mercoledì 22 agosto 2012

Giovanna Simonetti - Perchè una riflessione sulla pedagogia?

PEDAGOGIA GENERALE




Giovanna Simonetti

Perchè una riflessione sulla pedagogia?  

settembre 2009

 

riflessione sulla pedagogiaLa Pedagogia come Scienza autonoma è nata da poco, è sempre stata considerata ancella ora della Filosofia ora della Psicologia. Una riflessione che avesse come oggetto il processo educativo nella sua interezza (inteso come interazione dell’educatore e dell’educando) è un “fatto assai recente”. Detto ciò passiamo a cos’è la Pedagogia.
Considerato quanto sopra è implicito pensare che la Pedagogia è la Scienza che studia l’educazione.
A questo punto la domanda che ha senso porsi è: “cos’è l’educazione?”
La risposta che più comunemente viene data a questa domanda da educatori e pedagogisti è la seguente: “educare deriva dal termine educere che significa tirare fuori”. Pertanto educare significa, secondo questa definizione (corretta, ci tengo a sottolineare) sviluppare nel soggetto quelle abilità o potenzialità che l’individuo gia possiede e far in modo attraverso processi di apprendimento che ne acquisisca altre.
Ma è tutto così semplice?
Secondo me no.
Ecco perché ritengo importante una riflessione pedagogica proprio in un’epoca in cui l’educazione ma soprattutto le agenzie educative (scuola, famiglia, oratori) stanno perdendo il loro valore e la loro ragion d’essere.
Partendo da una considerazione pienamente personale preferisco parlare di processo educativo e non di educazione in quanto ritengo che quest’ultimo termine si ponga ad un livello più astratto e non sia in grado di cogliere il dinamismo insito nel termine processo inteso come un percorso che ha un inizio (magari anche ben definito) ma all’interno del quale possono intervenire una pluralità di variabili.
Per rendere più semplice questo concetto faccio riferimento ad un famoso film di animazione: Il Mago di Oz.

Questo film narra di una ragazza Dorothy che annoiata della sua vita in una fattoria del Kansas sogna mondi lontani, finchè un ciclone non la catapulta in un mondo fantastico dal quale però lei vuole tornare indietro.
Per fare cio deve recarsi nel paese di Oz e rivolgersi al mago. La ragazza allora si incammina sul sentiero dorato.

Già da qui emergono i primi elementi di cio che è un processo educativo:
intenzionalità: Dorothy decide di intraprendere il viaggio. Pertanto assume un ruolo attivo. L’attivismo dell’educando va contro quell’errata concezione pedagogica che vedeva nel bambino (o in qualsiasi soggetto in formazione) un contenitore vuoto da riempire (la cosiddetta “tabula rasa”) l’educando è una Persona e come tale si inserisce nel processo con il suo carattere, i suoi modi di fare, un sistema valoriale, tutte variabili che vanno ad influire nel rapporto con l’educatore e sull’esito del processo educativo.
Il rigore scientifico simboleggiato dal sentiero giallo. Dorothy non si incammina in una strada di campagna ma segue una via ben precisa, così pure il processo educativo, per quanto sia influenzato dalle variabili sopra citate (carattere, contesto, situazioni personali) segue comunque delle regole ben precise. Altrimenti la pedagogia non sarebbe una scienza e soprattutto la pedagogia è una scienza prescrittiva (da delle linee di intervento) a differenza della Sociologia che è descrittiva (si limita a descrivere la società e i sistemi che lo compongono).

Nel suo percorso Dorothy incontra lo spaventapasseri a cui manca il cervello, l’uomo di latta a cui manca il cuore ed il leone a cui manca il coraggio. Tutti e quattro sono coscienti di avere delle carenze e si avviano dal Mago di Oz.

Questi tre personaggi simboleggiano le diverse Aree di intervento educativo:
l’area cognitiva;
affettiva;
valoriale.
La Persona nella sua interezza si compone di molteplici dimensioni ed ognuna di questa è educabile.

Dopo varie prove, sconfiggendo la strega cattiva, i quattro amici arrivano dal Mago, il quale chiede loro di superare un’ennesima prova. Al termina della quale il Mago fa riflettere i quattro amici. Per superare tutte le prove hanno fatto affidamento sulle loro capacità, quindi li invita a cercare non fuori ma dentro di se cio di cui necessitano. Poi regala loro un oggetto che possa sempre aiutarli a ricordare questa cosa.

Qui emerge quel significato iniziale del termine educazione inteso come educere, tirar fuori.
Il Mago, non crea niente, ma attraverso le varie prove a cui ha sottoposto i quattro amici, osservandoli da lontano e intervenendo dove possibile ha permesso loro di sviluppare le capacità gia insite in loro. Infine ha fornito loro gli strumenti per continuare a “fare da soli”.
Si, perché fine ultimo di un percorso di crescita è sempre l’autonomia del soggetto.
L’educazione è quel processo che si pone l’obiettivo di portare “l’essere ad un dover essere” (un soggetto violento a dover essere un soggetto integrato, un soggetto dipendente ad essere un soggetto libero e così via).
Con questa premessa, nelle prossime riflessioni spero di esaminare, sempre dal mio modesto punto di vista, il rapporto tra educatore ed educando.

