mercoledì 15 settembre 2010

GUY DE MAUPASSANT - § * * * U N A V I T A * * * § - Ed.Integrale - Biografia

Guy de Maupassant

Henri-René-Albert-Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) è stato uno scrittore francese, nonché uno dei padri del racconto moderno.

Biografia

Nacque presso il Castello di Miromesnil[1], vicino a Dieppe, in Francia. La famiglia Maupassant era originaria della Lorena ma si spostò in Normandia intorno alla metà del XIX secolo. Il padre sposò nel 1846 una giovane donna dell'alta borghesia, Laure le Pottevin. Con il fratello Alfred, fu compagna di giochi di Gustave Flaubert, il figlio del chirurgo di Rouen, destinato ad esercitare una forte influenza nella vita di Maupassant. Fu una donna dalle non comuni doti letterarie, appassionata di classici, in particolare Shakespeare. Separata dal marito, si prese cura dei suoi due figli, Guy ed il fratello più giovane Hervé.

Fino all'età di tredici anni Guy visse con la madre a Étretat, nella Villa dei Verguies, dove tra il mare ed un entroterra lussureggiante, crebbe appassionandosi di natura e di sport da praticare all'aperto; andava a pescare con i pescatori lungo la costa e parlava patois con i contadini.



La sua educazione cominciò presso il seminario a Yvetot, da dove deliberatamente fece di tutto per farsi espellere. A causa della sua educazione di stampo religioso, sviluppò una forte ostilità nei confronti della religione. In seguito fu iscritto al Lycée du Rouen dove si dimostrò uno studente molto dotato, si dedicò alla poesia e prese parte ad alcune rappresentazioni filodrammatiche.



Non appena conseguita la laurea presso il collège nel 1870, scoppiò la guerra franco-prussiana, si arruolò come volontario e combatté con onore. Dopo la guerra, nel 1871, lasciò la Normandia e giunse a Parigi dove trascorse dieci anni come impiegato presso il Dipartimento Navale. Durante questi anni di tediosa occupazione, i soli momenti di svago li trascorreva andando in canoa sulla Senna di domenica e durante le vacanze.



Gustave Flaubert lo prese sotto la sua protezione e si comportò con lui come una sorta di protettore, accompagnandolo nel suo debutto nell'ambito del giornalismo ed in letteratura[2]. A casa di Flaubert incontrò il romanziere russo Ivan Turgenev ed il francese Émile Zola, così come molti dei protagonisti della scuola realista e naturalista. Scrisse versi interessanti e brevi operette teatrali.



Nel 1878 fu trasferito al Ministero della Pubblica Istruzione a divenne un importante curatore di giornali di successo come Le Figaro, Gil Blas, Le Gaulois e L'Echo de Paris. Dedicò il suo tempo libero alla stesura di romanzi e racconti. Nel 1880 pubblicò il suo primo capolavoro Boule de Suif, racconto che ebbe un immediato e straordinario successo. Flaubert lo definì «un capolavoro destinato a durare nel tempo».



Gli anni compresi tra il 1880 ed il 1891 sono quelli di più intenso lavoro. Divenuto famoso grazie al suo primo racconto, lavorò in modo metodico arrivando a scrivere dai due ai quattro volumi all'anno. Combinò talento e senso pratico per gli affari, doti che gli garantirono salute e ricchezza.





Tomba di Guy de MaupassantNel 1881 pubblicò il suo primo volume di racconti dal titolo La Maison Tellier, con la quale arrivò in due anni alla dodicesima edizione. Nel 1883 terminò il romanzo Une vie, vendendone 25.000 copie in meno di un anno. Il suo secondo romanzo Bel Ami, apparso nel 1885, raggiunse le 37 ristampe in quattro mesi. Harvard, il suo editore, gli commissionò nuovi romanzi. Maupassant, senza grossi sforzi, scrisse dei testi interessanti dal punto di vista stilistico, descrittivo ed estremamente profondi. Fu a quest'epoca che scrisse quello che molti critici considerano il suo vero capolavoro Pierre et Jean.



Provava una sorta di naturale avversione nei confronti della società e per questo motivo amava la solitudine e la meditazione. Viaggiò tantissimo in Algeria, Italia, Gran Bretagna, Sicilia, Auvergne e da ciascuno dei suoi viaggi tornava con un nuovo volume. Navigò moltissimo sul suo yacht privato "Bel Ami", così chiamato in onore del suo romanzo.



Dopo il 1889, lo scrittore viaggiò moltissimo, tornando di rado a Parigi. In una lettera ad un amico, confidò che ciò era dovuto al fastidio che egli provava nel vedere la Tour Eiffel, da poco inaugurata: non a caso era stato, assieme a molte altre personalità della cultura francese dell'epoca, uno dei firmatari della petizione con la quale si chiedeva di sospenderne la costruzione.



Da mettere in rilievo, che i numerosi viaggi e la febbrile attività letteraria non gli impedirono di farsi parecchi amici tra le celebrità del mondo letterario del suo tempo: Alexandre Dumas figlio; a Aix-les-Bains incontrò Taine, il quale lo affascinò profondamente.



Flaubert continuò a comportarsi come una sorte di guida letteraria. La sua amicizia con i fratelli Goncourt fu però di breve durata; il suo carattere schietto e franco mal si adattava alle esigenze dell' ambiente pettegolo, attratto dagli scandali e pieno di invidie che i due fratelli avevano creato attorno al loro gruppo.



Negli ultimi anni di vita la sua salute si deteriorò, nonostante una costituzione apparentemente robusta, e il suo equilibrio mentale entrò in crisi, per colpa, quasi sicuramente, della sifilide[senza fonte], ereditata dal padre o trasmessagli dall'occasionale rapporto con qualche prostituta. Degli stati allucinatori accompagnano la costante paura della morte. In seguito all'ennesimo tentativo di suicidio, venne internato nella clinica del dottor Blanche a Passy. Morì all'età di 43 anni, dopo diciotto mesi di incoscienza, e venne sepolto nel cimitero di Montparnasse a Parigi.



Note stilistiche

Fondatore del racconto moderno, Maupassant è stato profondamente influenzato da Zola e Flaubert, nonché dalla filosofia di Schopenhauer. I suoi racconti ed i suoi romanzi presentano spesso una satira, ora quasi feroce, ora più bonaria della piccola borghesia, guardata con un certo senso di superiorità nobiliare del piccolo nobile di recente nomina. La stupidità, la cupidigia la crudeltà e soprattutto la meschinità sono comunque nella sua opera un tratto onnipresente e trasversale ad ogni ceto sociale e spesso l' amore fisico, talvolta bestiale è rappresentato come l' unica vera parvenza di "consolazione". Questo forte pessimismo pervade tutta la sua opera.



Le sue novelle si contraddistinguono per uno stile breve e sintetico e per il modo ingegnoso in cui le singole tematiche vengono sviluppate. Alcuni dei suoi racconti vengono fatti rientrare nel genere della narrativa horror. Eccelse nell'arte della costruzione dell'intreccio, ma la sua narrazione non ha quasi mai il carattere di indagine scientifica tipica del naturalismo, né la profondità psicologica dei romanzi di Cechov e Turgenev.



Opere

1880 Boule de Suif (novella)

1881 Casa Tellier (primo volume di racconti)

1882 La signorina Fifì (novella)

1883 Una vita (romanzo)

1883 Racconti della beccaccia (volume di racconti)

1885 Bel Ami (romanzo)

1885 Viaggio in Sicilia (diario)

1887 Mont-Oriol (romanzo)

1887 L'Horla (novella)

1889 Pierre e Jean (romanzo)

1889 Forte come la morte (romanzo)

1890 Il nostro cuore (romanzo)

1890 Il Testamento (romanzo)

1890 La vita errante (resoconto di viaggio)

Il fusticino (novella)

L'Angélus (racconto incompiuto)

L'anima estranea (racconto incompiuto)

Opere teatrali

1875 Al Petalo di Rosa, casa turca

Il tradimento della contessa de Rhune

Una ripetizione

Musotte (collaborazione - dal racconto "Il figlio 1")

Yvette (incompiuta) (dall'omonimo racconto)

La domanda (incompiuta)

Sul bordo del letto

La paix du ménage (rifacimento della precedente)

Il caso di madame Luneau

La rivincita

Histoire du vieux temps

Viaggio di nozze

Tribunali campestri

Racconti [modifica]

Maupassant scrisse oltre 300 racconti. I più celebri sono:

Boule de Suif

Le sorelle Rondoli

La piccola Roque

La casa Tellier

Compare Amable

Miss Harriet

Nei campi

Notte

Il ritorno

L'Horla

Storia corsa

Le domeniche di un borghese di Parigi

Yvette

Il viaggio dell'Horla

La mano dello scorticato

Burla normanna

La serra

Idillio

Antologie che contengono suoi racconti.

Se non indicato diversamente, le raccolte contengono solo racconti di Guy de Maupassant:

1898 - Racconti della beccaccia, Milano: Sonzogno (trad. Onorato Roux)

1906 - Racconti e novelle, Milano: Fratelli Treves (trad. Pier Emilio Francesconi)

1914 - Casa Tellier ed altre novelle, Milano: Cervieri

1923 - Racconti amorosi, «L'ideale» 6, Milano: Facchi (trad. Decio Cinti)

1933 - Trenta novelle, «I grandi scrittori stranieri» 32, Torino: Utet (trad. Francesco Picco)

1935 - Le novelle, Milano: Bietti (trad. Alfredo Fabietti e Bruno Dell'Amore)

1936 - Novelle comiche, «I grandi narratori», Milano: Rizzoli (trad. Francesco Cazzamini Mussi)

1944 - Venti racconti: racconti bianchi, racconti neri, racconti della pazzia, «Il viaggiatore e la sua ombra» 1, Roma: Documento (trad. Alberto Savinio e Anna Maria Sacchetti)

1945 - Il porto e altri racconti, a cura di Camillo Sbarbaro, «Centonovelle» 6, Milano: Bompiani

1946 - Le infedeli, «Orchidea» 2, Milano: Barlon (trad. Luigi Ermete Zalapy)

1950 - La casa di madama Tellier e altri racconti, a cura di Egidio Bianchetti, «Biblioteca moderna» 121, Milano: Mondadori

1951 - Boule de suif e altri racconti, a cura di Alberto Moravia, «UE» 87, Milano: Cooperativa libro popolare (trad. Renato Fabietti)

1953 - Racconti della beccaccia, Milano: Rizzoli Editore

1955 - Le novelle, «Millepagine» in 3 volumi, Milano: Istituto editoriale italiano (trad. Egidio Bianchetti)

1956 - Tutte le novelle, «I grandi maestri illustrati» 5, Roma: Casini (trad. Mario Picchi)

1962 - Racconti del giorno e della notte, Milano: Rizzoli (trad. Oreste del Buono)

1964 - Racconti, a cura di Matilde Agnoletti Cestelli, Roma: Curci

1967 - L' inutile bellezza e altre novelle, introduzione di Arnaldo Bressan, «I capolavori» 55, Firenze: Sansoni

1967 - Novelle, a cura di Antonio Desideri, «L'oblio», Messina: D'Anna

1968 - Racconti e novelle, «I millenni» in 3 volumi, Torino: Einaudi editore (trad. Gioia Angiolillo Zannino, Viviana Cento, Ornella Galdenzi e Clara Lusignoli)

1971 - Quindici novelle, «Caleidoscopio» 59, Milano: Club degli editori (trad. Vera Gizzi)

1972 - I randagi del male (antologia di vari autori), Mondadori.

1981 - Gli eroi dell’ombra. Antologia della letteratura di spionaggio (antologia di vari autori), Mondadori contenente il racconto Due pescatori.

1982 - Racconti, a cura di Maria Teresa Nessi Somaini, «Grandi libri» 94, Milano: Garzanti (trad. Fausto Marcone e Pier Emilio Francesconi)

1983 - Racconti fantastici, a cura di Giuseppe Lippi, «Oscar Classici» 83, Milano: Arnoldo Mondatori Editore (trad. Egidio Bianchetti)

1984 - Racconti, «Capolavori della narrativa» in 2 volumi, Novara: De Agostini (trad. Sara Di Gioacchino-Corcos e Rosanna Pelà)

1985 - Racconti, Alberto Peruzzo Editore.

1988 - Racconti e novelle, «Grandi libri» 370, Garzanti Editore (trad. Mario Picchi)

1992 - Racconti fantastici, a cura di Margherita Colucci, «Il segnalibro», Napoli: Morano

1992 - Boule de suif - La maison Tellier, «Scrittori tradotti da scrittori» 43, Torino: Einaudi (trad. Mario Fortunato)

1993 - Racconti dell'incubo, a cura di Guido Davico Bonino, con un saggio di Henry James, «Tascabili» 148, Torino: Einaudi

1993 - Tutte le novelle, a cura di Maria Giulia Longhi, «Meridiani», Mondadori (trad. Mario Picchi)

1994 - Tutti i racconti neri, fantastici e crudeli, Roma: Grandi tascabili economici Newton (trad. Lucio Chiavarelli)

1994 - Il delitto di compare Boniface, Pordenone: Edizioni Studio Tesi (trad. Manuela Raccanello)

1995 - Racconti, a cura di Maria Teresa Cassini e Alessandro Castellari, Milano: Principato (trad. Mario Picchi e Maria Teresa Cassini)

1996 - Racconti di vita parigina, a cura di Guido Davico Bonino, «Tascabili» 388, Torino: Einaudi

1996 - Tutti i romanzi, introduzione di Carlo Bo, nota di Lucio Chiavarelli, «Mammut» 48, Roma: Newton Compton (trad. Catherine McGilvray, Maria Pia Tosti Croce, Luca Premi, Pietro Paolo Trompeo, Attilio Scarpellini, Lucio Chiavarelli e Maurizio Grasso)

1996 - Racconti del crimine, postfazione di Corrado Augias, «Tascabili» 198, Torino: Einaudi

1997 - Romanzi, a cura di Arnaldo Colasanti, «Grandi classici» 44, Milano: Mondadori

1999 - Passione fatale. Venticinque racconti d'amore dell'Ottocento (antologia di vari autori), a cura di Guido Davico Bonino, Torino: Einaudi, contenente il racconto La felicità

2001 - Racconti, a cura di Lidia Pescarmona, «Gli anemoni», Milano: Principato

2004 - Racconti, a cura di Marco Romanelli, Torino: Agorà (trad. Luciano Tamburini)

2005 - Tutte le novelle e i racconti, «Mammut», Newton Compton Editori

2006 - Casa di piacere e altri racconti, «Classici per tutti», Milano: Baldini Castoldi Dalai (trad. e introduzione Giancarlo Buzzi)

2007 - Racconti d'amore, a cura di Giacomo Magrini, «ET» 347, Torino: Einaudi (trad. Natalia Ginzburg)

Note:

1.^ Il luogo esatto di nascita di Maupassant è stato spesso al centro di dispute. I critici Lèon Luis Deffoux e Emile Zavie (Le Groupe de Médan, Crès, 1925) e Georges Normandy (Maupassant, Rasmussen, 1926), basandosi su testimonianze orali, affermarono che Maupassant sarebbe nato a Fecamp in via Sous-le-Bois, 98 (oggi quai Guy de Maupassant) presso la nonna materna. Tuttavia l'atto di nascita riporta chiaramente come luogo di nascita il castello di Miromesnil e, anche sulla base di ulteriori considerazioni, Louis Forestier, curatore della pubblicazione delle opere dell'autore nella Bibliothèque de la Pléiade, ritiene completamente chiusa la questione a favore di Miromesnil. Un'ulteriore fonte di dubbio è però dovuta all'atto di morte che riporta "Acte de décès de Henri-René-Albert-Guy de Maupassant, âgé de quarante-trois ans, homme de lettres, né à Sotteville près Yvetot (Seine-Inférieure)", fissando dunque il luogo di nascita nelle vicinanze di Yvetot (Sotteville è un nome molto comune in Normandia, nella sola Senna marittima tre località portano questo nome). Sembra tuttavia ormai chiaro che si tratta di un errore di trascrizione, infatti la Sotteville indicata sarebbe in realtà una corruzione di Sauqueville e infatti il castello di Miromesnil è a metà strada tra Sauqueville e Tourville-sur-Arques.

2.^ Il diario dei Goncourt ovvero le avventure erotiche dei grandi scrittori
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Guy de Maupassant












UNA VITA



















Capitolo 1









Giovanna, fatte le valigie, si avvicinò alla finestra: che insistenza, la pioggia!



L'acquazzone aveva battuto per tutta la notte sul lastricato e sui tetti. Il cielo basso, carico d'acqua, sembrava rompersi e vuotarsi sopra la terra; e spappolarla, la terra, fonderla come zucchero. Passavano raffiche piene d'un calore pesante. Il mugghiare dei ruscelli straripati riempiva le strade deserte là dove le case bevevano l'umidità come spugne; l'umidità che invade gli interni e fa sudare i muri dalla cantina al solaio.









Giovanna era appena uscita di convento; ormai liberata per sempre, pronta a cogliere tutte le gioie della vita che sognava da così gran tempo. Ora temeva che suo padre esitasse a partire se il cielo non si schiariva, e interrogava l'orizzonte senza sosta, fin dal mattino. Poi, non appena si accorse che aveva dimenticato di mettere il suo calendario nella borsa da viaggio, staccò dal muro il piccolo cartone diviso per mesi, che aveva in mezzo a un ghirigoro la data dell'anno in corso, 1819, in cifre dorate; e cancellò con la matita le prime quattro colonne radiando ciascun nome di santo fino al 2 maggio: giorno della sua uscita dal convento.









"Giannetta!" chiamò una voce, dietro la porta.









"Entra, papà." E comparve il papà.









Il barone Simone Giacomo Le Perthuis des Vauds era un gentiluomo dell'altro secolo: un po' maniaco, ma buono. Discepolo entusiasta di Gian Giacomo Rousseau, aveva vere tenerezze d'amante per campi, boschi e bestie. Aristocratico di nascita, odiava per istinto il Novantatré; ma, filosofo per temperamento e liberale per educazione, perseguiva la tirannia d'un odio inoffensivo, declamatorio. La bontà era la sua grande forza e la sua grande debolezza: una bontà che non aveva abbastanza braccia per accarezzare, stringere, donare: una bontà da creatore, diffusa e senza resistenza, simile al torpore d'un nervo della volontà, a una lacuna dell'energia, quasi un vizio. Uomo teorico, egli meditava tutto un piano d'educazione per sua figlia, volendola felice, retta e sensibile.









Giovanna era rimasta in casa fino ai dodici anni: poi, malgrado le lacrime materne, l'avevano chiusa in convitto. Lui l'aveva voluta al Sacro Cuore, in clausura, ignorata e ignorante di tutto; affinché gliela rendessero casta a diciassette anni quando l'avrebbe temprata egli stesso in una specie di bagno di poesia ragionevole, aprendo quell'anima, istruendo quell'ignoranza ponendola davanti davanti all'amore semplice, alle tenerezze naturali delle bestie, alle leggi serene della vita.









Usciva intanto dal chiuso, raggiante, piena di vivacità e di desiderio, pronta a tutte le gioie, a tutti i casi piacevoli che il suo spirito aveva già percorso nell'ozio dei giorni, nella lunghezza delle notti, nella solitudine delle speranze. Sembrava un ritratto del Veronese; coi capelli d'un biondo lucente che si sarebbe detto un po' scolorito sulla sua carne ombrata come da una leggera peluria, di una specie di pallido velluto che era il sole a svelare, lambendolo. I suoi occhi erano azzurri, di quell'azzurro opaco degli occhi di certe statuette di porcellana olandese. Aveva anche un piccolo neo sull'aletta sinistra delle narici; un altro a destra, sul mento, dove si arricciavano alcuni peli così somiglianti alla sua pelle che si distinguevano appena.









Alta, col petto maturo, ondeggiava un poco nel corpo. La sua voce chiara sembrava talvolta troppo acuta; ma il suo riso schietto diffondeva tutt'intorno la gioia. Spesso, con un gesto consueto, portava le mani alle tempie come per lisciarsi i capelli.









Ora Giovanna corse incontro a suo padre, e lo abbracciò:



"Bene, si parte?" Egli sorrise, scosse i capelli che portava assai lunghi, già bianchi, e accennò la finestra.









"Partire con un tempo simile?" "Oh, papà" pregava carezzevole e tenera. "Farà bello dopo mezzogiorno. Andiamo, andiamo!" "Ma tua madre certamente non..." "Sì, sì. Vuole. Me ne incarico io." "Be', se riesci a convincere mamma..." Giovanna si precipitò verso la camera della baronessa; perché aveva atteso il giorno della partenza con un orgasmo sempre più forte. Dopo la sua entrata al Sacro Cuore, non aveva più lasciato Rouen, non permettendole il padre alcuna distrazione prima dei diciassette anni fissati. Due volte soltanto l'avevano portata un paio di settimane a Parigi, ma Parigi era ancora una città e lei sognava soltanto la campagna. Ora andava a passare l'estate nella tenuta dei "Pioppi", vecchio castello di famiglia situato sulla scogliera presso Yport, e si riprometteva una gioia infinita da quella vita libera sul mare. Era anche stabilito che le si sarebbe fatto dono di questo castello dove avrebbe abitato da sposa. E la pioggia che cadeva senza sosta dalla sera prima le dava il primo vero dispiacere della sua vita.









Di lì a poco usciva di corsa dalla camera di sua madre gridando per tutta la casa:



"Papà, papà! Fa attaccare! Mamma è contenta, è contenta!" Continuava il mal tempo. Sembrava anzi che raddoppiasse la pioggia quando il calesse si fermò davanti alla porta.









Giovanna metteva il piede sul montante e la baronessa scendeva le scale fra il marito e una robusta cameriera che la sostenevano.









Rosalìa, la cameriera vigorosa come un giovanotto, una normanna del paese di Caux, dimostrava almeno vent'anni benché non ne avesse più di diciotto. In famiglia la trattavano un po' come una seconda figlia, perché era stata la sorella di latte della padroncina. La sua mansione principale era di guidare i passi della signora divenuta enorme da qualche anno, in seguito a un'ipertrofia di cuore della quale la poveretta si lamentava ormai senza requie.









Quando la baronessa raggiunse ansimando la scalinata del vecchio palazzo, guardò nel cortile dove l'acqua scorreva a ruscelli e sostenne che, veramente, non era ragionevole partire.









Il marito, sempre sorridente, intervenne:



"Ma non siete voi, madama Adelaide, che avete dato il permesso?" Poiché aveva questo nome pomposo, lui la chiamava sempre "madama Adelaide" con una certa aria di rispetto un po' motteggiante.









Quindi lei riprese a muoversi e salì con fatica sulla carrozza facendone piegare le molle. Il barone si sedette al suo fianco; Giovanna e Rosalìa presero posto sul seggiolino di fronte.









La cuoca Liduina portò un mucchio di mantelli da mettere sulle ginocchia, poi due panieri da nascondere sotto le gambe, e si arrampicò fino a papà Simone, a cassetta, e qui si avviluppò in un'ampia coperta che la nascose quasi del tutto. Il portiere e sua moglie vennero a salutare chiudendo poi lo sportello, ricevettero le ultime raccomandazioni per le valigie che dovevano seguire in un carro: e si partì.









Simone, il cocchiere, con la testa abbassata, il dorso curvo sotto la pioggia, scompariva nel suo soprabito a triplice collaretto. La burrasca batteva i vetri, inondava la strada. Al trotto dei due cavalli, la berlina scese veloce lungo il ciglio, costeggiò la linea delle grandi navi i cui pennoni e cordami si alzavano tristi nel cielo piovoso simili ad alberi spogli, e si inoltrò sul bastione del monte Riboudet. Le praterie furono oltrepassate; e man mano un salice fradicio, coi rami cascanti in un abbandono cadaverico, si incideva forte attraverso un turbine d'acqua. I ferri dei cavalli scalpicciavano e le quattro ruote lanciavano girandole di fango.









Tutti tacevano: anche gli spiriti parevano in ammollo come la terra. Mammina, riversata all'indietro, appoggiò la testa e chiuse gli occhi; il barone osservava con occhio malinconico la campagna monotona così flagellata; Rosalìa, un pacchetto sulle ginocchia, sognava con la fantasticheria quasi animale della gente del popolo. Ma Giovanna, sotto la pioggia tiepida, si sentiva rivivere come una pianta che dal chiuso viene portata alla luce, e l'intensità della sua gioia era una specie di fogliame che riparasse il suo cuore dalla tristezza. Benché non parlasse, aveva voglia di cantare, di stendere fuori la mano per riempirla d'acqua da bere, e gioiva di essere portata via al gran trotto, seguendo la desolazione del paesaggio, sentendosi, in mezzo a quell'inondazione, al coperto.









Sotto la pioggia incessante le groppe lucenti delle due bestie esalavano un vapore come d'acqua bollente. La baronessa, a poco a poco, si era addormentata. La sua faccia incorniciata da sei riccioli regolari e pendenti si ripiegò mollemente sostenuta da tre ampi giri di pappagorgia le cui ultime ondulazioni si perdevano nel pieno mare del seno. La testa si sollevava ad ogni respiro ma ricadeva subito in giù; le guance si gonfiavano quando, fra le labbra socchiuse, passava un sonoro russìo. Il marito si piegò verso di lei e insinuò pian piano un piccolo portafogli di cuoio fra le mani incrociate sul gran ventre. La signora al contatto si sveglia, guarda l'oggetto con uno sguardo assente, con l'ebetudine dei sonni interrotti: monete d'oro, biglietti di banca vanno qua e là per il calesse. Si sveglia del tutto; la gaiezza della figliola esplode in uno scoppio di risa; il barone raccoglie il denaro e lo rimette in grembo alla dama.









"Amica mia, ecco ciò che rimane della fattoria di Életot. L'ho venduta per i restauri dei "Pioppi": ai "Pioppi", d'ora in poi, resteremo molto più spesso." La signora contò seimila quattrocento franchi; e se li mise in tasca tranquilla.









Era la nona fattoria delle trentuno ereditate dai vecchi. Adesso possedevano ancora circa ventimila "lire" di terreni, che, bene amministrati, avrebbero reso facilmente trentamila franchi l'anno.









Poiché essi vivevano senza sfarzo, questa rendita avrebbe potuto bastare; ma c'era in casa un buco senza fondo, sempre aperto, e cioè la bontà che prosciugava il danaro nelle loro mani come il sole prosciuga l'acqua degli stagni. Colava, fuggiva, spariva...









In che modo? Nessuno sapeva. Uno dei due diceva a un certo momento: "Non so come sia, ma oggi mi ci sono andati cento franchi senza aver fatto una spesa importante". Questo di dare era d'altronde, per loro, una delle grandi felicità della vita: e si intendevano, su questo punto, magnificamente.









"E' dunque bello adesso il mio castello?" chiedeva intanto Giovanna. Egli rispose allegro:



"Bambina: vedrai." Diminuiva a poco a poco la violenza dell'uragano; non fu più che una specie di nebbia, una fine polvere di pioggia che volteggiava.









L'arco delle nuvole sembrava alzarsi e impallidire: poi, improvvisamente, un lungo raggio di sole obliquo scese sulle praterie attraverso uno strappo invisibile. Rotte le nubi, il fondo azzurro del firmamento apparve, lo squarcio si ingrandì come un velo che si sbrindelli, e un cielo puro d'un azzurro fresco e profondo si stese tutto sul mondo. Un soffio dolce e vivace passò come un sospiro felice sulla terra, e costeggiando boschi e giardini si udiva talvolta il canto d'un uccellino che si asciugava le piume.









Scendeva la sera. Tutti dormivano, ora, nella vettura: meno Giovanna. Ci si fermò due volte: per lasciar riposare i cavalli, per dar loro acqua ed avena.









Il sole era tramontato. Suonavano campane lontane. In un villaggetto si accese qualche fanale: si accese un formicolìo di stelle nel cielo. Case illuminate apparivano qua e là, di quando in quando: ma, improvvisamente, sorse la luna, rossa, enorme, come intorpidita dal sonno, dietro la collina, tra i rami dei pini.









L'aria era così tiepida che i vetri potevano restare abbassati.









Ora Giovanna si riposava, esaurita dai sogni, sazia di visioni felici. Talvolta l'intorpidimento d'una posizione prolungata le faceva riaprire gli occhi, e allora guardava fuori, nella notte luminosa, e vedeva passare gli alberi d'una fattoria o anche mucche sdraiate in un campo, qua e là, che alzavano il muso.









Cercava una posizione nuova, provava a riprendere un sogno appena cominciato, ma il rotolìo della vettura le riempiva gli orecchi, le affaticava il pensiero, così che riabbassava le palpebre, stanche le membra, lo spirito stanco.









La vettura si ferma. Uomini, donne davanti agli sportelli, con lanterne. Arrivati! Giovanna salta giù prontamente, destata come di soprassalto. Un mezzadro fa luce al papà e a Rosalìa che portano quasi di peso la povera baronessa estenuata, tutta un lamento: "Ah mio Dio! oh miei poveri figlioli!". E non vuol bere, non vuol mangiare, non vuol saperne di nulla: si corica e si addormenta, di colpo.









Padre e figlia mangiano soli. Si guardano, si sorridono, si prendono le mani attraverso la tavola, e, invasi entrambi da una gioia infantile, decidono di visitare il castello. Una di quelle vaste dimore normanne, di pietra bianca divenuta grigia, un po' castello, un po' fattoria, con tanto spazio da alloggiare tutta una stirpe: un immenso vestibolo che divide la casa in due parti e l'attraversa da una parte all'altra aprendo le sue grandi porte sui lati: una vasta scalinata che sembra allargare questo atrio e lascia vuoto il centro unendo al primo piano le sue due rampe a mo' di ponte. Al piano terreno, a destra, si entra nel salone immenso, tutto tappezzerie a foglie in cui uccellini allegri svolazzano. L'arredo in tappezzeria a mezzo punto non è che una rappresentazione delle favole di La fontaine: e Giovanna ha un sussulto di piacere ritrovando una poltrona, amata fin da piccina, con la storia della Volpe e della Cicogna. Di fianco al salone si aprono la biblioteca zeppa di vecchi libri e due altre stanze inutilizzate; a sinistra la sala da pranzo col tavolo nuovo, e poi guardaroba, credenza, cucina, un piccolo appartamento col bagno.









Un corridoio taglia per il lungo tutto questo piano: dieci porte di dieci camere si allineano su questa sfilata. In fondo, a destra, ecco l'appartamento di lei. Padre e figlia ci entrarono.









Egli l'aveva fatto rimettere a nuovo impiegando soltanto mobili e parati rimasti per lungo tempo in solaio.









Vecchie tappezzerie di tipo fiammingo popolavano questo luogo di personaggi molto curiosi. Ma appena scorse il suo letto, la fanciulla lanciò un grido di gioia. Ai quattro lati, quattro grandi uccelli di quercia, neri e lucenti di cera, reggevano il letto e sembrava ne fossero i custodi; i fianchi simulavano due larghe ghirlande di fiori e frutta scolpiti; quattro colonne finemente scanalate terminavano in capitelli corinzi e sollevavano una cornice formata da un intreccio di amorini e di rose. Letto monumentale, eppure grazioso, malgrado la severità del legno annerito dal tempo. Lo strapuntino e l'arco del cielo scintillavano come due firmamenti. Erano di seta antica il cui azzurro, densissimo, si costellava di grandi gigli ricamati in oro.









Dopo aver molto ammirato il suo letto Giovanna sollevò il lume ed esaminò le tappezzerie per capirne bene il soggetto. Un giovin signore e una giovane dama vestita di verde, di rosa, di giallo, nel modo più stravagante, parlano sotto un albero turchino su cui maturano candidi frutti. Un grosso coniglio dello stesso colore mangia un po' di erba grigia. Al di sopra dei due personaggi, in una lontananza convenzionale, cinque casine tonde, acuminate, e più in alto, quasi nel cielo, un bel mulino a vento, tutto rosso.









Si insinuano per tutta questa rappresentazione grandi ramificazioni di fiori.









Gli altri due pannelli somigliano al primo; eccetto per il fatto che si vedono uscire dalle case quattro omuncoli vestiti alla fiamminga aprendo le braccia al cielo con meraviglia e grande collera. Poi viene il dramma. Accanto al coniglio che bruca, il giovanotto steso a terra sembra morto, nell'ultimo pannello. La dama lo guarda e si trapassa il petto con una spada: e in cima all'albero i frutti diventano neri. Che vuol dire ciò? Giovanna rinuncia a capire; ma poi scopre in un angolo una bestiolina microscopica che il coniglio, se vivo, potrebbe mangiarsi come un filo d'erba: ed è invece un leone. Allora comprende: la leggenda di Piramo e di Tisbe! E quantunque sorrida della semplicità del disegno, si sente felice di essere mescolata a questa avventura d'amore che parlerà al suo cuore di care speranze e farà librare ogni notte, sopra il suo sonno, quell'antica leggendaria mollezza.









Tutto il resto dei mobili riunisce gli stili più vari: mobili che ogni generazione lascia dietro di sé e fanno d'ogni vecchia casa una specie di museo dove si mischia un poco di tutto. Un superbo cassettone Luigi Quattordici, tutto corazzato di rame splendente, è fiancheggiato da due poltrone Luigi Quindici ancora coperte della loro seta a mazzetti. Ecco un armadio di legno di rosa di fronte al camino che presenta una pendola dell'Impero, sotto il suo globo rotondo, e questa pendola è un'arnia di bronzo sorretta da quattro colonnine di marmo al di sopra d'un giardino dai fiori dorati. Il sottile pendolo esce dall'alveare per una lunga fessura e fa dondolare eternamente su quel giardino una piccola ape dalle ali di smalto. E il quadrante di maiolica dipinta è incastrato nel fianco dell'alveare.









