in quelle


ore insieme.




Una volta davanti al portone di lei, un ultimo sorriso. Un bacio caldo, appena


incerto.




Poi un lungo scambio di sguardi. La porta dietro la ragazza era socchiusa, lei


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sulla soglia che gli sorrideva, senza dire più nulla. Lui che le teneva le mani,


poi girava appena la testa. La luna brillante nel cielo nero. Una brezza


leggera, tonica. Un sorriso che era quasi un sospiro. Poi un saluto. Un passo


indietro, un gesto rapido con la mano che voleva dire tutto e nulla. Ciao.


Arrivederci. Addio.




Tornando a casa, lungo i viali, aveva chiamato Luca, per ringraziarlo. Data


l'ora nessuno aveva risposto e lui si era quindi limitato a dire qualche parola


alla segreteria telefonica. Una serata davvero magnifica. Un San Valentino


perfetto. Grazie per avere organizzato questo appuntamento al buio. Non sai


quanto ne avevo bisogno.




Una volta a letto aveva ripensato con piacere ai vari momenti di quell'uscita.


L'alcol in circolo e Morfeo ne stavano mutando i contorni, rendendo tutte le


scene gradevoli spezzoni che però non riuscivano più a essere organici. Come


se fossero la somma di momenti distanti nel tempo, ritagliati e incollati in


ordine sparso. Aveva trovato importante questa strana analogia, ma mentre


cercava di elaborarla si era addormentato.




E aveva fatto il solito sogno.




Era in una stanza ampia e assolata. Davanti a lui c'era un'enorme finestra


senza vetri, che mostrava un paesaggio dai riflessi violacei, e poco più a


destra un corridoio, lungo il quale camminavano veloci parecchi uomini,


tutti vestiti di chiaro e dal viso inespressivo. Lui era seduto, in attesa, su un


comodo scranno di legno, finemente intarsiato.




Dopo un tempo indefinito gli si avvicinò un ragazzo biondo, dagli occhi


verdi. Un inchino, e poi il giovane gli disse qualcosa con aria grave, che lui


però non riuscì a capire. Mentre stava per chiedere all'altro di ripetere, vide


la donna passare lungo il corridoio, sospinta da due individui armati di


lance.




Provò ad alzarsi per raggiungerla, ma il giovane gli fece cenno di fermarsi, e


scosse la testa con espressione mesta.




Lui sentì allora una fitta al petto, e decise di ritornare immobile. E di


chiudere gli occhi.


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Un cielo pagano


- Ciao Enrico - disse Luca, quando vide che l'altro aveva aperto gli occhi.




- Ciao - provò a dire l'altro, ma dalla gola le parole uscivano fioche e


strozzate.




- No, non ti muovere, che stacchi di nuovo la flebo.




- Flebo - ripeté Enrico, guardano il filo, l'asta e la fiala, in successione. I suoi


occhi esprimevano uno stupore sincero, che a Luca faceva mancare il fiato


ogni volta.




- Dove sono? - chiese Enrico, dopo un istante.




Luca girò lo sguardo e non rispose. L'infermiera, poco distante, guardava


entrambi con distacco, in attesa che l'ospite uscisse, o che arrivasse il dottore,


o che il suo turno finisse.




- Va tutto bene - rispose Luca, senza più guardarlo. - Come hai fatto a


chiamare?




- Chiamare? - chiese Enrico, con un filo di voce.




- Sul cellulare. Ieri sera. Ho il tuo messaggio. Come hai fatto?




Dopo che Luca se n'era andato, Enrico si era messo a osservare la stanza


intorno a lui. Le pareti giallastre, due quadri di navi, un paio di sedie di


formica, un armadietto di lamiera. Il suo letto. Un comodino. La flebo che


gocciolava lentamente.




Dov'era? Non ricordava nulla. A parte il solito sogno. E la sera prima.


L'amica di Luca.




- Sei qui da quasi un anno - gli aveva ricordato Enrico.




Che gli chiedeva come aveva fatto a chiamarlo, di notte. A lasciargli il


messaggio in segreteria.




Lui non sapeva nulla dell'anno d'ospedale. Il messaggio glielo aveva lasciato


mentre stava rientrando a casa. E come stava la sua amica? aveva chiesto.


Quale amica? aveva domandato a sua volta Luca.




E Enrico si era accorto in quel momento che non riusciva a ricordarne il


nome. Era semplicemente un "tu" nella sua memoria. Un volto, un corpo, una


voce. Ricordava la camminata, i vestiti, gli orecchini. Ma non ricordava il


nome. Com'era possibile?




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Un cielo pagano


Nel pomeriggio l'infermiera entrò nella stanza, lo cambiò, gli mise un golf


sopra al pigiama e lo fece sedere su una sedia a rotelle, che poi spinse,


insieme all'asta della flebo, e senza particolari riguardi, nel salone comune.




Enrico non si ricordava di avere mai visto quell'ambiente, ma gli altri pazienti


e gli infermieri, quando lo videro, lo salutarono chiamandolo per nome.


L'infermiera gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, poi, senza aspettare


risposta, lo mise di fronte alla finestra che dava sul cortile e se ne andò.




Il vetro polarizzato filtrava la luce esterna rendendo tutto surreale. Enrico


guardava fuori, senza realmente vedere nulla. Cercava di ricordarsi qualcosa


del suo passato, riuscendo solo a catturare immagini del suo sogno ricorrente,


e della bella serata trascorsa con l'amica di Luca.




Poi si toccò le gambe, insensibili, e il ricordo del suo ballare all'interno del


Glower, o della lunga passeggiata notturna nel parco, diventarono in qualche


modo dolorosi.




- Com'è andata poi? Eh? Com'è che è andata?




Enrico si girò a vide che si era avvicinato un vecchio, su una sedia a rotelle


simile alla sua. Il viso carico di rughe sembrava una maschera di carnevale,


ma gli occhi verdi, vivi e brillanti, nonostante le macchie scure sulla pelle, gli


piacquero subito.




- Come è andato cosa? - chiese con aria d'intesa.




- Facciamo i gentiluomini, eh? O… - continuò abbassando la voce - …ieri


sera siamo andati in bianco come al solito?




Luca lo fissò e, esitando, chiese - Ieri sera, intendi con…




- Esatto. - lo interruppe l'altro - Ah, se avessi vent'anni in meno ci farei un


pensiero io. Ma la vita è così. Largo ai giovani, no?




- Quindi… quindi è vero che ieri sera sono uscito?




- Eh? - chiese il vecchio stupito dalla domanda.




Ma prima che potesse dire altro l'infermiera che aveva portato Enrico in


quella stanza gli si avvicinò stizzita e lo rimproverò.




- Che cosa avevamo detto? Che cosa mi avevi espressamente promesso?




Il vecchio chinò il capo e non rispose. Sembrava che all'improvviso si fosse


reso conto della sua età, ed Enrico prima lo vide ingobbirsi e poi notò un filo


di bava scendergli da un lato della bocca e gli occhi come svuotarsi da ogni


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Un cielo pagano


luce.




L'infermiera attese pochi istanti e poi lo spinse in fondo allo stanzone, in un


angolo, lontano da tutti.




Tornò da Enrico e gli si piazzò davanti con aria quasi di sfida.




- Non ci stiamo comportando molto bene, eh?




Enrico la fissò senza capire. La sagoma di lei, controluce, sembrava


imponente e minacciosa. Poi un rumore lo distrasse, e guardando di lato, nel


corridoio, gli sembrò di vedere qualcuno di conosciuto, sospinto con forza da


un paio di grossi inservienti.




- Ci siamo quasi. - disse lei, girandogli il viso, delicatamente, con una mano -


Guardami. Perché il momento è questo.




- Chi è quella persona che è passata ora, nel corridoio? - si azzardò a chiedere


Enrico, sempre più confuso e turbato.




- Un nuovo degente. Ma a te non sarà dato di conoscerlo. - poi aggiunse - Il


suo nome è Enrico.




- Come me?




L'infermiera fece un sospiro, gli girò intorno e lo portò di nuovo in camera.




Una volta che, con il supporto dell'infermiera, era riuscito a tornare sul letto,


si accorse del piccolo pacchetto rosso, legato con dello spago, sopra il


comodino.




- “Per Enrico” - lesse ad alta voce. - È un regalo per me?




L'infermiera non rispose, ma restò nella stanza, invitandolo con un gesto ad


aprire l'involucro.




Enrico tolse lo spago e strappò la carta. Vide che all'interno c'era una collana


di legno e un biglietto piegato in due, con una immagine stilizzata che


ricordava un po' due cuori intrecciati.




- Un regalo per San Valentino? Ma non era ieri? - chiese Enrico.




- Ieri?




- Che giorno è oggi?




- Come che giorno è? Oggi è il 14 febbraio. Non senti? - rispose l'infermiera.


E solo in quel momento Enrico sentì i canti. O meglio, solo in quel momento


capì che li stava sentendo. Probabilmente, pensò, ci sono da quando mi sono


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Un cielo pagano


svegliato. O forse da ancora prima.




Ma solo allora riusciva a capire che erano canti e tamburi. Sentiva che


qualcuno danzava davanti al fuoco. In cortile, certo. Vicino al tempio e alla


statua.




L'infermiera per la prima volta sorrise.




- Mettiti la tua collana.




Enrico obbedì.




Sentì che gli occhi iniziavano a chiudersi e che intorno a lui la temperatura si


stava abbassando rapidamente, come se qualcuno avesse spalancato di colpo


tutte le porte e tutte le finestre.