 

Il Disabile è la Persona ottobre 2009


Il Disabile è la PersonaTutti gli interventi che mirano all’istruzione o all’addestramento poggiano su due assi: la trasmissione di conoscenze (sapere) e l’acquisizione di abilità (saper fare).
Partendo da questa affermazione, perno degli interventi diventa il contenuto da trasmettere (informazioni o abilità) senza dare molto peso al soggetto in formazione.
Un intervento educativo che voglia definirsi tale invece, a mio parere, fa riferimento a quelle teorie che esaltano la centralità della Persona all’interno di un contesto sociale. Pertanto scopo dell’intervento educativo diventa non solo la mera trasmissione di conoscenze ma lo sviluppo e la piena integrazione dell’individuo all’interno del suo ambiente.
La diade sapere e saper fare si allarga diventano una triade: Sapere, Saper Fare e Saper Essere, dove quest’ultima accezione sta ad indicare l’acquisizione di norme comportamentali utili alla convivenza, alla socializzazione e alla piena integrazione dell’educando.
Da piccolo al bambino vengono detti quei “no” che lo aiutano a crescere e gli vengono date quelle prime regole da rispettare che gli permettono di vivere liberamente ed in comunione con le persone che lo circondano.
I capricci che inevitabilmente fa rispetto ai divieti, gli servono ad affermare la propria identità ma assecondarli lo porterebbe alla concezione che tutto gli è permesso.
Quindi le agenzie educative ma soprattutto le famiglie devono da subito riconoscere nel Bambino il suo ESSERE PERSONA, pertanto il suo essere titolare non solo di diritti ma anche di Doveri.
Spesso però, soprattutto negli ultimi anni, si sta assistendo ad un fenomeno dilagante: il Bambino diventa Padrone indiscusso della Famiglia e ogni suo desiderio diventa un ordine. Questo atteggiamento che spesso viene giustificato dalle madri (o padri) con la motivazione di voler garantire ai figli quel benessere che magari può essere mancato loro, ha portato ad una generazione in cui integrarsi e socializzare assume il significato di omologazione invece che quello più autentico dell’essere una persona che con una vita sociale attiva, ricca di interessi, affetti, insomma in grado di vivere bene il proprio mondo ovunque si trovi.
Perché è così difficile, puntare sull’autenticità e unicità della Persona?
Mi spiego.
In una classe di venti bambini, se diciannove hanno il cellulare ad otto anni e il ventesimo bambino non ce l’ha verrà visto come un bambino fuori dal tempo… Magari da compatire perché i genitori non glielo comprano… ed i genitori di quest’ultimo pur di non farlo soffrire, dopo la prima o la seconda richiesta, glielo compreranno pur ritenendo ingiusto l’uso del telefono mobile a quest’età.
Questo bambino crescendo penserà che tutto gli è dovuto perché tutti lo fanno… …e tutto ciò che fa la massa è legge.
Senza tener conto che evitare qualsiasi tipo di frustrazione al Bambino farà di lui un debole, perché si troverà impreparato alle avversità della Vita che inevitabilmente ci sono.
La questione si complica ulteriormente se l’educando è un soggetto disabile ad esempio una persona con problemi mentali (ritardo, disturbi psichiatrici, etc). In questi casi il permissivismo si basa su una sorta di protezionismo esasperato che identifica la PERSONA disabile con la sua patologia.
A volte si pensa che una persona con disturbi mentali non sia in grado di svolgere dei compiti senza nemmeno chiederle di eseguirli. Ci si fossilizza sulle sue lacune e non si punta sul rinforzo o sullo sviluppo delle attività latenti.
Il disabile è persona.
Come tale ha una sua identità, autenticità, un suo modo di rapportarsi al mondo. La patologia che lo connota lo rende spesso soggetto di assistenzialismo ma chi se ne prende cura deve sempre mirare ad una forma di autonomia che gli restituisca dignità.
Il rapporto educatore-educando deve necessariamente passare, anche nel caso di persone con deficit di varia natura, attraverso una continua interazione, bisogna stabilire dei patti, fare dei contratti educativi, rinforzare gli atteggiamenti positivi e biasimare quelli sbagliati sempre nel rispetto delle varie patologie. Bisogna dare fiducia alla persona disabile. Spesso l’assistenzialismo passivo è un modo per non mettersi in gioco come educatori, si ha paura di fallire in un’impresa nuova e allora si parte dal presupposto che la persona di cui ci prendiamo cura “non è in grado di…”.
Certo non mancheranno le sconfitte, certo arriveremo al punto in cui diremo “per la sua patologia ciò non può farlo” ma almeno ci abbiamo provato, ma soprattutto avremo testato concretamente non tanto ciò che la Persona disabile non sa fare ma ciò che è in grado di realizzare, con una grande valenza positiva sull’autostima del disabile stesso. E non mi sembra poco.


Amore e distacchi: il percorso dell'autonomia novembre 2009


Amore e distacchi: il percorso dell'autonomiaDistacchi e altri addii è il titolo di un libro il cui sottotitolo è: “quando separarsi fa bene”.
Il percorso di crescita di ogni persona è un lungo cammino che vede come obiettivo finale la piena realizzazione della persona. Tale realizzazione si raggiunge solo con la piena autonomia cioè con la capacità di fare le proprie scelte in maniera libera e consapevole.
Per fare ciò occorre essere educati a farlo. Come si può educare all’autonomia? Semplicemente non sostituendosi al soggetto in crescita e non aspettandosi dallo stesso che ricalchi un percorso già tracciato da noi.
Il più delle volte, questi processi sono inconsapevoli sia a livello di chi li mette in atto sia di chi li vive o li subisce.
In termini molto semplici: un amore morboso (da parte della madre ma non solo) che tende a fagocitare la vita e i sentimenti dei figli non vengono mai messi in atto in maniera conscia ed egoistica ma rappresenta un modo di amare. Sicuramente sbagliato ma pur sempre un modo di amare che spesso riflette l’incapacità di aver tagliato i “propri cordoni ombelicali”.
Infatti chi non è riuscito a realizzarsi sacrificando la propria vita per i genitori o per altri, si aspetterà a sua volta che i figli (o anche un ipotetico compagno di vita) nutrano un amore così incondizionato da mettere da parte qualsiasi altra cosa in nome di questo rapporto speciale e simbiotico.
Nel libro di Gianna Schelotto sopra citato ci sono due racconti che descrivono molto bene questo mio concetto:

  1. Notte di nozze

  2. Verginità.

Entrambe le storie sottolineano l’incapacità di alcune persone a costruirsi una nuova famiglia.
Creare una famiglia propria significa smettere di essere figli o per meglio dire figli lo si rimane sempre ma si smette di essere piccoli, si esce da sotto l’ala protettiva della famiglia di origine e ci si appresta a prendere il volo. Diventare moglie e madre (o anche padre e marito) significa assumersi delle responsabilità, dei doveri anche morali nei confronti di un’altra persona e dei propri figli ma prima di tutto significa imparare ad amare un’altra persona che non sia la madre e molte persone non se lo permettono. Amare qualcuno che non faccia parte del nucleo in cui si è cresciuti, che ci ha nutrito, sostenuto, fatto vivere diventa una specie di tradimento che viene vissuto con forti sensi di colpa.
Imparare a donarsi completamente ad un’altra persona, anche attraverso il proprio corpo, è un atto che richiede la piena consapevolezza del se, del chi sono io, significa “possedersi” nel senso di capire bene dove finisco io e dove inizia l’altro. Chi ha vissuto in un ambiente familiare eccessivamente protettivo, con forme di amore simbiotico non si possiede completamente, non è padrone di se…. È come se non fosse nato del tutto. Quando metterà in piedi una relazione amorosa avrà sempre l’esigenza di chiedere in qualche modo “il permesso” alla propria figura materna (ed uso appositamente il termine figura materna perché non intendo solo la madre ma quella figura che si è interiorizzato come figura di riferimento univoca).
Questo discorso, che varca i limiti di una riflessione psicologica più che pedagogica, credo sia necessario per comprendere alcune dinamiche insite in alcune relazioni educative.
Educare all’autonomia è uno dei compiti più difficili e soprattutto più ingrati perché significa educare una persona a non avere più bisogno di noi. E questo in quanto persone va a scontrarsi spesso con la voglia o l’esigenza di sentirsi utili e importante per l’altro. Il genitore, ma anche l’educatore, prova una certa soddisfazione nel vedere i progressi e le conquiste dell’educando (figlio o utente che sia…) e a volte si fa l’errore di pensare che quei progressi siano esclusivamente il frutto del nostro operato. Riconoscere l’altro come persona (non mi stancherò mai di dirlo) quindi con una propria intenzionalità, come portatore di proprie risorse, come soggetto in grado di fare scelte ma soprattutto vedere nell’altro non un prolungamento di noi stessi ma “soggetto altro da se” ci permetterà di guardare alla sua autonomia con minori ansie da parte di tutti. E’ importante imparare ad osservare da lontano. Incentivare gli atteggiamenti positivi, correggere quelli sbagliati ma mai sostituirsi. A volte le famiglie diventano talmente chiuse al loro interno da diventare causa di profonde sofferenze psicologiche. Frasi come “niente supera l’amore di una madre”, “puoi contare solo sulla tua famiglia”, per quanto possano essere reali, se ripetute costantemente generano nel soggetto una sorta di sfiducia verso l’esterno e lo mettono in una continua “altalena” tra la voglia di uscire e aprirsi verso nuovi orizzonti e la paura di deludere che si è “sacrificato” per lui.
L’amore vero è credere nella felicità dell’altro anche se questa si trova a migliaia di km da noi.

Un rapporto educativo in fondo in fondo presuppone anche una base di amore ma che sia libero e che porti l’educando a scoprirsi come Persona e a vivere autonomamente come tale.


Precisazioni metodologiche gennaio 2010


Al fine di poter garantire un’informazione ed una riflessione sempre più corretta mi preme precisare alcune cose inerenti il mio modo di esporre le mie riflessioni:

  1. Proprio perché si tratta di riflessione quanto scritto è frutto di un mio personale pensiero, che può essere condiviso o meno ma che ritengo abbia comunque il valore di stimolare l’altrui riflessione e di conseguenza anche un ipotetico confronto e dibattito.

  2. Essendo internet un bellissimo strumento di comunicazione di massa, credo che debba avere, sempre a mio modesto parere, la funzione non di indottrinare ma di informare, di stimolare la voglia di conoscenza e di sollecitare e stimolare la riflessione. Per fare ciò credo che sia utile utilizzare un linguaggio semplice, forse banale, che pur rifacendosi a paradigmi scientifici sia accessibile a tutti. Forse nel rendere così espliciti certi eventi ho fatto riferimento ad esempi che riguardano la quotidianità, magari andando a perdere un po’ di quel rigore che dovrebbe connotare una riflessione sulla Pedagogia intesa come scienza e di questo chiedo scusa agli Esperti del settore, ma ritengo che una riflessione più aderente ai fatti reali possa essere più utile a chi non ha il tempo, la possibilità o le capacità (e non vuole essere un’offesa per nessuno) di addentrarsi in grandi trattati metodologici; anche perché se mi fermassi ad esporre teorie non farei una riflessione pedagogica.

Scrive Michele Corsi nel suo testo “Come pensare l’educazione” che la Pedagogia come teoria deve presentarsi come organizzazione rigorosa di eventi pertanto deve avere una connotazione descrittiva e prognostica. Dall’altro deve anche porsi come paradigma scientifico e quindi porsi come interpretazione, organizzazione dei fatti che analizza con un atteggiamento prognostico. Ma questo attitudine prognostica deve sempre rispettare la SINGOLARITA’ dei fatti a cui si applica essendo l’educazione un processo che scaturisca dall’interazione tra un Io ed un Tu all’interno di un contesto Ambientale. Se venisse meno uno di questi tre elementi non si tratterebbe più di un’analisi di un processo educativo.

Inoltre le scienze fanno riferimento a dei modelli interpretativi. Quando però si studiano i fatti della vita si fa riferimento non ad oggetti che possono essere smontati e ricomposti con un procedimento univoco, ma si fa riferimento a degli eventi pertanto a qualcosa di estremamente mutabile. Pertanto lo studio di un fenomeno sociale mediante modello non va tanto alla ricerca della struttura oggettuale attraverso l’isolamento delle sue componenti ma ricerca il rapporto tra due o più variabili cercando di comprendere se tale rapporto possa riscontrarsi anche in altri eventi, ciò che diventa oggetto di studio è la ripetibilità delle relazioni tra microeventi.

Nel mio precedente articolo sui percorsi di autonomia (Amore e distacchi: il percorso dell'autonomia), quello che ho cercato di mettere in luce attraverso esempi pratici è come spesso mettere in atto rapporti educativi che facciano dipendere l’educando dall’educatore possa creare una mancata crescita dell’educando stesso. Come a dire semplificando che se le variabili in gioco fossero la personalità dell’educatore troppo forte, la personalità dell’educando magari debole, un contesto ambientale molto chiuso, privo di stimoli e frustrante, potrebbe aversi una situazione in cui l’educando non sia in grado di esprimere se stesso. E le due e più storie che ho citato hanno evidenziato come ci sia stata una ripetibilità delle relazioni tra le variabili sopra citate.