La pendola scatta. Le undici. Il barone abbraccia sua figlia; si ritira poi in camera sua. Giovanna va a letto, non senza rammarico. Accarezza con un ultimo sguardo la stanza, e spegne il lume. Il letto si appoggia al muro con la sola testata, e sulla sinistra ha una finestra da cui entra un fascio di raggi che si allarga, a terra, in una bella chiazza lunare. Riflessi sono rimbalzati sui muri: riflessi che accarezzano dolcemente gli immobili amori di Tisbe e di Piramo. Dall'altra finestra, di fronte ai suoi piedi, Giovanna scorge un grande albero tutto inondato da una luce tenue. Si gira verso il piano, chiude gli occhi, ma poi li riapre. Crede di sentirsi ancora scossa dai sobbalzi della vettura che sembra riprodurre o continuare il suo rotolio in quella testolina. Tuttavia resta immobile sperando di favorire il sonno; ma ormai tutto il suo corpo è invaso dall'irrequietezza del suo spirito, qualcosa come uno spasimo alle gambe, un'agitazione febbrile, che cresce, cresce. Allora si alza e, a piedi nudi, a braccia nude, con la sua lunga camicia che le dà un aspetto di fantasma, attraversa la macchia di luce sul pavimento, apre la finestra, guarda nella chiarore della notte, riconosce come in pieno giorno il paesaggio amato fin dalla più tenera infanzia. Ha di fronte a sé un largo piano erboso, giallo come il burro, sotto la luce notturna: due alberi giganti si ergono ai lati davanti al castello (a sud un tiglio, un platano a nord): in fondo alla verde distesa un piccolo fitto bosco segna il limite della tenuta che ha per difensori, durante gli uragani, quei grandi antichi olmi in cinque file, quegli alberi enormi, contorti, rasati, logorati, tagliati in discesa come un tetto dagli scatenati venti del mare. Questa specie di parco è limitato a destra e a sinistra da due lunghi viali di pioppi smisurati, chiamati "popoli" in Normandia, che separano la residenza padronale da due fattorie attigue (questa occupata dai Couillard, l'altra dalla famiglia Martin), e sono questi "popoli" che hanno dato il nome al castello. Al di là dei pioppi si stende un vasto piano incolto, cosparso di canne, dove la brezza giorno e notte fischia e galoppa: poi, di colpo, la spiaggia si imbatte in una costiera scoscesa di cento metri, bianca e diritta che bagna il piede nel mare.









Giovanna guarda lontano la lunga superficie ondulata dei flutti che sembrano dormire sotto le stelle. In quella calma di sole assente tutti i profumi della terra si diffondono intorno: il gelsomino arrampicato ai balconi esala il suo alito penetrante che si mischia all'odore molto più lieve delle foglie che nascono:



lente ventate portano il sentore forte dell'aria salina e dell'umore vischioso delle alghe: e la fanciulla si abbandona alla gioia di respirare e il riposo della campagna la calma come un bagno fresco. Tutti gli animali che si svegliano quando arriva la sera e nascondono la loro oscura esistenza nella tranquillità della notte, riempiono la semioscurità di un'agitazione silenziosa. Grandi uccelli muti fuggono per l'aria come macchie, come ombre: ronzii di insetti invisibili sfiorano gli orecchi:



corse mute traversano l'erba piena di rugiada o la sabbia dei sentieri deserti: solo qualche rospo malinconico manda alla luna il suo verso breve e monotono. Il cuore di Giovanna sembra che si allarghi pieno di mormorii proprio come quella notte chiara, formicola di mille desideri vagabondi simili a quegli animali notturni il cui fremito la circonda tutta; come un'affinità la unisce a quella poesia vivente, e sul molle candore notturno si sente tutta percorsa da brividi sovrumani, palpiti di speranze inafferrabili, qualcosa come un soffio di felicità. Comincia a sognare d'amore...









L'amore! Da due anni la riempie con l'ansia del suo dolce muto avvicinarsi. Ormai è libera di amare e le rimane soltanto da incontrare "lui". Come, come sarà? Non sa, non si chiede. "Egli" sarà "lui": ecco tutto. Sa soltanto che lo adorerà con tutta l'anima e che lui le risponderà con passione. Nelle notti simili a questa passeggeranno sotto il pulviscolo luminoso delle stelle e andranno così, con la mano nella mano, stretti stretti, sentendo il calore delle loro spalle, mescolando il loro amore alla limpidezza soave delle notti d'estate, talmente uniti che per sola forza di tenerezza penetreranno senza fatica nei loro pensieri più nascosti: e ciò continuerà all'infinito nella serenità d'un affetto indicibile. Le sembra di averlo lì, di sentirlo contro il suo petto, e bruscamente un vago brivido di sensualità l'attraversa dai piedi ai capelli. Stringe le braccia al seno con un movimento incosciente come per spegnere il sogno, mentre sulle sue labbra tese verso l'ignoto passa qualcosa che la fa quasi svenire come se il soffio della primavera le avesse dato un bacio d'amore.









D'un tratto, laggiù, sulla strada dietro il castello, sente un calpestìo nella notte, e in uno slancio dell'anima esaltata, in un trasporto di fede nell'impossibile, nei casi della provvidenza, nei presentimenti divini, nelle combinazioni della sorte, Giovanna pensa a lui che cammina sulla strada dietro il castello. Dio, fosse lui! Ansiosa, ascolta quel passo; con la certezza che egli si fermerà al cancello chiedendo ospitalità. Ma no, il viandante è passato, e lei è triste come dopo un crudele disinganno. Poi ancora sorride della sua follia, comprende l'esaltazione del suo spirito, lascia, calma, navigare il suo spirito in una fantasticheria più ragionevole, cerca di penetrare l'avvenire architettando la sua stessa esistenza. Con lui vivrà qui dentro, in questo castello tranquillo che domina il mare. Avrà due figlioli: il maschio per lui, per sé la mimmina. E già li vede correre sull'erba, tra il platano e il tiglio, seguiti dagli sguardi estatici della madre e del padre che si scambiano occhiate piene di passione al di sopra delle due testoline. Così fantastica a lungo mentre la luna compie il suo cammino nel cielo fino a scomparire nel mare. L'aria è più fresca. Impallidisce l'orizzonte, a oriente. Canta un gallo nella fattoria di destra:



altri rispondono dalla fattoria di sinistra. Voci rauche che sembrano venire da molto lontano, attraverso i muri dei pollai; e già le stelle spariscono nell'immenso arco del cielo albeggiante.









Un piccolo grido di uccello. Escono dalle foglie mormorii timidi timidi, si fanno più arditi, diventano più vibranti, più allegri, di ramo in ramo, di albero in albero. E lei è già in piena luce.









Alza la testa china sulla cavità delle palme, richiude gli occhi abbagliata da quello splendore di aurora. Una montagna di nubi purpuree, nascoste in parte dietro il gran viale dei pioppi, getta bagliori di sangue sulla terra così risvegliata. Appare a poco a poco l'immenso globo fiammeggiante, rompendo le splendide nuvole, crivellando di fuoco gli alberi, i piani, l'oceano, tutto l'orizzonte. E Giovanna è folle, è felice. Una gioia delirante, un intenerimento infinito dinanzi al fulgore delle cose inonda il cuore, e il cuore viene meno. E' il suo sole! E' la sua aurora! E' il principio della sua vita! E' la nascita delle sue speranze!



Tende le braccia verso lo spazio radioso col desiderio di abbracciare il sole volendo parlare e gridare qualcosa di divino come quel prorompere del giorno, ma resta inerte, paralizzata in un entusiasmo impotente. Allora posa la fronte sulle mani, sente i suoi occhi pieni di lacrime, e piange, piange: piange e gode il suo pianto.









Quando rialza la testa, il grande spettacolo del giorno nascente è già finito. Si sente esaurita, infreddolita, un po' fiacca, e senza chiudere la finestra si stende sul letto, sogna ancora qualche minuto, si addormenta così profondamente che alle nove non sente la chiamata del padre e non si sveglia che quando egli è qui, nella stanza.









Il padre voleva mostrarle gli abbellimenti del castello, del "suo" castello. La facciata che dava sull'interno dei terreni era separata dalla strada da un vasto cortile disseminato di meli: la strada, detta vicinale, che passava fra i muri dei contadini e raggiungeva, una mezza lega più lontano, la grande strada dall'Havre a Fécamp. Una viale diritto raggiungeva la scalinata partendo dall'orlo del bosco. I locali di servizio, piccoli fabbricati in rocce marine, coperti di stoppie, si allineavano ai due lati del cortile, lungo i fossati delle due fattorie.









I tetti erano nuovi, le serramenta erano state rifatte, i muri riparati, le camere ritappezzate, tutto l'interno ridipinto. E il vecchio scuro castello portava, come macchie, le imposte fresche di un bianco argenteo e le sue recenti intonacature sulla grande faccia grigiastra. L'altra facciata, quella su cui si apriva la finestra di Giovanna, guardava il mare lontano, sopra al boschetto e alla muraglia di olmi rosi dal vento.









Padre e figliola visitarono tutto, senza tralasciare nemmeno gli angoletti; passeggiarono lentamente nel viale dei pioppi che chiudevano quel che si chiamava "il parco". L'erba era spuntata sotto gli alberi stendendovi il suo verde tappeto, e in fondo il boschetto grazioso arruffava i suoi sentieruoli tortuosi, separati come da tramezzi di fogliame. Una lepre schizzò bruscamente (Giovanna ne fu impaurita) e se la batté fra le canne marine, verso la spiaggia.









Dopo colazione, poiché la signora Adelaide, ancora estenuata, avvertì che andava a riposarsi, il barone propose di scendere fino a Yport. Partirono padre e figlia attraversando subito il piccolo villaggio di Etouvent dove si trovavano i "Pioppi" (tre contadini li salutarono come se li avessero sempre conosciuti), poi entrarono nei boschi in discesa che si abbassavano fino al mare seguendo una vallata tortuosa. Ed ecco Yport. La strada inclinata, con un ruscello nel mezzo e mucchi di rifiuti dinanzi alle porte, esalava un acuto odore di salamoia. Donne sulle soglie che raccomodavano i loro poveri cenci guardarono quella coppia passare. Reti brunastre, dove erano rimaste scaglie lucenti simili a pagliuzze d'argento, si asciugavano contro le porte delle casupole da cui uscivano gli odori delle famiglie numerose brulicanti in una camera sola. Qualche colombo passeggiava sull'orlo del ruscello in cerca del cibo. Giovanna si interessava a tutto; tutto le sembrava curioso e nuovo come una scena di teatro. Ma improvvisamente, svoltato un muro, scorse il mare, d'un blu opaco e liscio che si stendeva a perdita d'occhio.









Si fermarono sulla spiaggia, a guardare. Passavano al largo vele bianche come ali di uccelli: la scogliera, enorme, a destra o a sinistra: una specie di promontorio chiudeva la vista da un lato mentre dall'altro la linea della costa si prolungava indefinitamente fino a non essere più che una linea, Un segno appena segnato. Appariva un porto, altre case, in una delle spaccature più prossime, e le tre piccole ondicine che guarnivano il mare di frangette schiumose rotolavano sui sassolini con un leggero mormorìo. Le barche paesane, tirate a secco sul pendìo del ghiareto, riposavano su un fianco offrendo al sole le loro guance rotonde spalmate di pece. I pescatori le stavano preparando per la marea della sera.









Un marinaio si avvicinò presentando i suoi pesci, e Giovanna acquistò un grosso rombo che voleva portare ai "Pioppi" lei stessa. Allora l'uomo offrì i suoi servigi per le passeggiatine in barca, ripetendo il suo nome spiccatamente, in modo da farlo entrar bene in mente ai signori.









"Lastique, Peppino Lastique." Il barone promise di non dimenticarlo. Poi padre e figliuola ripresero la via del castello; e siccome il grosso pesce affaticava Giovanna, gli passò nelle branchie il bastone paterno, e ciascuno ebbe la sua estremità. Così essi andavano allegri risalendo la costa, chiacchierando come due ragazzi, la fronte al vento, gli occhi brillanti, mentre il rombo affaticava il loro braccio, a poco a poco, spazzando l'erba con la coda grassa.





















Capitolo 2









Una esistenza piacevole e libera cominciò per Giovanna. Leggeva, sognava, girellava, sola sola, nei dintorni, o vagava lenta lungo le strade, con lo spirito perduto dietro le sue fantasticherie, oppure scendeva sgambettando per le piccole valli tortuose le cui groppe portavano, come una cappa d'oro, un vello di fiori di giunco. Il loro odore dolce e penetrante, esasperato dal calore, la inebriava come un vino profumato, così che lei cullava il suo spirito al sussurro lontano delle ondicine che rotolavano sulla spiaggia, anzi a quest'ultima ondata. La stanchezza a volte la faceva cadere sull'erba fitta di un pendìo: a volte, quando scopriva di colpo dopo una svolta, in un'insenatura, un triangolo di mare turchino, scintillante al sole e con una vela all'orizzonte, allora Giovanna provava una gioia disordinata, come al misterioso avvicinarsi di una felicità librata su lei. L'amore della solitudine la afferrava nella dolcezza del fresco paese, nella calma del morbido orizzonte, e restava così a lungo seduta in cima alle alture che i piccoli conigli selvatici venivano a saltellarle tra i piedi.









Spesso si metteva anche a correre sulla scogliera sferzata dall'aria della costa, tutta vibrante della gioia squisita di potersi muovere come i pesci nell'acqua, come le rondini nell'aria. Ovunque seminava ricordi come si getta il seme sulla terra; ricordi le cui radici resistono fino alla morte; e le sembrava di gettare in quei luoghi anche un po' del suo cuore. Poi cominciò a bagnarsi con passione. Nuotava a perdita d'occhio, forte e ardita com'era, senza coscienza del pericolo. Si sentiva bene in quell'acqua fredda, limpida e azzurra che la portava con sé, la cullava. Quand'era lontana dalla spiaggia, si metteva supina, le braccia incrociate sul petto, gli occhi perduti nell'azzurro fondo del cielo rapidamente attraversato dal volo di una rondine, dal biancore di un uccello marino. Non si udiva più alcun rumore, se non il mormorìo lontano della risacca o un vago bisbiglio della terra che sembrava scivolasse nell'ondulazione dei flussi: ma confuso, pressoché inafferrabile. Poi Giovanna si sollevava e in un impeto di gioia gettava grida acute sbattendo l'acqua con tutte e due le mani. Se si avventurava troppo lontano, una barca veniva a cercarla. Rientrava al castello pallida per la fame, ma leggera, ilare, snella, il sorriso sulle labbra, la perfetta letizia negli occhi.









Intanto il barone meditava grandi imprese agricole, voleva fare esperimenti, seguire il progresso, provare nuovi strumenti, acclimatare piante straniere, e passava buona parte della giornata a discutere coi contadini che scrollavano la testa un po' increduli. Spesso andava anche per mare, coi marinai d'Yport.









Quando ebbe visitato le grotte, le fontane e le guglie dei dintorni egli volle pescare come un semplice marinaio.









Nei giorni di brezza, quando la vela piena di vento fa correre sul dorso delle onde il guscio gonfio delle barche che trascinano fino in fondo al mare la gran lenza sfuggente che le schiere degli sgombri inseguono, egli teneva fra le dita tremanti per l'ansia la cordicella che si sente vibrare appena un pesce preso si dibatte.









Partiva al chiaro di luna per alzare le reti calate alla vigilia; amava sentir scricchiolare l'albero della nave, respirare le raffiche fischianti e fresche della notte; e dopo aver lungamente bordeggiato per ritrovare i gavitelli dirigendosi verso una cresta di roccia, verso la cima di un campanile o verso il faro di Fécamp, godeva a restare immobile sotto i raggi del sole che si levava e faceva brillare sul ponte del battello la groppa viscida delle larghe razze a ventaglio o il ventre grasso dei rombi.









A tavola egli raccontava con entusiasmo le sue passeggiate, e mammina in compenso gli narrava quante volte aveva percorso il gran viale dei pioppi, quello di destra, confinante con la fattoria dei Couillard, non avendo l'altro abbastanza sole. Poiché le avevano raccomandato di "far del moto" si accaniva a camminare.









Appena il fresco della notte si era dissipato, scendeva appoggiata al braccio di Rosalìa, avvolta in un mantello e due scialli, la testa riparata da un cappellino nero che riparava a sua volta una rossa cuffietta. Allora, trascinando il piede sinistro, un po' più pesante, e dopo aver seguito per tutta la lunghezza del viale, l'uno all'andata, l'altro al ritorno, due solchi polverosi dove l'erba era morta, la poveretta ricominciava senza fine l'interminabile viaggio in linea retta dall'angolo del castello fino ai primi arbusti del boschetto. Aveva fatto collocare una panchetta a ciascuna estremità di questa pista e ogni cinque minuti si arrestava dicendo all'infinita pazienza di colei che la reggeva:



"Ora sediamoci, figliola, perché sono un po' stanchetta." E a ogni fermata lasciava su una panca prima la cuffietta rossa, poi uno scialle, poi l'altro scialle, poi il cappellino, poi il mantello, e tutto ciò formava ai due capi del viale due grossi mucchi di indumenti che Rosalìa riportava sul braccio libero quando si rientrava per la colazione.









Nel pomeriggio la baronessa ricominciava, con passo più molle, con riposi più lunghi, sonnecchiando anche un po' di tanto in tanto su una sedia a sdraio che le portavano lì fuori. Questo lei lo chiamava fare "il suo esercizio", così come diceva "la mia ipertrofia". Erano passati dieci anni da quando un medico chiamato d'urgenza perché soffriva di soffocazioni aveva parlato di ipertrofia: dopo di allora questa parola, di cui non capiva nemmeno il significato, si era conficcata nella sua testa. Da ostinata, voleva che il barone e Giovanna e Rosalìa le tastassero il cuore, che nessuno più udiva tanto era sepolto sotto la gonfiezza del seno, ma rifiutava con energia di lasciarsi visitare da un nuovo medico per la paura che le scoprissero altri malanni, e parlava della "sua ipertrofia" in ogni occasione e così spesso da sembrare che questo male fosse una sua particolarità, le appartenesse come una cosa unica, sulla quale gli altri non avevano nessun diritto. E il barone diceva "l'ipertrofia della mamma", come avrebbe detto "il vestito", "il cappello", "l'ombrello". E pensare che era stata graziosa da giovane, e più sottile di una canna. Dopo aver ballato fra le braccia di tutte le uniformi dell'Impero, aveva letto "Corinna" che le aveva fatto versare tante lacrime, e le era rimasto come il sigillo di questo romanzo. Man mano che la sua figura si era ingrossata, la sua anima aveva acquistato slanci più poetici, e quando l'obesità l'aveva inchiodata su una poltrona, il suo pensiero cominciò a vagabondare attraverso avventure tenere di cui si credette l'eroina. Oh, ne aveva sempre delle preferite da richiamare nei suoi sogni; come una scatoletta musicale che, a girare la manovella, ripete sempre la stessa canzone. Tutte le romanze in cui si parla di prigionieri e di rondinelle le inumidivano gli occhi, e poi amava anche certe canzoni libertine di Béranger per i rimpianti che esprimono. Spesso restava immobile ore e ore, lontana nelle sue fantasticherie, e i "Pioppi" le piacevano infinitamente perché quasi facevano da scenario ai romanzi della sua anima, ricordandole, e per i boschi dei dintorni e per la landa deserta e per la vicinanza del mare, le storie di Walter Scott che da qualche mese andava leggendo. Nelle giornate di pioggia restava chiusa nella sua stanza a far passare ciò che chiamava le sue "reliquie", ed erano le sue vecchie lettere, quelle di suo padre e di sua madre, quelle del barone quando erano fidanzati: altre ancora. Le aveva chiuse tutte in uno stipetto di mogano che aveva agli angoli altrettante sfingi di rame e diceva con un'inflessione di voce particolare:



"Rosalìa, figliola mia, portami il cassettino dei 'ricordi.'" La ragazza apriva lo stipetto, toglieva il cassetto, lo posava sulla sedia davanti alla sua padrona che si metteva a leggere lentamente, a una a una, queste lettere care, lasciandovi cader sopra, di quando in quando, una lacrimuccia.









Qualche volta Giovanna rimpiazzava Rosalìa e faceva lei passeggiare mammina che le raccontava i suoi ricordi d'infanzia.









La fanciulla si ritrovava in quelle storie d'altri tempi tutta stupita di quella comunanza di pensieri, di quell'affinità di desideri, perché ciascun cuore si immagina di aver trasalito prima d'ogni altro sotto una folla di sensazioni che hanno fatto battere i cuori delle prime creature come faranno palpitare ancora il cuore dell'ultimo uomo, il cuore dell'ultima donna. La lentezza del passo seguiva la lentezza del racconto, interrotto talvolta per qualche attimo dall'affanno della narratrice e allora il pensiero della figliuola, saltando al di là delle avventure cominciate, si slanciava verso l'avvenire, verso le speranze e la gioia.









Un pomeriggio, mentre si riposavano sulla panchetta videro tutt'a un tratto, dal fondo del viale, avvicinarsi un gran prete. Egli salutò di lontano, assunse un'aria sorridente, salutò ancora quando fu a tre passi e gridò: "Ebbene, signora baronessa, come si sta?". Era il parroco del paese.









Mammina, nata nel secolo dei filosofi, allevata da un padre poco credente, ai tempi della Rivoluzione, non frequentava molto la chiesa; benché amasse i preti per un istinto religioso di donna.









Ora aveva totalmente dimenticato l'abate Picot, il suo curato, e arrossì al primo vederlo, poi si scusò di non averlo avvertito della riapertura del castello. Ma il buon uomo non sembrava affatto scontento, e continuava a interessarsi a Giovanna, a farle i complimenti per il suo aspetto fiorente, poi si sedette, appoggiò il cappello sulle ginocchia e si asciugò la fronte imperlata. Siccome era molto grosso, acceso e tutto sudato, si tirava fuori dalla tasca continuamente un fazzolettone enorme a quadretti, imbevuto già di sudore, e se lo passava sul volto, sul collo; ma appena la tela umida era rientrata nelle profondità della sua veste, nuove gocce spuntavano sulla sua pelle, nuove gocce cadevano sulla sottana raccolta sul ventre, e fermavano in piccole macchie circolari la danza aerea della polvere. Era gaio, un vero prete di campagna, tollerante, chiacchierone, un brav'uomo, tanto è vero che ora raccontava le sue storie, parlava della gente del paese, senza neppure mostrare che le sue due parrocchiane non si erano ancor fatte vedere alle funzioni. Ma in verità la baronessa aveva già messo d'accordo la sua indolenza con la sua fede confusa e Giovanna era troppo felice di essersi liberata dal convento dove l'avevano saturata di pratiche religiose.









Ed ecco il barone. La sua religione panteista lo lasciava indifferente ai dogmi. Fu cortese col parroco che conosceva da lungo tempo, e lo trattenne a pranzo. E il parroco seppe piacere, grazie a quella specie d'astuzia incosciente che la cura di anime dà anche agli uomini più mediocri chiamati per caso a esercitare un potere sui propri simili. Quanto alla baronessa, lo trattava con ogni riguardo, attirata forse da una di quelle simpatie che avvicinano tutti coloro che si somigliano fisicamente, piacendo all'obesità della dama la figura sanguigna e il fiato corto della reverenda pinguedine.









Alla frutta egli ebbe una vivacità di curato d'ottimo umore, quell'abbandono confidenziale che si ha nel finire degli allegri conviti. D'un tratto gridò come se un'idea felice gli avesse attraversato il cervello: "Ma io ho un parrocchiano, il signor visconte di Lamare! Bisogna bene che ve lo presenti!" La baronessa che aveva sulla punta delle dita tutta l'araldica della provincia, scattò:



"Appartiene alla famiglia di Lamare dell'Eure?" "Sì, signora baronessa" rispose il prete con un inchino. "E' figlio del visconte Giovanni di Lamare che morì l'anno passato." Allora la dama che adorava la nobiltà fece un mucchio di domande, e così seppe che, pagati i debiti del padre, il giovanotto aveva venduto il castello di famiglia per ridursi in un piccolo appartamento in una delle tre fattorie che possedeva ancora a Etouvent. Questi beni rappresentavano in tutto cinque o seimila "lire" di rendita, ma il visconte era economo e saggio e contava di vivere semplicemente due o tre anni in quel luogo modesto per metter da parte tanto da permettergli di figurare in società, ammogliarsi bene, senza far debiti, senza ipotecare le sue fattorie.









"E' un simpatico ragazzo" aggiunse il curato "e così ordinato e così quieto! Ma non si diverte molto in questi paesi..." "Conducetelo da noi" disse il barone. "Qua si potrà distrarre qualche volta..." E si passò ad altro argomento. Dopo aver preso il caffè nel salone, il prete chiese il permesso di fare un giro in giardino, essendo abituato a muoversi un po' dopo i pasti. Il barone volle seguirlo, e camminarono su e giù lungo la facciata del castello.









Le loro ombre, l'una magra, l'altra grossa e come coperta da un fungo, andavano e venivano, ora avanti, ora indietro, secondo che camminassero verso la luna o le volgessero il dorso. Il parroco masticava una specie di sigaretta che aveva tirato fuori dalla tasca, e ne spiegò l'utilità col parlar franco dei campagnoli:



"E' per facilitare i rutti. Io ho le digestioni piuttosto pesanti..." Poi, improvvisamente, guardando il cielo dove nuotava l'astro lunare:



"Non ci si sazia mai di quello spettacolo là!" E rientrò in casa per congedarsi dalle signore.





















Capitolo 3









La domenica seguente la baronessa e Giovanna, per deferenza verso il curato, andarono a messa. Dopo la funzione lo attesero per invitarlo a colazione per il giovedì.









Egli uscì dalla sagrestia accompagnato da un giovane alto, elegante, che gli dava il braccio con confidenza; e appena vide le due signore fece un gesto di lieta sorpresa.









"Come giungono a proposito! Signora baronessa, signorina Giovanna, permettete, permettete che vi presenti il vostro vicino. Il visconte di Lamare." Il visconte si inchinò, espresse il suo antico desiderio di conoscere le signore, si mise a parlare con disinvoltura, da uomo di mondo, da uomo che sa il fatto suo. Egli aveva nella fisonomia quel non so che d'attraente che seduce le donne ed è estremamente antipatico agli uomini. I suoi capelli bruni, arricciati ombreggiavano una fronte liscia e abbronzata e due grandi sopracciglia così regolari da parere artificiali rendevano teneri e profondi i suoi occhi scuri il cui bianco aveva una delicata sfumatura azzurrina. Ciglia fitte e lunghe davano al suo sguardo l'eloquenza della passione, quella stessa che nei salotti turba un poco la dama bella e superba e fa voltare per la strada la ragazza del popolo in giro col suo paniere. Il fascino languido di quell'occhio illudeva di una profondità di pensiero e dava importanza anche alle più comuni parolette. La barba lucida e fine occultava una mascella un po' forte.









Nuovi complimenti, nuove cerimonie e il gruppo si sciolse. Due giorni dopo il signor di Lamare fece la sua prima visita ai "Pioppi".









Giunse mentre si discuteva su una panchina messa a prova fin dal mattino sotto il gran platano di contro alle finestre del salone.









Il barone voleva che sotto il tiglio si mettesse un'altra panchina: per simmetria. Nemica della simmetria, interveniva mammina opponendosi. E il visitatore le diede ragione.









Poi il visitatore parlò del paese che chiamò "pittoresco" in grazia dei tanti "punti" incantevoli che gli aveva offerto nelle sue passeggiate solitarie. Di quando in quando i suoi occhi incontravano gli occhi di Giovanna, come per caso, e Giovanna provava una sensazione strana sotto quello sguardo rapido, subito distolto, in cui spuntava una blandizia ammirativa, una simpatia già vivace.









Il signor di Lamare padre, morto l'anno prima, aveva appunto conosciuto un intimo amico del signor Cultaux, padre della baronessa: e la scoperta di questa conoscenza portò a una conversazione interminabile di matrimoni, date, parentele. La dama faceva sforzi di memoria prodigiosi per fissare le ascendenze e le discendenze di altre famiglie muovendosi assai bene, senza perdersi nel labirinto complicato delle genealogie.









"Dite, visconte, avete mai sentito parlare dei Saunoy-Varfleur? Il figlio maggiore, Gontrano, aveva sposato una signorina de Coursil, una Coursil-Courville, e il minore una delle mie cugine, la signorina de la Roche-Aubert che era parente dei Crisange. Ora il signor Crisange era intimo di mio padre e deve aver conosciuto anche il vostro." "Sì, signora baronessa. Non è quel signor Crisange che emigrò, e il suo figliolo è andato in rovina?" "Proprio lui. Aveva chiesto in matrimonio mia zia dopo la morte di suo marito, il conte d'Éretry; ma la zia non volle saperne perché... perché tabaccava. A proposito, sapete che cosa è avvenuto dei Viloise? Hanno lasciato la Turenna verso il 1813 in seguito a rovesci di fortuna, e non ne ho più sentito parlare." "Credo che il vecchio marchese sia morto in seguito a una caduta da cavallo, lasciando una figliuola maritata con un inglese, e l'altra con un certo Bassolle, un commerciante, dicono, ricco, che pare l'avesse sedotta..." Ritornavano nella loro memoria nomi imparati nell'infanzia dalle conversazioni dei vecchi, e i matrimoni di queste famiglie loro pari assumevano attraverso il ricordo l'importanza di grandi avvenimenti pubblici. Trattavano di gente mai vista come se la conoscessero a fondo; e poiché altrove quelle persone parlavano di loro nello stesso modo e linguaggio, baronessa e visconte sentivano di lontano quelle quasi amicizie, quelle quasi alleanze, per il solo fatto di appartenere alla stessa casta, di equivalersi nel sangue.









Il barone, un po' selvatico per natura e, per educazione, in disaccordo continuo con le credenze e i pregiudizi di casta, non conosceva le famiglie dei dintorni e ne chiese al visconte. Il visconte rispose nello stesso modo con cui avrebbe dichiarato che non c'erano molti conigli intorno: non c'era molta nobiltà nei dintorni. Diede particolari. Tre sole famiglie in una cerchia relativamente vicina: il marchese di Coutelier, una specie di capo dell'aristocrazia normanna: il visconte e la viscontessa di Briseville, di nobilissima stirpe, ma che vivevano per conto loro:



il conte di Fourville, una specie di orco, di cui si sussurrava che avesse fatto morire la moglie. Costui viveva da cacciatore nel suo castello della Vrillette, costruito sopra uno stagno. Poi c'erano i nuovi ricchi (quelli che si intendono fra loro) che avevano acquistato terreni, chi qua, chi là. Il visconte non li conosceva.









Si congedò, e il suo ultimo sguardo fu per Giovanna: come se le avesse rivolto un addio particolare, un più affettuoso e dolce saluto. La baronessa lo trovò simpatico e sopra tutto "molto distinto". Il barone ammise che era un giovanotto "molto educato".









La settimana dopo egli sedette per la prima volta a mensa. Da quel giorno egli tornò tutti i giorni.









Giungeva in genere verso le quattro del pomeriggio, andava incontro a mammina nel "suo viale", le offriva il braccio per aiutarla nel "suo esercizio". Se Giovanna era in casa, era lei che sosteneva la baronessa dall'altra parte, e tutt'e tre camminavano lentamente da un capo all'altro del viale, andando e ritornando senza tregua. Quasi mai egli rivolgeva la parola a Giovanna, ma i suoi occhi che sembravano di velluto nero incontravano spesso quelli di lei che si sarebbero detti di agata azzurra.









Ma poi c'erano le gite a Yport col barone. Una sera che si trovavano sulla spiaggia si fece avanti papà Lastique con la pipa.









Senza pipa papà Lastique sarebbe parso un papà Lastique senza naso.









"Signor barone, con questo vento si potrebbe andare domani fino a Étretat e ritornare senza fatica." Giovanna giungeva le mani.









"Papà, papà! Se tu volessi!" "Volete venire?" disse il barone al visconte. "Andiamo a far colazione a Étretat?" Fu un'escursione decisa. Giovanna in piedi all'aurora: Giovanna che aspettava il padre più lento a vestirsi: Giovanna che camminava al suo fianco sulla rugiada e attraversava la pianura e il bosco tutto vibrante di canti di uccelli. E il visconte e papà Lastique erano seduti qua, sopra un argano!



Al momento della partenza ci fu bisogno di due marinai di rinforzo, i quali, appoggiando le spalle al fasciame della barca, spingevano sì a tutta forza, ma avanzavano a fatica sulla piattaforma del ghiareto. Lastique faceva rotolare sotto la chiglia un cilindro di legno unto di grasso e poi riprendeva il suo posto modulando con voce strascicata il suo interminabile "ohé op!" per regolare lo sforzo comune. Improvvisamente, quando avvertì la discesa, la barca prese l'avvio e sdrucciolò sui ciottoli tondi con un gran sibilo di stoffa che si lacera. Poi si fermò tra la spuma delle prime ondicine come a permettere a ciascuno di sedersi dentro finché i due marinai rimasti a terra le diedero l'ultima spinta. Una brezza leggera e costante che veniva dal largo sfiorava e increspava la superficie dell'acqua. La vela fu issata, si arrotondò un poco e la barca filò tranquillamente, cullata appena dal mare.









Come si erano già allontanati! Ecco il cielo abbassarsi all'orizzonte, confuso già con l'oceano. Ecco, verso terra, l'alta scogliera diritta che stende una grande ombra ai suoi piedi, tutta frastagliata dai pendii erbosi zuppi di sole. Vele brune escono laggiù dalla bianca scogliera di Fécamp; una roccia di strana forma, laggiù uno scoglio rotondo e forato da parte a parte, prende a poco a poco l'aspetto di un enorme elefante che tuffi la sua proboscide nelle onde, ed è la piccola porta di Étretat.









Giovanna, tenendosi in bilico, un po' stordita dal dondolio delle onde, guardava lontano lontano e le sembrava che al mondo ci fossero tre sole cose belle: la luce, l'acqua, lo spazio. Non parlava, e nessun altro parlava. Papà Lastique teneva la barra e la scotta, ma di quando in quando beveva un sorso da una bottiglia nascosta sotto la panca, e fumava senza tregua in quel suo moncherino di pipa che sembrava inestinguibile. La pipa di Lastique! Ne usciva sempre un sottile filo azzurrognolo mentre la stessa spira di fumo sfuggiva a lui dall'angolo della bocca: né mai lo si vedeva occupato col suo fornello di terra, più nero dell'ebano, per accenderlo o per ricaricarlo di tabacco. Solo qualche volta egli avvicinava la mano alla pipa, se la toglieva di bocca, e dallo stesso angolo donde usciva la spira azzurrognola lanciava il suo sputo nero al mare.









Il barone, seduto sul davanti, faceva da marinaio e sorvegliava la vela. Giovanna e il visconte erano vicini, entrambi un poco turbati. Una forza ignota faceva così che i loro occhi si incontrassero, che li alzassero allo stesso momento, come avvertiti da un'affinità di pensiero, perché ondeggiava già fra di loro quel senso di tenerezza vaga e sottile che nasce così presto fra due giovani quando lei è graziosa e lui non è brutto. Forse si sentivano felici l'uno accanto all'altra, perché si pensavano.