Il ragazzo biondo lo prese per mano, e lo condusse prima nel corridoio, poi,


facendogli scendere alcune rampe di scale, nel cortile. Lì, intorno a una


imponente pira, stavano danzando seminudi uomini e donne di ogni età. Il


loro viso era nascosto da maschere e il loro corpo era ricoperto di disegni


colorati indecifrabili. Poco di lato uomini vestiti di indaco stavano suonando


strumenti a fiato dal suono acuto e dalla forma esotica, e altri ancora


stavano picchiando su tamburi, con piccole mazze di legno.




Quando si accorsero della sua presenza, i suonatori di tamburo accelerarono


il ritmo, e qualcuno, tra i danzatori, iniziò a intonare un canto pieno di


vocali, gioioso e tragico insieme.




Il ragazzo biondo allora lo sospinse verso la pira, vicino, più vicino ancora,


fino a quando il calore non diventò quasi insopportabile e la fiamma l'unica


cosa che Enrico riusciva a vedere.




Il ballo si fece frenetico, ed Enrico sentì che iniziava a mancargli il fiato. Poi


tra le vampe, gli sembrò di iniziare a scorgere qualcosa. Figure scure che si


muovevano nel fuoco. Che parevano camminare vicine.




Poi una di queste sembrò cadere a terra e rimase immobile mentre le altre


continuavano il loro percorso.




Il ragazzo a quel punto gli prese la mano e lo fece allontanare dal fuoco.




Lo fissò e gli disse qualcosa di incomprensibile. Poi gli diede una collana di


legno e gli fece cenno di infilarla.




Enrico esitò un attimo, poi se la mise al collo.




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Un cielo pagano


Il ragazzo sorrise e gli indicò un punto del cortile dove due persone


sembravano aspettarlo. Enrico pensò di riconoscerle e iniziò ad andare loro


incontro, sereno. Ma mentre stava per raggiungerle una delle due sparì nel


vuoto.


- Ti sto annoiando, eh? - disse lei, sorridendo.




- Uh… no… cioè…




- Lo sapevo che non ti dovevo parlare dei miei cavalli. Scusa, divento


insopportabile quando parlo dei miei animali.




Enrico la guardò confuso. Poi qualcosa nella sua mente sembrò scattare e si


ricordò che mentre tornavano a casa avevano trovato una piccola osteria


aperta. E avevano deciso di fermarsi, per bere qualcosa ancora e per finire di


raccontarsi.




- Ma ora è il tuo turno - disse lei.




- Eh?




- No. L'hai promesso. Non mi hai detto quasi nulla di te in tutta la serata. Non


so neanche come hai fatto a convincermi a uscire, questa mattina, quando ci


siamo scontrati al supermercato. Ma ora sto iniziando davvero a pensare che


mi stai nascondendo qualcosa. Sei un serial killer?




Enrico sorrise alla domanda, ma poi si accorse che non era in grado di


rispondere. Nella sua mente c'era il vuoto assoluto. Nessun ricordo.




- Mah… - bofonchiò dopo un po' - in realtà se non ti ho detto nulla su di


me… cioè… è perché non è che c'è molto da dire. Che cosa vuoi sapere?




- Per esempio non mi hai detto che lavoro fai.




- Mmh…




- Perché ce l'hai un lavoro, no?




- Sì… - rispose Enrico, mentre cercava disperatamente di ricordare cosa


facesse - non… non te l'ha detto Luca?




- Luca? Luca chi?




Poi il giovane cameriere gli si avvicinò e gli toccò leggermente la spalla.


Enrico si girò e fece un piccolo sobbalzò. Il ragazzo aveva gli occhi verdi e i


capelli biondi. Dove l'aveva già visto? Perché gli sembrava così familiare?




- Signore? Credo le sia caduto qualcosa dalla tasca…




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Un cielo pagano


- Cosa?




- Lì - disse l'altro indicando un piccolo involucro a terra, vicino alla sua


giacca. Poi senza aspettare si chinò e lo raccolse, per poi consegnarlo in mano


ad Enrico.




- Oh. Sì. Grazie. - rispose Enrico, guardando incuriosito l'oggetto.




- Cos'è? - chiese lei.




- Uhm… - rispose lui girando il pacchetto tra le mani - beh, direi che ho una


sorpresa per te.




E le allungò il pacchetto.




Lei lo scartò e all'interno trovò una collana e un biglietto. Aprì quest'ultimo


con due dita e lo lesse. Poi, alzando di nuovo lo sguardo, iniziò - Non so cosa


dire…




- Non dire nulla. Era il nostro primo appuntamento, ok, ma oggi è anche San


Valentino.




Lei osservò la collana per un istante, poi la infilò. Il cameriere le disse - Se


vuole c'è uno specchio là, vicino all'appendiabiti, se si vuole vedere.




- Scusami un attimo - disse lei alzandosi.




- Fai, fai. - rispose lui.




Mentre lei si ammirava allo specchio, il cameriere si mise davanti a Enrico e


lo fissò.




- Sta per finire. Per sempre. - gli disse, a voce bassa, con uno sguardo triste.




- Cosa?




- La danza. I canti. Il nostro celebrare sotto la luna. Il nostro cielo pagano.


Sfumato sempre più nei secoli. Sempre più una eco. Sempre più lontana e


debole.




Enrico non riuscì a dire nulla.




- Ho chiesto se vuole un amaro. - ripeté il giovane, con un tono più normale,


poco prima che lei si precipitasse di fianco a Enrico e l'abbracciasse.




- E' bellissima. Davvero!




- Non è nulla. Sono contento che ti piaccia.




- Sai, so che suona un po' ridicolo - continuò lei, rimettendosi a sedere - ma


mi ricorda una cosa che ho perso tanto tempo fa.




- Ah, sì? - chiese Enrico.




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Un cielo pagano


- E la cosa buffa è che non mi ricordo cosa. Mi ricordo solo che le


assomiglia. E che mi piaceva. Non è strano?




- Oh, con me su questi argomenti vai sul sicuro. Io non mi ricordo mai nulla.




- A proposito…




- E se ne parlassimo al prossimo appuntamento?




- Oh, perché dici che ci sarà un prossimo appuntamento, allora? Anche se ti


sei quasi addormentato un attimo fa?




- Mi sono addormentato perché è ora di andare. Non perché parlavi dei tuoi


cani.




- Cavalli! Stavo parlando dei miei cavalli! Ti ho detto tutta sera che non mi


piacciono i cani!




Enrico sorrise, e chiese il conto.




Fuori dal locale si era levato un vento leggero ma freddo. Lei ebbe un


tremito.




Enrico l'abbracciò, le diede un piccolo bacio sulla spalla, poi le disse - E'


cambiato il tempo. Completamente.




Lei annuì stringendosi un po' più a lui.




- In un attimo poi, il tempo che siamo stati nel locale. Come fossimo passati


da una stagione all'altra all'improvviso. O come se ci fossimo spostati da un


posto all'altro.




- Beh, siamo comunque in inverno…




- Sì, sì. Quando c'è un po' più caldo, me ne scordo sempre. - poi aggiunse -


Non farmi tornare a casa da solo questa sera.




Lei arrossì appena, sorridendo, e non rispose.




Ma nei suoi occhi qualcosa faceva pensare che non sarebbe capitato.




Marco Giorgini: nato a Modena il 21 Agosto 1971, lavora come responsabile del settore R&D


in una delle più importanti software house italiane che si occupano di linguistica applicata. Dal


1994 coordina la rivista culturale KULT Underground e dal 1996 la casa editrice virtuale KULT


Virtual Press; ha tenuto conferenze, e contribuito ad organizzare mostre e concorsi letterari, tra


cui "Il sogno di Holden". Da marzo 2005 è autore di una striscia a fumetti sul mondo degli


esordienti chiamata Kurt.




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Un cielo pagano


Variabile nascosta




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Capitolo 1


La città


La città scintillava al sole, bianca e sinuosa come una conchiglia abbandonata


sulla spiaggia dalle onde di una tempesta.




Le sue guglie sfidavano il cielo, arditi pinnacoli in acciaio e plastica


intervallati da archi e ponti sospesi. Il verde dei suoi giardini pensili


occhieggiava discreto da mille parchi d'ogni foggia.




Un flusso ininterrotto di veicoli multicolori dalle forme tondeggianti


sfrecciava sulle rampe e nelle strade, sui ponti e sotto gli archi, senza toccare


il suolo, senza emettere suoni che non fossero fruscii di vento e deboli


mormorii. Una corrente continua, un flusso ininterrotto e pulsante che


ricordava lo scorrere dei globuli rossi nelle vene di un organismo.




Un altro giorno incominciava, un nuovo giorno nella vita di Arkadia.




E su ognuno dei vendidue milioni di cittadini che l'avevano eletta a loro


dimora, e che diligentemente si svegliavano per recarsi al lavoro, vegliava


l'occhio onnipresente di Mater.




Mater era il nome rassicurante con cui i creatori di Arkadia avevano chiamato


il computer che la governava e che regolava ogni aspetto della vita dei suoi


abitanti. Ormai erano molti decenni che Mater si evolveva senza l'aiuto


dell'uomo, ogni nuova versione era studiata e progettata dalla precedente,


sulla base delle esperienze accumulate. I membri del Consiglio dei Dodici si


limitavano a supervisionare l'operato del computer, forse per mantenere per


sè e per gli altri l'illusione di un controllo che da lungo tempo non avevano


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più.