Quello però che mi sta a cuore è evidenziare una cosa: la Pedagogia è una scienza pratica e umana allo stesso tempo. Io ritengo che il vero valore di queste riflessioni sia sempre ricercare ciò che più faccia emergere il concetto di PERSONA come fine ultimo di qualsiasi intervento. E se nel fare ciò magari ho in qualche modo trascurato o alterato il valore epistemologico della Pedagogia vi chiedo di non considerare le mie come riflessioni Pedagogiche ma come riflessioni sull’Educazione. 

Frustrazione? Si grazie... se è sana febbraio 2010


Frustrazione? Si grazie... se è sanaSono da poco passate le feste natalizie e come ogni Buon Natale che si rispetti i più piccoli sono stati al centro dell’attenzione di nonni, nonne, zii e parenti vari ma soprattutto sono stati al centro dell’attenzione dei produttori di giocattoli che in nome del magnanimo Babbo Natale si sono inventati di tutto per rendere “felici” i nostri bambini. E così dal sacco del simpatico vecchietto sono spuntati giochi elettronici, giochi educativi, macchinine…. (esistono ancora?) bambole e bambolotti che fanno di tutto… mangiano, bevono piangono, dormono e sorridono proprio come dei veri bambini. Poi c’è anche chi avrà ricevuto a sei anni la prima agenda elettronica o la play station e magari non sapendo ancora leggere non riuscirà nemmeno a giocarci e invidierà magari la lavagnetta con i gessetti del fratello o della cuginetta più piccola. Una cosa è certa anche i regali per i più piccoli dimostrano l’epoca difficile in cui viviamo e la difficoltà ad avere la giusta “misura” nell’essere genitori. E’ inutile negarlo ai bambini di oggi si da tanto, quasi a voler compensare con un giocattolo il tempo che non si riesce a trascorrere con loro. O forse è solo la voglia legittima di ogni genitore di vedere felici i propri figli. Ma un bambino è davvero felice se riceve tutto ciò che chiede? Magari potrebbe anche esserlo nell’immediato ma questo atteggiamento dei genitori porta il bambino a non saper affrontare le frustrazioni che inevitabilmente incontrerà nella vita. Si definisce frustrazione la condizione in cui viene a trovarsi l'organismo quando è ostacolato, in modo permanente o temporaneo, nella soddisfazione dei propri bisogni. Incontrare ostacoli nella soddisfazione dei propri bisogni è da considerarsi una condizione normale dell'esistenza dell'individuo. Pertanto compito dei genitori non è quello di evitare le frustrazioni ma di far in modo che possano viverle in ambienti protetti… Anche evitare per troppa ansia che un bambino faccia determinate esperienze può portare ad una frustrazione infatti ad essere frustrato in questo caso sarà proprio il suo senso di libertà. La frustrazione può derivare da condizioni fisiche, sociali, personali o familiari. Cause di frequenti frustrazioni nell'ambiente familiare possono essere: un clima rigido, severo, proibitivo, autoritario, così come un comportamento iperprotettivo ansioso; l'indifferenza, la trascuratezza; l'incoerenza educativa, ecc. Un clima eccessivamente proibitivo porta il bambino a sentirsi rifiutato e a sentire negati i suoi legittimi bisogni: evitare che il bambino possa fare determinate esperienze con i coetanei, negargli delle ricompense, non dimostrargli affetto potrebbe fare di lui una persona sfiduciata, insicuro incapace di relazionarsi. Ma essere troppo “buoni” può portare il bambino a permanere nel suo egocentrismo infantile.

il bambino deve imparare ad avere gradualmente a non avere una immediata gratificazione dei suoi desideri. Inoltre non bisogna sentirsi in colpa se a volte si deve far attendere il proprio bambino, magari perché si sta parlando al telefono o in presenza di altre persone: l'attesa aiuta a rafforzare la crescita psicologica del bambino.
Per aiutarlo a sopportare la frustrazione in alcune situazioni può essere utile abituarlo a variare l'oggetto desiderato o il momento in cui ottenerlo, per esempio non può mangiare la torta prima di pranzo ma dopo, non può mangiare la torta ma un frutto.”

Tratto da "La grande enciclopedia del bambino", Dott. Venturelli, Dott. Caso, Dott. Marengoni (a cura di), Sfera Editore.

Indipendentemente dal clima generale della famiglia, però, vi sono alcuni momenti o fasi obbligate dello sviluppo dell'individuo, in coincidenza con le quali la frustrazione è particolarmente frequente (nascita di un fratellino). Infatti il primogenito avverte un senso di privazione dovuto al fatto che le attenzioni dapprima concentrate solo su di lui ora vengono rivolte ad un altro “essere” ancor più bisognoso di cure. Il rapporto con i fratelli rappresenta pertanto, come dicono molti studiosi “una palestra di vita” in quanto il bambino impara a dividere l’amore dei genitori, impara a competere, a conquistarsi e a delimitare i suoi spazi. Sul piano educativo, l’arrivo di un fratellino o di una sorellina è preferibile alla condizione di figlio unico. C’è un libro molto illuminante rispetto a ciò: “FIGLI UNICI psicologia dei vantaggi e dei limiti”. La cosa più importante che emerge è che non c’è una sindrome del figlio unico ma che il rapporto genitori-figlio è fondamentale per una crescita sana di tutti i bambini ma lo è in modo particolare per il figlio unico. All’interno delle famiglie con un solo figlio si viene a creare spesso una situazione paragonabile al cosiddetto “triangolo perverso”: qualsiasi comunicazione che il bambino metterà in atto avrà sempre come interlocutore un adulto. Questo lo porterà sia ad assumere da piccolo ruoli da adulto ma anche a sentirsi solo: se un bambino subisce un'ingiustizia o uno sfogo nervoso da un genitore, può sempre trovare conforto da un fratello o distrarsi con lui, il figlio unico avendo solo i genitori quindi non avendo nessuno della sua età con cui confrontarsi e creare delle alleanze potrebbe avvertire appunto un senso di solitudine maggiore.