Il sole saliva come per contemplare da un più alto cielo il vasto mare che gli si stendeva lì sotto; ma il mare ebbe come una civetteria e si avvolse in una bruma leggera che lo velava ai raggi del sole. Era una nebbietta trasparente, bassa, dorata, che non nascondeva nulla, ma che rendeva più soavi le cose lontane. Il sole incalzava, il sole scioglieva la bella nuvola splendente: il sole era al colmo della sua forza; ed ecco svanire la caligine, ecco il mare liscio come un cristallo splendere di luce. "Com'è bello!" sussurrò Giovanna commossa.









"Sì, sì, è bello" rispose il visconte.









La serena chiarezza di quella mattinata risvegliava come un'eco nei cuori.









E subito si scorsero le grandi arcate di Étretat simili a due gambe della scogliera che camminassero nel mare così alte da far arco ai bastimenti; mentre una guglia di roccia bianca e acuminata si ergeva davanti alla prima. Toccarono terra, e fu il barone che scese per primo per trattener la barca a riva tirando una corda, e fu il visconte che prese nelle sue braccia Giovanna per deporla a terra senza che avesse a bagnarsi i piedini: e i due giovani risalirono insieme l'erto banco di ciottoli, l'uno vicino all'altra, commossi, stupiti di quel rapido contatto, udendo ciò che papà Lastique diceva al barone:



"C'è da farne una bella coppia, e... senza perdere tempo." La colazione, in una piccola locanda della spiaggia, fu deliziosa.









L'oceano, paralizzando voce e pensiero li aveva fatti silenziosi:



ora la tavola li mutava in ciarlieri. Erano tutti come scolaretti in vacanza. Una gaiezza interminabile saliva fino a loro dalle cose più semplici. Ecco papà Lastique che prima di sedersi a tavola nasconde la sua pipa: e la nasconde, ancora fumante, nel suo berretto e ne ride! Il suo naso rosso attira una mosca che viene a posarvisi sopra, e quando egli la scaccia con un gesto troppo lento per poterla afferrare, ecco la mosca posarsi su una tenda di mussolina che porta i segni delle sue sorelline, e di lì adocchiare avidamente il lucido naso e tornar subito dopo a installarvisi. A ogni viaggio dell'insetto scoppiavano pazze risate; ma l'ilarità fu smodata quando il vecchio si infastidì del solletico: "Ma è maledettamente ostinata!" e Giovanna e il visconte si torcevano, con le lacrime agli occhi, soffocavano, tenevano il tovagliolo alla bocca. Giovanna disse dopo il caffè:



"Se andassimo a far due passi?" Il visconte si alzò. Il barone preferiva la siesta sul ghiareto, e disse ai "ragazzi" che andassero pure, tornassero pure fra un'ora. E i "ragazzi" via tra le poche capanne del borgo, verso un piccolo castello che somigliava a una gran fattoria, verso una vallata che si scopriva e si allargava tutta per loro. Il dondolìo del mare li aveva illanguiditi turbando il loro normale equilibrio, l'aria salina li aveva affamati, la colazione storditi, la contentezza snervati, e ora si sentivano forse un po' matti, con una gran voglia di correre, di qua, di là, per i campi.









Giovanna poi con quei ronzii alle orecchie era tutta agitata da sensazioni rapide e nuove.









Un sole scottante li investiva come quelle messi mature che si piegavano sotto il calore. Le cavallette si sgolavano, numerose come i fili d'erba, gettando ovunque, tra il grano, tra la segala, tra i giunchi marini delle rive, il loro grido stridulo e secco.









Nessun'altra voce saliva sotto il cielo torrido, d'un azzurro così terso e ingiallito come se dovesse improvvisamente mutarsi in rosso scarlatto, simile ai metalli avvicinati troppo a un braciere.









Finalmente apparve la linea di un boschetto; e andarono verso il boschetto. Vi conduceva uno stretto viale, incassato fra due scarpate, e così folto di alberi e fronde che non vi entrava raggio di sole. Una frescura umida li penetrò improvvisamente, di quell'umidità che fa accapponare la pelle e va nei polmoni. La delicatezza vellutata del muschio sostituiva l'erba non nata per mancanza di luce e di aria libera.









"Guardate, oh, guardate! Non potremmo sederci un poco laggiù?" Erano morti due alberi, sì che approfittando del vuoto nel fogliame, come di una lacerazione nel verde, cadeva là un fascio di sole; e questo sole scaldando quell'angolino, aveva risvegliato i germi delle erbe, quelli del lichene e della radicchiella, e faceva sbocciare dei fiorellini bianchi, fini come la nebbia, e digitali simili a fusi. Farfalle, api, tozzi calabroni, zanzare interminabili simili a scheletri di mosche, mille insetti volanti, animali del buon Dio rosei e maculati, bestioline infernali dai riflessi verdastri, bestioline nere con le corna popolavano questo pozzo splendido e caldo scavato nell'ombra gelida di un intrico di fronde.









Sedettero. Avevano la testa in ombra e i piedi al sole e guardavano tutta questa vita minuta e brulicante che era nata da un raggio di sole. Giovanna ripeteva intenerita:



"Come si sta bene qui! La campagna, oh, è pur bella! Ci sono dei momenti che vorrei essere una mosca o una farfalla per potermi nascondere in un fiore..." Parlarono a lungo di sé, delle loro abitudini, dei loro gusti, col tono basso, intimo e grave con cui ci si confida a vicenda. Egli si mostrava già disgustato del mondo, stanco di una vita futile giacché era sempre la stessa cosa e non ci si trovava niente di genuino, niente di schietto. Il mondo! Oh sì, avrebbe voluto conoscerlo; ma era già convinta che non valesse la bella campagna.









E più i loro cuori si avvicinavano, più si chiamavano cerimoniosamente "signorina" e "signore"; più i loro sguardi si sorridevano e si intrecciavano, più sembrava che una bontà nuova li prendesse, un affetto per tutte le cose, un interesse per le cose di cui non si erano curati, a cui non avevano fatto attenzione.









Tornarono indietro. Il barone non c'era ancora perché era andato a piedi fino alla Chambre-aux-Demoiselles, una grotta sospesa in una cresta della scogliera; e lo aspettarono al piccolo albergo. Egli non tornò che alle cinque del pomeriggio dopo una lunga passeggiata sulla costiera.









Risalirono in barca. Andava molle la barca col vento in poppa, senza la più piccola scossa, e non sembrava neppure che avanzasse.









Giungeva la brezza a soffi lenti e tiepidi che sollevavano per un momento la vela e la lasciavano poi ricadere lungo l'albero, floscia. L'onda opaca sembrava morta. Il sole, un po' fiacco, seguendo il suo cammino circolare, si avvicinava all'acqua dolcemente. Il languore del mare faceva ancora tacita ogni cosa.









Giovanna si scosse.









"Come mi piacerebbe viaggiare!" "Sì, sì" rispose il visconte. "Ma viaggiar soli è triste.









Bisognerebbe essere in due. Per comunicarsi le proprie impressioni..." "E' vero. Però io amo passeggiare sola. Si sta così bene soli quando si sogna!" "Si può sognare anche in due..." Giovanna abbassò gli occhi perché egli l'aveva guardata un po' a lungo. Era un'illusione? Forse. E fissò l'orizzonte come per veder più lontano.









"Vorrei andare in Italia... o in Grecia... Oh sì, in Grecia...









anche in Corsica! La Corsica! Dev'essere bella... selvaggia." Egli preferiva la Svizzera per i suoi "châlets" e per i suoi laghi.









"Oh no! Io amerei i paesi nuovi come la Corsica o i paesi molto vecchi e pieni di ricordi come la Grecia. Dev'essere così dolce ritrovare le tracce dei popoli di cui sappiamo la storia fin dall'infanzia, vedere i luoghi dove si sono compiuti i grandi eventi!" "Io mi sento attirato dall'Inghilterra. E' un paese molto istruttivo." Allora percorsero tutto l'universo discutendo i pregi e le bellezze di ogni paese, dal polo all'equatore, estasiati all'idea di luoghi immaginari, di costumi inverosimili di popoli come i cinesi e i lapponi, e finirono col concludere che il più bel paese del mondo è la Francia. La Francia, sì, col suo clima temperato, fresco d'estate e mite d'inverno, con le sue campagne opulente, le sue verdi foreste, i suoi grandi fiumi calmi, e un culto delle belle arti che non era esistito mai in nessuna parte del mondo dopo i grandi secoli di Atene. E poi rimasero zitti.









Il sole si era fatto più basso, e sanguinava: una larga striscia luminosa, una via splendente correva sull'acqua, allacciando l'orizzonte all'umile scia. Cessava l'ultima bava: si appianavano le increspature delle onde: la vela era immobile, rossa. Una calma infinita sembrava intorpidisse lo spazio, fasciasse di silenzio questo incontro dei due elementi; e l'acqua, fidanzata mostruosa, curvando sotto il cielo il suo ventre lucido e liquido, aspettava l'amante di fuoco, che doveva piombare su lei. Egli accelerò la caduta. Era divenuto tutto di porpora, come per la voluttà dell'amplesso. Ecco, ha toccato il segno: ma l'acqua a poco a poco lo inghiotte.









Accorse allora dall'orizzonte un vento blando e leggero e un brivido piegò il seno mobile dell'acqua come se l'astro inghiottito avesse esalato un sospiro. Nell'atto che papà Lastique afferrò i remi, gli altri si accorsero della fosforescenza del mare. Giovanna e il visconte, l'uno vicino all'altra, guardavano, guardavano insieme i mobili splendori che la barca lasciava dietro di sé. Non sognavano più, ma si perdevano in una muta e vaga contemplazione aspirando la sera in un dolce vellutato benessere:



e siccome lei teneva una mano abbandonata sulla panchina, un dito di lui si avvicinò come per caso, sfiorando la pelle, e lei non si mosse, colpita, felice, confusa di quel contatto leggero.









La sera, quando fu rientrata nella sua stanza, si trovò così stranamente commossa, così intenerita, che tutto le dava come una voglia di piangere. Guardò la sua pendola, pensò che la piccola ape batteva come un cuore (un cuore amico), che sarebbe stata la testimone della sua vita, che avrebbe accompagnato le sue ansie e le sue gioie con quel ticchettìo regolare, e fermò l'insetto dorato per mettergli un bacio sulle ali. Avrebbe abbracciato non importa che. Ricordò di aver nascosto in fondo a un cassetto una bambola: la pescò fuori, la salutò, le fece festa come a un'amica adorata, la serrò al petto, le baciò le guance dipinte, le baciò i capelli di stoppa. Poi la tenne fra le braccia, e sognò. Era proprio "lui" lo sposo annunziato da mille voci segrete che la Provvidenza conduceva così sulla sua via? Era quello l'essere creato per lei, l'uomo a cui consacrare la vita? Erano essi, lui e lei, i due predestinati le cui tenerezze incontrandosi dovevano stringersi unirsi, confondersi, e generare l'"amore"? No, non sentiva ancora quegli slanci tumultuosi di tutto il suo essere, quei rapimenti folli, quel profondo sconvolgimento che era o credeva fosse la vera passione, ma le sembrava di cominciare ad amare perché talvolta si sentiva come mancare pensando a lui, e non cessava mai di pensarlo. La presenza di lui l'agitava, arrossiva e impallidiva ogni qualvolta incontrava il suo sguardo, rabbrividiva vedendolo parlare...









Quasi non dormì quella notte. Poi, di giorno in giorno, il tormentoso desiderio di amare la invase sempre più, sempre più.









Interrogava sempre se stessa, chiedeva ai petali delle margherite, consultava le nuvole, gettava in aria monete.









"Fatti bella domattina" le disse una sera suo padre.









"Perché, papà?" Era un segreto.









E il giorno dopo, quando scese tutta ilare e fresca in veste chiara, trovò sulla tavola del salone tante scatole di confetti, e su una sedia un gran mazzo di fiori. Proprio in quel momento un carro entrò nel cortile, e vi si leggeva su un fianco: "Lerat, pasticcere a Fécamp. Servizi per nozze", e Liduina aiutata dalla sguattera tirava fuori da uno sportello aperto dietro il veicolo grandi ceste piatte che odoravano di buono.









Comparve il visconte. I suoi pantaloni erano tesi e tenuti fermi sotto piccole scarpe verniciate che facevano risaltare la estrema piccolezza del piede. La sua lunga "redingote", serrata alla vita, lasciava uscire dallo sparato i ricami della camicia, e una cravatta di seta a più giri lo obbligava a tener alta la sua bella testa bruna che aveva quasi il suggello della distinzione. Aveva un'aria diversa dal solito, quel non so che di particolare che un abbigliamento nuovo dà subito ai volti più noti. Stupita, lo guardava come se non lo avesse mai visto prima di allora e lo trovava straordinariamente gentile: gran signore dalla testa ai piedi.









"Ebbene, siete pronta, madrina?" egli disse tutto sorridente, inchinandosi.









"Ma perché? Ma che c'è?" "Saprai fra poco" disse il barone.









S'avanzò la vettura, e apparve la baronessa in gran gala al braccio di Rosalìa, la quale sembrò talmente rapita dall'eleganza del signor di Lamare che il barone fece osservare all'amico:



"Vedete dunque che anche la nostra cameriera vi trova di suo gusto". Il visconte arrossì fino agli orecchi, finse di non aver sentito, presentò a Giovanna il mazzo di fiori, e Giovanna lo tenne, imbambolata. Poi salirono tutt'e quattro in vettura, e ci fu anche la dichiarazione della cuoca Liduina avanzatasi per recare alla baronessa un brodo freddo ristoratore:



"Davvero, signora, che si direbbe uno sposalizio!" Quando furono a Yport, scesero e camminarono a piedi, e man mano che avanzavano nel cuore del villaggio, i marinai uscivano dalle casupole tutti vestiti a nuovo (lo si vedeva dalle pieghe degli abiti), salutavano, stringevano la mano al barone, seguivano il gruppo come in processione. Il visconte aveva offerto il braccio a Giovanna; e camminavano in testa aprendo il corteo.









Dirimpetto alla chiesa si arrestarono. Comparve la grande croce d'argento sostenuta da un chierichetto, e dietro veniva un altro ragazzo metà bianco e metà rosso che portava il secchiello dell'acqua benedetta con dentro l'"asperges". Ed ecco i tre vecchi cantori (uno zoppica), poi quello dei fagotto, poi il curato il cui ventre aguzzo solleva la stola dorata: e dà il buon giorno con un sorriso e un cenno del capo. Poi con gli occhi appena socchiusi, le labbra che biascicavano, il tricorno tirato sul naso, il buon parroco seguì il suo stato maggiore in cotta dirigendosi verso la spiaggia, dove una folla attendeva circondando festosamente una barchetta nuova, inghirlandata.









Albero, vela cordame, erano allacciati in lunghi nastri che garrivano al vento, e c'era scritto a poppa: GIOVANNA: il suo nome a lettere d'oro.









Papà Lastique, capitano della barca costruita a spese del barone, si fece incontro al corteo e, nello stesso tempo tutti gli uomini insieme si scoprirono il capo e una turba di devoti incappucciati dentro neri mantelli a grandi pieghe si inginocchiò in cerchio davanti alla croce. Il curato, fra i due chierichetti, avanzò verso un fianco della barca, mentre dall'altra parte i tre vecchi cantori in bianca tonaca, mento peloso, aria grave, occhi sul libro del cantofermo, tuonavano a gola piena nel chiaro mattino: e ogni volta che riprendevano fiato lo strumento proseguiva da solo il suo mugghio, così che il suonatore nella gonfiezza delle guance piene di vento, stringeva gli occhietti sino a farli scomparire quasi del tutto. Il mare, immobile e trasparente, sembrava assistere grave al battesimo della sua navicella sollevando deboli ondicine non più alte di un dito, con sul ghiareto un piccolo raspare come di rastrello. E i grandi gabbiani passavano ad ali tese, balenanti, descrivendo curve bianche nel cielo turchino, fuggivano, tornavano, roteavano ancora sulla folla inginocchiata, come per vedere che cosa mai si facesse. Il canto cessò dopo un "amen" durato ben cinque minuti, e il prete con voce strozzata biascicò alcune parole latine delle quali non si distinguevano che le finali sonore. In ultimo fece il giro della barca, aspergendola tutta di acqua santa, poi venne la volta degli "oremus" borbottati sotto la tolda di fronte al padrino e alla madrina che restavano zitti, immobili, la mano nella mano, lui con la sua gravità di bel giovane, lei con la gola stretta da un nodo improvviso, così che le battevano i denti per l'emozione e il tremore. Ecco: il sogno che la preoccupava da tanto tempo assumeva come improvvisamente, in quella specie di allucinazione, apparenze reali. Avevano parlato di nozze, e un prete era lì e benediceva: uomini in cotta salmodiavano: chi si sposava? Ebbe come una scossa nervosa alle dita: il palpito del suo cuore era giunto correndo lungo le vene fino al cuore di lui, del vicino? Indovinava? Capiva? Egli pure invaso da quella specie di ebbrezza amorosa? O lo sapeva per esperienza che nessuna donna poteva resistergli, a lui? Allora Giovanna si accorse che egli le stringeva la mano dolcissimamente, poi un poco più forte, più forte ancora, oh Dio, fino a farle male, fino a spezzarle le dita. E senza che la sua persona avesse un sussulto, senza che nessuno se ne accorgesse, egli disse, sì, certo, certo, egli disse così, distintamente:



"Oh Giovanna, se voi voleste! Questo sarebbe il nostro fidanzamento..." Abbassò la testa con un moto lentissimo che forse voleva dire "sì". E il prete che diffondeva ancora acqua santa, gliene spruzzò sulle dita.









Era fatto. Le donne si rialzavano. Il ritorno fu uno scompiglio.









Nelle mani del chierichetto la lunga croce aveva perduto la sua dignità, correva, oscillava, si sbandava da destra a sinistra o si curvava in avanti fin quasi a cadergli sul naso. Il parroco, che non pregava più, galoppava anche lui dietro gli altri; i cantori e quello del fagotto scomparvero in un vicoletto per svestirsi più in fretta, e i marinai si affrettavano a gruppi a causa di quel pensiero piacevole che metteva nella loro testa come un odore di cucina, riempiva la bocca di saliva, scendeva fin nei meandri del ventre facendovi brontolar le budella. Era così che si allungavano le gambe verso il buon pasto dei "Pioppi".









La grande tavola era stata portata nel cortile, lì, sotto i meli.









Sessanta persone vi presero posto, marinai, contadini, e la baronessa sfolgorava al centro avendo ai lati i due parroci, quello d'Yport e questo dei "Pioppi" e di fronte il suo nobile sposo fra sindaco e sindachessa, una campagnola magra, già vecchia, che dispensava salutini a destra e a sinistra. La sindachessa aveva un viso stretto e tutto chiuso nella gran cuffia normanna, una vera testa di gallina dalla cresta bianca, dagli occhi tondi e sempre stupefatti: mangiava a colpi rapidi come beccasse col naso nel piatto.









Giovanna navigava nella gioia, accanto al padrino. Non vedeva più nulla. Non sapeva più nulla. Taceva, con la testa confusa nella felicità.









"Qual è il vostro nome?" gli chiese.









"Giuliano. Non lo sapevate?" Ma lei non rispose, e pensò: "Quante volte ripeterò questo nome!".









A colazione terminata, i signori lasciarono libero il cortile ai marinai e passarono all'altro lato del castello. La baronessa si mise a fare il suo "esercizio", appoggiata al barone, scortata dai suoi due curati, e Giovanna e Giuliano si spinsero fino al boschetto, penetrarono nei piccoli viottoli ombrosi.









Egli le afferrò le mani, all'improvviso.









"Dite, dite, volete essere mia moglie?" Giovanna abbassa la testa.









"Dite, vi prego, rispondete!" Giovanna alza gli occhi su lui, con infinita dolcezza. In quello sguardo egli ha la risposta.





















Capitolo 4









Una mattina il barone entrò in camera di Giovanna prima ancora che si fosse alzata. Sedette ai piedi del letto.









"Il signor visconte di Lamare ci ha chiesto la tua mano." Quasi nascose la faccia sotto il lenzuolo.









"Ci siamo riservati di rispondere." Ansimava e il papà aveva sulle labbra un fine sorriso. Diceva:



"Non abbiamo voluto far nulla senza parlartene. Tua madre ed io non siamo contrari, ma non credere che ti si voglia obbligare. Tu sei molto più ricca di lui: ma il denaro non conta quando si tratta della felicità di una vita. Egli non ha più nessuno. Se tu lo sposassi, sarebbe un figliolo che entrerebbe nella nostra famiglia, mentre con un altro saresti tu, figliola nostra, che andresti fra estranei. Il giovane ci piace. Piace a te?" Giovanna divenne rossa fino alla punta dei capelli, in quel balbettìo:



"Io... sono contenta, papà." Papà la guardò in fondo agli occhi, con sulle labbra un fine sorriso.









"Ne dubitavo un poco, madamigella." Restò fino a sera mezzo ubriaca, senza sapere quello che faceva, scambiando macchinalmente gli oggetti, con le gambe rotte dalla fatica senza aver camminato. Verso le sei era seduta sotto il platano con mammina, ed ecco il visconte. Il suo cuore batteva sempre più forte, sempre più da pazzo. E lui invece si avvicinava senza emozione, afferrava la mano della baronessa e la baciava, afferrava quest'altra mano tremante e la baciava: ma questo fu un lungo bacio, pieno di tenerezza e di riconoscenza. Cominciò il fidanzamento, come una stagione ebbra di luce. Parlavano soli negli angoli del salone oppure sul rialzo del muro in fondo al boschetto, davanti alla landa selvaggia. Talvolta passeggiavano su e giù nel viale della mamma, lui sempre parlando di avvenire, lei con gli occhi abbassati sulla traccia polverosa del piede materno.









Decisa la cosa, se ne volle affrettare il compimento e così si fissò la cerimonia fra sei settimane, il I5 agosto e poi gli sposi sarebbero partiti per il viaggio di nozze senza indugio. Giovanna fu consultata sul paese da visitare in quella occasione. E la preferenza fu per la Corsica. In Italia non sarebbero stati così soli!



Ora essi attendevano il grande momento senza un'ansia troppo vivace, ma avviluppati, trascinati da una tenerezza deliziosa, assaporando la grazia squisita delle carezze insignificanti, delle strette di mano, delle dita premute, degli sguardi sempre più appassionati, sempre più lunghi, oh, così lunghi che le stesse anime vi sembravano confuse ed anche vagamente tormentati dal desiderio indeciso delle grandi strette. Fu stabilito che non avrebbero invitato nessuno al matrimonio, fuorché la zia Lisetta, la sorella della baronessa, che viveva come in pensione in un convento di Versailles.









La storia di questa Lisetta era un po' triste. Dopo la morte del padre, la baronessa avrebbe voluta tenerla con sé, ma la vecchia zitella, perseguitata dall'idea di recar disturbo a questo e a quello, convinta di essere inutile e importuna, si era ritirata in una di quelle case di preghiera che ospitano le persone stanche, sole al mondo. Di quando in quando veniva a passare uno o due mesi in famiglia. Era una donnina che parlava poco, si vedeva ancor meno, appariva solo all'ora dei pasti per risalire subito nella sua stanza dove restava chiusa ore e ore, sempre la stessa, con quell'aria di vecchia, benché non avesse che quarantadue anni, con quegli occhi malinconici e miti Non era mai stata tenuta in nessun conto dalla famiglia: bambina, non l'avevano mai accarezzata perché non era né graziosa né allegra, e lei era rimasta tranquilla e serena in disparte: a diciotto e a vent'anni non aveva trovato nessuno che si occupasse un poco di lei. Era qualcosa come un'ombra o un oggetto familiare, un mobile vivente che si è abituati a veder tutti i giorni, ma di cui non ci si occupa mai. Sua sorella, per un'abitudine presa nella casa paterna, la considerava come un essere incompleto, insignificante, banale, né gli altri la trattavano con maggior riguardo, ma con quella familiarità spiccia che nasconde una specie di bontà mista a disprezzo. Si chiamava Lisa, ma questo nome lezioso e giovanile non le era piaciuto, e quando i parenti si accorsero che non si maritava, che non si sarebbe mai maritata, allora Lisa scomparve e sorse Lisetta. Nacque Giovanna, e lei diventò "zia Lisetta":



parente umilissima, ordinatissima, di una timidezza spaventevole:



timida perfino con gli intimi, perfino con la sorella e il cognato, che pur le volevano bene, benché fosse anche questo un affetto vago che confinava con la tenerezza indifferente, la compassione inconscia, la tenerezza istintiva. Qualche volta la baronessa quando parlava di cose lontane fissava una data così:



"Fu al tempo del colpo di testa di Lisetta". Non si diceva di più, e questo "colpo di testa" restava come avvolto nella nebbia. La verità è che Lisa una sera (aveva allora vent'anni) aveva tentato di annegarsi senza che se ne sapesse il perché, non essendovi mai stato nulla, nella sua vita, nei suoi modi, che potesse far presagire di queste follie. Salvatala a stento, i suoi genitori indignati, levate al cielo le braccia, invece di cercare le cause dell'atto inconsulto si erano accontentati di parlare del "colpo di testa" come parlavano dell'incidente capitato al cavallo che si era non molto prima fracassato una gamba in un fossato, e l'avevano dovuto ammazzare. Dopo di allora Lisa (poi Lisetta) fu considerata un debolissimo spirito, tanto che il dolce disprezzo che ispirava ai congiunti passò a poco a poco nel cuore di tutti.









Quanto alla piccola Giovanna, con quel senso di naturale divinazione che è dei ragazzi, non si occupava di lei, non entrava nella sua camera, non ne era affatto curiosa, lasciando che la cameriera Rosalìa vi facesse un po' d'ordine in fretta, poiché era la sola che sapesse veramente dove fosse questo trascurabilissimo vano. Quando la zia Lisetta si affacciava in sala da pranzo, la "piccina" andava per abitudine a offrirle la fronte, e nient'altro. Se qualcuno voleva parlarle, mandavano un servo a cercarla: se non la vedevano, nessuno si occupava di lei, nessuno pensava o avrebbe pensato mai di inquietarsi, di chiedere: "Come mai stamattina non si è vista Lisetta?". Non occupava un posto, era di quegli esseri che restano sconosciuti anche ai loro congiunti, come inesplorati, inspiegati: scompaiono, muoiono, e nessuno sente un vuoto, una mancanza in famiglia, perché ci sono pure esseri che non sanno entrare nell'esistenza, nelle abitudini e neppure nell'amore dei familiari con cui dividono la vita. Si diceva: "zia Lisetta", e non risvegliava nello spirito di chi pronunciava queste due parole nessun particolare sentimento come se si fosse nominata la caffettiera o la zuccheriera. Camminava sempre a passettini affrettati e leggeri, non faceva rumore, non urtava mai niente, era come se comunicasse agli oggetti la facoltà di non rendere alcun suono. Le sue mani sembravano fatte di una specie di bambagia, tanta era la leggerezza, tanta la delicatezza con cui toccava e adoperava una cosa.









Arrivò verso la metà di giugno tutta sconvolta dall'idea di quel matrimonio, e con una gran quantità di regali, che erano di lei, di Lisetta, e passarono perciò inosservati. Arrivò, e il giorno dopo non si sapeva più che ci fosse. Eppure si vedeva bene che era eccitata, che si agitava in lei una grande emozione, che i suoi occhi non lasciavano mai i promessi sposi, che si occupava del corredo con un'energia singolare, con un'attività sempre più mossa, più febbrile, lavorando come una semplice operaia nella sua stanza dove nessuno andava a vederla. Eccola, di quando in quando, mostrare alla baronessa fazzolettini a cui aveva fatto l'orlo, tovaglioli a cui aveva fatto la cifra.









"Va bene, Adelaide? Così?" "Non t'affaticare tanto mia povera Lisetta" rispondeva mammina esaminando distrattamente la stoffa.









Una sera, verso la fine del mese, dopo una giornata di pesante calura, la luna si levò in una di quelle notti chiare e tiepide che turbano, inteneriscono, esaltano, sembrano risvegliare una poesia segreta dell'anima. La dolce brezza dei campi entrava nel salone tranquillo. La baronessa e il marito giocavano a carte, svogliatamente, nel cerchio di luce della lampada familiare; la zia Lisetta lavorava a maglia lì accanto; e i due giovani, appoggiati alla finestra aperta, guardavano il giardino pieno di luce. Il platano e il tiglio spandevano le loro ombre sul prato erboso che si stendeva innanzi alla villa, pallido e luminoso fino al boschetto tutto nero. Attratta dal fascino di quella luce vaporosa che sembrava avvolgere alberi e pietre, Giovanna chiese il permesso di fare una passeggiata sull'erba, lì fuori.









"Andate pure, figlioli miei." Uscirono mentre ricominciava la partita, e camminarono lentamente sul gran prato bianco di luna, fino al piccolo bosco laggiù in fondo. Le ore passavano senza che la coppia pensasse a rientrare, e la baronessa era stanca e voleva andare a dormire. Chi richiamava i due innamorati? Il barone, sulla vetrata, percorse d'un colpo d'occhio il vasto giardino dove le due ombre erravano labili nella luce.









"Lasciamoli, cara. Si sta così bene qui fuori! Ecco: li aspetta Lisetta. Vero, Lisetta?" "Certo, li aspetterò" rispose con voce timida lei, alzando gli occhi con una certa inquietudine.









Rimasta sola, la zia Lisetta si alzò, lasciò sulla poltrona il lavoro incominciato, il gomitolo e il ferro da calza, si appoggiò alla finestra per contemplare la notte incantevole. I due fidanzati camminavano sempre attraverso il prato, dal boschetto alla scalinata, dalla scalinata al boschetto, e non parlavano più, ma si stringevano la mano, come in un oblìo di sé, come fusi nella poesia visibile che esalava dalla terra. Lei, improvvisamente, scorse nel vano della finestra il profilo della zitella disegnato dalla chiarità della lampada.









"Guarda, guarda! Lisetta ci osserva." "Si, zia Lisetta ci osserva" disse lui alzando la testa e con quella voce indifferente che parla senza pensiero.









E ancora sogni e passi lenti e tenerezze sotto la luna. La rugiada copriva l'erba; gl'innamorati ebbero un primo brivido di freddo.









"Rientriamo" disse Giovanna.









La zia Lisetta si era rimessa a lavorare: la sua fronte era china sulla maglia: le dita magre tremavano un poco come se fossero stanche.









Giovanna si avvicinò.









"Zia Lisetta, andiamo a dormire?" La zitella alzò gli occhi: erano gonfi come se avessero pianto.









Gl'innamorati non se ne avvidero; egli si avvide piuttosto che le scarpette di Giovanna erano bagnate di guazza.









"Non avete mica freddo ai vostri cari piedini?" A questo punto le mani della zia Lisetta furono scosse da un tremito così forte che le sfuggì il suo lavoro, il gomitolo della lana rotolò lontano sul pavimento, e la poveretta nascose la faccia tra le mani e scoppiò in un pianto convulso davanti ai due fidanzati che la guardavano immobili, senza capire.









"Ma che hai, zia Lisetta?" chiese Giovanna che le si era inginocchiata davanti e tentava di scostarle le braccia. "Che hai, che hai?" Allora la poveretta balbettò con la voce molle di lacrime, con tutta la persona contratta:



"Giovanna, Giovanna, egli t'ha domandato... t'ha domandato... "Non avete freddo... ai vostri cari piedini..." A me... non me le hanno dette mai queste cose... Mai a me... mai a me..." Giovanna era sorpresa e impietosita; eppure aveva voglia di ridere. Era buffa infatti l'idea di un innamorato che avesse di queste tenerezze per zia Lisetta e il visconte si era voltato dall'altra parte a nascondere la sua ilarità. Ma la zia si levò di colpo, lasciò la sua lana sul pavimento, il lavoro sulla poltrona, e fuggì via senza lampada, su per le scale buie, cercando la sua stanza a tentoni.









"Povera zia!" "Dev'essere un po' matta, stasera." Si tenevano per mano senza decidersi a separarsi, e così, dolcemente, dolcissimamente, si scambiarono il primo bacio davanti alla poltrona lasciata vuota proprio allora dalla povera zia. E il giorno dopo non pensavano già più a quelle lacrime.









Le due settimane che precedettero il matrimonio lasciarono Giovanna tranquilla e serena e come stanca di dolci emozioni.









Nemmeno il mattino del giorno decisivo si fermò un poco a riflettere. Provava soltanto una grande sensazione di vuoto come se tutto il suo corpo, la sua carne, il suo sangue le si fossero fusi sotto la pelle: si accorse, toccando gli oggetti, che le sue dita tremavano. In chiesa riprese il dominio di sé: e si era già alla funzione.









Sposa! Era sposa! La successione delle cose, dei movimenti, degli avvenimenti di quella mattina le parevano un sogno, un gran sogno, come nei momenti in cui tutto sembra cambiato intorno a noi, i gesti stessi hanno un significato diverso, le ore stesse non sanno compiere il giro ordinario. Si sentiva stordita, sbalordita. Solo il giorno prima nulla c'era di diverso, di modificato nella sua esistenza; c'era, sì, la speranza costante della sua vita diventata più prossima, quasi palpabile. Addormentarsi fanciulla:



svegliarsi donna. Era donna! Aveva dunque superato la barriera che sembra nascondere l'avvenire con tutte le sue gioie, con tutto il suo bene sognato, e sentiva che davanti a lei c'era una porta aperta: da questa porta entrava nell'"Atteso".









La cerimonia finiva. Si passò nella sagrestia quasi vuota, ché non avevano invitato nessuno. Quando apparvero sulla porta della chiesa, un fragore inumano fece sobbalzare la povera sposina, e la baronessa gettò un alto grido: era una salva di fucilate tirate dai contadini e le detonazioni non cessarono più fino ai "Pioppi".









Una colazione era stata preparata per la famiglia, per due curati, quello dei castellani e quello d'Yport, per i testimoni scelti tra i più grossi coltivatori dei dintorni. Il barone, la baronessa, la zia Lisetta, il sindaco e l'abate Picot, aspettando di mettersi a tavola, percorrevano in su e in giù il viale della mamma, mentre in quello di faccia l'altro prete leggeva il breviario camminando a gran passi. Giungeva, dall'altra parte del castello, la clamorosa allegria dei contadini che bevevano il sidro sotto i meli. Tutto il paese vestito a festa riempiva il cortile. I giovanotti e le ragazze si rincorrevano.