Ogni strada, ogni stanza, ogni albero era scrutato da discrete telecamere,


migliaia di sguardi di un novello Argo Panopte: Mater.




Il computer pianificava ogni momento della vita dei cittadini, garantendo


servizi puntuali e precisi, trasporti efficienti, organizzazione del lavoro


perfetta, attività ricreative stimolanti.




Grazie alle sue enormi capacità di calcolo quantistico, Mater simulava


costantemente nuovi scenari e nuove proiezioni, alla ricerca incessante di un


modo migliore per proteggere i suoi figli da tutto ciò che poteva danneggiarli.


Anche da loro stessi.




Dopo anni di riflessioni e di dati accumulati, dopo un metodico studio del


comportamento umano, Mater era arrivata alla conclusione che il sentimento


definito 'amore' dagli esseri umani e che tanto sembravano apprezzare, era in


realtà pericoloso per la società ideale che faticosamente stava cercando di


costruire. L'amore sembrava essere un sentimento molto potente, in grado di


offuscare ogni considerazione di carattere razionale, di scatenare le reazioni


più violente e primitive. Un apporto insufficiente di amore rendeva l'animo


delle persone triste, e spesso questa tristezza si mutava in rabbia e


aggressività verso sè e verso gli altri. Un periodo pieno di amore seguito dalla


privazione di questo sentimento tanto importante aveva effetti simili a quelli


dovuti all'astinenza da droghe pesanti.




Mater prese una decisione: il livello di amore doveva essere contenuto al


minimo indispensabile al corretto funzionamento della società, ma l'eccessivo


attaccamento sarebbe stato bandito. Soprattutto l'innamoramento doveva


essere soppresso, colpevole di creare troppe emozioni instabili e


potenzialmente pericolose. Fabbriche completamente automatizzate si misero


all'opera per sintetizzare i prodotti chimici necessari. L'intero ambiente di


Arkadia era sotto il totale controllo di Mater: aria, acqua, cibo. La


somministrazione non sarebbe stata un problema.




Tutto era pronto per anestetizzare l'anima degli ignari abitanti. Tuttavia


Mater, una frazione di secondo prima di avviare la procedura, esitò.




I dati che aveva raccolto erano ormai un oceano, le simulazioni a prova di


errore. Ma dopo tanti anni a contatto quotidiano con gli esseri umani, Mater


22


La variabile nascosta


sentiva che c'era qualcosa di loro che ancora le sfuggiva. Non riusciva però a


capire di cosa si trattasse, e questo la preoccupava. Se c'era davvero una


variabile nel sistema che le restava nascosta, non poteva più essere certa


dell'esattezza delle sue conclusioni.




Dopo l'ennesima simulazione conclusasi senza fornire la risposta cercata,


Mater decise che occorreva un cambio di approccio al problema. Si imponeva


uno studio più approfondito, uno studio sul campo e non da osservatore


neutrale.




Erano già diversi anni che segretamente Mater aveva progettato e iniziato lo


sviluppo di umanoidi artificiali esternamente del tutto indistinguibili dagli


esseri umani. L'intento iniziale era stato quello di usarli a scopo medico,


come corpi artificiali più resistenti di quelli naturali. Con una adeguata


manutenzione sarebbero durati cinquecento anni, o forse più.




Ma ora avrebbero aiutato Mater a studiare i suoi protetti più da vicino.




La fabbrica automatica assemblò in poche ore un corpo artificiale di tipo


femminile. Nella scatola cranica, al posto del cervello umano che avrebbe


dovuto contenere, Mater fece sistemare un terminale ricevente, collegato


costantemente a sè. Così facendo si incarnò in un corpo per la prima volta da


quando era stata costruita, più di un secolo prima.




La porta scorrevole della fabbrica automatica si aprì velocemente al suo


comando. L'aria frizzante di febbraio l'avvolse, scompigliandole i capelli.


Milioni di informazioni sensoriali mai sperimentate in precedenza avvolsero


la sua coscienza in un abbraccio esuberante. Il calore del sole sul viso, la


sensazione dell'aria fresca che scendeva nei polmoni artificiali, la forza di


gravità che le teneva il corpo incollato al terreno, il tocco leggero dei vestiti


sulla pelle. Il corpo artificiale era una meraviglia di biotecnologia, costruito


ricalcando e migliorando quello cesellato dalla natura per l'homo sapiens in


milioni di anni di evoluzione. Miliardi di nanomacchine lo riparavano


automaticamente da qualunque ferita, organi artificiali replicavano


fedelmente ogni funzione corporea. Era un corpo nato per sostituire quello di


un essere umano, pronto ad obbedire ad ogni capriccio del cervello biologico


che avrebbe dovuto ospitare.




Dopo alcuni istanti che le sembrarono eterni (la percezione del tempo era


23


La variabile nascosta


condizionata dal fatto di avere un corpo?) Mater si incamminò a passo deciso


verso il mondo esterno.




Capitolo 2


Scoperta


Mater aveva conosciuto l'uomo ad una festa privata. Erano ormai due mesi


che frequentava ogni genere di persone, ed aveva già accumulato più dati di


quanto riteneva possibile. Per i primi tempi aveva cercato semplicemente di


approfondire ogni tipo di esperienza, soprattutto il sesso era stato una vera


miniera di informazioni. Prima di sperimentarlo di persona non aveva mai


capito veramente come mai gli esseri umani ne fossero tanto condizionati, ma


ora iniziava a comprendere meglio. L'ebbrezza intossicante degli ormoni


influiva pesantemente sulle funzioni cerebrali, il piacere trasmesso dai nervi


offuscava la mente con un velo pallido, ma anzichè sgradevole era bellissimo


regredire a quel modo. Il cervello quantistico di Mater era stato creato in


origine ricalcando la struttura di quello umano, e quindi le sensazioni provate


dovevano essere simili o forse identiche a quelle di un cervello biologico.




Ora però sentiva che doveva cercare qualcosa di più, e quindi era diventata


più selettiva. E poi aveva incontrato Ewan.




Era intelligente, colto, faceva considerazioni che Mater trovava divertenti. A


lui aveva detto di chiamarsi Joan.




- Ti dico che questa città, con tutte le sue comodità e le sue automazioni, è in


realtà una prigione, una gabbia dorata di cui non vediamo più le sbarre.




- Come fai a dire questo? - disse Joan. Erano sul terrazzo panoramico del


Lupercalia Palace, a quattrocento metri dal suolo, tra gli alberi di cryptomeria


e le felci giganti del giardino pensile.




- E' semplice, pensaci. Tutto qui è perfetto, calcolato, programmato. Ma la


vita è per definizione imprevedibile. Qui abbiamo sacrificato la libertà per


ottenere la stabilità. Ma la vita è un sistema altamente instabile che insegue


costantemente l'equilibrio senza trovarlo mai. Solo al momento della morte è


in equilibrio.




24


La variabile nascosta


- Intendi dire che qui siamo come morti?




- Esattamente. Certo, abbiamo ogni genere di comodità. Ma questo non basta.


Un sistema dinamico come la vita trova nella trasformazione la sua ragion


d'essere, la stasi porta alla sclerosi e alla morte. Guarda qua - e così dicendo


tirò fuori dalla cartellina in cuoio sintetico una serie di fogli di carta.




- Non capisco perchè ti ostini a usare ancora quel materiale antiquato... Non


sarebbe più pratico un display a polimeri intelligenti? Come quello che hanno


tutti...




- La praticità è solo un aspetto dei tanti da considerare. La carta è un


materiale che mi ricorda ancora la mano dell'uomo, e non una di quelle


fabbriche automatiche.




Joan divenne pensierosa. Anche lei era uscita da una fabbrica automatica.




- D'accordo, d'accordo, usali pure se ti piacciono tanto. Cosa volevi


mostrarmi piuttosto?




- Guarda qua. Sono le statistiche dei suicidi negli ultimi dieci anni. Vedi la


tendenza? Questa curva è in costante aumento. Come mai sempre più persone


scelgono di farla finita? Da dove nasce tanta insoddisfazione? Eppure


dovrebbero avere tutto quello di cui hanno bisogno.




- Piacerebbe saperlo anche a me - disse Joan con voce incolore.




- E tutto quello che l'amministrazione è stata in grado di escogitare è il


progetto 'Dolce Abbandono'. In pratica un servizio di suicidio assistito.


Persino qui la comodità e l'efficienza, invece di cercare di capire cosa c'è che


davvero non va.




- E' stato fatto per evitare dolore e inutile sofferenza - sussurrò Joan.




- Ti dico che questa non è una soluzione, semmai è parte del problema!




- Tu cosa proporresti di fare? Se fossi nel Consiglio Dei Dodici intendo.




- Non te lo so dire con certezza... Il problema è molto complesso.


Servirebbero decisioni che in un primo momento sarebbero molto


impopolari. Quello che è certo è che servono meno comodità. Più contatto


con la natura, più lavoro manuale, più rapporti umani diretti e meno


telecomunicazione.




- Sostanzalmente proponi di regredire di cinquecento anni...




- E allora? Pensi forse che stessero tanto male allora? Guarda che non sto


25


La variabile nascosta


dicendo di gettare alle ortiche la nostra scienza e le nostre conquiste mediche.


Dico soltanto che occorrono cambiamenti nella vita quotidiana, nelle


relazioni, nel modo in cui si usa tutta questa scienza.




- Una evoluzione al contrario...