triangolo perverso

Ritengo che siano importanti tutti i luoghi di socializzazione del bambino con i suoi coetanei. Anche a scuola le insegnanti dovrebbero, a mio parere, avere dei piccoli accorgimenti nei confronti dell’alunno-figlio unico. Anche se dovesse essere “il primo della classe” secondo me bisognerebbe evitare di porlo come esempio assoluto da seguire “innalzandolo” al di sopra dei compagni, dovrebbero aiutarlo invece ad inserirsi ed integrarsi. Il figlio unico non deve sentirsi anche a scuola come un piccolo adulto e investirlo di responsabilità e aspettative maggiori. Il bambino deve potersi sentire uguale agli altri, disubbidire e ricevere “rimproveri” come tutti gli altri ma senza frasi colpevolizzanti “da te non me l’aspettavo…”. Probabilmente di sensi di colpa il figlio unico ne vive già in casa soprattutto se i genitori gli fanno pesare che lui è la loro unica fonte di gioia e realizzazione. I genitori dovrebbero essere realizzati loro come PERSONE e riconoscere il figlio come PERSONA e non come prolungamento di se stessi…. non come l’unica e ulteriore via per realizzare i loro progetti. Credo che i soggiorni estivi con associazioni, gruppi scout possano essere molto stimolanti per un figlio unico in quanto lo allontanano momentaneamente da casa favorendo la sua autonomia e possano essere utili anche ai genitori per abituarli all’idea che prima o poi il figlio uscirà di casa e sarà in grado di badare a se stesso da solo. D’altro canto il bambino capirà che pur allontanandosi da casa e lasciando i genitori soli non perderà il loro amore ma soprattutto a loro non succederà niente di brutto o di triste e quindi riuscirà a vivere in maniera meno colpevolizzante e con meno ansia la separazione dai genitori. Spesso il figlio unico si sente lui responsabile dei propri genitore, a volte è come se si capovolgessero i ruoli, è un po’ il modo del bambino (e in seguito dell’adulto /figlio-unico) di ripagare i genitori di dedicare o di aver dedicato a lui tutta la loro vita. Tornando al concetto di frustrazione il figlio unico non attraverserà quelle fasi naturali che pian piano lo porteranno al distacco e ad una maggiore autonomia, così come pure non avrà affrontato competizioni che possano in qualche modo averlo preparato alla vita sociale, pertanto per lui è doppiamente importante non assecondarlo sempre, dargli delle regole da rispettare. Regole però non imposte ma concordate ricordando sempre che il figlio unico non ha “un complice” con cui coalizzarsi. Quindi è importante uno stile democratico pur mantenendo fermo il ruolo di genitori. Abituarlo alla frustrazione ma che sia una frustrazione sana. Non ritengo personalmente adatta una frustrazione del tipo “non ti mandiamo in gita perché mamma e papà poi restano soli e sono tristi”, sarebbe più opportuno che in questo caso ad essere frustato sia l’eccessivo attaccamento dei genitori al figlio.

Pertanto da un punto di vista educativo, il bambino che vive la condizione di figlio unico dovrebbe poter essere preparato alla vita attraverso un costante rapporto con i suoi coetanei. Mi preme sottolineare ciò che viene ribadito nel libro sopra citato, cioè che non esiste una Sindrome del figlio unico ma al limite una condizione di figlio unico e che le caratteristiche che in genere gli vengono attribuite non devono etichettarlo. Il rapporto del figlio unico con la madre, il modo di rapportarsi dello stesso con i coetanei, l'egocentrismo a cui spesso si fa riferimento parlando di figli unici possono essere considerate delle variabili prese in esame durante l'analisi di famiglie con un solo figlio.

Ovviamente tutte queste considerazioni non annullano il concetto di individualità della Persona e pertanto nessun figlio unico è uguale ad un altro. Inoltre queste considerazione sottolineano ancora una volta la stretta connessione tra le discipline che hanno come oggetto di studio l’uomo. In questo caso abbiamo riflettuto sull’importanza delle frustrazione nell’educazione del bambino (quindi sull’interpretazione e organizzazione di alcuni fatti) partendo da basi psicologiche dando delle piccole “prescrizioni” (quindi con atteggiamento prognostico) senza nessuna pretesa di fornire ricette magiche.

Descolarizzare o educare a scolarizzare? aprile 2010


educare a scolarizzareIl mero possesso di titoli di studio per accedere a qualcosa è una discriminazione e va abolita, la discriminazione dovrebbe avvenire soltanto in base alle capacità e non al pedigree scolastico“

Questa forse è una delle frasi più emblematiche del pensiero di Ivan Illich quando nel 1970 pubblica “Descolarizzare la società. Per una alternativa alla istituzione scolastica” (tradotto in Italiano nel 1972). Lo studioso dalmata sosteneva che la scuola fosse diventata una sorta di istituzione inattaccabile e universalizzata, una nuova religione che crea negli allievi una serie di miti che ne limitano la crescita personale:

La scuola indottrina i suoi allievi creando nelle loro coscienze i seguenti miti:

1) Il mito dei valori istituzionalizzati viene inculcato insegnando che un'istruzione valida è il risultato della frequenza; che il valore dell'apprendimento aumenta proporzionalmente all'input, alla quantità di nozioni immesse e, infine, che questo valore può essere misurato e documentato da voti e diplomi.

2) Il mito della misurazione dei valori emerge dai valori istituzionalizzati che la scuola inculca sono valori quantificati. La scuola inizia gli studenti a un mondo dove tutto è misurabile, compresa la loro immaginazione e anzi l'uomo stesso.

3) Il mito dei valori confezionati si riscontra nel fatto che il sistema scolastico vende un corso di studi preconfezionato e indiscutibile.

4) Il mito del progresso autoperpetuantesi rivela che le spese per indurre lo studente a rimanere nella scuola aumentano vertiginosamente man mano che egli avanza nel suo percorso di studi e gli insegna il valore dell'escalation, del modo americano di fare le cose.