In quel momento Giovanna e Giuliano attraversavano il boschetto, salivano sull'argine e, muti, insieme, guardarono il mare. Benché si fosse a mezzo agosto, faceva un po' fresco; soffiava il vento del nord; un gran sole splendeva incandescente nel cielo tutto turchino. E per trovare un riparo attraversarono la landa girando a sinistra, puntando alla vallata ondulata e boscosa che scendeva giù verso Yport. Raggiunto il bosco, nessuna ventata li importunò più, e lasciarono il viale per internarsi in uno stretto sentiero, sotto il fogliame. Lì dentro si poteva appena camminare, così, l'uno dietro l'altro: allora sentì un braccio che le scivolava lentamente intorno alla vita. Ansimava senza parole, il respiro mozzo, il cuore convulso. I capelli erano toccati, accarezzati dai rami più bassi: bisognava chinarsi per passare. Giovanna colse una foglia: due bestioline del buon Dio, simili a fragili conchiglie rosse, vi si rannicchiavano sopra. E la sposina disse con innocenza, un po' rassicurata:



"Un matrimonio. Guardate." Lui le sfiorò l'orecchio con la bocca.









"Sarete mia moglie, stasera." Quantunque avesse imparato molte cose nella sua vita fra i campi, non pensava ancora che alla poesia dell'amore, e fu sorpresa. Sua moglie? Non lo era forse di già? Allora egli si mise ad abbracciarla dandole dei piccoli baci rapidi sulle tempie e sul collo, là dove si arricciano i primi capelli. Colpita ogni volta da quei baci di uomo a cui non era avvezza, rovesciava dall'altra parte il capo, d'istinto, per evitare una carezza che pur la rapiva. Eccoli dunque al confine del bosco. Si fermò come impressionata di essere lì. Che avrebbero detto di loro?



"Torniamo indietro" pregò.









Egli ritirò il braccio che le cingeva la vita e, voltandosi entrambi, si trovarono faccia a faccia, vicini, oh così prossimi che ognuno sentiva sul proprio volto l'alito dell'altro: e si guardarono, si cercarono negli occhi, dentro gli occhi, là dentro, dove l'ignoto dell'essere è impenetrabile; si esaminarono in una muta ostinata domanda. Che saranno mai l'uno per l'altra? Quale sarà la vita che cominciano insieme? Quali gioie, quali felicità e disinganni si riserbano reciprocamente nella lunga indissolubile comunanza del matrimonio? E sembrò loro che si vedessero per la prima volta in questo momento. Poi Giuliano, posando le mani sulle spalle di sua moglie, le diede un bacio sulla bocca così profondo come lei non ne aveva mai ricevuti. Questo bacio discese, penetrò nelle sue vene, nelle sue midolla, e ne sentì una scossa misteriosa; così misteriosa che respinse con forza il suo sposo e poco mancò non cadesse riversa in quell'appassionato smarrimento.









"Su, su... torniamo indietro..." Senza rispondere, egli le prese le mani e le tenne strette dentro le sue. Né parlarono più fino a casa. Il resto del pomeriggio parve interminabile. E si giunse al banchetto che era notte.









Fu un banchetto semplice e breve, contrariamente agli usi normanni. Una specie di disagio paralizzava i convitati. Solo i due preti, il sindaco e i quattro fittavoli mostrarono un po' di quell'allegria grossolana che nelle feste nuziali è di prammatica.









Il riso sembrava spento: lo rianimò un'arguzia del sindaco. Poi venne il caffè, ed erano circa le nove. Fuori, sotto i meli del primo cortile, incominciava il ballo campestre. Dalla finestra aperta si vedeva tutta la festa con quei suoi lampioncini appesi ai rami che davano alle foglie certe sfumature di un color verde grigio. Villani e villanelle danzavano in tondo urlando un'aria di danza selvaggia che i suonatori (due violini, un clarino) accompagnavano un po' debolmente accoccolati sul palco lassù, che era una modesta tavola di cucina. Il canto disordinato copriva talvolta il suono degli strumenti, e la debole musica, lacerata da quelle voci scatenate, sembrava cadere a brani dal cielo, a piccoli frammenti di poche povere note disperse. Due grandi barili circondati da torce fiammeggianti versavano da bere alla folla:



due serve non facevano che risciacquare coppe e bicchieri in una conca, per metterli, ancora sgocciolanti, sotto i rubinetti da cui colava il filo rosso del vino o il filo dorato del sidro. E i ballerini assetati, i vecchi tranquilli, le ragazze pazze, sudate, si pigiavano, tendevano le braccia per afferrare a turno un recipiente qualsiasi e versarsi a gran sorsi nella gola il liquido preferito, rovesciando il capo all'indietro. Ciascuno si avvicinava alla tavola dov'erano pane, burro, salsicce, formaggio e inghiottiva di quando in quando un boccone, e quella festa sana e veemente sotto il soffitto delle foglie illuminate metteva anche nei taciturni convitati della sala il desiderio di ballare, di bere alle grosse botti e mangiare una fetta di pane, burro, formaggio, una cipolla cruda.









"Perbacco!" gridò il sindaco che batteva il tempo col coltello "Così va bene! E' come chi dicesse le nozze di Ganascia!" Corse un sussulto di risa soffocate. Ma l'abate Picot, nemico naturale dell'autorità civile, corresse:



"Volete dire le nozze di Cana?" "No, no, signor curato" si intestardiva quell'altro per non accettare la lezione "so quel che mi dico: quando dico Ganascia è Ganascia!" Si alzarono da tavola, si unirono un po' alla gazzarra. Poi, ritiratisi gl'invitati, il barone e la baronessa ebbero fra loro, sottovoce, una specie di battibecco. La signora Adelaide, più ansante che mai, sembrava rifiutare quel che il marito le chiedeva.









"No, amico mio" disse infine quasi ad alta voce. " Non posso. Non posso. Non saprei da che parte incominciare..." Allora il barone la lasciò bruscamente e si avvicinò alla figliola.









"Vuoi fare un giro con me, bimba mia?" "Come vuoi, papà" rispose lei tutta commossa.









Appena furono sulla porta a mare li assalì un venticello frizzante, uno di quei venti freddi d'estate che fan già presagire l'autunno. Le nuvole galoppavano per il cielo ora velando ora scoprendo le stelle. Il padre stringeva contro di sé il braccio della fanciulla serrandole pure la mano in un tenerissimo fremito.









Sembrava indeciso, turbato. Infine si decise.









"Bimba mia, mi assumo adesso una parte difficile, una parte che veramente toccava a tua madre, ma siccome lei non vuole, bisogna bene che prenda il suo posto. Ignoro ciò che tu sai della vita. Ci sono misteri che si nascondono gelosamente alla gioventù e specialmente alle fanciulle che debbono conservare la purezza dell'anima e restare illibate finché noi le rimettiamo nelle braccia dell'uomo che deve difendere la loro felicità. Sta a lui, sta a lui togliere quel velo teso sul dolce mistero della vita. Ma le fanciulle, se nessun sospetto le ha ancora sfiorate, spesso si rivoltano davanti alla realtà un po' brutale nascosta dietro i loro sogni. Ferite nell'anima, ferite anche nel corpo, talvolta rifiutano allo sposo ciò che la legge gli accorda come un diritto assoluto. La legge umana... la legge naturale... Basta, non posso dirti di più. Ma non dimenticare questo, soltanto questo: tu appartieni interamente al tuo sposo." Che cosa veramente sapeva lei? Che cosa indovinava? Aveva cominciato a tremare oppressa da una malinconia snervante e dolorosa come un presentimento.









Una sorpresa li fermò sulla porta della sala, quando rientrarono.









La signora Adelaide singhiozzava sul petto di lui, dello sposo. I suoi singulti, le sue lacrime veementi, come risospinti da un mantice di fucina sembrava le uscissero nello stesso tempo dal naso, dalla bocca, dagli occhi; e lo sposo, interdetto, confuso, scontento, sosteneva la grossa signora che gli si abbandonava fra le braccia per raccomandargli la sua cara, la sua buona, la sua diletta la sua adorata figliola. Accorse il barone.









"Non fate scene, non v'intenerite, no, no, ve ne prego..." E così staccò la moglie dal giovane e la fece sedere su una poltrona per darle modo di asciugarsi le lacrime.









"Andiamo, piccina mia" disse egli rivolto a Giovanna. "Abbraccia alla svelta tua madre, e va' a coricarti." Giovanna stava quasi per piangere anche lei: abbracciò i suoi genitori e fuggì.









Zia Lisetta si era già ritirata nella sua stanza. Il barone e la baronessa rimasero soli con Giuliano. Erano così confusi tutt'e tre che non sapevano spiccicare parola, i due uomini in abito nero, in piedi, con gli occhi smarriti, la signora abbattuta sulla poltrona con un resto di singhiozzi nella gola. Siccome questo imbarazzo diventava intollerabile il barone cominciò a parlare del viaggio che i giovani sposi dovevano intraprendere dopo pochissimi giorni.









Intanto Giovanna, nella sua camera, si lasciava spogliare da Rosalìa che piangeva dirottamente. Queste povere mani di Rosalìa erravano a caso, non trovavano più né gli spilli né i nastri e sembrava davvero più commossa della sua padroncina. Ma come poteva pensare Giovanna alle lacrime della sua cameriera? Le sembrava di essere entrata in un altro mondo, partita da un'altra terra, separata da tutto ciò che aveva conosciuto e prediletto. Ecco, d'un tratto, l'esistenza sconvolta! Le venne perfino un'idea strana: suo marito... lo amava? Ed ecco anche, di colpo, il suo sposo apparirgli come un estraneo: ma sì, ma sì, lo conosceva appena! Tre mesi prima non sapeva nemmeno che esistesse. Allora non sapeva nemmeno che esistesse, e adesso era sua moglie. Perché?



Perché cader così presto nel matrimonio come in una buca aperta sotto i piedi?



Scivolò rapida nel letto, e il contatto delle lenzuola la fece rabbrividire e aumentò questa sensazione di freddo, di tristezza, di solitudine che le gravava da due ore sull'anima. Rosalìa se ne andò, sempre singhiozzando, e Giovanna attese. Attendeva ansiosa, col cuore convulso, non sapeva bene che cosa, qualcosa come di divino, o anche ciò che le aveva annunziato confusamente suo padre, quella rivelazione misteriosa di ciò che è il gran segreto d'amore.









Furon battuti tre colpi leggeri, senza che lei avesse udito un passo su per la scala. Trasalì spaventata e non rispose. Fu bussato ancora, un po' più forte: e poi la serratura che stride.









Nascose la testa sotto il lenzuolo, come se stesse per entrare un ladro. Quelle scarpe che scricchiolano sul pavimento... qualcuno che tocca il suo letto... Allora, in un sussulto nervoso, gettò un piccolo grido, e fu così che scoprì la testa e vide Giuliano in piedi, davanti, lui che guardava e rideva.









"Che paura m'avete fatto!" "Forse non m'aspettavate?" Non rispose. Egli era ancora vestito da cerimonia, in gran tenuta, con la sua faccia seria di bel giovane, e lei sentì una grande vergogna di essere a letto in presenza di un uomo così irreprensibile. Non sapevano più che cosa dire, che cosa fare: non osavano nemmeno guardarsi in quel momento così decisivo da cui dipende l'intima felicità della vita. Egli forse intuiva vagamente qual pericolo offra, e quanta docile padronanza di se stessi, quale astuta tenerezza sia necessaria per non ferire nessuno di quegli istintivi pudori, delle infinite delicatezze di un'anima vergine e nutrita di sogni. Allora, dolcemente, le prese una mano e gliela baciò; poi si inginocchiò ai piedi del letto come davanti a un altare.









"Mi amerete?" Tutta rassicurata, Giovanna sollevò sul guanciale il suo capo come aureolato d'un soffio di trine.









"Ma io vi amo già, amico mio." Egli prese in bocca le dita affusolate di sua moglie, e quell'impedimento di carne mutò la sua voce.









"Volete dimostrarmi che mi amate?" Rispose lei, di nuovo turbata, senza capire quel che si diceva, ricordandosi delle parole paterne:



"Sono tutta vostra, amico mio." Egli le coprì il polso di baci umidi e, raddrizzatosi pian piano, si accostò alla faccia di lei che ricominciava a nasconderla.









Improvvisamente, stendendo un braccio in avanti, al di sopra del letto, abbracciò sua moglie attraverso le lenzuola, mentre, introdotto l'altro braccio sotto il cuscino, le sollevava il docile capo.









"Allora, allora" domandò a voce bassa, molto bassa "volete farmi un posticino accanto a voi?" Ebbe paura, una paura istintiva, e balbettò:



"Oh non ancora, no, vi prego!" Egli sembrò sconcertato, anche un po' urtato. Riprese con un tono ancora supplichevole, ma brusco:



"Perché più tardi? Prima o poi, non sarà la stessa cosa?" Giovanna si sentì come punta da queste parole e tuttavia ripeté sottomessa e rassegnata:



"Sono vostra, amico mio..." Allora egli scomparve nell'attiguo spogliatoio e la sposina intese distintamente quei movimenti di lui, quel fruscio di abiti tolti di dosso, il tintinnio del denaro nelle tasche, le scarpe posate per terra. D'un tratto egli attraversò rapidamente la stanza, in mutande e calzini, per andare a posare l'orologio sul caminetto:



tornò correndo nella stanzetta vicina, si agitò ancora un poco, e Giovanna si volse di colpo dall'altra parte, chiudendo gli occhi, quando lo sentì avvicinarsi. Egli arriva, egli arriva! Si scosse di soprassalto, come per buttarsi a terra, quando sentì scivolare contro la sua gamba un'altra gamba fredda e pelosa, e con la faccia tra le mani, smarrita, sconvolta, decisa a gridare di paura e di sgomento, si rannicchiò sulla sponda del letto. Subito egli la prese fra le braccia, benché gli voltasse le spalle, baciandole avido il collo e le trine fluttuanti dell'acconciatura notturna e il colletto ricamato e il tessuto della camicia. Non si muoveva irrigidita in un'orribile ansietà, sentendo una mano greve cercarle il seno nascosto, premuto coi gomiti. Ansimava sconvolta sotto quel contatto brutale e voleva fuggire, correre per la casa, rinchiudersi in un luogo qualsiasi ma lontana da lui, da quell'uomo. Egli non si muoveva più e Giovanna sentiva il calore di lui sul suo dorso: allora il suo spavento si calmò di nuovo e pensò improvvisamente che non le restava che voltarsi per abbracciarlo.









"Non volete dunque essere la mia mogliettina?" "E non lo sono forse?" rispose lei attraverso le dita.









"Ma no, cara" disse egli con una sfumatura di cattivo umore. "Via, non vi burlate di me..." Giovanna si senti tutta agitata da quel tono di malcontento e si voltò subito a lui come per domandargli perdono. E lui l'afferrò per la vita, rabbiosamente, affamato di lei, le percorse tutta la faccia e tutto il collo di baci rapidi, folli, mordenti, stordendola di carezze, e poi ancora il collo, la bocca, la gola.









Aveva aperto le mani e rimaneva inerte sotto gli sforzi di lui, non sapendo quel che egli facesse, né quel che facesse lei stessa, in un turbamento di spirito che non lasciava comprendere nulla. Ma una sofferenza acuta la straziò tutt'a un tratto, e si mise a gemere e a torcersi fra le braccia di lui che la faceva sua con violenza.









Che avvenne poi? Non ricordò, perché aveva perduto la testa: le parve soltanto che egli le coprisse le labbra di baci riconoscenti, fitti fitti, piccoli piccoli. Doveva averle anche parlato ed lei, forse, risposto. Poi egli fece altri tentativi che lei respinse con spavento; e siccome si dibatteva, incontrò sul petto di lui quel pelo ruvido che aveva già sentito sulla gamba e si trasse indietro con orrore. Stanco di sollecitarla per nulla, egli rimase immobile, supino. Allora Giovanna si pensò e si sentì disperata fin nel profondo dell'anima, nel disinganno di un'ebbrezza sognata così diversa, di una cara attesa distrutta, di una felicità perduta per sempre: "Ecco, ecco ciò che egli chiama essere sua moglie: è questo, è questo!". E rimase così lungo tempo, angosciata, gli occhi erranti sulle tappezzerie della stanza, sulla vecchia leggenda d'amore che aveva avvolto e riempito il suo nido. Ma poiché Giuliano taceva e non si muoveva, girò lentamente lo sguardo verso di lui e si accorse sì, che dormiva! Dormiva, la bocca socchiusa, il viso calmo... Dormiva!



Quasi non poteva credere a questo: era indignata: si sentiva oltraggiata dal quel sonno più che dalla crudeltà, più che dalla brutalità. Eccola trattata come la prima venuta giacché egli poteva dormire in una notte simile! Oh Dio ciò che c'era stato fra loro non aveva dunque nulla di straordinario per lui? Sì, sì, avrebbe preferito essere picchiata, violentata ancora, macchiata di carezze odiose, sì, sì, fino a perderne i sensi! E rimase immobile, appoggiata su un gomito, piegata verso di lui, ascoltando fra quelle labbra il passaggio del soffio leggero che somigliava alla volgarità del russìo...









Venne il giorno, cupo in principio, poi chiaro, poi rosa, e poi sfavillante. Giuliano apri gli occhi, sbadigliò, guardò sua moglie e sorrise.









"Hai dormito bene, mia cara?" Si accorse che le dava del tu e lo guardò stupefatta.









"Ma sì. E... voi?" "Oh! Io benissimo." Si volse verso di lei, la abbracciò, e si mise a ragionare tranquillo, manifestando i suoi progetti per l'avvenire, con strane idee, idee di "economia": e questa parola ripetuta più e più volte stupì la sposina. Lo ascoltava senza afferrar bene il senso delle parole, lo guardava, pensava a mille cose rapide che passavano e sfioravano appena il suo spirito.









Suonarono le otto.









"Suvvia, bisogna alzarsi" egli disse. "Saremmo ridicoli se restassimo a letto fino a tardi." Scese dal letto per primo. E quando fu vestito, aiutò premuroso sua moglie in tutti i più minuti particolari della sua eleganza e non permise che chiamasse Rosalìa.









"D'ora innanzi" egli disse fermandola al momento di uscir dalla stanza "fra noi soli ci si potrà dare del tu. Davanti ai tuoi genitori è meglio attendere ancora. Il tu sarà naturalissimo al ritorno dal viaggio di nozze. Va bene?" Non si fece vedere che all'ora di colazione. E la giornata passò come sempre: come se non ci fosse nulla di nuovo. Non c'era, in casa, che un uomo di più.





















Capitolo 5









Ecco, quattro giorni dopo, la berlina che deve portarli a Marsiglia.









Passata l'angoscia della prima sera, Giovanna si era abituata al contatto di Giuliano, e alle tenerezze e ai baci e all'amore, benché la sua ripugnanza nei rapporti più intimi non fosse per nulla diminuita. Ma lo trovava bello, lo amava, e ritornava gaia e felice.









Gli addii furono brevi, senza tristezza. Solo la baronessa sembrava un poco commossa; e al momento della partenza mise nelle mani della figliola una gran borsa che pesava come se ci fosse dentro del piombo.









"Per le tue piccole spese di sposina..." Giovanna intascò, e i cavalli partirono.









"Quanto ti ha dato tua madre?" egli le chiese poi, verso sera.









Non ci pensava più, e rovesciò in grembo la borsa. Un fiotto d'oro si sparse: duemila franchi. Giovanna batté le mani puerilmente.









"Farò delle pazzie!" disse nascondendo il suo oro.









Dopo otto giorni di viaggio arrivano, con un orribile caldo, a Marsiglia e l'indomani il "Re Luigi", il piccolo piroscafo che andava a Napoli passando da Ajaccio, li portava verso la Corsica.









La Corsica! La macchia! I briganti! Le montagne! La patria di Napoleone! Giovanna credeva di uscire dalla realtà per entrare, così desta, in un sogno.









L'uno accanto all'altra, sul ponte della nave, guardavano perdersi lontano le spiagge della Provenza. Il mare, immobile: d'un azzurro carico, come rappreso nella luce calante dal sole: il cielo, infinito, sotto il cielo di un turchino quasi esagerato, insolente.









"Ricordi la nostra passeggiata nella barca di papà Lastique?" Invece di rispondere, egli si chinò di furia a baciarle un orecchio.









Le ruote del vapore sbattevano l'acqua rompendone il sonno pesante e la lunga traccia schiumosa, una lunga pallida scia dove l'acqua mossa spumeggiava come champagne, prolungava fino a perdita d'occhio il solco del naviglio, dirittissimo. D'un tratto, lì davanti, a pochi metri balza un pesce dall'acqua, un delfino, vi rituffa la testa, scompare. Giovanna, sorpresa, ebbe paura, gettò un grido, si abbandonò sul petto di lui. Rise del suo spavento e guardò ansiosa se l'animale ricomparisse. Ed eccolo, dopo un minuto, scattare ancora come un grosso giocattolo meccanico:



ricadde e uscì un'altra volta: e furono due, tre, sei delfini che parevano saltellare intorno al pesante piroscafo e quasi scortare quel loro mostruoso fratello, quel pesce di legno dalle pinne di ferro, ora a destra, ora a sinistra, o tutt'insieme, o l'uno dopo l'altro, in un giuoco, in un rincorrersi allegro, slanciandosi in aria con la gran curva di un salto e ricadendo in fila nei tuffi.









Giovanna batteva le mani entusiasta, trasaliva a ogni apparizione di quegli enormi agili nuotatori, il suo cuore balzava come quei delfini in una pazza allegria di bambino. Scomparvero. Si videro ancora una volta, lontani, lontani, in alto mare: poi niente. E questa scomparsa, per un momento almeno, dispiacque.









Veniva la sera; una sera calma, radiosa, piena di chiarore, di pace serena. Non un fremito nell'aria o sull'acqua e questo riposo illimitato del mare e del cielo si stendeva sulle anime stanche, che non trasalivano più. Il sole calava là mollemente, verso l'Africa invisibile, verso la terra infuocata di cui si avvertivano quasi gli ardori; e una specie di fresca carezza sfiorava le fronti dopo che il sole era tramontato e scomparso, e non era nemmeno un soffio, ma una parvenza di brezza.









Giovanna e Giuliano non vollero scendere in cabina, là dove si sentiva l'orribile odore del piroscafo: si stesero fianco a fianco sul ponte, sotto i loro mantelli, e dormirono. Giuliano dormiva; lei rimaneva a occhi aperti, agitata dal senso d'ignoto del viaggio, cullata dalla monotonia delle ruote, guardando passar sul suo capo legioni di stelle, stelle così chiare, di una luce così acuta, così scintillante e come inumidita in quel puro cielo d'estate.









Si assopì verso il mattino. Ma la svegliarono voci e rumori:



erano i marinai che cantavano e rifacevano bella la nave. Scosse suo marito, lo obbligò ad alzarsi, mentre beveva esaltata quel sapore di bruma salina che le penetrava fin nell'estremità delle dita. Quanto mare! Non altro che mare! Pure, là in fondo, sembrava che qualcosa di grigio si posasse sulle onde, qualcosa di ancora confuso nell'alba nascente, qualcosa come un agglomeramento di nuvole strane, tutte sporgenze e frastagli. A poco a poco, nel cielo sempre più chiaro, i contorni si svelano, si eleva come una grande linea di montagne cornute e bizzarre: la Corsica! E' proprio la Corsica avvolta in una specie di velo leggero. Dietro le sorge il sole disegnando i rilievi delle creste in ombre nere e compatte, poi le vette si incendiano e il resto dell'isola rimane come annebbiata di vapore.









Apparve il capitano sul ponte, un vecchio ometto disseccato, indurito, rattrappito dai crudi venti salmastri.









"Lo sentite questo odore?" disse a Giovanna con una voce arrochita da trent'anni di comando, logorata dalle grida lanciate nelle burrasche.









Sentiva infatti un odore singolare di piante; un aroma selvaggio.









"E' la Corsica che fiorisce così, è il suo profumo di donna bella.









La riconoscerei a cinque miglia di distanza dopo vent'anni. Io sono corso. Si dice che laggiù, a Sant'Elena, Egli parli sempre dell'odore del suo paese. E' della mia famiglia." E il capitano si levò il cappello per salutare la Corsica: e salutò laggiù, attraverso l'oceano, colui che apparteneva alla sua famiglia: il grande imperatore prigioniero.









Giovanna fu così commossa che si sentì le lacrime agli occhi.









"Le sanguinarie" annunziò poi l'uomo di mare col braccio teso verso l'orizzonte. Giuliano e Giovanna guardavano lontano lontano (lui la stringeva alla vita) per scoprire il punto indicato. E finalmente scorsero alcune rocce in forma di piramide che la nave girò con destrezza entrando in un golfo immenso e tranquillo, tutto contornato di cime. Il capitano indicò i più bassi pendii che parevano coperti di muschio: "Le macchie". Man mano che si avanzava il cerchio dei monti sembrava chiudersi dietro la nave che navigava lenta in un azzurro così trasparente che non se ne vedeva il fondo. E la città apparve di colpo, in fondo al golfo, ai piedi delle montagne, lambita dal mare.









Alcuni piccoli bastimenti italiani ancorati nel porto. Quattro o cinque barche venivano intorno al "Re Luigi" per prenderne i passeggeri. Giuliano riuniva i bagagli; domandò sottovoce a sua moglie:



"Bastano venti soldi per il facchino, no?" Da otto giorni Giuliano faceva continuamente la stessa domanda, e Giovanna ne soffriva quasi ogni volta. Rispose con un'ombra d'impazienza:



"Quando si è sicuri di non dare abbastanza, si dà troppo." Egli discuteva sempre con tutti, coi padroni e coi camerieri degli alberghi, coi fiaccherai, coi venditori di ogni genere, e quando aveva a forza d'astuzia ottenuto anche un piccolo ribasso diceva a Giovanna: "Non mi piace d'essere derubato" e si fregava le mani. E lei tremava tutte le volte che gli presentavano i conti, già sicura delle osservazioni che egli avrebbe fatto su tutto, umiliata per quel piccolo mercanteggiare, infiammata fino ai capelli sotto lo sguardo sprezzante dei camerieri che seguivano con la coda dell'occhio il suo sposo tenendo nel palmo della mano la mancia meschina. E ora anche una discussione col barcaiolo che li portava a terra.









Il primo albero che vide fu una palma.









Si fermarono in un grande albergo vuoto all'angolo d'uno spiazzo, e si fecero portare la colazione. Dopo colazione, mentre Giovanna si alzava per andare a veder la città, Giuliano le afferra un braccio e le dice qualcosa all'orecchio:



"Se ci coricassimo un poco, tesoruccio mio?" "Coricarci? Ma io non sono stanca." "Non capisci?" disse stringendola a sé. "Non capisci che ti desidero? Dopo due giorni..." Giovanna arrossì di vergogna.









"Oh, adesso! Ma che diranno? Che penseranno? Come oserai chiedere una camera di pieno giorno? Oh Giuliano, ti supplico...." "Me ne infischio di quel che può dire e pensare l'albergo! Sta' a vedere" e suonò.









Restava a occhi bassi, senza parlare. Ma sentiva che la sua anima si ribellava a quel desiderio inesausto, e che obbediva, sì, ma con disgusto, e che era rassegnata, insieme, e umiliata e che vedeva in ciò qualcosa di bestiale, di degradante, ecco, ecco...









una porcheria! I suoi sensi dormivano ancora e il suo sposo la trattava come se già dividesse il piacere! Il cameriere arriva, Giuliano gli dice di condurli in camera, l'altro non capisce e assicura che la stanza sarà pronta, già, già... per la sera.









Giuliano, impazientito, si spiega: subito subito, bisogno di riposo, stanchi del viaggio... Allora un sorriso cala giù per la barba del cameriere (un vero corso, peloso fino agli occhi) e Giovanna vorrebbe fuggire...









Quando ridiscese, dopo un'ora, non osava passare davanti alla gente, persuasa che qualcuno avrebbe riso e bisbigliato dietro le sue spalle. Serbava rancore a Giuliano di non capir queste cose, questi delicati pudori, queste delicatezze istintive, e le sembrava che fra loro due ci fosse come un velo, un ostacolo; e poteva anche darsi che due esseri non potessero penetrarsi mai fino in fondo, e che essi camminassero sì a fianco a fianco, magari abbracciati, ma non confusi, non immedesimati l'uno nell'altro, perché l'essenza morale di ciascuno rimane sola per tutta la vita.









I due giovani sposi passarono tre giorni in quella cittadina nascosta in fondo al golfo turchino, calda come una fornace dietro la sua cortina di montagne che non permetteva al vento di arrivare fin lì. Poi prepararono l'itinerario del viaggio, e per non indietreggiare davanti a nessun passaggio difficile decisero di noleggiare dei cavalli: due piccoli stalloni corsi dall'occhio furioso, magri e infaticabili. La partenza avvenne il giorno dopo, allo spuntar del sole. Seguiva una guida con le provvigioni, poiché gli alberghi sono sconosciuti in questo paese selvaggio.









La strada correva dapprima sul golfo e si internava poi in una vallata poco profonda che si apriva verso le alture. Spesso attraversavano terreni quasi asciutti dove una parvenza di ruscello scorreva ancora sotto le pietre, come una bestia nascosta, gorgogliando timido timido. Il territorio incolto sembrava nudo, coi fianchi delle coste coperti di erbe alte e gialle per l'ardore dell'estate. Talvolta incontravano un piccolo montanaro a piedi o a cavallo o sul dorso di un asino, non più grosso di un cane, e tutti avevano ad armacollo il fucile già carico: vecchie armi arrugginite ma, nelle loro mani, temibili. Il forte profumo delle piante aromatiche, che erano come il vello dell'isola, faceva l'aria sempre più densa e la strada si elevava a poco a poco lungo la tortuosità delle montagne. Cime di granito rosa e azzurro davano al paesaggio qualcosa di coreografico, e sui più bassi declivi foreste immense di castagni parevano soltanto cespugli tanto erano gigantesche in quei paraggi le ondulazioni terrestri. Talvolta la guida diceva un nome tendendo il braccio verso le cime dirupate; Giovanna e Giuliano guardavano, ma non vedevano nulla, poi scoprivano qualcosa di grigio, simile a un ammasso di pietre cadute dall'alto; ed era un villaggio, un casolare di granito, appollaiato lassù, aggrappato come un nido di uccello, quasi invisibile nell'immensità della montagna.









Quel lungo viaggio al passo snervava Giovanna.









"Corriamo un poco" propose. E lanciò il suo cavallo.









Poi, siccome non udiva dietro galoppare il suo sposo, si volse e rise d'un riso vivace vedendolo accorrere pallido, tenendo la criniera dell'animale e balbettando in modo goffissimo. La sua stessa bellezza, il suo viso di "bel cavaliere" rendevano ancor più ridicole la sua goffaggine e la sua paura. Allora cominciarono a trottare lentamente. La strada, adesso, si stendeva fra due boschi infiniti che coprivano tutta la costa come con un mantello.









Era la macchia. Era la macchia impenetrabile, la macchia formata di querce verdi, di ginepri, corbezzoli, lentischi, alaterni, eriche, mirti, bossi. che allacciavano fra loro, arruffandoli come capigliature, cisti e caprifogli e rosmarini e lavande e rovi e felci mostruose, e gettavano così sul dorso dei monti un inestricabile vello.









Avevano fame. La guida li raggiunse e li condusse presso una di quelle sorgenti incantate, così frequenti nei paesi rocciosi, non più di un sottile filo d'acqua gelata che esce da un buco di roccia cadendo e gemendo sull'estremità di una foglia di castagno messa li da un passante per condurre la lieve corrente fino alla bocca. Ne fu talmente felice che stentava a non gridare la sua gioia.









Poi cominciarono a scendere girando il golfo di Sagona e verso sera attraversavano Cargese, il villaggio greco fondato da una colonia di profughi scacciati dalla loro patria. Ragazze alte e forti (mani lunghe, vita sottile) sostavano a capannello verso la fontana. Giuliano diede la buona sera e quelle risposero con voce cantante nella lingua del paese abbandonato.









Giungendo a Piana, bisognò chiedere ospitalità come nei tempi antichi, nelle località più selvagge. Lei sussultava tutta felice attendendo che si aprisse la porta a cui Giuliano aveva bussato.









Oh, quello era proprio un viaggio, con tutto l'imprevisto delle strade inesplorate! E si trovarono in faccia a due giovani sposi che ricevevano quest'altri due giovani sposi come i patriarchi dovevano ricevere l'ospite mandato da Dio; e così dormirono sopra un pagliericcio di foglie, in una vecchia casa tarlata dove tutto il legname roso dai vermi, percorso dalle lunghe teredini, mangiatori di travi, bisbigliava occultamente, come se vivesse e sospirasse in segreto.









Al sorgere del sole partirono; ma li fermò quasi subito una straordinaria foresta, una foresta di granito tutta di porpora; picchi, guglie, colonne, figure sorprendenti modellate dal tempo, dal vento roditore, dalle brume del mare, alte, snelle, tonde, contorte, difformi, strane, fantastiche rocce simili ad alberi, animali, uomini, statue, diavoli cornuti, monaci in tonaca, uccelli smisurati, un popolo di mostri, una famiglia di geni del male pietrificati per il capriccio di qualche iddio stravagante.









Giovanna aveva il cuore serrato, non parlava più, teneva la mano di Giuliano come invasa dal bisogno d'amare davanti alla bellezza del mondo. Poi, improvvisamente, uscendo da quel caos, un nuovo golfo cinto da una muraglia che sanguinava, di granito rosso. E tutte quelle rocce scarlatte che si specchiavano nel mare turchino!



"Oh Giuliano..." balbettava lei senza trovare altre parole intenerita dall'ammirazione, la gola stretta, due lacrime lì per lì cadere.









"Che cos'hai, tesoruccio mio, che cos'hai?" Lei si asciugò le guance e sorrise.









"Non è nulla... i miei nervi... Non so... Ero affascinata... Sono così felice che anche una piccolezza mi mette sottosopra..." Ma lui non capiva i languori femminili, le scosse di questi esseri vibranti per nulla, percossi da un entusiasmo come da una catastrofe, sconvolti e fatti pazzi di dolore o di gioia da una sensazione impercettibile. Era preoccupato dalla strada cattiva e lacrime simili gli parevano alquanto ridicole. Giovanna faceva meglio a badare al suo cavallo.









Per la strada impraticabile erano scesi in fondo a quel golfo, poi girarono a destra per salire la cupa Val d'Ota.









Ma che orrendo sentiero! Egli propose: "Se salissimo a piedi?" e Giovanna, felice di camminare, di essere sola con lui, dopo la commozione di dianzi, ringraziò la guida che doveva precedere con mulo e cavalli, e si avviò al suo fianco a piccoli passi.