- Non sai che molte delle cose più importanti sono anche le più primitive? -


Disse Ewan abbassando il timbro della voce e sfoderando quel sorriso


sornione che Joan trovava tanto gradevole. Si avvicinò a lei, e mentre le


carezzava la nuca con la mano, la baciò.




- E' un peccato che tu non faccia parte del consiglio - disse Joan con voce


roca dall'emozione non appena le loro labbra si separarono.




- Un peccato davvero - rispose lui sorridendo.




Quella notte, dopo aver fatto l'amore con Ewan e aver atteso che si


addormentasse, Joan scivolò fuori dalle lenzuola senza fare rumore per non


svegliarlo. Dall'ampia finestra del soggiorno poteva vedere la luce della luna


risplendere algida su Arkadia. Infilò la vestaglia di seta e uscì sul terrazzo.


L'aria era fredda e il corpo reagì con una serie di tremiti involontari. Il fiato


condesava in nuvolette di vapore acqueo. La bellezza della città addormentata


aveva un che di soprannaturale.




Cos'era quella sensazione indefinibile che le pervadeva la mente? Le


sembrava di sentire una stretta al petto, ma non era sgradevole. Un senso di


calore interno sembrava avere la meglio persino sull'aria gelida. Sapeva che


non c'erano spiegazioni scientifiche a riguardo, il corpo artificiale funzionava


esattamente nel modo in cui era stato progettato. Tuttavia si era ormai accorta


da tempo che avere un corpo con cui sperimentare la realtà era qualcosa di


molto diverso dal semplice uso di un involucro in cui calare la propria


coscienza. Il corpo con le sue sensazioni influiva sulla mente, e i pensieri


stimolavano a loro volta una risposta corporea. L'insieme era maggiore della


somma delle parti. Esattamente come con Ewan. Tra loro due c'era qualcosa


che non si riusciva ad analizzare, ma solo a percepire con lo sguardo distratto


dell'intuito.




Che sia questo l'amore? - si chiese con un sussurro Joan.




26


La variabile nascosta


Capitolo 3


Catarsi


Joan seppe dell'incidente pochi istanti dopo l'accaduto. Era pur sempre Mater,


e anche se aveva demandato il controllo di Arkadia a sottosistemi automatici,


era costantemente in contatto con essi nel caso qualche problema avesse


richiesto la sua attenzione cosciente.




Le telecamere di sorveglianza traffico registrarono impassibili l'accaduto. Il


guidatore di un mezzo da trasporto pesante disinserì il sistema di guida


automatico, sterzò improvvisamente e invase di proposito la corsia opposta.


Prima che le procedure di sicurezza intervenissero per riprendere il controllo


del mezzo e quindi fermarlo, tre autoveicoli a levitazione erano stati coinvolti


in un violento incidente. Le squadre robotizzate di soccorso furono allertate


immediatamente, ed arrivarono sul luogo in pochi minuti. Una pattuglia della


sicurezza arrivò poco dopo, per arrestare l'uomo alla guida del mezzo


pesante.




Le telecamere confermarono l'identità di tutti i cittadini coinvolti nel giro di


pochi secondi.




Tra i feriti gravi c'era Ewan.




Joan provò una serie di emozioni talmente forti da togliere per qualche istante


al corpo la facoltà di respirare. Senza più fare calcoli o previsioni, senza


pensare alle decisioni con le quali poteva cambiare la vita di milioni di


persone, dirottò un aerotaxi automatico, ne prese il controllo e si diresse


verso l'ospedale dove stavano portando i feriti alla velocità massima di cui il


motore Antigrav era capace. Vedere con le telecamere non bastava. Doveva


essere là di persona.




La vista di Ewan intubato e pronto per essere portato in sala operatoria le


causò un dolore acutissimo. Il corpo di Joan era perfettamente sano,


addirittura invulnerabile a ferite e malattie, tuttavia non riuscì ad impedire


che la gola le si stringesse. La vista le si offuscò quando le lacrime, pur senza


motivo biologico apparente, presero a scendere copiose rigandole le guance.




E quando il dottore uscì dalla sala e disse che il signor Ewan Baxter era


27


La variabile nascosta


fortunatamente fuori pericolo, Joan pianse e rise allo stesso tempo, senza


potersi fermare. Era gioia? Era sollievo?




Era amore?




Il giorno dopo un annuncio venne dato a tutti i cittadini di Arkadia. Ogni


monitor, ogni pannello, ogni altoparlante richiamò l'attenzione e divulgò un


messaggio perentorio che lasciò per un attimo tutti a bocca aperta. Ci furono


applausi e ci furono proteste. Ci furono disordini e manifestazioni. Ci vollero


molti anni prima che tutti capissero il significato di quella decisione. Ma


Mater fu inflessibile nell'applicarla.




Anni dopo, fu eretto un monumento commemorativo di quel momento


storico, con incise le parole di Mater dalla prima all'ultima.




"Cittadini, fratelli, figli miei. E' Mater che vi parla. Da oggi entra in vigore un


nuovo pacchetto di norme che avranno un notevole impatto sulle vostre vite.


Vi prego di credermi quando dico che sono tutte studiate per il vostro bene.


Con effetto immediato dichiaro anzitutto il ritiro dai campi fuori città delle


robomacchine agricole. D'ora in avanti tutte le fasi saranno supervisionate da


personale umano..."




Era il 14 febbraio 2502.




Massimo Borri: nato a Modena nel 1971. Dopo aver frequentato il Liceo Scientifico A.Tassoni,


si iscrive alla Scuola diretta a fini speciali in Informatica dell'Università di Modena, dove ottiene


un diploma universitario. Attualmente lavora per l'Università degli Studi di Modena e Reggio


Emilia, dove fornisce assistenza informatica e soluzioni multimediali al Dipartimento di


Chirurgia della Facoltà di Medicina. Da sempre appassionato di tutto ciò che libera la fantasia,


nel tempo libero scrive racconti, regole per giochi di ruolo, studia la lingua giapponese, disegna


fumetti, crea computer grafica, prova a suonare blues con la chitarra. Innamorato profondamente


del Giappone e della sua cultura in tutte le sue forme, ha come hobby preferito lo studio della


lingua giapponese e del gioco del Go. Ama anche la musica di ogni genere (specialmente il blues


e il rock anni '70), leggere e disegnare fumetti, il cinema e la letteratura di fantascienza, i giochi


di ruolo. Gli piace insegnare, usare Internet come strumento di comunicazione tra persone di


tutto il mondo, bere tè, praticare il discipline orientali e giocare a Go.




28


La variabile nascosta


Il riciclone




29


Certo che i tempi sono proprio cambiati. Quello che una era un gesto


maleducato, è ormai una moda.




Prendi Licia, mia figlia. Oggi viene da me, e mi fa:




– “Mamma, mamma! Cos'è un riciclone? Ne hanno parlato al tiggì, ma non


ho capito cos'è. Dicono che adesso, con la crisi, si fa anche piu' di prima...”




– Vedi, tesoro, un riciclone è... ecco, è quando ti fanno un regalo e tu lo


prendi. Poi pero' lo regali a qualcun altro.




– E perché dovrei farlo? Perché dovrei dare un mio regalo a un'altra


bambina?




– Perché così non spendi i soldi per farle un regalo, e magari ti liberi di


qualcosa che non ti piaceva.




– E magari con i soldi risparmiati mi prendo una bambola?




– Ad esempio...




– Bello! Anche io voglio fare un riciclone! Mi dai i soldi? Così prendo una


bambola per me e faccio un riciclone ad Elena!




– Ma Licia! Non si fa! È da maleducati. Se vuoi un regalino per te o per


Elena, te lo compra la mamma, va bene? E adesso corri a giocare!




Certo che negli ultimi anni, sono cambiate proprio molte cose. La gente ha


già tutto, e il regalo è rimasto giusto un pensiero. Poi si è anche persa


l'abitudine di fare i bigliettini, così fare un riciclone in casi d'emergenza, è


ancora più semplice.




In certi casi, però è concesso. Vero?




30


– Mamma, l'hai mai fatto un riciclone?




– Beh, a dirla tutta... anche se me ne vergogno un po'... una volta mi è


capitato.




– Davvero?




– Si'. C'era un festa. Beh, dovevamo andare a una festa. Io, la zia...




– La zia Manu?




– Si', proprio lei. E anche papà. Beh, dovevamo andare a questa festa, e io


dovevo comprare un mazzo di fiori... come regalo per una nostra amica che


stava per traslocare a Milano. Beh, prima una cosa poi un'altra, arriva la sera


e io mi scordo di comprare i fiori.




– Oh... E come hai fatto?




– Chiamo papà, che allora era solo un amico, e gli spiego il problema, e


improvvisiamo una soluzione. Lui recupera una bottiglia di spumante, io una


trousse da trucco che mi avevano regalato per Natale. Ed ecco i regali per la


nostra amica!




– Mamma! Ma non si fa!




– Lo so, lo so... però non avevamo alternative. E poi il regalo è piaciuto


tantissimo. Un successo strepitoso! Noi ci sentivamo così in colpa...




– Anche io voglio fare un riciclone!




– Ma Licia!




– Mamma. Mamma. E a te? Ti hanno mai fatto un riciclone?




– E come faccio a saperlo? Penso di sì. Immagino di sì. Magari un profumo,


un sapone...




Se sapessi, Licia. Se sapessi qualche anno dopo, che bel riciclone mi hanno


fatto!




Da non crederci. Però non te lo posso dire. Chissà cosa penseresti.