Quello che Illich propone è di liberare l’allievo dall’obbligo della frequenza e di restituirgli l’iniziativa dell’apprendimento, in questo modo viene liberalizzato l’acceso agli oggetti didattici ed evitate le restrizioni dell’insegnamento. Attraverso i “liberi centri di preparazione tecnica aperti a tutti”, secondo Illich, la società evita quelle forme di assistenzialismo nei confronti dei cittadini e li libera dalla necessità di adattarsi ai servizi offerti dai professionisti, che secondo il mio parere si concretizzano in servizi preconfezionati non in grado di rispondere alle vere esigenze del soggetto in crescita. Secondo alcuni autori le idee descolarizzatrici ed in particolare il pensiero di Illich vanno fatte rientrare nelle correnti personaliste anzi vengono viste come una difesa radicalizzata della Persona. Si legge nel libro di Giorgio Chiosso “Novecento Padagogico” nel capitolo dedicato alla Pedagogia e alle Scienze dell’educazione nella cultura contemporanea “la scuola, in altre parole, tenderebbe a spogliare l’individuo della sua personalità e delle sue capacità e a trasformarlo in un assistito preso in carico per i suoi bisogni da servizi sociali che, mentre pretendono e credono di soddisfare una richiesta, creano in realtà una domanda sempre maggiore ed accentuano lo stato di dipendenza dell’individuo”.
Un po’ come una mamma che sostituendosi costantemente al figlio e prevenendo le sue richieste lo rende dipendente da se e incapace di provvedere da solo a soddisfare i suoi bisogni. Letta in questo modo la teoria di Illich in effetti esalta pienamente la libertà della persona in merito alla sua istruzione. A distanza di quarant’anni dalla diffusione di questo pensiero io personalmente ritengo che la scuola continua ad avere la sua ragion d’essere e non debba essere demolita. Sarebbe come dire che per evitare di dare un’educazione troppo rigida ai figli non li si educa affatto e li si lascia liberi di auto-educarsi scegliendo da soli quali modelli seguire. Di Illich però faccio mio il pensiero secondo cui un individuo non può essere valutato o giudicato sulla base del numero di corsi seguiti. Ogni persona nel suo percorso di crescita fa una serie di esperienze che affiancandosi alle nozioni apprese a scuola ne fanno un individuo completo in grado di pensare ed agire. Pertanto reputo tutt’oggi importante ciò che llich proponeva già all’epoca ovvero di rilasciare ad ogni cittadino, fin dalla nascita, una carta di credito educativo. La scuola a mio parere dovrebbe avere un ruolo di base e di orientamento, andando a lavorare non tanto su competenze specifiche ma su quelle appunto definite competenze di base e competenze trasversali ovvero su quelle competenze che il soggetto una volta uscito dalla scuola può spendersi per entrare efficacemente nel mondo del lavoro. Pertanto non una scuola che indottrina ma una scuola che forma. Ma come si realizza tutto ciò? E soprattutto noi educatori siamo pronti ad accogliere questa sfida? Io ritengo di no. Seguire un programma ministeriale e fare in modo che esso venga portato a termine è molto più semplice che lavorare con gli studenti…Io mi chiedo da un bel po’ di tempo se non sarebbe meglio ridurre le ore di storia ad esempio e dare più spazio all’educazione civica…. Se si immagina una scuola che dà solo degli input e chiede ai suoi allievi di approfondire ciò che a loro interessa di più si potrebbe immaginare anche una scuola nella quale ci sia più tempo per riflettere e ragionare. Anziché limitarsi a trasmettere nozioni che poi passano nell’oblio si potrebbe fare una riflessione più attenta sulla cultura contemporanea partendo dai fatti di cronaca e dalla politica. Certo non sto dicendo che gli insegnanti debbano fare campagna elettorale per uno schieramento politico o un altro ma almeno inculcare nei giovani la voglia di conoscere le idee politiche, i valori che sono alla base di un movimento anziché dell’altro. Non perché tutti debbano diventare dei politici ma solo perché tutti sono chiamati attraverso il voto a decidere delle sorti del proprio paese ed è giusto farlo con coerenza ma soprattutto con consapevolezza. Se si vuole restituire libertà alla Persona occorre a mio parere fare una cosa sola: insegnarle a pensare. Ma per fare ciò bisogna imparare a mettersi in gioco. Formare delle persone in grado di ragionare in modo autonomo e libero significa sapersi confrontare anche con allievi preparati che magari la pensano in modo completamente diverso da noi e confrontarsi senza nascondersi dietro l’autorità del proprio ruolo. Forse in questo il mio pensiero si avvicina anche se in maniera molto sottile ad Illich quando dice che dovrebbero continuare ad esistere figure educative di riferimento ma che non siano insegnanti, io ritengo che queste figure debbano essere “non solo insegnanti intesi come coloro che trasmettono un sapere ma che siano educatori ovvero coloro che oltre ad indottrinare possano tirar fuori da ognuno il proprio essere”. Quindi la scolarizzazione intesa come l’insegnare a scrivere, leggere e far di conti va bene a mio parere se è finalizzato non a creare dei contenitori in cui immettere un numero ben preciso di nozioni a seconda di quanto previsto dai programmi ministeriali ma una scolarizzazione che diventi anche educazione. Per fare ciò occorre partire dalla formazione in primis di chi insegna. Educare ad educare. Formare i formatori. È questa la vera sfida.


Dimensione antropologica della formazione nei contesti lavorativi: realtà o utopia? giugno 2010


Uno degli ultimi corsi di formazione organizzati per i propri dipendenti dalla Coop.Soc. “Il Filo di Arianna” di Venosa verteva sulla Sindrome del burn-out e sulle possibilità di attuare metodi di prevenzione che aiutino l’operatore sociale a “non bruciarsi” all’interno della relazione d’aiuto. Senza entrare nel merito di quest’argomento di natura forse più psicologica, quello che mi preme sottolineare è la scelta consapevole e mirata che fanno alcune aziende nel progettare corsi di formazione centrati della Persona.