La montagna, spaccata dall'alto al basso, si apriva. Il sentiero si addentra in questa breccia, segue il fondo fra due muraglie prodigiose, un grosso torrente percorre il crepaccio, e l'aria è ghiacciata, e il granito sembra nero, e ciò che si vede là in alto, di cielo azzurro, stupisce e stordisce. Giovanna trasalì a un repentino strepito aereo e vide un uccello spiccare il volo da un buco: era un'aquila. Pareva che le ali aperte toccassero le due pareti del pozzo: salì fin nell'azzurro: scomparve.









Più lontano, la spaccatura del monte si divideva in due: fra i due burroni il sentiero si arrampicava in bruschi zigzag. Giovanna, allegra e leggera, andava avanti, come divertendosi a far rotolare i sassi sotto i suoi piedi, poi si sporgeva intrepida sugli abissi, e lui la seguiva un poco ansimante, con gli occhi a terra per timore della vertigine. Il sole li inondò quasi d'un colpo, così che credettero di uscire dall'inferno. Avevano sete. Una traccia umida li guidò attraverso un caos di pietre fino a una piccolissima sorgente incanalata in uno di quei bastoni a tubo dei caprai. Un tappetino di muschio vellutava il suolo lì intorno.









Giovanna si inginocchiò per bere. E mentre assaporava quella freschezza, Giuliano, stando in ginocchio, la prendeva per la vita, cercava di rubarle il posto all'imboccatura del tubo di legno. Lei resisteva: le labbra si urtarono, si incontrarono ancora, si respinsero. Nella lotta, afferravano quella sottile estremità e la mordevano, sì, per non perderla, e il filo di acqua gelata, conquistato e lasciato senza tregua si spezzava e si rifaceva spruzzando volti, colli, abiti, mani. Goccioline simili a perle lucevano qua e là fra i capelli, baci volavano come trasportati dalla corrente. Allora Giovanna ebbe un'ispirazione d'amore. Si riempì la bocca del chiaro liquore e con le guance gonfie come otre mostrò a Giuliano che voleva dissetarlo così; labbra su labbra. Egli tese la gola, felice, arrovesciò la testa, aprì le mani e così bevve alla fonte di carne che gli versava anche il desiderio d'amore. E lei gli si appoggiava con una tenerezza nuova, tutta in palpito, coi seni più sporgenti, con gli occhi che parevano molli, stillanti. Disse sottovoce: "Giuliano...









ti amo..." e lo attirava a sé, riversandosi, nascondendo fra le mani un viso rosso di ansia e di vergogna. Egli si gettò su lei e la strinse con forza mentre lei ansimava e gettava un gran grido, colpita come dalla folgore, dalla sensazione bramata. Quanto tempo impiegarono a toccare la cima di quella salita! Solo la sera giunsero a Evisa, presso il parente della loro guida, Paolo Palabretti.









Quest'uomo di alta statura, un po' curvo, con l'aspetto di tisico, li condusse in una triste camera di pietra nuda, triste e pur bella per quel paese dove l'eleganza è ignorata, esprimendo il piacere di riceverli nel suo dialetto corso, misto di italiano e di francese, quando una voce chiara lo interruppe e una brunettina schizzò nella stanza.









"Buon giorno, signora! Buon giorno, signore! Come la va?" La piccola donna bruna, grandi occhi neri, pelle abbronzata dal sole, vita stretta, denti in mostra, sorriso tenace si era slanciata, aveva fatto festa ai suoi ospiti, abbracciato lei, stretto la mano di lui. Ora prendeva i cappelli e gli scialli, faceva ogni cosa con un sol braccio, poiché portava l'altro fasciato, poi spinse tutti sull'uscio raccomandando al marito:



"Fai fare a questi signori una passeggiata fino all'ora del pranzo." Il signor Palabretti obbedì subito. Si mise in mezzo ai due giovani per mostrar loro il villaggio, e strascicava i passi e le parole, tossendo frequentemente, lamentandosi a ogni colpo di tosse che l'aria fresca della vallata gli fosse caduta sul petto.









"Qui mio cugino Giovanni Rinaldi fu ucciso da Matteo Lori" disse col suo accento monotono quando ebbe guidato gli ospiti per un sentiero perduto, sotto i castagni. "Guardate. Io ero là vicinissimo a Gianni, quando Matteo comparve a pochi passi da noi." "Giovanni" gridò, "non andare ad Albertaccio, non andarci, Giovanni, o t'uccido." Io presi il braccio di Gianni: "Non andarci; quello è capace di farlo...". Era per una ragazza a cui stavano dietro tutti e due, la Paolina Percupi. Ma Giovanni si mise a gridare "Ci andrò, Matteo, ci andrò! Non sei tu che me lo impedirai!". "Allora Matteo abbassò il fucile prima che io potessi spianare il mio... e sparò. Giovanni fece un gran salto con tutt'e due i piedi, come un ragazzo che salti la corda, sissignore, così, sissignore, e mi cascò fra le braccia in modo che il fucile mi cadde dalle mani e rotolò fin verso quel castagno laggiù. Egli aveva la bocca aperta, ma non disse più nessuna parola: era morto." Ora, stupefatti, i due sposi guardavano il tranquillo testimone di un tale delitto.









"E l'assassino?" fece Giuliano.









"Fuggì per la montagna" disse Paolo Palabretti in un sussulto di tosse. "L'anno dopo lo uccise mio fratello. Voi sapete, mio fratello, Filippo Palabretti, il bandito." Giovanna ebbe un brivido.









"Vostro fratello... un bandito?" "Sì, signora" affermò il corso tranquillo, con un lampo di fierezza negli occhi. "Era celebre lui. Sei gendarmi ha abbattuto.









E' morto con Nicola Morali, quando furono soverchiati dal Niolo, dopo sei giorni di lotta, che stavano per morire di fame." Poi aggiunse in tono rassegnato: "E' il paese che vuole così" non diversamente di come soleva dire: "è l'aria della valle che è fresca".









Tornati a casa per il desinare la piccola corsa li trattò come se li conoscesse da vent'anni. Ma un'inquietudine pungeva la giovane sposa. Avrebbe ritrovato ancora fra le braccia di Giuliano quella strana e veemente scossa di nervi che aveva avuto laggiù, tra i muschi della fontana? Quando fu sola con lui, nella nuda stanza nuziale, tremava al pensiero di restare ancora insensibile sotto i suoi baci. Ma ben presto fu rassicurata, e fu quella la sua prima notte d'amore.









Il giorno dopo, prima d'andarsene, non si decideva a lasciare l'umile casa dove le sembrava di aver trovato la felicità. Chiamò in camera la piccola donna, e facendole ben comprendere che non voleva farle regali, insistette, quasi arrabbiandosi, per ottenere di mandarle da Parigi un ricordo, un oggetto qualsiasi che le piacesse, che avesse un significato, magari superstizioso, per lei. La corsa resistette a lungo: non voleva accettare: finalmente acconsentì.









"Ebbene, mandatemi una pistola. Una pistola piccola piccola." Giovanna sgranò gli occhi. L'altra aggiunse pianissimo quasi all'orecchio, come se confidasse un dolce segreto:



"E' per ammazzar mio cognato." E sorridendo e con un moto rapido sciolse le bende del braccio inservibile mostrando la sua carne rotonda e bianca, traversata da parte a parte da un colpo di pugnale, ma ormai quasi cicatrizzata:



"Se non fossi stata forte come lui, sarei morta a quest'ora. Mio marito non è geloso; lui mi conosce e poi è malato, lo sapete, e ciò gli calma il sangue. Io sono una donna onesta, signora, e mio cognato crede a tutto quel che gli dicono. Lui è geloso per conto di mio marito, e ricomincerà certamente. Ma allora io avrò la mia pistola e sarò tranquilla: saprò vendicarmi." Giovanna promise d'inviare l'arma, abbracciò teneramente la sua nuova amica e partì.









Il resto del viaggio non fu più che un sogno, un'ebbrezza, uno slancio, un continuo abbracciarsi. Non vide nulla, né i paesaggi, né la gente, né i luoghi dove si fermava. Non guardava più che Giuliano. Così cominciò l'intimità infantile e incantevole delle sciocchezze d'amore, delle piccole paroline idiote e pur deliziose, così sorsero i vezzeggiativi e i diminutivi per tutte le pieghe, i rilievi, le sinuosità dei loro corpi, là dove la bocca indugiava. Siccome Giovanna dormiva sul fianco destro, la mammella sinistra restava spesso scoperta e Giuliano chiamava quella mammella "Signora Dormi-in-fuori" e l'altra "Signora Ardente" perché il roseo capezzolo gli sembrava più sensibile ai baci. Il solco profondo fra le due mammelle divenne il "viale della mammina" perché vi si passeggiava di continuo, e un'altra strada, questa più segreta, fu chiamata "via di Damasco" in ricordo della Val d'Ota.









Arrivati a Bastia, fu necessario pagare la guida. Non trovando l'occorrente nelle sue tasche, egli disse a Giovanna:



"Giacché non ti servi dei duemila franchi di tua madre lasciali a me da portare. Saranno più al sicuro nella mia cintura. E mi risparmierò di far moneta." Giovanna gli diede la borsa.









Giunsero a Livorno, visitarono Firenze, Genova, tutta la Costa Azzurra. Un mattino che spirava il maestrale si ritrovarono a Marsiglia, ed erano passati due mesi dalla loro partenza dai "Pioppi", era il I5 ottobre. Colpita da quel vento freddo che sembrava venir di laggiù, dalla lontana Normandia, Giovanna si sentiva un po' malinconica. Giuliano non era già stanco, indifferente, cambiato? Lei aveva paura, non sapeva bene di che.









Ritardò ancora di quattro giorni il viaggio di ritorno, non potendo decidersi a lasciare quel bel paese del sole, forse perché temeva di aver compiuto il suo giro di felicità. Finalmente partirono. A Parigi dovevano fare gli acquisti necessari al loro insediamento in campagna, e Giovanna gioiva al pensiero di portar cose splendide ai "Pioppi", grazie alla prodigalità della mamma, ma il primo pensiero fu per la giovane corsa d'Evisa a cui aveva promesso la pistola della vendetta.









"Mio caro" disse arrivando "vuoi rendermi il mio danaro perché io possa fare le compere?" Egli si volse verso di lei con una faccia scontenta.









"Quanto ti occorre?" Balbettò, un po' sorpresa:



"Ma... ciò che vuoi..." "Ti darò cento franchi. Ma, badiamo, veh: niente spreco!" Non sapeva che dire. Era confusa, stordita.









" Ma..." disse infine esitando "io t'avevo dato quel danaro per..." "Si, certamente. Che sia nella tasca tua o nella mia, che importa, dal momento che abbiamo la stessa borsa? Io non te lo rifiuto mica. Non vedi? Ti do cento franchi!" Giovanna accettò le cinque monete d'oro senza aggiungere una sillaba: non osò chiedere altro denaro: non comperò che la pistola. Otto giorni dopo si misero in cammino verso i " Pioppi".





















Capitolo 6









Famiglia e domestici aspettavano presso i pilastri del cancello bianco. La carrozza di posta si ferma, e gli abbracci non finiscono più. Mammina piange; Giovanna intenerita si asciuga una lacrima; il padre va e viene, nervosamente, su e giù.









Il viaggio è narrato mentre si scaricano i bagagli davanti al caminetto del salone. Le parole fluiscono abbondanti dalle labbra della sposina, e tutto è detto, tutto in meno di mezz'ora: eccetto forse qualche piccolo particolare lasciato per via nella foga del rapido discorso.









Poi la sposina andò a disfare i bauli; e Rosalìa, commossa e felice, aiutava la sua padroncina. Quando ebbero fatto, quando la biancheria, i vestiti, gli oggetti di toilette tornarono a posto, la buona ragazza scomparve e Giovanna si sedette un po' stanca.









Che fare? Cercare un'occupazione per il suo spirito, un lavoro per le sue mani? Ah no, non le sorrideva il pensiero di scendere nel salone dove mammina certo sonnecchiava; forse avrebbe preferito una passeggiata, ma la campagna le sembrava ora così triste che solo a guardarla dalla finestra aveva un peso di malinconia nel suo cuore. Ammise così che non aveva nulla da fare, che non avrebbe avuto mai più nulla da fare. Nulla, nulla! In convento tutta la sua gioventù era stata occupata dal pensiero dell'avvenire, da tutta una folla di sogni; il continuo agitarsi delle sue speranze riempiva, a quel tempo, tutte le sue ore senza che le sentisse passare. Poi appena uscita da quelle mura arcigne dov'erano sbocciate le illusioni, il suo sogno d'amore si era mutato di colpo in vita reale. L'uomo desiderato, incontrato, amato in poche settimane (così ci si sposa in certe decisioni repentine) l'aveva presa fra le sue braccia senza lasciarla riflettere a nulla. Ma ecco che la realtà sognante dei primi giorni stava per diventare realtà quotidiana chiudendo le porte alle indefinite speranze, alle deliziose inquietudini dell'ignoto:



l'attesa era finita. E poiché aveva finito di attendere non c'era più nulla da fare, né oggi, né domani, né mai. Tutto ciò le dava una vaga delusione. E' così che crollano i sogni.









Si alzò, appoggiò la sua fronte ai vetri freddi, guardò il cielo dove correvano nuvole cupe, pensò di uscire fuori. Quella la stessa campagna del mese di maggio? l'erba, i fiori di allora?



Dove più la gaiezza luminosa delle foglie? e la verde poesia dei prati dove fiammeggiavano le radicchielle, dove sanguinavano i papaveri, splendevano le margherite; e le fantastiche farfalle gialle sorvolavano irrequiete come mosse da fili invisibili?



Perduta, perduta anche quella dolce ebbrezza dell'aria così densa di atomi fecondanti, di aromi! S'allungavano i viali pieni di sangue con le continue piogge d'autunno, coperti da uno spesso tappeto di foglie morte sotto lo squallore rabbrividente dei pioppi quasi spogli; e i gracili rami tremavano al vento, agitavano ancora qualche foglietta prossima a volare nell'aria.









Tutto il giorno, senza tregua, come in una pioggia triste, insistente, quelle ultime foglie ormai tutte gialle, simili a tanti soldoni dorati, si staccavano, roteavano, volteggiavano, giungevano a terra...









Si spinse fino al boschetto. Triste come la stanza di un morente.









Eccola dispersa qua e là la parete di verde che separava i viottoli sinuosi circondandoli come di mistero. Gli arbusti aggrovigliati, come una trina di legno fino, i ramoscelli stecchiti urtavano gli uni contro gli altri, e il mormorio delle foglie secche cadute, spinte, sconvolte, ammonticchiate qua e là dalla brezza, rendeva come un doloroso sospiro d'agonia. Qualche uccellino piccolo piccolo saltava di rametto in rametto con un leggero grido freddoloso, cercando riparo. Solo il tiglio e il platano, protetti dallo spesso velario degli olmi che fungevano da avanguardia contro il soffio marino, solo il platano e il tiglio erano sempre gli stessi dell'estate; e sembravano vestiti l'uno di rosso velluto, l'altro di una bella seta color arancio, colorati così dai primi rigori, secondo la natura delle linfe.









Giovanna andava e veniva, su e giù per il viale di mammina, lungo la fattoria dei Couillard. Che cosa dunque la opprimeva? Forse il presagio delle lunghe ore di noia che ormai non potevano tardare?



Sedette sul pendio, dove Giuliano per la prima volta le aveva parlato d'amore. E rimaneva lì, vaneggiando, quasi senza pensare, illanguidita in una specie di sogno, col desiderio di coricarsi, dormire, sfuggire alla tristezza di quel giorno... Improvvisamente apparve un gabbiano che attraversava il cielo in una raffica, e si ricordò allora dell'aquila che aveva visto in Corsica, laggiù, nella cupa Val d'Ota; la scossa fu così viva come quella che dà al cuore il ricordo di una cosa buona e finita, e rivide di colpo l'isola calda e radiosa col suo profumo selvaggio, il suo sole che matura i cedri e gli aranci e le montagne dalle cime rosate e i burroni dove precipitano i torrenti. Allora fu avvolta come dalla desolazione del paesaggio umido e duro che la circondava (quella caduta di foglie! quelle nuvole trascinate dal vento!), non volle vedere più nulla e rientrò per non piangere.









Mammina, ormai avvezza a quelle malinconiche giornate, non le avvertiva più e sonnecchiava intorpidita accanto al caminetto.









Giuliano e il padre erano usciti insieme parlando d'affari. Venne la sera, e diffuse una luce cupa nel vasto salone illuminato a guizzi dai riflessi del fuoco. Di fuori un resto di giorno lasciava appena distinguere dalle finestre quella natura sudicia di fine d'anno e il cielo grigiastro come se fosse anch'esso infangato.









Il barone rientrò con Giuliano.









"Luce, luce!" tempestò nella camera buia, e suonò il campanello.









"Luce, luce! Perché queste tenebre?" E si sedette al caminetto guardando i suoi piedi umidi fumare alla fiamma e la crosta fangosa delle scarpe disseccarsi al calore e cadere. E si fregava le mani tutto contento.









"Credo che gelerà. Il cielo si schiarisce a nord. E' luna piena.









Il freddo pizzicherà, questa notte." Si volse verso Giovanna.









"Ebbene, piccola, sei contenta di essere tornata al tuo paese, alla tua casa, accanto ai tuoi vecchi?" Una domanda così semplice intenerì talmente Giovanna che si gettò fra le braccia del padre con gli occhi pieni di lacrime e lo abbracciò nervosa, sconvolta, come per farsi perdonare qualcosa; ché, nonostante i suoi sforzi di apparire un po' allegra si sentiva più triste, triste a morte. E intanto pensava alla gioia che si era ripromessa nel rivedere i suoi cari e si meravigliava di certa freddezza che paralizzava il suo amore, come se, quando si è molto pensato da lontanoi a coloro che si amano e si è perduta l'abitudine di averli sempre sott'occhio, si dovesse provare al ritorno una specie di arresto negli affetti finché i legami della vita quotidiana non siano riallacciati.









Il pranzo fu lungo. Nessuno parlò. Giuliano sembrava avesse dimenticato sua moglie.









Più tardi, in salone, Giovanna si lasciò intorpidire dal fuoco, di fronte a mammina che dormiva ormai completamente; e, risvegliata d'un tratto dalla voce dei due uomini che discutevano, tentò di scuotere il suo spirito e si chiese se non stava per essere vinta da questa triste letargìa delle abitudini ininterrotte.









La fiamma del caminetto, fiacca e rossastra lungo la giornata, eccola chiara, viva, crepitante, con questi grandi improvvisi bagliori gettati sulle tappezzerie scolorite, sulla volpe e sulla cicogna, sul malinconico airone, sulla cicala e sulla formica.









S'avvicinava il padre sorridendo, tendendo le dita aperte verso i tizzoni che ardevano.









"Ah, ah, che bel fuoco stasera! Gela, figlioli, gela!" E appoggiava la mano su una spalla di Giovanna, sempre mostrando il fuoco: "Ecco, figliola mia. Ecco ciò che abbiamo di meglio: il focolare. Il focolare, coi nostri cari intorno. Non v'è nulla che uguagli il focolare. Ma se andassimo a letto? Sarete stanchi, ragazzi." Risalita nella sua stanza, si domandava come mai due ritorni agli stessi luoghi che credeva di amare potevano essere cosi differenti. Perché si sentiva come abbattuta? Perché questa casa, questo caro paese e tutto ciò che fino allora aveva gonfiato di tenerezza il suo cuore le sembrava oggi snervante? In quel momento volse lo sguardo e incontrò la sua pendola. La piccola ape oscillava ancora da destra a sinistra col suo noto movimento rapido e continuo, al di sopra dei fiori di smalto. Allora, di colpo, si sentì colpita come da uno slancio d'affetto, commossa fino alle lacrime dinanzi a quel piccolo meccanismo che sembrava vivo, contava l'ora, palpitava come un cuore. Non era stata così commossa riabbracciando il padre e la madre...









Per la prima volta dopo il suo matrimonio era sola nel suo letto, avendo Giuliano preferito un'altra stanza, col pretesto della stanchezza. D'altronde, era già stabilito che ognuno avrebbe avuto una camera sua.









Le fu difficile addormentarsi, sorpresa di non sentire un corpo al suo fianco, ormai disabituata al sonno solitario, ed anche turbata e irritata di quella tramontana rabbiosa che si accaniva contro il tetto. Ma la mattina la svegliò una gran luce che tingeva il suo letto come di sangue, e i vetri delle finestre, tutti ricoperti di brina, erano rossi come se bruciasse l'intero orizzonte. Avvolta in un grande accappatoio, corse alla finestra e l'aprì. Una brezza gelata, sana, frizzante penetrò subito nella stanza e le sferzò la pelle d'un freddo acuto da svegliar le lacrime agli occhi. In mezzo a un cielo purpureo, il sole rutilante e tondo come la faccia di un ubriaco appariva là dietro gli alberi. La terra solcata di brina bianca, ormai dura e secca, crepitava sotto i passi dei contadini. In quella sola notte i rami dei pioppi si erano spogliati dell'ultime foglie; dietro la landa appariva la grande linea verdastra dei flutti, tutta sparsa di candide strisce. Anche il platano e il tiglio si svestivano rapidamente sotto le raffiche, e al passaggio della brina gelata turbinii di foglie staccate si sparpagliavano nel vento come tante fughe di uccelli. Giovanna si vestì, uscì e andò a far visita ai fattori per far qualche cosa.









I Martin l'accolsero allegri e la padrona l'abbracciò e la baciò sulle guance; poi la costrinsero a bere un bicchierino di rosolio.









Passò all'altra fattoria. I Couillard le fecero le stesse feste, la padrona la sbaciucchiò sulle orecchie e il bicchierino fu, questa volta, di ribes. Dopo di che, rientrò per la colazione. E oggi fu come ieri: giornata secca invece che umida. Tutti i giorni della settimana rassomigliarono molto a quei due; tutte le settimane furono uguali alla prima.









A poco a poco, tuttavia, il suo rimpianto dei paesi lontani si affievolì. L'abitudine metteva sulla sua vita come uno strato di rassegnazione simile a quel rivestimento calcareo che certe acque depositano sugli oggetti. Nel suo cuore rinacque un po' d'interesse per le mille cose insignificanti dell'esistenza quotidiana, una certa cura per le mediocri e semplici occupazioni consuete: si sviluppava in lei una specie di malinconia meditativa, una vaga stanchezza della vita. Che cosa le mancava?



Che cosa desiderava? Non sapeva. Nessun desiderio mondano, sete di piacere nemmeno, nemmeno uno slancio verso gioie ancora possibili.









E poi... quali gioie? Ecco le vecchie poltrone del salone sbiadite dal tempo: e come quelle, tutto si scoloriva dolcemente, si attenuava, prendeva ai suoi occhi una sfumatura pallida e triste.









Come erano cambiate le sue relazioni con Giuliano! Egli sembrava un altro dopo il ritorno dal viaggio di nozze; simile a un attore che, recitata la sua parte, riprenda la fisionomia consueta. Si occupava appena di lei, quasi non le parlava; ogni traccia d'amore scomparsa; rare le notti che egli venisse a passare con lei. Ora egli aveva preso la direzione della casa e degli affari e rivedeva i conti, faceva tribolare i contadini, diminuiva le spese e, assunti i modi del gentiluomo di campagna, aveva perduto l'apparenza e l'eleganza di un tempo, di quand'era fidanzato.









Figurarsi che non si decideva a smettere un vecchio abito da caccia (e non mancava, no, di frittelle) guarnito di bottoni di rame, ritrovato nel suo guardaroba di scapolo. E aveva anche smesso di radersi, così che la sua barba lunga e incolta lo rendeva brutto, bruttissimo; né le sue mani erano meglio curate; ma si capiva questa sua negligenza che era poi la negligenza stessa di quelli che non hanno bisogno più di essere belli. E dopo il pasto era capace di tracannare cinque o sei bicchierini di cognac.









Giovanna aveva provato a fargli qualche dolce rimprovero: egli era stato quasi sgarbato. "Mi lascerai tranquillo, no?" Non si arrischiò più a consigliarlo. S'era adattata a questi cambiamenti in un modo che la stupiva. Che era più Giuliano per lei? Un estraneo. Tanto è vero che gliene restavano chiusi l'anima e il cuore. Ci pensava a volte, e si chiedeva come dopo essersi incontrati, amati e sposati in uno slancio di tenerezza, ecco, si ritrovassero estranei: estranei l'uno all'altro come se non avessero dormito nello stesso letto. E perché lei non soffriva maggiormente di questo abbandono? Questa, la vita? S'erano forse ingannati? L'avvenire non le serbava dunque più nulla? Se Giuliano fosse rimasto bello, accurato, elegante, avrebbe forse sofferto di più?



Era stato convenuto che dopo il capodanno gli sposini sarebbero rimasti soli e che papà e mammina sarebbero ritornati a passare qualche mese nella loro vecchia casa a Rouen. Gli sposini, quell'inverno, non dovevano lasciare i "Pioppi", per finir di installarsi, di abituarsi, di affezionarsi ai luoghi dove avrebbero trascorso tutta la vita. Essi, d'altronde, avevano qualche vicino a cui Giuliano avrebbe presentato sua moglie: i Briseville, i Courtelier, i Fourville. Ma veramente gli sposi novelli non potevano ancora far queste visite, perché non era stato possibile fino a quel momento avere il pittore che cambiasse gli stemmi alle carrozze. Il barone aveva ceduto infatti a suo genero la vecchia carrozza di famiglia, e Giuliano per nulla al mondo avrebbe acconsentito a presentarsi ai vicini castelli se lo scudo dei Lamare non fosse stato inquartato con quello dei Perthuis des Vauds.









Ora, in tutto il territorio, non esisteva che uno solo che avesse la specialità degli ornamenti araldici, un pittore di Balbec, certo Battaglia, chiamato a turno in tutti i castelli normanni per dipingere sugli sportelli dei veicoli quei preziosi segnacoli.









Finalmente un mattino di dicembre, al termine della colazione, un individuo con una cassetta sulle spalle aprì il cancello e avanzò nel viale. Era Battaglia.









Fu fatto entrare in sala da pranzo e gli dettero da mangiare come se fosse stato un signore; perché la sua specialità, i suoi continui rapporti con l'aristocrazia della provincia, la sua conoscenza di stemmi, emblemi, termini consacrati ne avevano fatto una specie di uomo-blasone al quale i gentiluomini potevano stringer la mano. Poi fecero portare carta e matita e, mentre egli mangiava, il barone e Giuliano schizzarono i loro scudi inquartati. La baronessa dava il suo parere tutta agitata, trattandosi di cosa di tanta importanza; Giovanna stessa prendeva parte alla discussione come se qualche misterioso interesse si fosse svegliato in lei improvvisamente. Battaglia, sempre mangiando, diceva la sua opinione, magari afferrava la matita, tracciava un disegno, citava esempi, descriveva tutte le vetture signorili della regione; sembrava portare con sé, nel suo spirito, nella sua voce stessa, una specie di atmosfera di nobiltà.









Un ometto dai capelli grigi e rasati: mani macchiate di colori e tuttavia profumate. Si diceva che una volta fosse entrato in una brutta faccenda riguardante i buoni costumi: la considerazione unanime di tutte le famiglie titolate aveva cancellato ormai questa macchia.









Dopo che ebbe bevuto il suo caffè, lo condussero nella rimessa dove fu tolta subito alla carrozza la copertura di tela cerata.









Battaglia la esaminò, espose con gravità il suo parere sulle dimensioni necessarie al disegno, si mise all'opera dopo un nuovo scambio d'idee. Nonostante il freddo, la baronessa fece portare una sedia per veder lavorare, poi domandò uno scaldino per i piedi che le si gelavano e così si mise a chiacchierare col pittore, a interrogarlo sui matrimoni, sui morti, sulle nuove nascite, completando con queste informazioni gli alberi genealogici che portava sempre con sé.









Giuliano era rimasto accanto alla suocera, a cavallo di una sedia, e fumava la pipa, sputava per terra, ascoltava, seguiva con l'occhio la traduzione in colori della sua nobiltà. Papà Simone, che se ne andava per l'orto con la vanga sulle spalle, si fermò a guardare il lavoro; e poiché la notizia dell'arrivo di Battaglia si era sparsa nelle due fattorie, le due fattoresse non tardarono a farsi vedere, e ora eccole ai lati della baronessa, estasiate.









"Ce ne vuol di bravura per far quella roba lì".









Gli stemmi dei due sportelli non poterono essere finiti che il giorno dopo, verso le undici. Accorsero tutti. La carrozza fu tirata fuori perché si potesse vedere e giudicar meglio. Stemmi eseguiti in modo perfetto. Battaglia ricevette molti complimenti e ripartì con la sua cassetta sulle spalle. Il barone, la baronessa, Giovanna, Giuliano, tutti furono d'accordo che in tal genere di cose il pittore era un uomo di prim'ordine e che, se le circostanze lo avessero permesso, sarebbe diventato, oh! senza dubbio, un artista.









Intanto, per ragioni di economia, Giuliano aveva pensato a riforme che rendevano indispensabili altre modifiche. Il cocchiere passava giardiniere, e il visconte aveva già venduto i cavalli per economia e, d'altronde, si incaricava di guidare egli stesso. Poi, siccome era necessario che qualcuno tenesse i cavalli quando i signori scendevano di carrozza, aveva messo l'occhio su un giovane vaccaro, di nome Mario, e ne aveva fatto un piccolo domestico.









Quanto ai cavalli, egli aveva introdotto nel contratto dei Couillard e dei Martin una clausola speciale che costringeva i due fittavoli a fornirne uno per ciascuno, una volta al mese, alla data fissata da lui, in compenso di che venivano esonerati dal tributo del pollame. Un giorno i Couillard avevano condotto una gran rozza di pelo giallo e i Martin un piccolo animale bianco di pelo lungo, le due bestie furono attaccate in pariglia e Mario, affogato in una vecchia livrea di papà Simone, condusse l'equipaggio dinanzi allo scalone del castello. Giuliano, tutto ripulito, aveva ritrovato un poco della sua passata eleganza; ma la barba lunga gli dava sempre un aspetto volgare. Considerò la pariglia, la carrozza, il piccolo domestico e si dichiarò soddisfatto, tanto più che dava molta importanza agli stemmi.









La baronessa, scesa dalla sua stanza a braccio del marito, salì in carrozza a fatica e si sedette, col dorso sostenuto dai cuscini.









Giovanna comparve a sua volta. E sorrise dapprima di quell'appaiamento di cavalli; trovò che il bianco era il figlio del giallo; poi quando scorse Mario, la testa sepolta nel cappello con la coccarda (di cui solo il naso poteva arrestar la discesa), le mani affondate nella profondità delle maniche, le gambe infagottate nelle falde della livrea donde uscivano i piedi perduti in enormi stivali; quando lo vide rovesciare indietro la testa per poter guardare, e alzare un ginocchio per fare il passo, come dovesse scavalcare un fiume, e agitarsi al modo dei ciechi per obbedire a un nuovo ordine, perduto, annegato, scomparso nell'ampiezza della palandrana, ecco, Giovanna fu scossa da un riso invincibile, da un'ilarità senza fine. Nello stesso tempo il barone si volse, fissò l'ometto stordito e cedette al contagio, chiamando sua moglie, non potendo quasi parlare:



"Gua... guarda... Ma... Ma... Mario! Com'è buffo, oh Dio, com'è buffo!" Allora la baronessa si affacciò allo sportello e guardò. La crisi d'ilarità che la scosse fece traballare sulle molle l'intera carrozza, scombussolata come da trabalzi.









"Che c'è?" chiese Giuliano pallido in volto. "Perché ridete cosi?



Ma bisogna essere matti!" Giovanna, quasi sofferente, quasi convulsa, impotente a calmarsi, a frenarsi, sedette su un gradino della scalinata. Il barone fece altrettanto, mentre nella carrozza starnuti ripetuti e fitti fitti dicevano che la baronessa scoppiava. Improvvisamente la palandrana di Mario cominciò a palpitare; aveva cominciato a capire, e rideva senza ritegno egli stesso dalla profondità del copricapo.









Allora Giuliano, esasperato, scattò. Con un ceffone ben assestato raggiunse il ragazzo, e il cappello gigantesco volò, ruzzolò sull'erba, mentre il genero girava la sua collera al suocero:



"Mi par bene che non abbiate il diritto di ridere! Non saremmo a questo punto se voi non aveste dilapidato il patrimonio! Di chi la colpa, di chi, se vi siete ormai rovinato?" Tutta l'allegria, come gelata, cesso improvvisamente. Nessuno aggiunse parola. Con una gran voglia di piangere, Giovanna salì nella carrozza e si sedette accanto a sua madre. Il barone, muto e sorpreso, sedette in faccia alle dame. Giuliano si accomodò a cassetta, dopo aver issato accanto a sé il ragazzo che piagnucolava, con la guancia gonfia.









La gita fu triste e parve lunghissima. Nella vettura, assoluto silenzio. Tutt'e tre cupi e impacciati, non volevano confessare ciò che pesava in quel momento sui cuori. Di che cosa avrebbero potuto parlare se erano oppressi da quel pensiero angoscioso?



Meglio tacere, restarsene così zitti zitti, anziché ridestare quella pena.









Al trotto ineguale delle due bestie, la carrozza oltrepassava i cortili delle fattorie, e le galline fuggivano spaurite ficcandosi fra le siepi, scomparendovi, oppure talvolta era un cane lupo che seguiva il cocchio abbaiando e poi riguadagnava la casa col pelo ritto, ma si rivolgeva ancora per abbaiare dietro la carrozza. Un ragazzo con gli zoccoli infangati e le lunghe gambe dinoccolate che se ne andava tenendo le mani sprofondate nelle tasche, vestito di un camiciotto turchino gonfio di vento alla schiena, si mise da un lato della strada per lasciar passar l'equipaggio e, quando si scoprì goffamente, lasciò vedere i suoi poveri capelli incolti, incollati sul cranio. E, fra una fattoria e l'altra, la pianura ricominciava con altre fattorie finché si giunse a un gran viale di abeti che metteva capo alla via. Solchi fangosi e profondi facevano pendere la carrozza, lanciare grandi strida a mammina. In fondo al viale, un cancello: Mario corse ad aprirlo e la carrozza girò intorno a un gran prato, percorse un sentiero rotondo si fermò dinanzi a un vasto malinconico fabbricato dalle imposte chiuse. La porta centrale si aprì, e un domestico paralitico, con un panciotto scarlatto rigato di nero che copriva in parte il suo grembiule di servizio, scese i gradini della scala, obliquamente a passettini brevi. Fattosi dire il nome dei visitatori, li introdusse nel vasto salone di cui aprì a fatica le persiane ancor chiuse. Mobili coperti come da gualdrappe, pendola e candelabri rivestiti di bianco, un'aria che sentiva di muffa, un'aria di sepolcro, ghiacciata e umida, che sembrava impregnare di tristezza i polmoni, il cuore e la pelle. Tutti si sedettero e attesero. Due passi nel corridoio di sopra annunciavano una premura insolita.