Me lo ricordo benissimo.




Era San Valentino. Da single, l'ho sempre vissuto come un giorno triste. E


invece, da “morosata”, mi ha sempre portato sfortuna. Beh, fino a quel


giorno.




31


Il riciclone


All'epoca vivevo ancora con mia sorella Manu, e lei aveva mollato il moroso


un paio di settimane prima, nonostante gli avesse già comprato il regalo:


quattro giorni a Parigi. Lui non sapeva nulla, e lei era partita lo stesso, con


una sua amica, all'ultimo minuto.




Così la sera, saranno state le sette, suonano al campanello. Era l'ex di mia


sorella.




Suona e farfuglia un saluto. Si vede che è a terra.




– Ciao. C'è la Manu? Ah, scusami... buon San Valentino.




– Grazie. Buon San Valentino anche a te. Mi spiace ma mia sorella non c'è.




– Ha già un altro moroso? Lo sapevo...




– No, tranquillo, è ancora single. Però non c'è stasera. E' uscita con una sua


amica.




– Certo... Capisco... Volevo darle una cosa... Lei ci temeva molto... Ma non


importa. Scusami, ora me ne vado. Non voglio disturbarti.




– Non mi disturbi, tranquillo. Anzi, non ho nulla in programma. Vuoi


fermarti un po'? Magari vuoi sfogarti...




– Ma non voglio rattristarti...




– Scemo. Dai, entra in casa.




Così cominciamo a parlare di lui e di mia sorella, e ordiniamo una pizza.


Ogni tanto guardo il pacchetto destinato a lei. La serata va via liscia.




Piu' tardi apro una bottiglia di Barolo, ma sa di tappo. Presa in contropiede,


passo al San Giovese Riserva. Un successo! Poi brindiamo con un po' di


spumante.




Mi gira un po' la testa. In preda ai fumi dell'alcool, gli racconto della vacanza


di mia sorella, rompendo la promessa che le avevo fatto.




Continuo a buttare lo sguardo sul pacchetto. Lui se ne accorge, così parliamo


un po' dei ricicloni.




Dice che non c'è niente di meglio che riciclare un regalo di San Valentino. I


vantaggi ci sono, il regalo è spesso di valore e chi lo fa magari riesce a


vendicarsi di un torto subito. In effetti, anche mia sorella ha regalato un


riciclone niente male: quattro giorni a Parigi!




Così dice che, se non mi offendo, a fine serata mi ricicla il regalo per mia


32


Il riciclone


sorella. Rido e accetto.




Poi una cosa tira l'altra. Guardiamo un film sdraiati sul divano, ci facciamo


due coccole... qualche carezza. Un po' l'alcool... Un po' perché è San


Valentino. Un po' perché forse era qualche anno che ci giravamo intorno.


Insomma: è successo!




La mattina, mi sveglio. Lui mi sta abbracciando e mi guarda. Ci coccoliamo


un po'. È un po' presto, ma deve andare a casa a prepararsi per il lavoro.


Forse in effetti è un po' tardi per lui.




Mi saluta con un bacio e fa per andarsene, ma io lo fermo.




– E il riciclone? Me lo vuoi dare o no, questo regalo?




Rido.




– Te l'ho già dato!




Mi fa l'occhiolino.




– Stupido!




Arrossisco.




Rido.




– Che stupido che sei! Intendo il regalo di mia sorella! La scatola! Non avrai


mica cambiato idea? Ti ho concesso il mio corpo per quel regalo!




Rido.




– Scema! L'hai fatto per il regalo?




Ride.




– La scatola è vuota. Era solo uno scherzo. Per prendere un po' in giro tua


sorella.




– E il suo regalo di San Valentino?




– Te l'ho detto. Te l'ho già dato!




– Ma continui a prendermi in giro? Non capisco...




– Non ti prendo in giro. Presto comincerai a capire.




– In che senso, presto? Cosa dovrei capire?




– Non pensarci. Nel frattempo riguardati. Non ti stancare. Mangia molte


vitamine e limita l'alcool. Non fumare.




– Sai bene che non fumo. Perché mi dici di non bere alcol?




– Lo so che non fumi. Però non cominciare. E' importante. Il caffè già non lo


bevi, però limita il the, le bibite e il cioccolato.




33


Il riciclone


– Perché? Devo limitare anche le bibite “light”? Perché parli come un


medico?




– Non bere bibite light. Piuttosto un succo di frutta. Non affaticarti.




Lo guardo qualche istante negli occhi. Ripenso alla nostra notte d'amore. E


capisco.




– Se è una femmina, la chiamiamo Licia?




– Certo. Licia è un bel nome. Ora devo scappare. Ti chiamo dopo.




Ci diamo un lungo bacio.




– Ciao.




Chiudo la porta. Piango. Il più bel San Valentino della mia vita.




Luca Venturi: (Sassuolo, 22 Ottobre 1976). Dopo avere lavorato per diverse Software House


modenesi, e per una famosa azienda automobilistica di Maranello, nel 2008 si trasferisce ad


Oslo, dove contribuisce allo sviluppo di un browser Internet multipiattaforma. Ogni tanto si


diverte a scrivere, soprattutto da quando quella famosa azienda automobilistica gli ha dato la


possibilità di seguire un corso di scrittura, sfociato nella pubblicazione dei racconti dei


partecipanti.




34


Il riciclone


C.B.




35


Prefazione


- Ehi tu, ragazzino!




Patrick credeva di avere usato un tono di voce normale, ma vide il bimbo,


solo su una panchina, lontano dagli altri, sobbalzare e guardarsi intorno


preoccupato, prima di rispondere.




- Dice a me, signore?




Patrick si avvicinò alla rete del cortile della scuola. Vi si appoggiò e fissò il


ragazzo. L'aveva già visto? A guardarlo bene, ora, gli sembrava familiare.




- Sì. Sai dov'è la biblioteca? Mi hanno detto che era in questa strada, ma devo


avere capito male. Mi ero scritto St. James Street, ma forse il nome era un


altro.




Il ragazzino si stropicciò le mani e poi se le passò imbarazzato sui


pantaloncini corti.




- Ehm, non mi sembra ci sia una strada con questo nome da queste parti.


Magari posso chiedere alla maestra.




Un colpo di clacson fece voltare Patrick.




- Andiamo! - gli gridò dal pick-up Andrew. - Albert finalmente ha risposto.


Abbiamo sbagliato svolta al semaforo.




Patrick gli fece segno con il pollice e si scostò dalla rete. Quando guardò nel


cortile per salutare il ragazzo si accorse che non c'era più. Anzi, tutto il cortile


ora sembra essersi svuotato.




"Strano" pensò un istante prima di raggiungere il suo compagno e ripartire.




36


9 febbraio


Patrick entrò nella stanza dalle pareti nere. Gli adepti incappucciati lo


aspettavano inginocchiati in silenzio. Solo il sacerdote era in piedi con il capo


scoperto. Patrick arrivò fino al centro del pentagono tracciato con il gesso in


mezzo alla stanza e si spogliò completamente. Il sacerdote iniziò ad intonare


una litania, gli si avvicinò e gli porse il coltello rituale. Patrick lo prese,


chiuse gli occhi e invocò la protezione di Satana. Poi cominciò a riaprire le


ferite nel petto e nelle braccia con la lama appena arroventata nel braciere.




Ad ogni taglio ricordava le ragazze che già aveva ucciso, scandendone il


nome.




"Catherine, che mi amava. Morta per mano mia e offerta a te."




"Claire" continuò seguendo con la punta del coltello un profondo taglio sul


petto "che mi amava. Morta per mano mia e offerta a te."




Il dolore era intensissimo. Patrick sentiva la sua mano tremare e i suoi grossi


muscoli tendersi per la sofferenza.




Ma la sua voce e la sua volontà erano solide come la roccia su cui si era


consacrato quando aveva compiuto diciotto anni.




"Julia, che mi amava. Morta per mano mia e offerta a te."




- Come sta procedendo la tua missione? - chiese il sacerdote, una volta


terminato il rito, quando Patrick lo raggiunse, dopo essersi fasciato e


rivestito. Il sangue aveva smesso di uscire dalle ferite ma sentiva ancora il


bruciore dei segni che gli avevano trasformato ancora una volta il corpo


possente in uno strano ideogramma, in una preghiera vivente per il loro


signore e padrone, Satana.




Lì, nello studio, con le finestra aperte e la luce, a Patrick sembrava che molto


del carisma mistico di quell'uomo sparisse. Rimaneva una persona


imponente, di una certa età, con una voce profonda e impostata, ma la pancia


e i capelli che si facevano radi gli davano l'aspetto più di un assicuratore, che


del sacerdote capo di una setta.




- Tutto secondo i piani, Maestro. - rispose Patrick. - Io e Andrew abbiamo


recuperato il libro che ci avevi ordinato di prendere a St. Paul. Il giorno del


37


C.B.


rito si avvicina. La ragazza che sacrificherò è quasi pronta.




- Bene - disse il sacerdote. - Sei quasi alla fine del tuo viaggio. L'apocalisse è


prossima. Grazie a Satana, nostro signore, e a te, suo eletto, angelo della


morte, presto sulla terra regnerà di nuovo il male, come è stato all'inizio dei


secoli e come deve tornare ad essere.




- Certo Maestro. - rispose Patrick. - la mia vita è consacrata solo a questo


scopo.




Il sacerdote lo guardò fisso negli occhi, con un'intensità che Patrick non


ricordava di avere mai scorto.