L’importanza di avere educatori ben formati e continuamente aggiornati è stato oggetto di riflessione anche del mio ultimo articolo il quale si concludeva sulla necessità a mio avviso di avere docenti ed educatori sempre più aggiornati in grado di rispondere alle nuove sfide dell’educazione per evitare che torni a farsi strada il pensiero descolarizzante come alternativa ad una scuola che ingabbia e che premia solo i titoli [N.d.r. Descolarizzare o educare a scolarizzare?]. La formazione dei docenti e del personale educativo in genere è l’estremo bisogno di attuare forme di educazione permanente in grado di far si che la conoscenza venga a considerarsi qual valore aggiunto immateriale a cui qualsiasi tipo di agenzia educativa deve poter attingere. Quello che mi chiedo è questo? Cosa si intende per formazione e soprattutto in che modo le aziende (private e non) mettono in atto i loro percorsi formativi? E soprattutto si può fare una trattazione pedagogica inerente la formazione ed il lavoro?

Il testo dell’Alessandrini “Manuale per l’esperto dei processi formativi” fa emergere la Formazione nelle aziende come un processo di formazione continua ovvero un processo di crescita della persona anche attraverso l’interazione con l’altro ed il confronto con l’attività professionale. Essa ultimamente viene sempre più studiata da diverse discipline anche dalla psicologia negli studi sull’apprendimento organizzativo. La formazione non va più ad identificarsi con il mero addestramento in quanto non si ferma più a considerare l’uomo come semplice forza lavoro da addestrare ad un singolo compito. Le continue sfide del mercato ed i continui mutamenti richiedono flessibilità e cambiamento. Le aziende per essere competitive non possono cristallizzarsi solo su un unico servizio ma devono essere in grado di rispondere alle esigenze dei clienti/committenti che sono sempre più varie ma allo stesso tempo sempre più specifiche. Per fare ciò qualsiasi impresa deve poter contare su personale in grado di espletare la propria professionalità su campi differenti e questo lo si può solo avere se la formazione mira alla trasmissione di competenze trasversali (ovvero quel tipo di competenze che possono essere spendibili).

La formazione nelle aziende non può fermarsi alla mera trasmissione di informazioni, ma partendo da essa deve auspicare un cambiamento nel comportamento dei singoli che deve tradursi in un vantaggio per tutta l’organizzazione.

Dimensione antropologica della formazione nei contesti lavorativi

Questo valore aggiunto può essere di tipo

Economico: se incide sulla qualità dei servizi offerti e sulle richieste
Organizzativo: se incide sulle dinamiche interne
Sociale: se incide sulle prospettive di sviluppo del lavoro

Però in tutto ciò si avverte ancora una matrice di stampo materialistico ed economicistico volta a considerare l’uomo come risorsa in grado di apportare miglioramenti che si trasformeranno in guadagni spesso economici. Ciò che c’è da ricercare è la matrice antropologica del contesto lavorativo. Il testo di Giorgio Bocca “Pedagogia della formazione” si pone proprio di definire all’interno della pedagogia la “pedagogia del lavoro”.

Scrive Bocca “la dimensione scientifica dell’istruzione e della formazione dunque deve necessariamente cogliersi in relazione a quella delle precomprensioni culturali di cui ogni persona è portatrice e alla sua dinamica di ricerca del senso del proprio esserci. E’ in questi termini che assume progressivamente rilievo la singola persona in quanto portatrice di una propria progettualità, oltre che di risorse utilmente spendibili all’interno di processi di apprendimento organizzativo; poiché è su di lei e sul suo diretto coinvolgimento che puntano le procedure di definizione della qualità dei prodotti e dei processi [….]”. Pertanto deve impostarsi una differente antropologia dell’uomo Lavoratore (come definisce Bocca) che lo veda come protagonista delle dinamiche e dei cambiamenti.

La parola chiave a mio avviso diventa partecipazione (e coinvolgimento da parte delle imprese).

A mio parere, però tutto ciò può risultare un po’ utopico per le grandi realtà ma di più facile realizzazione per le realtà piccole ed emergenti. Ritengo che i nuovi sistemi cooperativi con una base sociale anche molto ampia sono quelli in cui la realizzazione del lavoratore ed il suo diretto coinvolgimento possono risultare agevolati. Tornando all’esempio sopra citato, un’azienda che si faccia carico di prevenire le fonti di stress dei propri lavoratori è sicuramente un’impresa che ha fatto della pedagogia del lavoro un cardine base. Mettere il lavoratore in grado di poter attuare una relazione d’aiuto senza rimanerne coinvolto al punto tale da “perdersi” significa innanzitutto riconoscere i limiti insiti nell’essere umano, accettarlo per il suo essere persona e metterlo nelle condizioni di realizzare se stesso anche attraverso il lavoro.

L’importanza di tali esempi sono validi in quanto spesso questi discorsi restano a livello teorico o considerati pura utopia. Se dalle piccole realtà il tutto si spostasse in contesti più ampi e se ci fosse più spazio per la realizzazione del proprio sé, senza rimanere ingabbiati in strutture predefinite e preconfezionate ogni lavoratore potrebbe dare il meglio di se; soprattutto chi svolge lavori con valenza educativa potrebbe mettere davvero se stesso rendendo unico ogni relazione educativa così come unica è la PERSONA UMANA.