Sorpresi, i castellani si vestivano in fretta. Fu cosa lunga. Un campanello tintinnò più volte. Altri passi discesero una scala; poi risalirono. La baronessa, colpita dal freddo, cominciò a starnutire; Giuliano andava su e giù; Giovanna, cupa, si era messa accanto alla madre; il barone si appoggiava al marmo del caminetto, con la fronte bassa.









Infine una delle porte si aprì e il visconte e la viscontessa di Briseville fecero il loro ingresso in salone. Erano entrambi piccini, magrolini, un po' saltellanti, di età indefinibile, cerimoniosi, impacciati. La dama indossava un abito di seta a fiori, aveva in testa una cuffia di vedova tutta guarnita di nastri, parlava svelta svelta con una voce un po' aspretta. Il marito invece, chiuso in una redingote pomposa, salutò con una flessione dei ginocchi. Il naso, gli occhi, i denti sporgenti, i capelli che si sarebbero detti spalmati di cera e il suo bell'abito di cerimonia luccicavano come cose di cui si abbia una cura particolare.









Dopo i primi complimenti e le cortesie d'obbligo tra vicini, nessuno aveva più niente da dire. Allora, ecco da una parte e dall'altra i complimenti senza ragione. Speravano gli uni e gli altri che si sarebbe continuata quell'eccellente relazione. Era una risorsa farsi visita quando si vive tutto l'anno in campagna.









L'atmosfera gelata del salone penetrava nelle ossa, seccava la gola. La baronessa intanto tossiva, senza aver mai cessato di starnutire. Il barone si decise e diede il segnale della partenza; ma i Briseville insistevano:



"Ma come? Così presto? Restate ancora un momento!" Giovanna si era alzata nonostante i cenni di Giuliano, il quale trovava in verità la visita troppo breve. Si volle richiamare il servitore per far avvicinare la carrozza; il campanello non funzionava. Il padrone di casa si precipitò fuori, ma tornò con la notizia che i cavalli erano stati messi in scuderia. Bisognò dunque aspettare. Ognuno cercava nel suo cervello una frase, qualcosa da dire. Ah, ecco: l'inverno piovoso. Con certi involontari brividi d'angoscia, Giovanna chiese che cosa potessero mai fare i loro ospiti, quant'è lungo l'anno, così soli soli.









Ingenua domanda! I Briseville se ne stupirono, perché essi erano invece molto occupati, e scrivevano senza tregua alla loro nobile parentela sparsa per tutta la Francia, e attendevano a mille piccole cose, e continuavano a farsi le cerimonie restando l'uno in faccia all'altro come estranei, e potevano sempre trattare con maestà le faccende più insignificanti. Quell'omino e quella donnina, così piccini, così corretti, così precisini, e come impacchettati nella biancheria, sembravano a Giovanna, sotto l'alto soffitto annerito del salone disabitato qualcosa come una marmellata di nobiltà.









Infine la carrozza passò sotto le finestre guidata dai due ronzini spaiati. Mario, il servitorello, dov'era? Non lo si trovava.









Scomparso! In realtà, credendosi libero fino alla sera, egli se n'era andato liberamente fra i campi. Giuliano, furibondo, pregò che glielo rimandassero a piedi e così, dopo molti saluti da una parte e dall'altra si riprese la strada dei "Pioppi". Appena in carrozza, Giovanna e suo padre, quasi per combattere la penosa impressione delle brutalità di Giuliano, si misero a ridere e a contraffare i gesti e le intonazioni di quegl'impagabili Briseville. Lui imitava il marito, lei la signora; ma la baronessa, un po' ferita nelle sue idee, nel suo concetto di casta, non lasciò passar questi lazzi:



"Avete torto di ridere di persone così ammodo, che appartengono a famiglie eccellenti." Non si poté contraddire mammina; ma poi, di tanto in tanto, padre e figliola si guardavano e ricominciavano. "Oh, il vostro castello dei Pioppi" contraffaceva lui dopo un saluto di cerimonia "dev'essere molto freddo... eh sì, molto freddo... con quel vento di mare... che gli entrerà dentro da tutte le parti..." Lei assumeva un'aria affettata e faceva la graziosa con un leggero dondolìo della testa simile a quello dell'anatra che si bagna:



"Oh, qui, signore, ho tante, tante cose da fare! scrivere a tanti parenti... E il signor de Briseville lascia a me da sbrigare ogni cosa, perché lui si occupa di ricerche scientifiche con l'abate Pelle... Il signor de Briseville e l'abate Pelle fanno insieme la storia religiosa della Normandia...". La baronessa sorrideva a sua volta, tra contrariata e benevola, e scuoteva la testa e ripeteva:



"Non è bene, non è bene beffarsi così di persone del nostro rango, della nostra classe..." Improvvisamente la carrozza si fermò e Giuliano si mise a gridare chiamando qualcuno dietro di sé. Affacciati agli sportelli, Giovanna e il barone si accorsero di un essere singolare che rotolava verso di loro. Era Mario. Con le gambe impacciate nella sottana fluttuante della sua livrea, accecato dal cappello che gli ballava in testa senza posa, agitando le maniche come due ali di mulino, diguazzando nelle larghe pozzanghere che attraversava a rompicollo, inciampando nei sassi, dimenandosi, saltando, schizzando, impillaccherato fino agli occhi, il servitorello seguiva la carrozza con la prodezza dei piedi veloci. Ma appena la raggiunse, ecco il padrone si piega, lo acciuffa pel bavero, lo tira su con sé, lascia le redini, lo tempesta di pugni, gli sprofonda il cappello, giù giù, fino alle spalle, facendolo rullare come un tamburo. Il servitorello, entro il suo copricapo, urla e muggisce, e poi tenta la fuga, cerca di saltar sul sedile, ma il padrone l'ha in pugno e la gragnuola continua fitta fitta, inesorabile. Giovanna balbetta smarrita: "Papà... oh, papà!" stringendo il braccio di suo padre al colmo dell'indignazione.









"Che fate lì, Giacomo? Ma dite almeno che smetta!" Allora il barone abbassò di colpo il vetro davanti e, afferrata la manica di suo genero, gli gridò con voce fremente:



" Non la finite ancora di picchiar quel ragazzo?" L'altro si voltò stupefatto.









"Non avete visto in qual modo mi ha ridotto la livrea, questo briccone?" "Che m'importa della livrea?" gridava il barone con la testa in fuori, interponendosi fra i due. "Non bisogna essere brutali fino a questo punto!" "Lasciatemi tranquillo, vi prego" disse Giuliano di nuovo stizzito. "Non sono cose che vi riguardino queste." E stava per alzare ancora la mano quando il suocero gliel'afferrò bruscamente, gliel'abbassò con tal impeto da urtarla contro il legno del sedile: "Se non la smettete scendo e vi faccio smettere io!" così che il visconte parve calmato, alzò le spalle senza rispondere e fece partire i cavalli, con una frustata, al gran trotto.









Le due donne, livide, non si muovevano, si udivano distintissimi i battiti pesanti del cuore più vecchio.









A pranzo, Giuliano fu più cortese del solito come se nulla fosse avvenuto. E gli altri che erano facili all'oblio, per benevolenza e mansuetudine, quasi lusingati di ritrovarlo gentile, si lasciarono portare dall'allegria ancora una volta, con la sensazione benefica dei convalescenti; e siccome Giovanna alluse di nuovo ai Briseville, anche suo marito celiò aggiungendo però che essi erano, in ogni modo, "gente distinta". Non si parlò di altre visite, perché ciascuno temeva in cuor suo di risuscitare la "questione Mario"; decisero soltanto che avrebbero inviato ai nobili vicini i biglietti da visita per Capodanno e che sarebbero tornati a vederli coi primi tepori.









Venne Natale. S'invitò a pranzo il curato, il sindaco, la sindachessa; si rinnovò l'invito a Capodanno, e queste furono le sole distrazioni che ruppero la monotona catena dei giorni. Papà e mammina dovevano partire il 9 gennaio; Giovanna voleva trattenerli; Giuliano, per la verità, non sembrava secondarla, così che il barone, dinanzi alla freddezza crescente del genero, fece venire da Rouen una carrozza di posta. Alla vigilia della partenza, appena ultimati i bagagli, perché la giornata era gelida ma bella, Giovanna e suo padre pensarono di scendere a Yport dove non erano più stati dopo il ritorno dalla Corsica. Traversarono il bosco che lei aveva percorso lo stesso giorno del suo matrimonio, stretta a colui che stava per diventare il suo compagno, il caro bosco dove aveva avuto il primo bacio, dove aveva avvertito il primo fremito, presentito la sensualità conosciuta più tardi nella selvaggia Val d'Ota, presso la sorgente a cui avevano bevuto avidi insieme, mescolando i baci con l'acqua. Non più foglie, non più erbe rampicanti, null'altro che lo stormire dei rami spogli, i rumori secchi dei boschi invernali. Nel piccolo villaggio le strade vuote, silenziose, conservavano il loro odore di mare, di alghe, di pesce. Le grandi reti nerastre erano sempre stese ad asciugare sul ghiareto o dinanzi alle porte. Il mare grigio e freddo, con la sua eterna schiuma mugghiante, cominciava a calare scoprendo verso Fécamp le rocce verdognole ai piedi della scogliera. Lungo la riva, grosse barche coricate su un fianco simili a enormi pesci morti...









Cadeva la sera. I pescatori venivano avanti a piccoli gruppi camminando pesantemente coi loro grandi stivaloni da marinaio, il collo avvolto di lana, in una mano il litro di grappa, nell'altra la lanterna della barca. Giravano a lungo intorno alle barche inclinate; poi con lentezza tutta normanna portavano a bordo le reti, i gavitelli, un pezzo di burro, un gran pane, un bicchiere, la bottiglia dell'acquavite; e, raddrizzata la barca, la spingevano verso l'acqua con lo scricchiolio del ghiareto, così che essa fendeva la schiuma, saliva sulle onde, si dondolava un poco, apriva le sue grandi ali brune, spariva nella notte col suo lumino acceso in cima all'albero. E le donne dei marinai, con quelle forme rigide, sporgenti di sotto gl'indumenti leggeri restavano lì sulla spiaggia fino alla partenza dell'ultimo uomo, e rientravano finalmente nel borgo assopito, frustando con le voci acute il sonno greve dei vicoli oscuri. Anche Giovanna e suo padre aspettavano, immobili, il perdersi lento di quegli uomini che se ne andavano alla ventura ogni notte, rischiando la vita per vivere, e tuttavia così poveri da non poter mai cibarsi di carne.









Il barone si esaltava davanti all'oceano.









"Terribile e bello. Com'è superbo questo mare su cui cadono le tenebre! con tante esistenze in pericolo! Non ti pare, Giannetta?" "Tutto ciò non vale il Mediterraneo" rispose lei con un sorriso gelato.









"Il Mediterraneo, il Mediterraneo!" si indignava il padre. "Olio, acqua zuccherata, acqua azzurra in una tinozza di lisciva. Guarda questo com'è terribile con le sue creste di spuma! E pensa a tutti quegli uomini partiti là sopra che ormai non si vedono più." Ma la parola che le era venuta alle labbra, "Mediterraneo", le aveva dato come una fitta al cuore, e così aveva spinto ogni suo pensiero verso lontane contrade, laggiù, laggiù, dove vagavano tutti i suoi sogni.









Invece di tornare per il bosco raggiunsero la strada e risalirono la costa a passi più lenti. Non parlavano. Il pensiero della prossima separazione li faceva tristi. Di quando in quando, costeggiando i fossati delle fattorie, si sentivano come presi in quel sentore di mele schiacciate, in quell'aroma di sidro fresco che sembra fluttuare in quel periodo su tutta la campagna normanna, oppure saliva alle loro narici un lezzo di stalla, quel puzzo buono e caldo che emana dal concime delle mucche. Una finestrina illuminata indicava la casa in fondo al cortile e Giovanna sentiva che la sua anima si apriva, si allargava, capiva le cose invisibili. Quelle piccole luci sparse per i campi le davano improvvisamente la sensazione viva dell'isolamento di tutti gli esseri che tutto disgiunge, tutto separa, tutto trascina lontano da ciò che amerebbero. Allora mormorò rassegnata:



"Non è sempre allegra, la vita." Il barone emise un sospiro.









"E noi non possiamo farci nulla, bambina mia!" Il giorno dopo papà e mammina partivano. Giovanna e Giuliano restavano soli.





















Capitolo 7









Da quel momento qualche altra cosa trovò posto nella vita dei giovani sposi: le carte da giuoco. Ogni giorno dopo colazione, Giuliano, fumando la pipa, sorseggiando il suo cognac (a poco per volta ne beveva ormai da sei a otto bicchierini), faceva parecchie partite a bazzica con sua moglie. Poi lei saliva in camera sua, si sedeva presso la finestra, si ostinava a ricamare la guarnizione di una sottana, mentre la pioggia batteva i vetri o il vento li scuoteva; e così qualche volta, un po' affaticata, alzava gli occhi a guardare il mare cupo e agitato laggiù, restava assorta un momento in quella vaga contemplazione, riprendeva tranquillamente il lavoro. D'altronde, si sentiva disoccupata. Giuliano aveva preso la direzione della casa intera, e aveva modo di soddisfare il suo spirito autoritario, la sua mania di economia. Egli si mostrava di una parsimonia feroce, non dava mancie, aveva ridotto le spese del vitto, aveva perfino disapprovato Giovanna che si era concesso il lusso della mattiniera focaccia normanna, condannandola al pane comune per eliminare una piccola spesa.









Giovanna taceva per evitare spiegazioni, discussioni e litigi, ma ogni manifestazione di spilorceria maritale era un altro colpo di spillo. Com'era odioso e basso tutto ciò! Non poteva dimenticare di essere nata in una famiglia dove non si dava importanza al denaro, e sua madre aveva pur detto in ogni occasione: "Il denaro è fatto per spenderlo". Ora invece il marito diceva: "Non potrai mai abituarti a non buttarlo dalla finestra, il denaro?". E ogni volta che aveva risparmiato qualche soldarello su un conto o su un salario, sorrideva con compiacenza e: "I piccoli ruscelli formano i grandi fiumi" facendo scivolare in tasca quei pochi.









Eppure in certi giorni Giovanna ricominciava a sognare. Arrestava il lavoro e ritesseva uno dei suoi romanzi di fanciulla diviso in capitoli di leggiadre avventure. Ma improvvisamente la voce di Giuliano (un ordine dato a papà Simone) la strappava al suo dolce lento fantasticare, e riprendeva il suo lavoro, tutta rassegnata, pensando: "Ma sì, tutto ciò è finito... oramai!" e una lacrima cadeva proprio lì, sulle dita che trattenevano l'ago.









Cambiata anche Rosalìa, un tempo così gaia, la Rosalìa canterina.









Non più pienotte e non più rosse le guance, ma quasi incavate e a volte perfino terree.









"Ti senti male, Rosalìa?" "No, signora" rispondeva invariabilmente la servetta, mentre un po' di sangue le saliva alle guance, e se ne andava confusa, in gran fretta.









Che aveva questa ragazza? Non correva più come un tempo, trascinava i piedi a fatica, non era nemmeno più civettuola:



invano, invano i merciaiuoli ambulanti le mostravano busti, profumerie, nastri di seta. E la vecchia casa aveva un'aria cupa, di grande spazio vuoto, con la sua facciata tutta strisce lasciate dalle piogge.









Verso la fine di gennaio cominciò a nevicare. Si vedevano di lontano le grandi nubi avanzare dal nord al di sopra del mare accigliato; ed ecco il candido sfarfallìo delle falde. La pianura sepolta in una notte; gli alberi riapparsi al mattino tutti ricamati da quella spuma di ghiaccio.









Con gli stivaloni, Giuliano aveva l'aspetto di un vero selvaggio quando restava imboscato dietro il fosso che dava sulla landa ad appostare gli uccelli che migravano. Di quando in quando, un colpo di fucile rompeva il silenzio gelido dei campi: stormi di corvi neri spaventati fuggivano via dagli alberi in turbini pesanti.









Allora, vinta dalla noia, Giovanna scendeva la scalinata e ascoltava i rumori di vita che venivano di molto lontano, ripercossi nella tranquillità dormiente di quel lenzuolo livido e triste. Poi non udiva più che una specie di muggito delle onde lontane e lo scivolìo vago e continuo di questo polverìo di acqua gelata che cadeva, cadeva senza tregua. E il letto di neve si alzava sempre più, sempre più, sotto questa caduta infinita di spuma lieve lieve, fitta fitta.









In una di queste pallide mattinate Giovanna, immobile, scaldava i piedi al fuoco della sua stanza, avendo alle spalle quella Rosalìa sempre più cambiata, sempre più stanca, che rifaceva lentamente il letto. Ora ecco la padrona ode dietro di sé come un doloroso sospiro. Chiede, senza girare la testa:



"Ma che c'è dunque? Che hai?" Quella, come sempre, risponde: "Nulla, signora" ma è una voce rotta, spirante.









Giovanna già pensava ad altro, quando avvertì che la ragazza non si muoveva più.









"Rosalìa?" La credette uscita e inavvertitamente la chiamò ancora più forte:



"Rosalìa! Rosalìa!" e stava per suonare il campanello quando un gemito profondo, esalato presso di lei, la fece alzare con un brivido d'angoscia. Rosalìa, livida, con gli occhi sbarrati, era seduta in terra, le gambe lunghe distese, il dorso appoggiato contro uno spigolo del letto.









Giovanna si slanciò:



"Ma che hai? Che hai?" L'altra non diceva nulla, non faceva un gesto, ma fissava sulla sua padrona gli occhi folli, ansimando, come straziata da un'orrenda doglia. Poi improvvisamente, stirandosi tutta, scivolò sulla schiena soffocando fra i denti chiusi un grido di angoscia.









Allora sotto la veste aderente alle cosce aperte qualcosa si mosse, e quasi subito partì di lì sotto un rumore strano, un ondeggiamento, un respiro strozzato come di chi sta per soffocare:



seguì come un mugolìo, un pianto debole e già doloroso, la prima sofferenza della creatura che entra nella vita.









Giovanna vide, comprese, corse sulla scala, chiamò quasi fuori di sé:



"Giuliano! Giuliano!" Egli rispose dal basso:



"Che vuoi?" Giovanna, a stento, rispose:



"Rosalìa è... si è..." Egli si slanciò, salì gli scalini a due a due, entrò nella stanza, sollevò brutalmente le vesti della ragazza e scoprì un piccolo corpicino rannicchiato, rattratto, viscido che si agitava fra due gambe nude. Si raddrizzò con la faccia cattiva, e cacciò fuori la moglie smarrita:



"Queste cose non ti riguardano. Vattene. Mandami Liduina; mandami papà Simone." Tutta tremante Giovanna scese in cucina: poi, non osando più risalire, entrò nel salone, gelato, senza più fuoco dopo la partenza dei vecchi, e qui attese ansiosamente notizie. Che avviene? Ecco, il domestico che esce di corsa, passano cinque minuti, ritorna con la vedova Dentu: ah sì, la levatrice del paese! Per le scale un gran tramestìo come se si portasse un ferito. Giuliano arriva e dice soltanto che può ritornare in camera sua. Trema, trema come se avesse assistito ad alcunché di sinistro. Seduta di nuovo presso il caminetto domanda: "Come sta?". Giuliano è preoccupato, è nervoso, sembra incollerito, cammina su e giù. Dapprima non risponde: infine si ferma, si volta:



"Che pensi di farne, sì, dico, di quella ragazza?" Lei non capisce: guarda suo marito senza capire.









"Come? Che vuoi dire? Che vuoi che sappia io?" "Non possiamo tenerci in casa un bastardo" gridò lui al colmo dell'irritazione.









"Senti, Giuliano, si potrà forse metterlo a balia..." "A balia? E chi pagherà? Tu pagherai?" Giovanna rifletté ancora a lungo: cercava una soluzione.









"Ecco" riprese "il padre se ne incaricherà, del bambino, se sposerà Rosalìa..." "Il padre!" esclamò Giuliano incollerito, all'estremo della pazienza. "Il padre! Lo conosci tu il padre? No, vero? E allora?" Giovanna era commossa e si animava.









"No, no, egli non abbandonerà in questo modo quella povera ragazza. Sarebbe un vigliacco. Noi chiederemo il suo nome, andremo a trovarlo, bisognerà ben che si spieghi...." Giuliano si era calmato e aveva ripreso ad andare su e giù.









"Mia cara, Rosalìa non vuol dire il nome di lui, Rosalìa non te lo confesserà mai, come non lo ha confessato a me... E se egli non volesse saperne? Intanto noi non possiamo tenere in casa una ragazza in quelle condizioni... col suo bastardo, capisci?" "Allora quell'uomo è un miserabile" ripeteva Giovanna ostinata.









"Ma bisognerà bene che si spieghi, e allora avrà da fare con noi!" Giuliano, rosso in volto, ricominciava a infuriarsi.









"Ma... intanto?" "Che proponi tu?" chiese lei per non sapersi decidere.









"Oh, per me è una cosa molto semplice. Le darei un po' di danaro, e che vada al diavolo col suo marmocchio." "Mai, mai" si ribellò Giovanna, indignata. "E' mia sorella di latte, quella ragazza; siamo cresciute insieme. Ha commesso un errore? Male, malissimo; ma non la butterò nella strada, e se sarà necessario avrò cura di lei, del bambino..." Allora Giuliano scattò; "E noi ci faremo una bella riputazione, noi, col nostro nome, con le nostre relazioni! Si dirà dovunque che proteggiamo il vizio, che ricoveriamo sgualdrine, e finirà così, che la gente non vorrà metter più piede in casa nostra. Ma che idee ti frullano per la testa? Impazzisci?" Giovanna era rimasta calmissima.









"Ebbene... no. Io non lascerò mai scacciare Rosalìa. Se non vuoi tenerla qui, ci sarà sempre mia madre che la riprenderà. E finiremo col conoscere il padre di lui, dico del bambino..." Egli rispose andandosene, sbattendo l'uscio, gridando:



"Come sono stupide le donne! Le idee delle donne!" Nel pomeriggio Giovanna salì dalla puerpera. La piccola serva restava immobile nel suo letto, vegliata dalla vedova Dentu, mentre un'infermiera cullava il neonato sulle braccia. Quando vide la sua padrona, Rosalìa si mise a piangere, e nascondeva la faccia tra le lenzuola nella disperazione dei singhiozzi. La padrona volle abbracciarla, ma lei resisteva, sempre coprendosi il viso; poi lasciò fare, piangendo ancora, ma più debolmente. Una piccola fiammata ardeva nel caminetto: faceva freddo, il piccino fiottava.









Giovanna non osava parlare della creatura per non provocare un'altra crisi, ma carezzava una mano alla puerpera e ripeteva macchinalmente:



"Non sarà nulla, via, non sarà nulla..." La povera ragazza guardava furtiva verso l'infermiera, trasaliva ai vagiti del marmocchio, soffocava come in un resto di disperazione, scoppiava in singhiozzi convulsi quando le lacrime ringhiottite le facevano una specie di gorgoglio nella gola.









"Ne avremo cura noi. Sta' tranquilla, figliola" e se ne andò, poiché sentiva che un nuovo accesso di lacrime era pronto.









Così tutti i giorni. Giovanna tornava da Rosalìa e Rosalìa, vedendo la sua padrona, aveva pronte le lacrime e i singhiozzi.









Il bambino fu messo a balia lì da una vicina.









Giuliano, intanto, appena parlava a sua moglie, come se le serbasse rancore di aver impedito l'espulsione di quella ragazza.









Un giorno egli ritornò sull'argomento, ma allora Giovanna si levò di tasca una lettera in cui la baronessa reclamava la Rosalìa se non la si voleva più ai "Pioppi". Giuliano, furibondo, gridò: "Tu e tua madre, due pazze compagne!". Ma non insistette più oltre.









Quindici giorni dopo la puerpera era in grado di alzarsi, e riprese il servizio. Finché Giovanna la fece sedere, le prese le mani, la scrutò in volto, le disse:



"Ora, figliola mia, mi dirai tutto." Rosalìa si mise a tremare e balbettò:



"Che cosa, signora?" "Di chi è questo bambino?" Allora la povera ragazza, ripresa dalla sua disperazione cercò di liberare le sue mani per nascondere il volto, ma Giovanna l'abbracciava lo stesso e la voleva consolare:



"Vedi, figliola, è una disgrazia. Tu sei stata debole, ma la cosa capita a tante! Se il padre del bambino ti sposa, non ci si pensa più e noi potremo prenderlo al nostro servizio con te..." Rosalìa gemeva come a martirizzarla; e di quando in quando dava un sobbalzo forse per liberarsi e fuggire.









"Capisco la tua vergogna" Giovanna riprese. "Ma vedi bene che io non mi ci arrabbio, vedi che ti parlo con tutta dolcezza. Se ti domando il nome di lui, è perché capisco dal tuo dolore che ti vorrebbe abbandonare e io non lo permetto, capisci? Stai certa che Giuliano andrà da lui, e l'obbligheremo a sposarti e a farti felice, giacché vi terremo qui tutt'e due..." Questa volta Rosalìa fece uno sforzo così brusco che riuscì a liberar le sue mani da quelle della padrona, e così scappò via da forsennata.









La sera, a tavola, Giovanna disse a Giuliano:



"Ho tentato di persuadere Rosalìa a dirmi il nome del suo seduttore. Non ci sono riuscita. Prova dunque anche tu; così potremo decidere quel miserabile a... " Giuliano si adirò subito: "Basta con questa storia, basta, basta!



Hai voluto tener la ragazza? Ebbene, tienitela; ma non farmi andare in bestia per questo. Hai capito? Ora basta!".









Dopo di che egli sembrava peggiorato d'umore, tanto che aveva preso l'abitudine di non parlare a sua moglie senza gridare, come se fosse sempre adirato mentre lei, al contrario, raddolciva la voce e si mostrava gentile, conciliante, per evitare le discussioni (la notte poi piangeva nel suo letto). Eppure, nonostante questa irritazione insistente, egli aveva ripreso certe abitudini d'amore trascurate fin dal ritorno e ben raramente lasciava passare tre sere di seguito senza varcar la soglia coniugale.









Rosalìa guarì interamente e divenne un po' meno triste, benché fosse rimasta come spaventata, come perseguitata da non si sa che paura. Due volte ancora fuggì quando Giovanna la interrogò sul piccino. Nello stesso tempo Giuliano riapparve un po' più cortese così che la giovane sposa si riafferrava a vaghe speranze, ritrovava qualche momento un po' allegro quantunque soffrisse talvolta di strani malesseri di cui non parlava. Non cominciava ancora il disgelo, ma da alcune settimane, un cielo chiaro di giorno come un vetro azzurro, e la notte pieno di stelle che si sarebbero dette di brina tanto lo spazio era rigido, si stendeva sul tappeto duro, unito, lucente delle nevi. Dietro le cortine dei grandi alberi ricamati come di canizie, isolate nelle loro zone quadre, le fattorie parevano addormentate sotto un drappo bianco.









Nessuno usciva più: uomini, bestie. Solo i comignoli delle capanne rivelavano la vita nascosta per quei gracili pennacchi di fumo che salivano diritti nell'aria di gelo. Il piano, le siepi, gli olmi delle cinture, tutto sembrava morto, ucciso dal freddo. Di quando in quando si udivano scricchiolare gli alberi, come se le loro membra di legno si fossero spezzate sotto la corteccia; talvolta anche un gran ramo si strappava e cadeva, vittima del gelo invincibile che indurisce le linfe e rompe le fibre. Giovanna aspettava con ansia i primi tepori attribuendo alla cattiva invernata le vaghe sofferenze che la tormentavano. Che aveva? Che male era questo? Ora non poteva mangiar nulla per quel disgusto del cibo, ora il polso batteva all'impazzata, ora il pasto più leggero le dava una specie di nausea d'indigestione, e i nervi sempre tesi, sempre vibranti, la tenevano in un'agitazione continua, insopportabile. Finché una sera il termometro discese ancora e Giuliano, alzandosi da tavola tutto tremante di freddo (la sala non era mai abbastanza tiepida tanto egli faceva economia di riscaldamento), si fregò le mani e avvertì: "Sarà una bella cosa dormire in due, nevvero, tesoruccio mio?" Egli rideva del suo buon riso d'un tempo, di gran fanciullone, e lei gli saltò al collo felice; ma quella sera appunto era così sofferente, così stranamente nervosa, che lo pregò fra i baci, sottovoce, di lasciarla sola quella notte.









"Ti prego, caro" gli disse per spiegargli in poche parole il suo male. "Credi che non mi sento bene stasera. Domani starò meglio, vedrai." Egli non insistette.









"Come vuoi. Ma se sei malata, bisogna ben che ti curi." Si coricò presto, Giuliano volle che le accendessero il fuoco nella stanza: e fu una gran concessione. Quando gli fu detto che c'era una bella fiammata, baciò la moglie in fronte e se ne andò.









Tutta quanta la casa sembrava angustiata dal freddo; gli stessi muri ne rabbrividivano con rumori leggeri, Giovanna nel suo letto tremava. Due volte si alzò per aggiungere legna nel caminetto ed anche per cercare una vecchia sottana, qualche corpetto, vecchi abiti da ammucchiare sulle coltri: nulla, nulla la riscaldava. I suoi piedini si intirizzivano, continue vibrazioni le correvano per i polpacci e perfino per le cosce fino a farla girare e rigirare senza mai tregua in un'agitazione che l'aveva ormai completamente prostrata. Poi le batterono i denti, le mani tremarono, il petto si strinse, il cuore indebolito batté grandi colpi e sembrò spegnersi. L'anima fu come presa da una spaventosa angoscia; nello stesso tempo un freddo invincibile le penetrava fino al midollo. Mai, mai aveva provato niente di simile: la vita stessa l'abbandonava. Non esalava l'ultimo respiro? "Sto per morire... muoio..." pensò. Spaventata, saltò fuori dal letto, cercò il campanello, suonò per chiamar Rosalìa: attese, suonò di nuovo, attese ancora, intirizzita, fremente. Niente. Nessuno. La ragazza dormiva senza dubbio, e di quel primo sonno che non si scuote, il sonno di piombo. Allora Giovanna perse il controllo e a piedi nudi si precipitò per la scala, salì a tentoni senza far rumore, trovò una porta, l'aprì:



"Rosalìa!" S'inoltrò, urtò contro il letto, vi passò sopra le mani, sentì che era vuoto: vuoto e freddo come se non vi fosse entrato nessuno.









"Come? Va a farne delle altre con questo tempo!" E in un tumulto repentino del suo povero cuore, oppressa, soffocata, con le gambe che le si piegavano, fece quell'ultimo sforzo: discese per chiedere aiuto a Giuliano. Entrò da lui con violenza, spinta, assillata dalla certezza che stava per morire, dal desiderio di veder lui prima di perdere la conoscenza. E alla luce del fuoco morente, vide, sul guanciale, accanto alla testa di suo marito, la testa di Rosalìa.









Lui e lei si rizzarono insieme, come rispondendo a quel grido.









Giovanna restò un momento immobile come se la scoperta l'avesse impietrita, poi fuggì, rientrò nella sua stanza, e poiché lui spaventato chiamava: "Giovanna! Giovanna!" una paura atroce l'assalì: di vederlo, di riudire la sua voce, di ascoltare le sue menzogne, di incontrare il suo sguardo faccia a faccia: e giù, giù, ancora giù per la scala. Giù, giù di corsa nel buio a costo di cadere sui gradini, a costo di fracassarsi sulle pietre; sempre avanti, sempre spinta dalla necessità di fuggire, di non sapere nulla, di non vedere più nessuno. Eccola dabbasso, siede su un gradino, sempre in camicia, a piedi nudi, e rimane lì sbigottita.









Ma si raddrizza perché ode la voce di lui, perché egli già scende le scale: "Giovanna? Ascolta, Giovanna...". No, no, non vuole ascoltare, nemmeno vuole che le si tocchi la punta di un dito, e si slancia nella sala da pranzo come se sentisse un assassino alle spalle. Cerca un'uscita, un nascondiglio, un angolo oscuro, un mezzo qualunque per evitarlo. Ecco, si raggomitola sotto la tavola, ma egli ha già aperto la porta, col lume in mano, e ripete: "Giovanna, ascolta... Giovanna...". Balza come una lepre, si slancia in cucina, due volte gira intorno come una bestia inseguita, ma egli è qui ancora, e allora lei apre di colpo l'uscio del giardino e via per la campagna, a precipizio. Le sue gambe entrano nella neve fin quasi ai ginocchi, e quel contatto gelido le dà un'energia disperata. E' nuda, e non ha freddo, non vede, non sente più nulla, tanto la convulsione della sua anima intorpidisce il suo corpo. E corre, corre, candida come la terra.









Ecco il viale grande, ecco il boschetto, il fosso, la landa... Non c'è luna, ci sono le stelle, un seminìo di fuoco nel cielo nero, ma la pianura è chiara, di un fosco candore, immobilità congelata, silenzio infinito. Cammina sempre, senza respirare, senza pensare.









Ecco il precipizio: si ferma di colpo, d'istinto, si accascia vuotata di tutto. Nella cupa voragine davanti a lei il mare invisibile e muto esala un odore salmastro di relitti della bassa marea. Quanto tempo resta così, le membra inerti, lo spirito inerte? Tutt'a un tratto si mette a tremare, ed è un tremito folle, qualcosa come una vela agitata dal vento. Braccia, mani, piedi scossi da una forza invincibile; tutto palpita in lei, tutto vibra, sussulta, precipita: e la coscienza le torna di colpo, chiara e pungente. Poi sono come antiche visioni che passano davanti ai suoi occhi, la passeggiata con lui nella barca di papà Lastique, i discorsi, l'amore nascente, il battesimo della barca:



più in là, più in là, ancora più in là: ecco: la notte popolata di sogni del suo primo arrivo al castello. E ora? Oh, la sua vita ora è spezzata, perduta ogni gioia, ogni speranza impossibile, e l'avvenire è là, tutto tradimento, disperazione, torture. Meglio morire! Si muore, e tutto è finito...