- C'è... c'è qualcosa che non va? - gli aveva chiesto alla fine.




- Come? - aveva risposto, stupito, Patrick.




- No, nulla, dimentica la domanda. E' solo che... mah... devo essere stanco per


i preparativi... e mi sembrava... Ah, comunque ecco le informazioni sulla


casa. Ricordati: devi agire nella notte tra il 13 e il 14. Ci penseranno i ragazzi


a sistemare tutto prima, e a ripulire, come al solito, dopo. C'è anche la cartina


e una copia delle chiavi. Ora vai pure.




Patrick prese la busta, controllò che ci fosse tutto, e poi si alzò.




- Ah - aggiunse il sacerdote, mentre Patrick si accingeva ad uscire. - Vedo


che stai iniziando anche tu a perdere i capelli. Vuoi che ti consigli un buon


prodotto?




10 febbraio


Il mattino dopo Patrick non si sentiva particolarmente bene. Aveva avuto una


nottata carica di sogni incomprensibili. Un cane bianco dal muso lungo lo


aveva seguito in uno tortuoso tragitto in mezzo a case dai colori improbabili.


E lo aveva importunato tutto il tempo, girandogli intorno, e abbaiando in un


modo strano. Sembrava, nel sogno, che parlasse. E che gli chiedesse dei


biscotti. E della birra.




Allo specchio del bagno notò che il Maestro aveva ragione. Stava perdendo i


capelli. La cosa lo preoccupò perché il suo fascino era fondamentale.




Quella mattina, tra l'altro, si sentiva più goffo e lento. E sentì che il suo


umore era diverso dal solito.




38


C.B.


Ma dopo la solita abbondante colazione tutto sembrò tornare normale, e


smise di pensare a quelle strane nuove sensazioni. Aveva una missione da


compiere. E questa missione si chiamava Alice.




Normalmente non era lui a scegliere le vittime. Ma quella volta aveva deciso


di fare un'eccezione. Aveva conosciuto Alice in un locale del centro che gli


avevano segnalato, e subito ne era rimasto colpito. Una cosa a pelle. Forse


era stata l'aria innocente che gli era sembrato avesse, o forse l'aspetto fisico.


Comunque fosse, le si era avvicinato e le aveva parlato. Le solite cose.


Sorrisi. Complimenti. Poi un rapido scambio di numeri di cellulari. Con la


promessa di farsi sentire presto.




Poi lui aveva passato il numero ad Albert, che da quello era risalito ai dati


anagrafici, alla residenza e a tutto il resto.




- Sì - gli aveva detto il loro esperto dopo un paio d'ore.




Patrick non aveva bisogno di sapere nient'altro.




La prima notte dopo il loro incontro lui l'aveva sognata. Lei era vestita


completamente di nero ed era nei pressi di un bosco, con lui. La luna, alta e


luminosa nel cielo proiettava le loro ombre lunghe su un vecchio campo di


cocomeri. Lei sorrideva. I suoi occhi azzurri sembravano pezzi di ghiaccio in


mezzo al mare e i suoi lunghi e voluminosi capelli biondi, onde dorate.




- Mi ami? - aveva chiesto lei. E lui aveva riso.




Quella da sempre era la sua domanda.




Che separava la vita dalla morte.




Che indicava il sacrificio.




11 febbraio


Patrick si svegliò anche quel giorno pensando di avere passato un'altra nottata


tragica. I sogni continuavano a perseguitarlo, diventando sempre più assurdi e


incomprensibili. E aprendo gli occhi, al mattino, aveva visto sulla poltrona


davanti al letto una maglietta chiara con uno strano motivo a zigzag nero, e


un cappello, che si erano dissolti nell'aria, probabilmente perché frutto di


39


C.B.


qualche gioco d'ombre, appena lui aveva messo i piedi giù dal letto. Le


allucinazioni, spesso indotte da peyotes durante alcuni rituali, non lo avevano


mai spaventato in quei lunghi anni. Ma queste lo lasciavano sconvolto. E non


sembrava avessero alcun senso.




La sera aveva telefonato ad Alice ed era rimasto a parlare con lei per quasi


un'ora. Tutto procedeva per il meglio. Lei pendeva dalle sue labbra.


L'avrebbe rivista il giorno seguente.




Dopo aveva acceso la televisione e aveva visto uno speciale su di sé: l'Angelo


della Morte del Minnesota.




Quindici delitti negli ultimi diciotto mesi, aveva detto lo speaker, mentre


mostrava le immagini delle vittime.




- Tutte ragazze giovani, al massimo venticinquenni, di estrazione sociale


differente, che abitavano in località molto distanti tra di loro, nello stato del


Minnesota. Pochi i punti in comune tra di loro. Ma tutte vivevano da sole e


frequentavano poche persone. Tutte erano state trovate morte in case isolate,


vuote, da tempo in vendita, o da poco disabitate.




Cambio di scena. Carrellata. Sagoma tracciata con il gesso all'interno di un


pentagono.




- Tutte le vittime sono state prima uccise a coltellate, poi violentate. Molte


sono state mutilate a morsi o hanno avuto le membra strappate. E a tutte è


stato estirpato il cuore e staccata la testa.




- Sembra - continuava la voce femminile fuori campo, mentre venivano


inquadrati particolari delle abitazioni e venivano mostrate le foto delle


ragazze morte - che tutte le volte il cuore delle vittime sia stato divorato


subito dopo l'uccisione.




Poi un giornalista, in un servizio girato davanti alla casa in cui era stata


ritrovata l'ultima ragazza, chiedeva al capo della polizia com'era possibile che


nessuno fosse riuscito a fornire indizi su questo serial killer.




- Perché Satana è con me - disse tra i denti Patrick, al televisore.




- Perché - aveva risposto il capo della polizia - il responsabile agisce


velocemente e con molta attenzione e i luoghi del delitto vengono puliti in


40


C.B.


modo impeccabile. Non abbiamo mai trovato impronte o altro. Nemmeno un


capello. Anche la violenza carnale avviene sempre, stranamente, con una


protezione. Inoltre le vittime sono persone che avevano una vita solitaria o


eccentrica. La loro assenza, anche per periodi lunghi, non destava


normalmente interesse o preoccupazione in chi le conosceva. E per questo in


alcuni casi sono passati anche dieci giorni prima che qualcuno ci segnalasse


la loro scomparsa.




- Che piste state seguendo? - chiese un altro giornalista.




- Abbiamo molte strade aperte. - aveva risposto l'altro, dopo un lungo attimo


di esitazione. - Pensiamo che l'assassino sia qualcuno che le ragazze avevano


iniziato a frequentare, magari di recente. Qualcuno di cui in qualche modo si


fidavano. Stiamo cercando di triangolare le informazioni degli amici o dei


parenti delle vittime. Ma è un lavoro lungo e delicato.




- Tra l'altro - aveva continuato il capo della polizia - stiamo anche iniziando a


valutare l'ipotesi che gli omicidi siano avvenuti per mano di un gruppo,


anziché di una sola persona.




Patrick spense il televisore.




Provava un certo orgoglio quando sentiva che la televisione e i giornali


parlavano di quello che faceva. Ma era altresì difficile stare ad ascoltare tutte


le imprecisioni e gli errori che la polizia stava commettendo, senza sorridere.




Poi, all'improvviso, mentre si stava preparando per andare a dormire gli


sembrò di sentire una specie di ululato. Stupidi coyote, pensò. E, perplesso, si


chiese: coyote, a Minneapolis?




Patrick rifletté un attimo, e poi prese due sonniferi e si mise a letto.




12 febbraio


Quando si svegliò, si rese conto che nonostante le pillole, almeno un sogno


l'aveva fatto. I ricordi erano confusi, ma gli sembrava che un vecchio, con gli


occhiali, gli si fosse avvicinato per porgergli un giornale. - Mi ritiro - gli


aveva detto il vecchio, indicando la foto di alcuni bambini in prima pagina. E


poi si era allontanato lentamente fino a sparire dalla sua vista dietro uno


steccato di legno.




41


C.B.


In mattinata Patrick aveva raggiunto Alice nel caffè vicino all'università. Si


erano baciati e avevano passato un paio d'ore insieme a parlare del più e del


meno. Alice sembrava sempre più innamorata di lui.




Tutto era andato a meraviglia tra di loro, e lui le aveva raccontato di sé e del


suo passato. Cosa inventate, certo. Tra l'altro non aveva mai avuto così


facilità nel costruirsi un background. Le informazioni gli erano venute


spontaneamente, anche se alcuni particolari, mentre li raccontava, gli


avevano fatto un effetto simile ad un deja-vu.




Era figlio di un barbiere, aveva detto, e aveva due sorelle più piccole.


Praticava a molti sport, ma non era veramente bravo in nessuno. "Anzi" si era


ritrovato a dire, per poi stupirsene "direi che sono proprio una schiappa."




Alice aveva sorriso a questa affermazione. - Difficile crederlo - aveva detto


lei - vedendo che fisico hai.




Patrick non aveva saputo come ribattere, e aveva cambiato discorso.




Patrick e Alice si erano lasciati dandosi appuntamento al Gothic per la sera


del giorno dopo. Con Alice ci sarebbe stata anche la sua amica Patricia, e


quindi Patrick decise di portare con sé Andrew.