Un poco vero e un poco finto: l'importanza della creatività. agosto 2010


Estate: tempo di divertimento ma anche occasione per ritornare un po’ al passato, riscoprire i luoghi della propria infanzia e ripercorrere anche i sapori antichi specie dei borghi e dei piccoli paesi. E in questi luoghi si può ancora incorrere in serata dall’atmosfera magica delle feste di paese nei quali basta un teatro di legno e quattro burattini per lasciare adulti e bambini a bocca aperta.
teatro dei BurattiniIl teatro dei Burattini ha origini molto antiche un po’ come quello delle maschere e delle marionette. Entrambe queste forme di teatro avevano lo scopo di far dire ciò che non si voleva o poteva dire in prima persona anche se erano destinate ad un pubblico diverso: più colto e nobile per le marionette, più rozzo e incolto per i burattini. Forse proprio per questo i Burattini hanno sempre incontrato il favore della gente e sono stati espressione della voce del popolo che attraverso essi riusciva anche ad ironizzare sul potere. Il lavoro di burattinaio si tramanda in genere di padre in figlio.
Proprio per la loro capacità di dare voce a chi non ne ha, il burattino viene utilizzato anche come mediatore in quei contesti in cui la comunicazione può risultare difficile assumendo sempre più una valenza educativa. A differenza della maschera che porta l’attore quasi ad identificarsi con essa, burattini e marionette permettono invece il giusto distacco dal pubblico ponendosi appunto come mezzo per arrivare al pubblico pur non confrontandosi direttamente con esso.
Il burattino come dice Mariano Dolci è “un poco vero e un poco finto” nel senso che il bambino crede al burattino ma allo stesso tempo sa che è finto. Io personalmente credo che ci voglia una certa intelligenza anche emotiva che ci permetta di abbandonare per un attimo la razionalità e lasciarsi trasportare in mondi altri. Nella pratica educativa il burattino ha fatto la sua comparsa non solo nelle scuole dell’infanzia ed elementari ma anche nella riabilitazione psichiatrica. Il teatro dei burattini non si esaurisce solo nel momento della messa in scena degli spettacoli ma parte dalla creazione del burattino stesso. Nel costruire il burattino il soggetto (anche chi vive una situazione di disagio mentale) gli imprime delle sembianze, modella il suo volto, lo personalizza e tramite il volto riesce a fargli esprimere delle emozioni. Il disabile, così come anche il bambino, presta la voce al burattino e gli conferisce il movimento, lo mette in vita pur rimanendo altro da se. Inoltre durante gli spettacoli si sente protagonista pur non subendo l’impatto emotivo del doversi confrontare con il pubblico. Concordo pienamente con quello che afferma Mariano Dolci:

“Secondo me, e parlo veramente a livello personale perché penso che alcuni possono non essere d’accordo, quello che è il pregio dei burattini e delle marionette è che chi li manovra ha la tendenza a dire cose in più rispetto a quelle che direbbe a tu per tu. Questa è una cosa straordinaria se pensate alla diagnosi che hanno i bambini, ma anche con i bambini normali; con i burattini sono molto vivaci e dicono una quantità di cose che sarebbero incapaci di dire a parole. Non perché i burattini inventino chissà che, ma perché sono un altro linguaggio.”

In molti centri educativi al laboratorio dei Burattini viene riservato molto spazio in quanto esso riesce a coinvolgere tutta la Persona andando a lavorare su:

  • Dimensione cognitiva: attraverso la sceneggiatura delle storie

  • Dimensione corporea: si lavora molto sia sulla manualità nelle costruzione delle teste dei burattini in cartapesta, sia proprio a livello di coordinazione degli arti quando si muove il burattino. Il disabile impara a muovere il pupazzo con più o meno impeto a seconda di ciò che sta esprimendo e a seconda delle emozioni che deve far passare

  • Dimensione della comunicazione: il soggetto presta la propria voce al burattino e impara a dare le giuste inflessioni vocali a seconda degli stati d’animo che deve far esprimere dal burattino.

  • Dimensione della creatività: nella scelta degli abiti, nella costruzione delle scenografie etc.

Attraverso il teatro dei burattini il disabile psichiatrico riesce ad esprimere parte di se e soprattutto si sente protagonista, smette di essere il soggetto debole da proteggere o il soggetto pericoloso da rinchiudere ma diventa risorsa per la Società. Attraverso il suo lavoro, il suo impegno, la sua voce, il suo corpo ha reso possibile lo spettacolo. Ha creato un’atmosfera magica, ha riempito una serata, ha dato ai bambini la possibilità di rivivere la favola.

Nel nostro Centro lavoriamo molto anche su storie in vernacolo, secondo noi sono un bel modo di riavvicinare i bambini alle loro culture di origine, sentir pronunciare al burattino le stesse storie che magari hanno sentito raccontare dai loro nonni in dialetto permetto loro di formare anche una corretta coscienza storica.

Il bambino quando nasce non ha un’identità ma se la fa poco a poco e per conoscere la sua identitàfa quello che farebbe con tutte le cose: le prende e ci gioca. Prendere e apprendere hanno la stessa etimologia ed è abbastanza indicativo. Il bambino gioca con la sua identità. I bambini di tutto il mondo sono sempre disposti a mascherarsi, a travestirsi, a far finta di, a dire “io rimango me stesso ma facciamo finta che questa è la foresta”, e tutto questo poco a poco forma la loro identità.

(Teatro di animazione come strumento di integrazione Mariano Dolci)

Dalle mie riflessioni credo che emerga sempre l’importanza che personalmente attribuisco a tutti i giochi che stimolino la fantasia ed la creatività e la mia contrarietà ad un uso eccessivo di giochi tecnologici soprattutto in bambini troppo piccoli. Viviamo nell’epoca in cui bambini di tre o quattro anni sanno già usare il PC o il cellulare, ma siamo anche nell’epoca in cui ad una festa bambini che non si conoscono non sono in grado di socializzare tra loro perché ognuno è troppo occupato a giocare col proprio Nintendo. Ed è per questo che non smetto di sognare una Scuola che dia più spazio a laboratori creativi e se proprio devo esprimere un sogno che so che per ora resterà pura utopia, sogno che un giorno si dia spazio ai portatori di handicap fisici o mentali nelle scuole come maestri d’arte dei vari laboratori per riconoscere a loro la giusta dignità ed evitare le ingiuste discriminazioni di cui spesso sono vittime.
Creare all’interno di un ambiente protetto come può essere la scuola, un primo momento di incontro tra gli alunni e “il disabile” può rappresentare un ottimo strumento per evitare l’etichettamento e riscoprire nella persona disabile delle potenzialità e della abilità nascoste da cui poter anche imparare tecniche o procedimenti.

In questo contesto i pregiudizi o le idee stereotipate perdono di senso e vengono messe da parte per dare parola alla Persona.

 

 

Giovanna Simonetti

<///> LUCE INFINITA DELL'AMORE, DELLA COMPASSIONE, DELLA VERITA' <///>