Una voce lontana? "E' qui... ecco i suoi passi... presto... da questa parte..." Giuliano? E' lui che la cerca? No, non lo vuol rivedere! Dall'abisso che le si scopre dinanzi, ora le giunge un fruscìo: è la leggera risacca del mare. Allora si alza, già decisa a slanciarsi, a buttarsi di sotto, e nel dar l'addio alla vita, l'addio disperato, geme l'ultima parola, quella dei moribondi, quella dei soldati feriti in battaglia: " Mamma...". Di colpo le balena il pensiero di lei, di "mammina", la vede singhiozzare, vede il papà in ginocchio accanto al cadavere dell'annegata, raccoglie in un attimo tanta disperazione, tanto spasimo; e ricade giù nella neve, e nemmeno fugge quando Giuliano e papà Simone (c'è anche Mario che tiene la lanterna) l'afferrano per le braccia, la tirano indietro, poiché è arrivata sull'orlo... Non può più muoversi: facciano di lei quel che vogliono. Sente che la trasportano, la mettono a letto, le fanno delle frizioni con panni bollenti: ogni ricordo si cancella: la conoscenza è perduta. Poi, l'oppressione di un incubo. Ma si tratta proprio di un incubo?



Eccola sdraiata nella sua stanza. Si, vede bene che è giorno, ma lei non può alzarsi, non può. Perché? Non lo sa, non sa niente. E ode come un rumore nel soffitto o una specie di raspamento, e subito un topo, un piccolo topo grigio passa rapidamente sul lenzuolo. Un altro lo segue, un terzo le si avvicina al petto col suo trotterello vivace. Non sa come, ma non ha nessuna paura e vuole afferrar la bestiola e stende la mano... No, niente! Allora altri topi, dieci, venti topi, centinaia, migliaia di topi vengono d'ogni parte, si arrampicano in colonne, scorrono in fila sulle tappezzerie, coprono il letto, entrano, penetrano nel letto: e lei li sente scivolare sulla pelle, ecco che le solleticano le gambe, salgono, scendono per tutto il suo corpo: e le giungono alla gola, e si dibatte stendendo le mani per afferrare un topo, apre e chiude le mani: vuote! Si dispera, grida, urla, vuol fuggire, e le pare che qualcuno la tenga lì a forza, immobile: due braccia di ferro la stringono, la paralizzano: guarda e non vede nessuno. Ha perduto il senso del tempo. Tutto ciò dura a lungo, a lungo, a lungo...









Poi si svegliò. Fu un risveglio stanco, accasciato, eppure dolce.









Si sentiva debole debole. Aprì gli occhi e non si stupì di vedere sua madre seduta con un omone grosso, mai conosciuto, mai visto.









Che età aveva mai? Non lo sapeva, e si credeva piccina piccina.









Non si ricordava proprio di nulla.









"Vedete?" disse l'uomo corpulento. "La conoscenza ritorna." Mammina si mise a piangere. Allora l'uomo corpulento riprese:



"Calmatevi, signora baronessa. Vi dico che ora ne rispondo io.









Però non bisogna parlarle di nulla, assolutamente di nulla.









Lasciate che dorma." Sembrò a Giovanna di restare assopita ancora chi sa quanto, righermita forse da un sonno pesante durante il quale provava a pensare, senza però tentare di ricordarsi di nulla e di nessuno, come se avesse un vago timore della realtà che si faceva strada nel cervello. Una volta, svegliandosi, vide Giuliano: era lui solo accanto al letto: e allora tutto fu chiaro, tutto le tornò alla memoria, come se avessero alzato il velo che copriva il suo passato. Ebbe una fitta acutissima al cuore, e volle fuggire.









Gettò via le coperte, saltò a terra, le gambe non le reggevano e cadde. Giuliano si slanciò su di lei, si mise a gridare: non la toccasse, non la toccasse! L'uscio si aprì e accorse la zia Lisetta con la vedova Dentu, poi il barone, infine la baronessa smarrita, ansimante. Fu così che la rimisero a letto, e lei chiuse subito gli occhi, dissimulando per non parlare e per riflettere meglio.









Sua madre e sua zia la assistevano tutte premurose, e dicevano:



"Giovanna! Ci senti, Giannetta? Ora ci senti, ci senti?" e lei faceva la sorda, non rispondeva: però si accorse benissimo che il giorno finiva. Finiva il giorno, venne la notte. L'infermiera prese posto lì accanto, e spesso la faceva bere. Beveva senza dire nulla. Rifletteva con fatica cercando cose che le sfuggivano, come se avesse delle lacune nella memoria, grandi spazi bianchi e deserti dove gli avvenimenti non erano segnati. A poco a poco, dopo lunghi sforzi, riuscì a riordinare tutti i fatti e vi rifletté sopra con ferma tenacia. Erano venuti il babbo, mammina, zia Lisetta: dunque, era molto malata. Ma Giuliano? Che aveva detto? I suoi genitori sapevano quel che era successo? E Rosalìa?



Dov'era Rosalìa? E poi... che fare, che fare? Un'idea le balenò nel cervello: sì, sì, come prima, a Rouen, col papà e con la mamma. Sarebbe stata vedova: ecco tutto. Allora attese, ascoltando tutto quel che si diceva attorno al suo letto, comprendendo ogni cosa, senza far capir che capiva, godendo di questo ritorno alla ragione, scaltra, paziente. Infine, la sera, si trovò sola proprio con mammina e la chiamò sottovoce. La sua voce la stupì; le parve cambiata. Mammina le prese le mani:



"Giannetta, Giannetta cara, bambina mia, di', mi riconosci?" "Si, mammina. Ma non bisogna piangere. Dobbiamo discorrere a lungo. Giuliano ti ha detto perché sono fuggita fra la neve?" "Si, bambina mia. Tu hai avuto una gran febbre, una febbre pericolosa..." "Non è questo. No, non è questo. La febbre l'ho avuta dopo.









Giuliano non ti ha detto perché ho avuto la febbre e perché sono scappata?" "No, cara." "Fu perché ho trovato Rosalìa a letto con lui." La baronessa credette che delirasse ancora e l'accarezzò dolcemente.









"Dormi, bambina mia. Calmati. Cerca di dormire." "Mammina" riprese ostinata Giovanna "adesso sono perfettamente cosciente. Non dico pazzie come debbo averne dette i giorni scorsi. Una notte io mi sentii male e allora andai a cercar di Giuliano. Rosalìa era con lui, nel suo letto... Io, per il dolore, ho perduto la testa e sono fuggita fra la neve: volevo buttarmi in mare..." "Sì, sì, bambina mia" ripeteva sempre la mamma "tu sei molto malata..." "Non è questo, mamma. Io ho trovato Rosalìa a letto con Giuliano e non voglio più restare con lui. Tu mi condurrai a Rouen, sì, a Rouen, come una volta..." La mamma sapeva bene che il medico aveva raccomandato di non contrariare in nulla la malata, e le dava sempre ragione: sì, sì.









La malata si spazientì.









"Vedo bene che non mi credi. Va' a cercare papà. Lui finirà col capirmi." Mammina si alzò a fatica, prese i bastoni, e uscì strascinando i piedi: quando tornò, dopo pochi minuti, era sorretta dal barone.









Si sedettero insieme accanto al letto. Giovanna cominciò subito.









Disse tutto, lentamente, con voce ancor debole, ma con molta chiarezza: il carattere bizzarro di lui, le sue asprezze, la sua avarizia, la sua infedeltà. Quando ebbe finito, il barone vide bene che non divagava, non fantasticava e non sapeva nemmeno lui che pensare, risolvere, rispondere, e le prese una mano teneramente, come una volta, quando l'addormentava con le sue storielle.









"Senti, mia cara, bisogna agire con molta prudenza. Non precipitiamo le cose. Cerca di sopportare tuo marito fino a quando avremo preso una risoluzione. Me lo prometti?" "Si, papà. Ma non rimarrò qui, quando sarò guarita." Poi domandò sottovoce:



"Dov'è adesso Rosalìa?" "Non la vedrai mai più." Ma lei si ostinava:



"Voglio sapere dov'è." Il padre dovette confessare che non aveva lasciato la casa.









Assicurò che se ne sarebbe andata.









Poi egli uscì dalla stanza, tutto acceso di collera, ferito nel suo cuore di padre. Cercò di Giuliano; non fece preamboli:



"Signore, io vengo a domandarvi conto della vostra condotta verso mia figlia. Voi l'avete ingannata con la vostra cameriera. Ciò è doppiamente indegno." Ma Giuliano recitò bene la sua parte: negò con passione, giurò, prese Dio a testimonio. Quali prove? Fuori le prove! Forse che Giovanna non aveva avuto una febbre cerebrale? Non era fuggita fra la neve, di notte, in un accesso di delirio, in principio della sua malattia? Ed era proprio nel colmo di questo accesso, quando era corsa seminuda per la casa, che pretendeva di aver visto Rosalìa nel letto di lui! E si arrabbiò, minacciò un processo, replicò con veemenza, tanto che il barone, confuso, dovette ricredersi, chiedere scusa, tendere la sua mano leale che l'altro nemmeno volle stringere.









Giovanna conobbe la risposta del marito senza irritarsi. Rispose:



"Egli mente. Ma noi finiremo con lo smascherarlo, papà." Il terzo giorno volle vedere Rosalìa. Il barone rifiutava di farla salire e la dava già per partita.









"Ebbene, andate a cercarla" ripeteva Giovanna imperterrita .









Entrò il medico. Gli si espose subito il caso perché desse il suo parere. Ma Giovanna, indebolita all'estremo, piangeva e diceva senza remissione:



"Voglio veder Rosalìa... voglio veder Rosalìa..." e il medico le prese la mano e le parlò sottovoce:



"Calmatevi, signora. Ogni emozione potrebbe riuscirvi dannosa, perché siete incinta." Restò sorpresa, come colpita: le parve subito che qualcosa si agitasse dentro di lei. Si chiuse nel silenzio, senza ascoltare ciò che si diceva, tutta raccolta intorno a un pensiero. La notte non poté chiudere occhio, poiché la teneva sveglia questa idea nuova e strana di una creatura che viveva qui, nel suo ventre, e si sentiva triste e angosciata perché era un figlio di lui, e non poteva frenare l'inquietudine che egli assomigliasse un giorno a suo padre.









"Papà" disse subito la mattina dopo "la mia risoluzione è ben salda. Io voglio sapere tutto. Tu mi capisci: voglio, e tu sai che non si può più contrariarmi, nelle condizioni in cui mi trovo.









Ascoltami bene. Va a cercare il signor curato: ho bisogno di lui per impedire a Rosalìa di mentire. Poi lo farai salire subito, e tu e mammina non vi moverete di qui. Attento, soprattutto, attento che Giuliano non sospetti qualcosa!" Un'ora dopo il prete entrava, ancora ingrassato, ansimante non meno di mammina, e si sedeva vicino al letto, in una poltrona, col ventre ammassato fra le gambe aperte incominciando a scherzare, passandosi e ripassandosi sulla fronte, come d'uso, il fazzolettone a quadretti.









"Ebbene, signora baronessa, vedo che non si dimagrisce. Mi pare che noi due si faccia il paio." Poi, volgendosi verso la malata:



"Eh, eh! che cosa mi hanno detto, signora sposina! Avremo presto un nuovo battesimo? Ah, ah, ah! Questa volta non si tratta già di una barca!". E aggiunse in tono grave: "Un difensore della patria". Poi, dopo una breve riflessione: "Purché non sia una brava madre di famiglia". E salutando la baronessa: "Come voi, madama".









Ma la porta in fondo si aprì, e si vide Rosalìa smarrita, lacrimosa, che rifiutava di farsi avanti e si aggrappava allo stipite, finché il barone che la spingeva per di dietro, perduta la pazienza, la fece entrare con uno strattone. Allora si coprì il volto con le mani e restò in piedi lì, singhiozzante. Giovanna, appena la scorse, si drizzò con impeto e sedette sul letto, bianca più del lenzuolo. Il suo povero cuore sollevava coi suoi battiti la leggera camicia aderente alla pelle. Non poteva parlare:



respirava appena: soffocava.









"Io... io... " cominciò con la voce rotta dall'emozione "non avrei... non avrei bisogno... di interrogarti... Mi basta...









vederti così... vedere la tua vergogna... la vergogna che provi dinanzi a me..." Il fiato le mancava. Riprese:



"Ma io voglio saper tutto... tutto! Ho fatto venire il signor curato perché sia come una confessione, capisci?" Rosalìa, immobile, si copriva sempre la faccia e mandava come delle grida fra le sue dita contratte. Incollerito, il barone le afferra le braccia, le strappa con forza le mani dal volto e finisce col gettar la donna in ginocchio presso il letto .









"Parla dunque. Rispondi!" Rimase a terra, nella posizione in cui si ritraggono le Maddalene, la cuffia a sghimbescio, il grembiule sul pavimento, il viso ancora nascosto nelle mani ridivenute libere.









"Suvvia" le disse il curato "ascolta ciò che ti si dice e rispondi. Noi non vogliamo farti alcun male, ma vogliamo sapere quel che è successo." "E' vero" gridò Giovanna sporgendosi dalla sponda del letto "è vero che ti trovavi a letto con lui quand'io vi ho sorpresi?" "Sì, signora" Rosalìa gemette attraverso le mani.









Allora, di colpo, la baronessa si diede a piangere lei pure, angosciata, e i suoi singhiozzi convulsi rispondevano ai singhiozzi di Rosalìa.









"Da quanto tempo durava la tresca?" chiese Giovanna con gli occhi sempre fissi sulla disgraziata.









"Dacché è venuto..." balbettò Rosalìa.









Giovanna non capiva.









"Dacché è venuto... Allora... allora... dopo la primavera? » "Sì, signora..." "Dacché è entrato in questa casa?" "Sì, signora..." E Giovanna, come oppressa dalla smania di sapere, interrogava, interrogava in fretta:



"Ma come è accaduto? Come ti ha sedotta? Come ti ha avuta? Che cosa ti ha detto? Quando... come hai ceduto? Come hai potuto darti a lui?" Rosalìa aveva scostato le mani dal volto e parlava ora, come presa da un febbrile bisogno di rispondere, confessare, dire tutto:



"Che ne so io? Fu il giorno che pranzò qui la prima volta, che venne la sera a trovarmi in camera mia... S'era nascosto nel granaio... Non osai gridare per evitare uno scandalo... Venne a letto con me, io perdetti la testa in quel momento, e così ha fatto quel che ha voluto... Stavo zitta perché... lo trovavo molto carino..." Allora Giovanna lanciò un grido.









"Ma... il tuo... il tuo bimbo... è suo?" "Si, signora..." Tacquero entrambe. Non si udivano più che i singhiozzi di Rosalìa, e i singhiozzi della baronessa. Giovanna, accasciata, sentiva a sua volta che le si inumidivano gli occhi: lacrime, lacrime silenziose, cadevano giù per le guance. Il figlio della sua cameriera aveva lo stesso padre del suo! La collera era caduta.









Ora era tutta presa da una disperazione cupa, lenta, profonda, infinita. Con voce cambiata, intenerita, con la voce di una povera donna che piange, chiese ancora:



"Quando siamo tornati di laggiù... dal viaggio di nozze... ha ricominciato subito?" "La prima sera..." confessò la ragazza, sempre prostrata sul pavimento.









Che strazio! Ogni parola, uno strazio. Così, la prima sera la sera del suo ritorno ai "Pioppi", egli l'aveva lasciata per quella ragazza! Ecco perché voleva dormire solo. Ormai ne aveva abbastanza: non voleva sapere di più.









"Vattene! Vattene!" Rosalìa non si muoveva, come annichilita, e Giovanna si rivolse allora a suo padre.









"Conducila via! Fammi il piacere, conducila via!" Ma il curato, che non aveva ancora aperto bocca, giudicò che era giunto alfine il suo turno. Era il momento del predicozzo.









"Figliola mia, quello che hai fatto è gran male, grandissimo male, e il buon Dio non ti perdonerà facilmente. Pensa all'inferno che t'aspetta... se non serberai d'ora innanzi una buona condotta. Ora che hai un bimbo è necessario che tu metta giudizio. La signora baronessa farà senza dubbio qualche cosa per te, e ti troveremo marito." Egli avrebbe avuto qualche altra cosa da dire, ma il barone aveva di nuovo afferrato per le spalle quella disgraziata, la sollevava, la trascinava fino alla porta, la buttava nel corridoio come un fagotto. Quando rientrò, più pallido di sua figlia, il signor curato riprese il discorso:



"Che volete? Tutte così, nel paese. E' una desolazione. Non ci si può far nulla, e dunque bisogna avere un po' di indulgenza per le debolezze della natura. Mai, mai queste ragazze si sposano senza essere incinte: giammai, o signora, giammai." Aggiunse, non senza sorridere: "Si direbbe un costume locale". Poi, indignatissimo: "I ragazzi, perfino i ragazzi! Non ho trovato io stesso l'anno scorso in cimitero due bamberottoli che vengono al catechismo, un maschio e una femmina? Ho avvertito i parenti. Sapete che cosa mi hanno risposto? "Che possiamo farci, signor curato? Non gliele abbiamo mica insegnate noi, quelle porcherie." Ecco, signora: la vostra serva ha fatto come le altre..." "Non m'importa di lei" interruppe il barone che tremava sempre per l'eccitazione dei nervi. "E' Giuliano, è lui che mi sdegna. Ha commesso un'infamia e io porterò via mia figlia..." E andava su e giù, esasperato, animandosi tutto. "Sì, sì, è un'infamia, aver tradito così la mia figliola, un'infamia, un'infamia! Quell'uomo è una canaglia, un miserabile; e glielo dirò, lo prenderò a schiaffi, lo finirò a bastonate." Ma il prete annusava una presa di tabacco al fianco della baronessa piangente, pensava di compiere il suo ministero di pace e diceva:



"Sentite, signor barone, parliamo schietto fra noi: egli ha fatto quel che fan tutti gli uomini. Ne conoscete molti di mariti fedeli?" Aggiunse con bonomia maliziosa: "Scommetto che al vostro tempo voi stesso avrete fatto le vostre. Vediamo, mettete una mano sulla coscienza: ho ragione?".









Il barone si era fermato come se queste parole gli facessero molta impressione.









"Eh sì, voi avrete fatto come gli altri. Chi sa che voi stesso non abbiate messo mano a qualche bella servotta come quella là. Io vi dico che tutti fanno lo stesso. Vostra moglie non è stata meno amata e meno felice, no?" Il barone, sconvolto, non si agitava più. Perbacco! Era vero. Egli aveva fatto altrettanto. Spesso... sì, spesso... quando aveva potuto... E neppure lui aveva rispettato il letto coniugale. Né aveva esitato davanti alle cameriere di sua moglie... quando erano graziose... Era perciò un miserabile? Perché giudicare severamente la condotta dell'altro, dal momento che non si era mai sentito colpevole lui?



La baronessa soffocava dai singhiozzi, ma poi lasciò errar sulle labbra come un'ombra di sorriso al ricordo delle scappatelle di suo marito, essendo di quelle nature sentimentali che presto si inteneriscono e più presto ancora perdonano: e poi le avventure d'amore non fanno parte dell'esistenza? Giovanna pensava e soffriva, così accasciata, stesa supina, le braccia inerti, gli occhi sbarrati e ciò che le faceva più male era il ricordo di quella parola di Rosalìa, una parola che le feriva l'anima, che le penetrava come un trivello nel cuore: "Non ho detto nulla perché lo trovavo molto... carino!". Anche lei lo aveva trovato carino, ed era per questo - perché lo aveva trovato carino - che si era data a lui per la vita, che aveva rinunciato ad ogni altra speranza, ai progetti appena intravisti, all'ignoto del domani:



perché lo aveva trovato carino! Era caduta in quel matrimonio, in quell'abisso senza sponde, per risalire al dolore, alla tristezza alla disperazione, perché... sì, come Rosalìa, come Rosalìa lo aveva trovato "carino"!



La porta si aprì con violenza: e apparve lui, col suo viso feroce.









Aveva incontrato per la scala Rosalìa che piangeva, e veniva, lui, per sapere, poiché qualcosa si stava tramando, poiché Rosalìa aveva certo parlato. La vista del prete lo inchiodò sui due piedi.









Chiese con voce tremante e pur tranquilla:



"Ebbene, che c'è?" Il barone, già tanto violento, non osava più dire una parola come se temesse che il genero riprendesse l'argomento del prete sulle sue stesse infedeltà maritali. Mammina piangeva più forte; Giovanna, sollevata sulle mani, guardava ansante colui che la faceva così crudelmente soffrire.









"C'è" balbettò "che noi sappiamo tutto, tutto, tutto. Conosciamo le vostre infamie, dal giorno che siete entrato qui dentro...









Sappiamo che il figlio di quella ragazza è vostro, è vostro... sì, sì, come il mio... come il mio..." e ricadde sfinita sulle coltri in un lungo pianto disperato.









Giuliano era rimasto intontito, non sapendo che dire, che fare.









"Su, su" intervenne il curato "vediamo un po', non disperiamoci tanto... Vediamo, vediamo, signora, di essere un po' ragionevoli..." S'alzò, si avvicinò al letto, posò la sua mano tiepida sulla fronte della poveretta. Strano! Quel semplice contatto la tranquillizzò. Si sentì illanguidire, come se quella mano forte di un uomo rustico avvezzo al gesto che assolve, alla blandizia che riconforta, le avesse dato una pace misteriosa al semplice tocco.









Il buon uomo, rimasto in piedi, riprese:



"Signora, bisogna sempre perdonare. Sì, sì, una gran disgrazia vi ha colpito, ma Dio nella sua immensa misericordia l'ha compensata con una grande gioia: perché voi sarete madre. Questo bambino sarà la vostra consolazione, signora. E' in nome suo che v'imploro, vi scongiuro di perdonare l'errore del signor Giuliano. Questo sarà un nuovo legame tra voi, un pegno della sua fedeltà futura. Come?



Potreste restar divisa dal cuore dell'uomo di cui portate il frutto nel seno?" Non rispondeva, abbattuta, spossata, senza più forza, né per il rancore, né per la collera. Le sembrava che i suoi nervi fossero rilassati, tagliuzzati: appena respirava, appena viveva. La baronessa, incapace di serbar rancore, incapace di resistere a uno sforzo un po' prolungato, mormorò: "Suvvia, Giovanna...". In quel momento il prete afferrò la mano del giovane e così lo attirò verso il letto per posare quella mano sulla manina stessa di lei, e vi batté sopra un colpetto come per congiungere definitivamente i due sposi.









"Andiamo" disse poi lasciando il solenne tono professionale. "E' cosa fatta. Credete che è la miglior soluzione." Le due mani, unite per un attimo, si separarono. Giuliano, non osando baciare sua moglie, baciò in fronte la suocera: poi girò sui tacchi e prese a braccio il barone che lasciò fare, contento in fondo che la faccenda si fosse così accomodata: e uscirono insieme, a fumare. E la malata, esausta, si assopì mentre il prete e mammina chiacchieravano a bassa voce, pacificamente.









"Dunque, siamo intesi" egli diceva dopo aver spiegato, sviluppato le sue idee, sempre col consenso della signora baronessa, "Voi darete a quella ragazza la fattoria di Barville e io m'incarico di trovarle un marito: oh, sì, un bravo ragazzo, un ragazzo con molto buon senso. Una dote di ventimila franchi ce ne procurerà di domande! Non avremo che l'imbarazzo della scelta." Ora la baronessa sorrideva tutta felice, con due lacrime a mezza via, sulle guance (ma quelle tracce umide erano già bell'e asciutte):



"Siamo d'accordo. Barville vale ventimila franchi, a dire poco. Ma il capitale verrà intestato al bambino. I genitori non ne godranno che l'usufrutto vita natural durante..." Il curato si alzò e strinse la mano alla dama.









"Non preoccupatevi, signora baronessa. Lasciate fare a me: ci penso io..." Uscendo, incontrò zia Lisetta che veniva a veder la malata. Non si era accorta di nulla, non le si disse nulla, non seppe, come sempre, nulla.





















Capitolo 8









Rosalìa aveva lasciato la casa e Giovanna compiva il periodo della gestazione dolorosa. Il pensiero della maternità la lasciava come indifferente. Troppi dolori l'avevano accasciata: ora attendeva la nascita del suo bambino senza curiosità, tutta presa in un giro come di percezioni di disgrazie non ben definite.









La primavera era giunta con lentezza. Gli alberi spogli fremevano sotto la brezza ancora pungente, ma nell'erba umida dei fossati dove imputridivano le foglie autunnali occhieggiavano già le primule gialle. Da tutta la pianura, dai cortili delle fattorie, dai campi in disgelo, si sollevava un sentore umido, come un sapore di fermentazione. Una quantità di puntine verdi uscivano dalla terra bruna e lucente ai raggi del sole.









Una donna robusta e ben piantata aveva sostituita Rosalìa e sosteneva la baronessa nelle sue passeggiate monotone lungo il viale su cui rimaneva invariabilmente la traccia umida e fangosa del suo piede ancor più pesante. Il papà dava il braccio a Giovanna ormai appesantita e sempre più sofferente, e zia Lisetta inquieta, spaventata dal prossimo evento, la teneva per mano dall'altra parte, tutta turbata per quel mistero che non avrebbe mai conosciuto. Camminavano ore e ore così, senza parlare, mentre Giuliano percorreva a cavallo i dintorni, poiché improvvisamente lo aveva preso questa nuova mania del cavalcare. Nulla turbava più questa vita uniforme. Il barone, sua moglie, il visconte fecero visita ai Fourville, che Giuliano sembrava conoscere ormai da gran tempo senza aver mai accennato alle origini di questa amicizia. Fu anche scambiata una visita di etichetta coi Briseville, sempre nascosti nel loro castello addormentato.









Un pomeriggio, verso le quattro, due cavalieri, uomo e donna, entrarono al trotto nel cortile davanti al castello. Giuliano li scorse e si precipitò da sua moglie tutto affannato:



"Presto, presto, Giovanna; ecco i Fourville. Sono venuti da buoni amici, in confidenza, conoscendo il tuo stato. Di' che sono uscito, che non tarderò molto a tornare. Intanto, mi faccio un po' bello..." Stupita, scese. C'era giù una giovane signora, pallida, graziosa, espressione dolente, occhi esaltati, capelli di un biondo sbiadito, come se non fossero mai stati accarezzati da raggio di sole; e costei presentò molto tranquillamente suo marito, una specie di gigante, un orco dai gran baffi rossi, aggiungendo:



"Noi abbiamo avuto più volte l'occasione di incontrar il signor di Lamare. Sappiamo da lui le vostre sofferenze, e non abbiamo voluto rimandare ancora il piacere di venirvi a trovare, da buoni amici, senza cerimonie. Del resto, lo vedete, siamo a cavallo. E poi ho avuto l'onore di ricevere la vostra signora madre e il barone, sì, l'altro giorno..." Parlava con molta affabilità e con un tono confidenziale e garbato, così che Giovanna ne fu incantata e sentì di volerle subito bene. "Ecco un'amica", pensò.









Viceversa, il conte di Fourville sembrava un orso entrato in salotto. Quando si fu seduto, posò il cappello sulla sedia vicina, rimase in forse prima di decidere che cosa dovesse far delle mani, le appoggiò sui ginocchi, poi sui braccioli della poltrona, infine le incrociò come se dovesse pregare.









Ecco Giuliano. Giovanna si volse stupita: non lo riconosceva più.









S'era sbarbato, era bello, elegante, seducente, era proprio il Giuliano dei primi giorni del fidanzamento. Strinse la zampa pelosa del conte, svegliatosi a quell'arrivo improvviso; baciò la mano della contessa, e la contessa sorrise mentre le sue guance d'avorio si colorivano leggermente e le palpebre trasalivano un poco.









Giuliano parlò. Amabile, sì, come un tempo! I suoi larghi occhi, vero specchio d'amore, sapevano ancora carezzare, e quei suoi capelli ispidi e duri avevano riacquistato di colpo, sotto l'olio profumato e la spazzola, ondulazioni lucide e molli.









I Fourville stavano per accomiatarsi, e la contessa si voltò verso di lui:



"Caro visconte, vi piacerebbe una passeggiata a cavallo, per giovedì?" "Ma certamente, contessa" rispondeva con un inchino il visconte, e la contessa intanto si rivolgeva a Giovanna e le afferrava una mano.









"Oh, quando sarete guarita! Galopperemo tutt'e tre nei dintorni.









Sarà bello! Cara, siete contenta?" Con un gesto agile rialzò la coda della sua amazzone, poi balzò in sella con una leggerezza d'uccello mentre suo marito salutava goffamente e poi inforcò la sua grossa bestia normanna dando subito l'idea di un centauro.









Quando furono scomparsi alla svolta del cancello, Giuliano sembrava incantato e ripeteva:



"Che gente simpatica! Ecco una conoscenza che ci sarà utile." Anche Giovanna era contenta, senza quasi rendersene conto.









"La piccola contessa rapisce. Sì, sento che le vorrò bene; ma il marito ha l'aria di un bruto. Dove li hai conosciuti?" "Per caso, dai Briseville" disse egli fregandosi le mani. "Sì, il marito pare un po' rozzo. E' un cacciatore accanito; ma è nobile davvero, quello lì." Il pranzo fu quasi allegro, come se un benessere fosse penetrato in famiglia. E non avvenne nulla di nuovo fino agli ultimi giorni di luglio.









Un martedì sera, mentre erano seduti sotto il platano intorno a un tavolino di legno con bicchierini e liquori Giovanna impallidì improvvisamente, mandò un grido, si coprì il ventre con le mani...









Un dolore rapido, acuto l'aveva colpita come a tradimento, ma per andarsene subito. Dopo una diecina di minuti, altro spasimo: più lungo, benché meno gagliardo. Poté a gran fatica rientrare, portata quasi di peso dal marito e dal padre. Il tragitto dal platano alla sua stanza le parve interminabile; e gemeva quasi senza accorgersene, chiedendo di fermarsi, di sedere, accasciata, spossata da quell'intollerabile sensazione di peso nel ventre. La gravidanza era ancora immatura, tanto è vero che il parto non era previsto che per la fine di settembre; ma temendosi un caso disgraziato, fu attaccata la carrettella e papà Simone partì di galoppo in cerca del medico.









Il medico, arrivato verso mezzanotte, riconobbe subito a colpo d'occhio i sintomi del parto prematuro.









Nel letto, le sofferenze di Giovanna si erano un po' calmate, ma la poveretta sentiva ora un'angoscia, una debolezza disperata di tutto il suo essere, qualcosa come il presentimento, il tocco misterioso della morte. E' adesso, è adesso che essa ci sfiora così da vicino, che col suo soffio ci raggela il cuore.









La stanza era piena di gente. Mammina soffocava abbandonata su una poltrona; il barone, con mani tremanti, correva da tutte le parti, portava oggetti, parlava col medico, perdeva la testa; Giuliano camminava in lungo e in largo; preoccupato di fuori, calmissimo dentro; e la vedova Dentu si teneva in piedi vicino al letto, con nel volto un'espressione di circostanza, di donna esperta che non si stupisce proprio di niente. Infermiera, levatrice, vegliatrice di morti, ricevendo quelli che vengono al mondo, raccogliendo il loro primo vagito, lavando con la prima acqua la loro tenera carne, avvolgendola nei primissimi lini, ascoltando poi con la stessa imperturbabilità l'ultima parola, l'ultimo brivido di quelli che se ne vanno, facendo loro l'ultima toletta, bagnando con l'aceto i loro corpi distrutti, avvolgendoli nell'ultimo drappo, ecco, sì, la vedova Dentu si era chiusa in un'indifferenza ben resistente a tutti i casi della nascita e della morte. La cuoca Liduina e zia Lisetta rimanevano nascoste discretamente dietro la porta del vestibolo.









Di quando in quando la malata emetteva un lamento debole debole.









Per due ore intere si pensò che l'avvenimento si sarebbe fatto attendere a lungo, ma verso l'alba i dolori riattaccarono con violenza, e la poveretta lasciò sfuggire le prime grida dai denti serrati. E pensava senza tregua a quella Rosalìa che non aveva sofferto, che quasi non aveva pianto, e a quel bambino, il piccolo bastardo, che era venuto alla luce senza spasimo, senza fatica.









Nella sua disgraziata anima faceva comparazioni incessanti, malediceva il Signore senza pensare di averlo già creduto giustissimo, si indignava di certe colpevoli preferenze del destino, delle menzogne delittuose di tutti coloro che predicano l'onestà, il bene, l'amore. Talvolta la crisi era così violenta che le si spegneva ogni idea. Non aveva più forza, non più vita, non più conoscenza che per soffrire. Sopraggiungeva un momento di calma, e allora non poteva distogliere il suo sguardo da lui, da Giuliano; e un altro dolore, morale questo, l'angosciava ricordando il giorno in cui la sua cameriera era caduta ai piedi dello stesso letto col suo piccino tra le gambe: il fratello dell'esserino che ora le lacerava così barbaramente le viscere.









Oh, ricordava bene i gesti, gli sguardi, le sue parole, il suo atteggiamento di fronte a quella ragazza distesa per terra, ed ora leggeva in lui come se i suoi pensieri fossero scritti nei suoi movimenti, sì, la stessa noia leggera, la stessa indifferenza, per lei come per l'altra, l'incuranza egoistica dell'uomo irritato dalla paternità. Poi l'assalì una convulsione spaventosa, uno spasimo così crudele che disse: "Muoio... sto per morire...".









Allora una rivolta furiosa, un bisogno di maledire le riempì tutta l'anima, un odio disperato contro quell'uomo che l'aveva perduta, contro la creatura ignota che la uccideva. Armò le membra in uno sforzo supremo per gettare lontano da sé quel fardello, le sembrò che il ventre le si vuotasse di colpo, e la sua sofferenza era finita.









L'infermiera, il medico, curvi su di lei, la palpavano. Ecco, staccavano qualcosa; e ben presto un rumore soffocato (ricordò di averlo già udito) la fece trasalire, e quel piccolo grido doloroso, quel miagolio sottile di neonato le entrò nell'anima, nel cuore, in tutto il suo povero corpo esausto: tese le braccia in un gesto incosciente... Ah, che gioia! Che slancio verso una felicità tutta nuova, allora allora sbocciata! In un attimo si sentì libera, calma, felice: felice come non era mai stata.