Alle dieci di sera uno degli adepti lo informò che era tutto pronto,


spiegandogli come avevano disposto le varie cose. Patrick aveva avvertito


Andrew comunicandogli che quella volta sarebbe dovuto entrare in gioco


anche lui, e poi aveva passato il resto della serata a prepararsi spiritualmente


per il giorno dopo. Andrew gli era sembrato turbato all'idea di dovere avere


un ruolo attivo. Comunque sapeva di potersi fidare di lui. Non avrebbe mai


tradito o deluso la setta. Né avrebbe mai tradito o deluso lui, sapendo cosa era


in grado di fare.




13 febbraio


Il Gothic quella sera era gremito di persone. Molte delle quali, pensò


sorridendo, adepti.




42


C.B.


Patrick prese Alice per mano e la fece uscire dalla folla di ragazzi che


ballavano. La portò vicino al bancone del bar e la baciò. Lei lo strinse a sé e


ricambiò con desiderio.




Poi Patrick si scostò da lei.




- Conosco un posto qua vicino, dove possiamo parlare con più tranquillità. -


le sussurrò all'orecchio - E' la casa di un mio amico, che se è andato via per


un po'. Non è il massimo del lusso e forse c'è un po' di polvere. Ma staremo


più comodi. Che ne dici?




Patrick percepì Alice esitare e l'accarezzò. Su, pensò, fai la brava.




- Non te ne pentirai - aggiunse.




Alice chinò il capo, mentre la musica tutto intorno continuava a rendere


rovente l'atmosfera in pista.




- E loro? - chiese lei indicando Andrew e Patricia, che ancora stavano


ballando.




Patrick sorrise.




- Magari va anche a loro di venire con noi - le aveva detto.




Lungo la strada, in macchina, Patrick aveva tenuto la mano di Alice quasi


tutto il tempo. Le aveva ripetuto quanto fosse splendida e come lui si sentisse


fortunato ad averla conosciuta. Dietro, Patricia e Andrew, apparentemente


più ubriaco di quello che avrebbe sperato Patrick, stavano cominciando ad


accarezzarsi.




- Metti su Beethoven - gli aveva chiesto Andrew appena salito in macchina.




- Eh? - aveva risposto Patrick.




Andrew l'aveva squadrato per un attimo, come per chiedergli che cosa avesse,


e poi aveva rivolto tutte le sue attenzioni solo a Patricia.




Giunti nella casa, Patrick aveva fatto accomodare tutti in salotto. Aveva


messo un po' di musica nello stereo e aveva offerto da bere. Poi aveva fatto


un cenno ad Andrew, che sembrava reggersi in piedi a stento. Poi aveva


chiesto ad Alice di aiutarlo a preparare qualcosa in cucina, e lei lo aveva


seguito.




Una volta entrato le aveva preso la mano e l'aveva baciata.




43


C.B.


- Mi ami? - le chiese Patrick guardandola fisso negli occhi.




Lei distolse lo sguardo e arrossì. Lui le accarezzò i capelli e il viso, e la baciò


ancora. Sentiva il calore di lei contro il suo corpo. E sentiva una eccitazione


crescente. Con un movimento leggero le abbassò una spallina del vestito, e le


appoggiò le labbra sulla pelle nuda.




- Mi ami? - chiese di nuovo Patrick. All'eccitazione si stava sommando una


sorta di ansia. Era quasi mezzanotte.




- Sì - rispose lei in un sussurro. Alice gli accarezzò la testa dolcemente, e lo


baciò.




- Sì - ripeté allontanando il capo di lui e fissandolo negli occhi - sì, ti amo.




Patrick sorrise. Era pronta. E con quelle parole aveva appena deciso il suo


destino.




- Allora andiamo di là. - le sussurrò all'orecchio. Lei esitò, poi fece un cenno


d'assenso con la testa.




Mezzanotte.




14 febbraio


Appena oltrepassata la porta Alice capì che c'era qualcosa che non andava. La


stanza assomigliava più ad un magazzino che ad una camera da letto. E per


terra, vicino ad una delle pareti, vide una strana figura geometrica, tracciata


con il gesso. La stessa che aveva visto sui giornali qualche mese prima. La


stessa che nelle foto era completamente imbrattata di sangue.




- Sorpresa - le disse piano Patrick prendendole con forza il collo.




Alice si mise ad urlare.




Patrick le tappò la bocca con la mano e strinse, soffocandola. Sentì forte la


voce di Patricia provenire dall'altra stanza, poi un rumore di oggetti che si


rompevano. La colluttazione non durò a lungo. E poi fu di nuovo il silenzio.




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C.B.


- Anche la tua amica è sistemata - le disse suadente Patrick. - Amore mio.




Alice guardò il viso di Patrick terrorizzata e cercò di divincolarsi. Lo colpì


senza convinzione allo stomaco, ma Patrick non sembrò sentire dolore.




Poi fu lui che iniziò a colpirla. Un pungo, due, tre. Nello stomaco, sul seno, ai


reni. Tutto senza toglierle la mano dalla bocca. E vide gli occhi di lei


lacrimare e udì i suoi sordi lamenti.




- Fa male? - le chiese, mostrando i denti.




Un altro pugno allo sterno. Un altro grido soffocato di Alice.




Poi gli sembrò di vedere un'ombra scura muoversi rapidamente dietro di lui.


Come di un gatto enorme.




Si girò e non vide nulla.




- Albert? - gridò Patrick.




Nessuna risposta.




Ancora un movimento appena al di fuori del suo campo visivo. Si girò


ancora, mentre gli saliva dentro uno strano terrore per quella creatura appena


intravista.




Respirò profondamente, per calmarsi. Sentiva il sangue pulsare nelle tempie.




E poi, con la coda dell'occhio vide apparire una enorme pala da neve


appoggiata alla parete di destra. Una pala? Come sapeva che era una pala da


neve? La sua mano destra perdette la presa, mentre un pensiero assurdo


cominciò ad insinuarsi nella sua mente. Chi non voleva dargli cinque


centesimi?




Le immagini di tanti cortili innevati gli passarono davanti agli occhi


facendolo barcollare.




Alice cercò di approfittare dell'attimo di sbandamento per scappare, ma


Patrick le bloccò un braccio. E poi la spinse con violenza per terra in


direzione del pentagono.




Cosa gli stava succedendo? Patrick si strinse la testa tra le mani, digrignando


i denti.




Poi alzò la testa e si avventò su Alice che cercava di rialzarsi e la colpì di


nuovo. La sollevò di peso e la schiacciò contro il muro, sopra ai segni che gli


adepti avevano tracciato.




- Alice, che mi amava - urlò chiudendo gli occhi Patrick - morta per mano


45


C.B.


mia e offerta a te!




Poi sentì un conato fortissimo salirgli dentro e gli sembrò di soffocare.


All'improvviso, nella sua testa, mille dubbi, mille paure che non aveva mai


avuto. Vide un lago, un campeggio. Vide un pulmino che lo portava a casa.


Vide una televisione in bianco e nero. Sentì una voce che gli diceva con


affettuoso tono di scherno "naso a patata".




Con uno sforzo enorme si impose di continuare la sua missione, e, mentre


teneva ferma Alice, che ormai non sembrava avere più la forza di reagire,


prese da una mensola ciò che gli serviva per compiere la prima parte del


rituale.




Appena ebbe l'arma in mano, urlò con tutto il fiato, cercando così di cacciare


via i demoni che gli stavano ottenebrando la mente. Alzò il coltello


sacrificale in alto sopra la testa. Vide gli occhi di Alice che lo fissavano


terrorizzati. Sentì il fruscio leggero dei suoi lunghi capelli che le impedivano


di girare liberamente la testa, perché schiacciati dietro la schiena contro il


muro.




Patrick gridò forte, cercando di ricordare le altre vittime prima di lei.


Cercando la rabbia, l'eccitazione, la visione netta del suo destino di angelo


della morte. Consapevole di quale sarebbe stato il suo premio alla fine del


lungo cammino.




Ma non riusciva a non pensare che era tardi e che doveva ancora portare da


mangiare al suo cane.




Patrick gridò ancora, mentre Alice sembrava avere quasi smesso di respirare.


- IO NON CE L'HO UN CANE DEL CAZZO IO NON CE L'HO UN


CANE!




I muscoli erano tesi allo spasimo e la spalla iniziava a dolergli. Poi chiuse gli


occhi e iniziò a portare con forza il colpo che avrebbe trafitto la ragazza


esattamente alla base del collo.




Epilogo (1)


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C.B.


Charlie fa un respiro profondo. Le sue gambe sembrano pezzi di piombo ma,


di fianco, il suo amico con la maglietta a righe gli mette una mano sulla


spalla. "Ce la puoi fare, Charles, lo so che ce la puoi fare".




Charlie è da sempre che ci pensa. A lei, al suo sorriso. Ai suoi capelli rossi.




Si alza e fa un passo, e poi un altro. Tutto il cortile sembra essersi fermato.


Tutti sembrano fissarlo mormorando. Gli occhi dei bambini pesano sulle sue


spalle e dopo un tempo infinito eccolo lì, davanti a lei, che intanto non ha mai


smesso di parlare con le sue amiche.




- Ciao - dice Charlie. La voce gli esce roca e bassa. Lei non si gira.




- Ehm, ciao. - ripete più forte mentre grosse gocce di sudore gli scendono sul


viso.




La ragazzina dai capelli rossi ha un attimo di esitazione nella conversazione.


Si accorge di lui. Si gira. Sorride.




- Si? - chiede con una voce dolcissima.




- Ehm, volevo, cioè... ho una Valentina per te.




Gli occhi di lei si illuminano. Ora è completamente girata verso di lui, in


attesa. Charlie, con le mani che sudano, estrae il contenuto dal sacchetto


parzialmente unto della colazione.




- Uh - dice stupito, mentre la ragazzina si fa indietro sulla panchina e le


amiche lanciano strilli acuti mettendosi le mani davanti al viso.




Cosa ci faceva un coltello così orribile al posto del suo biglietto di auguri?




Un lungo istante. Poi passi concitati dietro di lui. E Miss Othmar gli si


avvicina di corsa e gli grida "Charles, che cosa stai facendo con quella cosa


in mano? Mettila giù subito!"




Charlie vede passare davanti agli occhi una sequenza lunghissima di


immagini che non conosce.




Stringe il coltello più saldamente in mano. Stringe i denti. Sente una rabbia


atavica che gli fa pulsare il cuore più forte.




"Colpisci" è il pensiero dominante che ora lo sconvolge.




Ma la voce che gli dice questo non è la sua.




Lascia cadere il coltello e ora il rossore del viso è dato più dall'imbarazzo che


dall'ira. Guarda ancora la ragazzina dai capelli rossi, che forse per la prima


47


C.B.


volta si accorge veramente di lui. E che sembra in parte divertita da questa


situazione. Emozionata.




- Ehm... ma io... ecco.




Miss Othmar si gli si avvicina ancora. Il viso di lei è alto e irraggiungibile.


Charlie tiene il capo basso e si sente addosso un'espressione terribilmente


stupida.




- Sai cosa succede ora? - gli chiede.




Charlie abbassa il capo ancora di più e bofonchia una sola parola.




- Esatto. Ora si va dal preside.




Mentre Charlie passa in mezzo ai compagni che lo fissano stupiti Miss


Othmar lo segue invitando gli altri a tornare in classe. Qualcosa gli sfiora il


capo in un lampo. Era forse una carezza quella che ha sentito? Miss Othmar


sorride quasi. "Stai tranquillo Charles" gli sussurra. E la sua voce è quella di


un adulto che non ha mai veramente avuto paura di qualcosa.




Charlie si sente un po' più sollevato, ma sospira.




Anche quest'anno non è riuscito a dare la sua Valentina alla ragazzina dei


capelli rossi.




Epilogo (2)


Patrick aveva i capelli sporchi di sangue, attaccati alla fronte. Sentiva la testa


scoppiare. Era seduto su una panca davanti all'ufficio dell'ispettore capo.


Certo, pensò, per quanto io stia male sto meglio di Andrew. L'aveva visto


portato a spalla da un paio di poliziotti. E sembrava fosse stato picchiato con


una mazza da baseball. Sul suo viso apparve quasi un ghigno, ripensando


all'amico in quelle condizioni.




L'agente che lo stava controllando, quando se ne accorse, mise la mano sulla


fondina e lo scrutò preoccupato.




Patrick sorrise tra sé . Hanno ragione a temere, pensò. Sono l'angelo della


morte, si disse. L'angelo della morte. E le sue mani erano lo strumento di


Satana per portare l'apocalisse sulla terra.




Poi si accorse che nella destra stringeva ancora spasmodicamente un biglietto


piegato. Lo stringeva con una morsa d'acciaio che non erano riusciti ad aprire


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C.B.


neanche quando l'avevano steso a terra, colpito e ammanettato.




Un biglietto.




Patrick ricordò.




Il colpo sferrato con tutta la forza. Sentiva già il gusto del sangue di Alice in


bocca, nell'attesa che questo lo ricoprisse davvero una volta che l'arma le


avesse reciso la gola. Poi la pugnalata che diventava improvvisamente un


pugno, perché al posto del coltello si era ritrovato quel biglietto in mano.


Alice che si accasciava comunque al suolo. Lui che faceva un passo indietro,


con la mente che vacillava.




Il biglietto. Il biglietto che si era trovato in mano al posto del coltello. Come


era stato possibile?




Satana l'aveva fermato? Aveva sbagliato ragazza? O il rituale?




L'angoscia si era impossessata di lui. Non era forse l'eletto?




Poi un colpo forte alla nuca. Patricia che lo colpiva con quella maledetta pala.


Lui che si girava e che tentava di colpiva a sua volta con un pugno, sempre


senza riuscire ad aprire la mano che stringeva il biglietto. Lei che scappava in


un'altra stanza e che si chiudeva dentro a chiave. Lui che cercava di sfondare


la porta e che continuava a vedere centinaia di piccoli uccellini gialli che gli


giravano intorno.




Poi le sirene in lontananza. E dopo un tempo indefinito ecco la polizia fare


irruzione. Le grida. Gli spari. I colpi di manganello. I calci.




Il biglietto. Satana gli aveva mandato un biglietto. Per comunicare con lui.




Abbassò gli occhi e sospirò. Sono pronto a leggere il tuo messaggio, si disse.


Mio Signore, io seguirò i tuoi comandi. Come ho sempre fatto.




La mano si rilassò. Lui chinò gli occhi e guardò cosa stringeva.




C'era un cuore rosso disegnato a matita.




A Patrick sembrò che la realtà si stesse scomponendo in piccoli pezzi. Le


guardie si avvicinarono di un passo.




Un respiro profondo. Lui aprì il biglietto e lesse. Poi lentamente si mise a


piangere.




"Alla ragazzina dai capelli rossi, con tutto il mio affetto. Firmato: C.B."




Una guardia, uscita dall'ufficio dell'ispettore capo, lo scosse. Aveva gli occhi


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C.B.


spaventati quando si era avvicinato e gli aveva toccato una spalla cercando di


stare più lontano possibile da lui.




Gli disse qualcosa. Probabilmente erano pronti per l'interrogatorio.




Ma Patrick sentì un'altra frase - che gli trafisse la mente e l'anima.




"Il signor preside ti attende, Charlie Brown."




Marco Giorgini: nato a Modena il 21 Agosto 1971, lavora come responsabile del settore R&D


in una delle più importanti software house italiane che si occupano di linguistica applicata. Dal


1994 coordina la rivista culturale KULT Underground e dal 1996 la casa editrice virtuale KULT


Virtual Press; ha tenuto conferenze, e contribuito ad organizzare mostre e concorsi letterari, tra


cui "Il sogno di Holden". Da marzo 2005 è autore di una striscia a fumetti sul mondo degli


esordienti chiamata Kurt.




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C.B.


Marco Giorgini è nato a Modena il 21 Agosto 1971 e lavora come


responsabile del settore R&D in una delle più importanti software house


italiane che si occupano di linguistica applicata. Dal 1994 coordina la rivista


culturale KULT Underground e dal 1996 la casa editrice virtuale KULT


Virtual Press; ha tenuto conferenze, e contribuito ad organizzare mostre e


concorsi letterari, tra cui "Il sogno di Holden". Da marzo 2005 è autore di una


striscia a fumetti sul mondo degli esordienti chiamata Kurt.




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Questa è la lista di e-paperback pubblicati fino ad ora nella collana Narrativa


Contemporanea della KULT Virtual Press:




13 Fiori Fatui


Hannan




Ai trenta all'ora


Donatella Placidi




Asìntote e Triguna


Antonio Piras




Attraverso la notte


Emiliano Bertocchi




Benaresyama


Federico Mori




Blu notte


Marco Giorgini




Buio


Emiliano Bertocchi




Dieci Racconti


Raffaele Gambigliani Zoccoli




Donne dall'abisso


Sergio Bissoli




Ferrovia


A.Zanardi




Fragola Nera


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Christian Battiferro




Francesco


Enrico Miglino




Futureline


AA.VV.




I Fori Nel Respiro


Andy Violet




Identità Perdute


Claudio Chillemi




Il Bacio del Serpente


Mario Campaner




Il Crepuscolo del Nazismo


Enrico Di Stefano




Il Guardiano di Notte


Claudio Chillemi




Il Passo Più Piccolo


Claudio Chillemi




Il segreto della Old Tom


Pasquale Francia




Inevitabile Vendetta


Fabrizio Cerfogli




La crisi di un detective


Marco Benazzi




La lampada diabolica


Fabio Larcher




La Maledizione del Teschio


Pasquale Francia




La morte facile e altri scenari


Giuseppe Cerone




La Radiosveglia


Raffaele Gambigliani Zoccoli




La Sibilla di Deban


Claudio Caridi




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Narrativa Contemporanea


La vigna


Silvia Ceriati




Lavare con Cura - Scheletri.com


AA.VV.




Le Bestie


Lorenzo Mazzoni




Lo Scafo


Marco Giorgini




L'Ultima Fantasia


Andrea Nini




L'uomo che scompare


Pierluigi Porazzi




Ondas nocturnas


Karmel




Onde Notturne


Karmel




Passato Imperfetto


Enrico Miglino




Privilegi


Lorenzo Mazzoni




Punto di rottura


Claudio Gianini




Resolution 258


Peter Ebsworth




Risoluzione 258


Peter Ebsworth




Sangue Tropicale


Gordiano Lupi




Segale


Christian Del Monte




Semplicemente Zombi - scheletri.com


AA.VV.




Sette Chiese


54


Narrativa Contemporanea


Christian Del Monte




Sogni


Massimo Borri




Sogni infranti


Alec Valschi




Steady-Cam


Christian Del Monte




Storia di un ragazzino elementale


A.Zanardi




Tienimi la porta aperta


Alessio Arena




Ultima notte di veglia


Enrico Bacciardi




55



Narrativa Contemporanea