Rifioriva il suo cuore. L'anima sua rifioriva. Mamma, era mamma!



Immediatamente volle vederlo, il bambino. Era nato troppo presto e non aveva capelli né unghie; ma quando vide agitarsi quella larva, quando vide aprirsi quella bocca, quando udì quei vagiti, quando toccò quell'aborto con la pelle sgualcita, tutta crespe, ma viva, allora fu invasa da una gioia irresistibile, comprese di essere salva, garantita contro ogni disperazione, sentì che non si sarebbe mai più curata del mondo perché era questo il suo amore.









Da quel momento ebbe un solo pensiero: il suo piccino. Diventò subito una mamma fanatica, tanto più esaltata quanto più era stata delusa nel suo amore, ingannata dalle sue speranze. Teneva sempre la culla accanto al letto, passava intere giornate seduta di fronte alla finestra, dondolando la lieve culla. Fu gelosa della nutrice. Quando il piccolo essere assetato tendeva i braccini verso quel grosso seno dalle vene bluastre e coi labbruzzi si impadroniva del capezzolo bruno e grinzoso, lei guardava con tremore, pallida pallida, la calma e forte ragazza, e avrebbe voluto strapparle suo figlio, avrebbe voluto batterla, graffiare con le unghie il seno a cui beveva avidamente suo figlio. Poi volle ricamare da sé certi fini abitini, di una eleganza complicata, ma sì, per abbigliarlo. E così il piccolino fu avvolto in un nimbo di trine, ebbe cuffie a bizzeffe, tutte belle. Non parlava più che di queste cosine: interrompeva la conversazione perché si ammirasse una fascia, un bavaglino, una cuffietta di squisita fattura, non badava a quel che si diceva intorno a lei, ma si estasiava su uno di questi oggetti di biancheria girandolo e rigirandolo nelle mani, per osservarlo meglio, e domandava:



"Credete che sarà bello con questo?" Il barone, mammina indulgevano a quella tenerezza frenetica; ma Giuliano la pensava diversamente perché turbato nelle sue abitudini, diminuito d'importanza dacché era venuto quel piccolo essere, onnipotente e strillante.









"E' insopportabile con quel suo marmocchio" ripeteva egli senza posa smanioso, collerico, geloso in fondo del minuscolo essere che gli rubava il posto nella casa.









Era talmente "insopportabile", cioè ossessionata dal suo affetto, che passava le notti seduta vicino alla culla per veder dormire il suo bimbo. Finché il medico si accorse che si esauriva in quella contemplazione appassionata e morbosa, senza mai requie, si indeboliva, dimagriva e tossiva, e ordinò nettamente la separazione. Giovanna si irritò, pianse, implorò; ma non si volle cedere. Ogni sera il bambino veniva portato nella stanza della nutrice, e così la mamma si alzava di notte, a piedi nudi attirata da quella porta, da quella serratura, per sapere se dormiva, se si svegliava, se aveva bisogno di nulla. Una volta fu trovata là da Giuliano che rientrava tardi (aveva pranzato dai Fourville) e d'allora in poi fu chiusa a chiave nella sua stanza per costringerla a restar nel suo letto.









Verso la fine di agosto ebbe luogo il battesimo. Padrino, il barone; la zia Lisetta, madrina. Il rampollo ricevette i nomi di Pietro, Simone, Paolo: Paolo per l'uso corrente.









Ai primi di settembre la zia Lisetta ripartì senza scalpore, e non se ne accorse nessuno, tanto la sua presenza e la sua assenza passavano ugualmente inavvertite.









Una sera, dopo il pranzo, comparve il curato. Pareva un poco imbarazzato, come se nascondesse qualcosa, e infatti, dopo una quantità di discorsi inconcludenti, pregò la baronessa e suo marito di concedergli un breve colloquio. Se ne andarono tutt'e tre lentamente fino in fondo al grande viale, parlando animati fra loro, così che Giuliano, rimasto qua con Giovanna, si stupiva e si irritava di questi segreti. Poi volle accompagnare il prete che aveva preso congedo, e uscirono insieme andando incontro alla chiesa da cui veniva il suono dell'Angelus. Faceva fresco, quasi un po' freddo, e si rientrò nel salone. Già tutti sonnecchiavano un poco, quando Giuliano rientrò improvvisamente, rosso in volto, fremente di sdegno. Sulla porta, senza pensare che Giovanna era lì, gridò verso i suoceri:



"Ma vivaddio, siete pazzi a buttar via ventimila franchi per quella ragazza!" Nessuno rispose. Egli ricominciò furibondo:



"Non si dev'essere scemi fino a questo punto. Non volete dunque lasciarci un soldo?" Allora il barone si rimise dallo stupore e tentò di fermare quell'energumeno:



"Tacete. Pensate che c'è vostra moglie." "Me ne infischio" gridò Giuliano esasperato, pestando i piedi.









"Lei sa bene di che si tratta: è un furto a suo danno." Giovanna, attonita, guardava senza capire. Domandò che cosa c'era di nuovo.









Allora Giuliano si voltò verso di lei, la chiamò a testimonio, come parte interessata, come una compagna delusa essa stessa in un beneficio sperato. Denunziò bruscamente il complotto per maritare Rosalìa, il dono della tenuta di Barville, una tenuta che valeva almeno ventimila franchi. E ripeteva:



"I tuoi genitori sono pazzi, figliola mia, pazzi da legare.









Ventimila franchi! Ventimila franchi! Hanno perduto la testa.









Ventimila franchi per un bastardo!" Giovanna ascoltava senza emozione, senza collera, stupita essa stessa della sua tranquillità, indifferente ormai a tutto quello che non riguardasse il piccino.









Il barone soffocava e non sapeva che rispondere: finalmente, battendo i piedi, gridando:



"Pensate piuttosto a quel che dite. Oh infine... infine... è rivoltante. Di chi la colpa se bisogna fare la dote a quella ragazza? Di chi è quel bambino? L'avreste voluta abbandonare, ora?" Giuliano, stupito da quella violenza, guardò fissamente il barone.









Continuò in tono più calmo:



"Millecinquecento franchi bastavano. Ne hanno tutte dei figlioli prima di prendere marito. Che siano dell'uno o dell'altro, che importa! Invece, se date così una vostra tenuta del valore di ventimila franchi, oltre al danno che ci recate, fate conoscere a tutti quel che è successo. Potevate almeno pensare al vostro nome, alla vostra posizione..." Parlava con voce severa, da uomo forte del suo diritto, della logica del suo ragionamento. Il barone, turbato da questo argomento inatteso, gli restava davanti a bocca aperta. Giuliano intuì il proprio vantaggio e concluse:



"Fortunatamente, non c'è nulla di fatto. Conosco il giovane che la vorrebbe sposare. E' un brav'uomo, e con lui ci si accomoda. Me ne incarico io." E uscì senza indugio, quasi temesse il seguito della conversazione, soddisfatto del generale silenzio che era un consentimento per lui.









Il barone non si poteva dar pace e gridava:



"Ah, no, no, questo è troppo!" ma Giovanna alzò gli occhi sul volto agitato del padre e rise, sì, rise di quel suo riso fresco d'una volta, di quando udiva qualche stramberia:



"Papà, papà, ti sei accorto? Quante volte ha ripetuto: ventimila franchi, ventimila franchi!" Mammina, pronta all'allegria come alle lacrime, ripensò alle furie del genero, alla sua indignazione, al suo rifiuto violento di indennizzare la ragazza sedotta proprio da lui, sentì che il buon umore di Giovanna le allargava il cuore, e fu squassata dal suo riso convulso che le riempiva gli occhi di lacrime. Non ci volle altro perché il barone subisse il contagio, e allora tutt'e tre si abbandonarono all'ilarità serena e concorde del tempo felice.









"E' strano" disse Giovanna non senza sorpresa, quando si furono un poco calmati "certe cose non mi fanno più nessunissimo effetto.









Lui, ormai, lo considero come un estraneo. Non mi sembra di essere sua moglie. Vedete bene che io mi diverto un mondo alle sue...









alle sue... delicatezze..." E così tutt'e tre si abbracciarono, inteneriti, contenti, senza saper neppure il perché.









Ma due giorni dopo, finita la colazione, quando Giuliano era uscito a cavallo, un giovanottone dai ventidue ai venticinque, vestito di una blusa turchina nuovissima, a pieghe, bene stirata, le maniche gonfie, entrò dal cancello con aria sorniona, come se fosse stato nascosto là dal mattino, rasentò il fossato dei Couillard, girò attorno alla casa e si avvicinò quasi sospettoso al gruppo del platano. Si levò il berretto appena si accorse di essere stato visto, e faceva gli ultimi passi con aria impacciata.









Quando fu abbastanza vicino, borbottò:



"Servo vostro, signor barone, madama e la compagnia." Nessuno gli parlava, e dovette ben presentarsi:



"Sono Desiderato Lecoq." Chiese il barone, giacché questo nome non gli diceva niente:



"Ebbene? Che volete?" Davanti alla necessità di spiegare il suo caso, il giovanotto finì col turbarsi.









"Il signor curato..." balbettò, e rialzava e riabbassava gli occhi dal berretto, che teneva in mano, al tetto della casa "Il signor curato... mi ha detto due parole... per quell'affare..." e si tacque temendo di andare troppo oltre e compromettere i suoi interessi.









"Quale affare?" chiese il barone senza capire. "Io non ne so nulla." L'altro allora, abbassando la voce, si decise:



"L'affare della vostra cameriera... la Rosalìa..." Giovanna comprese, si alzò, si allontanò col suo bimbo.









"Venite avanti" disse il barone indicando al giovanotto la sedia lasciata allora allora da Giovanna.









Il contadino sedette borbottando: "Troppo gentile..." e aspettò, come se non avesse più niente da dire. Finalmente, dopo un altro silenzio, si decise e levò gli occhi verso il cielo sereno: "Bel tempo per questa stagione... la terra ne approfitta per quello che ci hanno già seminato..." e tacque di nuovo.









Il barone si spazientì e con un tono asciutto riattaccò la questione:



"Allora siete voi che sposate Rosalìa?" Qui l'uomo apparve alquanto preoccupato, come se lo si obbligasse a uscire dalle sue abitudini di cautela normanna.









"Secondo" disse con voce più chiara, ma diffidando sempre. "Può essere di sì... può essere di no..." "Perbacco!" gridò il barone irritato da questo tergiversare.









"Rispondete francamente. E' per questo che siete venuto, sì o no?



La prendete, sì o no?" L'uomo, perplesso, non guardava più che i suoi piedi.









"Se le cose stanno come ha detto il signor curato, la prendo; se le cose stanno come ha detto il signor Giuliano, non la prendo." "E che v'ha detto il signor Giuliano?" "M'ha detto che avrei avuto millecinquecento franchi, e il signor curato che ne avrei avuti ventimila. Sta bene ventimila, non sta bene millecinquecento." Allora la baronessa, sprofondata nella sua poltrona, si mise a ridere a piccoli sussulti davanti all'ansietà di quel tanghero. E il tanghero la guardò di sbieco, con evidente malumore, ché non poteva capire l'innocenza di quell'allegria, e aspettava.









"Ho detto al signor curato" tagliò corto il barone per il disgusto d'un simile mercanteggiare "ho detto che avrete la fattoria di Barville vita natural durante, e che un giorno rimarrebbe al bambino. La fattoria vale ventimila franchi. Io non ho che una parola. E' fatto, sì o no?" Quello sorride con un'aria tutta umile e soddisfatta e diventa perfino loquace:



"Oh, allora non dico di no. Non c'era che questo contrasto. Quando il signor curato mi parlò, fui subito contento, perdinci! e poi ero contento di far piacere al signor barone, che poi mi rivedrà, mi dicevo... Non è forse vero che quando ci si obbliga, tra persone, si finisce col ritrovarsi? Ma il signor Giuliano è venuto da me e mi ha detto che erano millecinquecento, niente di più...









Io mi sono detto: bisogna sapere, ed eccomi qua. Non dico che non avevo fiducia, ma volevo sapere. Patti chiari e amicizia lunga, no, signor barone?" Ora bisognava arrestarlo, e il barone gli chiese quando voleva fare il matrimonio. Allora quello ridiventa di colpo timido, imbarazzato, esitante. Alla fine si arrischia:



"Vogliamo intanto scrivere in un pezzetto di carta?" Questa volta il barone si arrabbia davvero:



"Ma, corpo d'un cane, non avete il contratto di matrimonio? Non è quello il miglior documento?" "Ma intanto... intanto" si ostinava il contadino "potremmo scrivere due righe... Ciò non nuoce, sapete..." Il barone si alzò per finirla.









"Subito. Rispondete sì o no. Se non la volete, ditelo. Abbiamo altri pretendenti." Fu la paura che decise l'astuto normanno, il quale tese la mano come dopo l'acquisto di una mucca:



"Toccate qui, signor barone, ed è fatto. Guai a chi manca." Il barone toccò la mano, e chiamò:



"Liduina" (La cuoca si affacciò a una finestra). "Portate una bottiglia di vino." Bevettero per innaffiare l'affare concluso. E il giovanotto se ne andò tutto contento.









Giuliano ignorò questa visita, e il contratto fu preparato in segreto. Poi, fatte le pubblicazioni, si celebrarono le nozze. Era la mattina di un lunedì. Una vicina portava il marmocchio subito dietro gli sposi, come promessa di fortuna. E nessuno ci trovò da ridire: ma sembrò piuttosto degno d'invidia, quel Desiderato Lecoq. Con un sorriso un po' malizioso, dove non c'era neanche un po' di indignazione, la gente diceva che egli era nato con la camicia.









Giuliano fece una scenata che abbreviò il soggiorno dei suoceri ai "Pioppi". Giovanna li vide partire senza troppo dolore. Ora aveva il suo Paolo: aveva il suo bambino: era felice.





















Capitolo 9









Giovanna si era rimessa ormai completamente del puerperio, e si pensò di restituire la visita ai Fourville e presentarsi pure al marchese di Coutelier; tanto più che Giuliano aveva comperato a un'asta pubblica una nuova carrozza, un "phaeton" a un solo cavallo, per uscire almeno due volte il mese. In una bella giornata di dicembre il "phaeton" fu attaccato, e dopo due ore di cammino attraverso la pianura normanna si cominciò a discendere in una piccola valle dai fianchi boscosi, ma coltivata giù in basso; finché ai campi seguirono le praterie e alle praterie una palude irta di canne: canne secche il cui fogliame dava l'idea di tanti nastri gialli che stridessero al vento. A un'improvvisa svolta della valle il castello della Vrillette si mostrò quasi di colpo, addossato da questa parte a un pendio boscoso, dall'altra immerso con tutte le mura in un grande stagno limitato in faccia da una selva di abeti che digradava per l'altro versante. Bisognò passare su un ponte levatoio e varcare un gran portone Luigi Tredicesimo per entrare nel cortile d'onore, davanti a un elegante castello della stessa epoca, con torricelle coperte d'ardesia.









Giuliano spiegava a Giovanna le varie parti dell'edificio, da esperto conoscitore, faceva insomma gli onori di casa estasiandosi a tanta bellezza.









"Guarda, guarda, questo portone! Di', non ti sembra grandiosa un'abitazione come questa? Tutta l'altra facciata dà sullo stagno, con un ampio scalone che giunge fino all'acqua: quattro barche aspettano in fondo ai gradini, due per il conte, due per la contessa. Laggiù, a destra, dove vedi quella fila di pioppi, lo stagno finisce ed è lì, che comincia la riviera che va sino a Fécamp. Questa regione è piena di selvaggina, il conte è un gran cacciatore. Che residenza signorile!" S'era aperta la porta d'entrata ed ecco la contessa venire incontro, pallida, sorridente, in un abito a strascico come una castellana d'altri tempi. Sembrava proprio la "bella signora del lago" nata per quel maniero da fiaba.









Quattro delle otto finestre del salone si aprivano sullo stagno e sul cupo bosco di pini che risaliva la costa di fronte. Il verde, a toni densi, rendeva profondo, austero, lugubre lo stagno, e quando il vento soffiava i gemiti degli alberi parevano i lamenti della palude.









La contessa afferrò le mani a Giovanna, come a un'amica d'infanzia, e la fece sedere, le si mise vicino su una sedia più piccola, mentre Giuliano chiacchierava, sorrideva, domestico e amabile, poiché da ben cinque mesi era tornato alle dimenticate eleganze. La contessa parlava con lui delle loro passeggiate a cavallo. Rideva un po' del suo modo di cavalcare chiamandolo:



"Cavaliere Inciàmpica"; rise con più gusto quando egli, per tutta risposta, la battezzò "Regina delle Amazzoni". Un colpo di fucile sparato sotto le finestre spaventò Giovanna che emise un piccolo grido. Era il conte che aveva ucciso un'alzàvola.









Sua moglie lo chiamò. Uno sbattere di remi, l'urto della barca contro la pietra, ed egli comparve, gigantesco, in tenuta da caccia, seguito da due cani tutti bagnati, rossastri come lui (si accovacciarono sul tappeto davanti alla porta). In casa sua egli sembrava più disinvolto, accoglieva con festa gli amici. Fece rimetter legna sul fuoco, ordinò che si portasse qualcosa: madera, biscotti. "Voi pranzate qui, siamo intesi?" Giovanna che non dimenticava il suo bambino oppose un rifiuto; il conte insisteva, Giovanna pure insisteva: allora Giuliano fece un gesto d'impazienza un po' brusco, così che lei ebbe paura di ridestare il cattivo umore, l'umore litigioso di lui, e acconsentì, sebbene torturata dall'idea di non rivedere il suo Paolo fino a domani.









Fu un pomeriggio incantevole. Visitarono prima di tutto le sorgenti che scaturivano ai piedi di una roccia vellutata di muschio in un bacino limpido, smosso come da un'acqua bollente; poi la gita in barca attraverso i piccoli sentieri tagliati in una selva di canne, e il conte remava seduto fra i due cani che annusavano il vento e sollevava la gran barca a ogni tuffo di remi spingendola avanti. Di quando in quando Giovanna immergeva la sua manina nell'acqua gelata e godeva di quel senso di freddo che dalla punta delle dita le correva su su fino al cuore. Indietro, all'estremità della barca, restarono Giuliano e la contessa (la contessa ravvolta negli scialli) e sorridevano insieme di quel sorriso persistente della gente felice a cui la felicità non lascia esprimere più desideri. La sera scendeva con lunghi brividi gelati; passavano tra i giunchi appassiti i soffi del nord. Il sole era calato dietro gli abeti; restava un cielo rosso, crivellato da piccole nubi scarlatte e bizzarre, che metteva freddo solo a guardarlo.









Rientrarono nel vasto salone dove scoppiettava un fuoco gigante.









Una sensazione di calore e di benessere rendeva allegri anche prima di varcare quella porta. Tanto è vero che il conte, divenuto gaio, afferrò la moglie fra le sue braccia d'atleta e, sollevandola fino alla sua bocca, come avrebbe fatto d'un bimbo, le scoccò sulle guance due bacioni di brav'uomo soddisfatto.









Giovanna sorrise e guardò con simpatia quel buon gigante mascherato da orco, con quei baffi, e pensava: "Come ci si inganna sempre... e su tutti!". Ma quando girò quasi involontariamente lo sguardo, vide Giuliano in piedi nel vano della porta, terribilmente pallido, con gli occhi fissi sul conte. Preoccupata, gli si avvicina, chiede sottovoce:



"Ti senti male? Che hai?" "Nulla" egli rispose quasi indispettito. "Lasciami tranquillo. Ho preso freddo." Quando passarono in sala da pranzo, il conte chiese il permesso di lasciare entrare i suoi cani, e i cani balzarono quasi subito e gli sedettero ai lati. Ogni tanto il padrone dava loro qualche boccone, carezzava le lunghe orecchie morbide come la seta, e le due bestie allungavano la testa, dimenavano la coda, fremevano di gioia, di qua e di là del padrone.









Dopo pranzo, siccome Giovanna e Giuliano si disponevano a partire, il signor di Fourville li arrestò, li trattenne perché assistessero a una pesca "alla fiaccola". E così volle che gli ospiti e la contessa si collocassero sullo scalone che dava sull'acqua, poi scese in barca con un domestico che aveva in mano una rete e una torcia accesa. La notte era chiara e frizzante sotto un gran cielo seminato d'oro. La torcia rifletteva sull'acqua strisce di fuoco mobili e strane gettando bagliori danzanti sulle canne, illuminando tutta la distesa dei pini.









Improvvisamente, avendo la barca virato, un'ombra colossale, fiabesca, un'ombra di uomo si drizzò su quell'orlo rischiarato del bosco, e la testa sorpassava gli alberi, si perdeva nel cielo, e i piedi sprofondavano giù nello stagno. Poi l'essere smisurato solleva le braccia come per prendere le stelle, e queste braccia immani si drizzano bruscamente e ripiombano, e si sente insieme un piccolo sciabordìo di acqua percossa. La barca vira di nuovo debolmente e il prodigioso fantasma sembra correre lungo il bosco, ora penetrato di luce e poi sprofonda nell'orizzonte invisibile, per ricomparire meno grande, ma delineato più nettamente, con tutti i suoi movimenti, sulla facciata del castello.









"Gilberta, ne ho otto!" avverte la grossa voce del conte.









I remi battono l'onde. Ora la vasta ombra rimane in piedi immobile sul muro, diminuendo a poco a poco di larghezza e d'altezza, la testa sembra discendere, il corpo restringersi, e quando il signor di Fourville risale lo scalone, sempre seguito da quello della torcia, l'ombra è ridotta alle proporzioni della sua stessa persona, e ne rifà i movimenti. Ecco: egli ha in una rete otto grossi pesci che guizzano...









Quando Giovanna e Giuliano si rimisero in cammino bene avvolti nei mantelli e nelle coperte prestate, disse quasi involontariamente Giovanna:



"Che brav'uomo quel gigante!" "Sì" ammise lui che guidava "ma non sa contenersi davanti alla gente." Otto giorni dopo, visita ai Coutelier, che passavano per la prima famiglia nobile della provincia. Il loro dominio di Reminil confinava col grosso borgo di Cany. Il castello nuovo, fabbricato sotto Luigi Quattordicesimo, era nascosto in un parco magnifico circondato da mura: da un'altura si vedevano i ruderi dell'antico castello.









Servi in livrea fecero entrare i visitatori in una sala imponente che aveva nel mezzo una specie di colonna con sopra un'immensa coppa di Sèvres, e nello zoccolo, dietro il suo cristallo, una lettera autografa del sovrano che invitava il marchese Leopoldo Giuseppe de Varneuville de Rollebosc de Coutelier a ricevere il dono regale. Giovanna e Giuliano osservavano questa immensa coppa di Sèvres quando entrarono marchese e marchesa. La dama era incipriata: amabile di proposito e manierosa per il desiderio di sembrare condiscendente: lui, un grosso personaggio dai capelli a spazzola, bianchi, metteva nei gesti, nella voce, in ogni atteggiamento, un'alterigia, un sussiego che diceva come egli fosse contento di sé: insomma gente cerimoniosa il cui spirito, non meno dei sentimenti e delle parole, sembrava sempre sui trampoli. Parlavano sempre loro, senza attendere la risposta, con un'aria d'indifferenza, con sorrisi poco benevoli, come se, ricevendo la piccola nobiltà dei dintorni, compissero una funzione imposta loro dalla nascita.









Giovanna e Giuliano, sopraffatti, si sforzavano di piacere, ma non sapevano rimanere e non trovavano il modo di andarsene, finché la marchesa stessa pose fine alla visita spezzando la conversazione al punto giusto, come una regina che, molto garbatamente, congedi.









Nel ritornare a casa, Giuliano disse:



"Se credi, limiteremo anche le visite. Per me sono sufficienti i Fourville." E Giovanna fu di questo parere.









Passava molto lentamente il dicembre, mese cupo, buco nero in fondo all'anno: ricominciava la solita vita casalinga. E Giovanna non si annoiava, Giovanna era tutta presa da quel piccolo Paolo che Giuliano guardava invece di traverso, con aria inquieta e scontenta. Spesso, la madre quando teneva fra le braccia il suo pargolo e lo vezzeggiava con la frenesia di tenerezze che le donne hanno sempre pei figli, lo presentava al padre e diceva: "Ma bacialo dunque! si direbbe che non gli vuoi bene!" e lui sfiorava appena, con disgusto, la fronte glabra del piccolo, poi descriveva un arco con tutto il suo corpo quasi per evitare il moto incessante di quelle manine grinzose, e se ne andava via subito poiché non sapeva vincere, forse, una ripugnanza istintiva.









Il sindaco, il medico e il curato venivano a pranzo di tanto in tanto, ma era coi Fourville che si stringevano sempre più forti legami, Il conte, poi, sembrava adorare il bambino! Lo teneva sulle ginocchia durante tutta la visita; ed anche per interi pomeriggi; e allora lo maneggiava delicatamente con quelle sue grosse mani di colosso, gli solleticava la punta del naso co' suoi lunghi baffoni o lo abbracciava con un vero slancio di passione, come fanno le mamme. Soffriva della sterilità di sua moglie.









Marzo fu chiaro, asciutto, quasi dolce. La contessa Gilberta riparlò di passeggiate a cavallo, di quelle passeggiate che avrebbero fatto tutt'e quattro insieme. Giovanna, un po' stanca delle lunghe serate, delle lunghe notti, dei giorni uguali e monotoni, consentiva lietamente ai progetti, e così preparò la sua amazzone, e fu lo svago di una settimana. Poi, le escursioni. Essi andavano sempre a due a due, avanti la contessa e Giuliano, cento passi indietro il conte e Giovanna. Il conte e Giovanna parlavano tranquillamente come due amici, poiché erano diventati amici davvero nel contatto delle loro anime oneste, dei loro semplici cuori; mentre quegli altri due parlavano sottovoce o ridevano con improvvisa violenza o si guardavano come se volessero dirsi con gli occhi ciò che non si dicevano con le labbra oppure si slanciavano al galoppo, come sospinti dall'idea di fuggire: sì, sì, lontano, più lontano ancora... Poi Gilberta parve irritabile; la sua voce stridula, portata dal vento, giungeva talvolta agli orecchi della coppia che seguiva a cavallo, con più calma.









"Mia moglie non si alza sempre di buon umore" diceva allora il conte a Giovanna.









Una sera, mentre tornavano verso casa, la contessa eccitava la sua cavalla e la speronava e poi la tratteneva con bruschi strattoni, e il suo compagno le ripeteva ogni volta: "Vi prenderà la mano, badate!". La contessa rispose: "Meglio così. Non è cosa che vi riguardi" e il tono fu così netto, così duro che le parole risuonarono intorno come sospese nell'aria.









L'animale scalpitava, si impennava, la bava alla bocca.









"Sta' in guardia, Gilberta" gridò il conte inquieto con tutta la forza de' suoi polmoni.









Allora, come a sfidarlo, in uno di quegl'impeti nervosi di donna che nessuno arresta, la contessa colpì la sua bestia, la colpì fra le orecchie col frustino, così che essa cominciò ad impennarsi furiosa, batté l'aria con le zampe anteriori, si abbassò e si riprese con la potenza di un balzo e fini col lanciarsi nella pianura come a divorarla. Da prima oltrepassò una prateria, poi si precipitò sul coltivato sollevando nembi di terra umida e grassa, e continuò così rapida che amazzone e cavallo si distinguevano appena.









"Contessa! Contessa!" chiamava disperatamente Giuliano rimasto al suo posto.









Ma il conte dietro grugnì, e curvandosi sulla groppa del suo pesante animale, lo gettò avanti con la spinta di tutto il suo corpo; e lo lanciò con tal impeto, eccitandolo, trascinandolo, spaventandolo con la voce, il gesto, lo sprone, che l'enorme cavaliere parve portare la gran bestia fra le sue cosce e sollevarla a volo. Giovanna vedeva laggiù in fondo i due profili, quello della moglie e quello del marito, fuggire, diminuire, impallidire così come si vedono due uccelli che si inseguono perdersi all'orizzonte, svanire. Giuliano si avvicinò sempre di passo, mormorando in tono di dispetto a Giovanna:



"Credo che quella sia pazza, oggi." E mossero entrambi dietro i loro amici, nascosti in quel momento da un'ondulazione della pianura. Dopo un quarto d'ora, li videro tornare e li raggiunsero. Il conte, rosso in volto, trionfante, sudato, beato, teneva nel suo pugno irresistibile il cavallo fremente di sua moglie che, pallidissima, con un volto tutto dolente e convulso, si appoggiava con una mano alla spalla di lui quasi stesse per svenire. Giovanna comprese quel giorno che il conte amava perdutamente sua moglie.









Per tutto il mese seguente la contessa fu allegra come non mai.









Veniva ai "Pioppi" anche più spesso, rideva di continuo, abbracciava l'amica con veri slanci di tenerezza; si sarebbe detto che un misterioso fascino fosse disceso sulla sua vita; e il suo gigante, beatissimo anche egli, non cessava mai di guardarla, toccarla, toccarle la mano, il vestito, in un continuo accrescimento d'amore.









"In questo momento, siamo felici" diceva una sera a Giovanna.









"Mai, mai Gilberta è stata così gentile con me. Non è più di cattivo umore, non è mai in collera, mai... Mi ama... mi ama, sento che mi ama. Prima d'ora non ne ero sicuro..." Anche Giuliano sembrava cambiato: più allegro, meno irritabile.









Forse che la comune amicizia aveva portato la pace e la gioia in ciascuna delle due famiglie?



La primavera fu stranamente calda e precoce. Dall'inizio del dolce mattino fino alla calma e tiepida sera, il sole faceva germogliare la superficie della terra; ed era come un brusco e potente rigoglìo di tutti i giorni e, nello stesso tempo, una di quelle irresistibili ondate di vita, uno di quegli ardori di rinascita che la natura sfoggia talvolta in certe annate privilegiate che farebbero credere al ringiovanire del mondo. Questo fermento di vita turbava vagamente Giovanna che era capace di provare un languore improvviso davanti a un fiorellino nato fra l'erba, o malinconie deliziose, ore di mollezza fantastica. Poi l'assalivano perfino i ricordi teneri teneri dei primi tempi d'amore, benché sapesse bene che non poteva venir dal suo cuore un nuovo moto d'affetto per lui (oh, tutto ciò era finito, finito), ma la sua carne, accarezzata dall'aria, penetrata dai profumi della primavera si turbava come incitata, istigata da una voce invisibile, morbida. Si compiaceva di essere sola, si abbandonava sotto il tepore del sole, si sentiva percorsa da sensazioni vaghe e serene che le lasciavano inerte il cervello. In uno di questi assopimenti, una volta, le tornò fulmineo il ricordo del vano soleggiato, che si apriva nel denso fogliame del boschetto di Étretat, là dove per la prima volta aveva sentito fremere il suo corpo accanto all'uomo che amava (allora lo amava), là dove aveva balbettato per la prima volta il primo desiderio del cuore, dove aveva creduto di trasformare le speranze in vita vera. Rivedere il piccolo bosco farvi una specie di pellegrinaggio sentimentale e superstizioso come se il ritorno a quel luogo potesse variare il corso dei suo destino!



Giuliano non c'era, né lei sapeva dove fosse andato fino dall'alba. Fece dunque sellare il piccolo cavallo bianco dei Martin, di cui si serviva qualche volta, e partì. Era una di quelle giornate tranquille in cui nulla si muove foglia o filo d'erba, e tutto resta immobile per sempre, come se il vento fosse per sempre caduto: sembrava perfino un'immobilità senza insetti.









Veniva insensibilmente dal sole una calma ardente e suprema e come avvolta in aereo vapore; e lei se ne andava felice, beata, al lento passo del suo ronzino, alzando gli occhi di tanto in tanto verso una nuvoletta bianchissima, non più grossa di un ciuffo di cotone, fiocco di vapore sospeso, dimenticato lassù, rimasto solo in mezzo all'azzurro.









Discese nella valle che finiva nel mare, tra quegli archi della scogliera che si chiamavano porte di Étretat, e a lenti passi giunse fino al bosco. La luce pioveva tra il verde ancora coperto di brina. Giovanna cercava quel luogo senza trovarlo, errando per quei piccoli sentieri, finché improvvisamente, traversando un viale più lungo, vide laggiù in fondo due cavalli da sella legati ad un albero. Li riconobbe: Gilberta, Giuliano! La solitudine cominciava a pesarle ed ora si allietò di quell'incontro insperato mettendo al trotto il suo cavallino. Quando raggiunge le due bestie pazienti e come abituate alle lunghe soste, Giovanna chiama: nessuno risponde. Un guanto di donna, due frustini sull'erba calpestata. Dunque si sono seduti qui! Poi si sono allontanati, lasciando i cavalli... Aspetta un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, senza capire che cosa mai possano fare quei due.









Scesa di sella, si appoggia al tronco di un albero e resta immobile; due uccellini, che non l'hanno vista, si posano sull'erba, vicinissimi a lei: uno si agita e saltella intorno all'altro con le ali sollevate e vibranti, bisbigliando e movendo il capino, ed ecco i due pennuti si accoppiano. Pensa Giovanna, sorpresa, come se non sapesse quella cosa: "E' vero, sì, primavera". Ma le balena un pensiero, un sospetto; guarda di nuovo il guanto, i frustini, i due cavalli abbandonati: balza subito in sella con la voluttà di fuggire. Via, via, di galoppo, verso i "Pioppi"! La mente lavora, ragiona, riunisce i fatti, riavvicina le circostanze... Oh, come non ha capito prima? Come non ha capito mai nulla? Le assenze di Giuliano, il suo ritorno alle passate eleganze, il suo carattere pacificato. E poi, gli scatti nervosi di Gilberta, le sue smorfie esagerate, quella specie di beatitudine in cui la piccola contessa viveva da qualche tempo, quella beatitudine che mandava il marito in solluchero...









Giovanna rimise al passo il cavallo, perché le serviva riflettere molto e il passo veloce le disturbava le idee. Ma, passata la prima emozione, ecco, il suo cuore calmo. Senza odio, senza gelosia, ma colmo - questo sì - di disprezzo. No, non pensava a Giuliano (poteva stupirsi ancora di lui?), ma era il duplice tradimento della contessa, della sua amica, che la nauseava. Tutti erano dunque mentitori, perfidi e falsi? Gli occhi le si riempirono di lacrime. Si piangono pure le illusioni, talvolta, con la tristezza con cui si piangono i morti...









Così decise di fingere, di non saper nulla, di chiudere il cuore agli affetti correnti, di non amare più che i genitori e il piccino, di sopportare gli altri con calma. Appena rientrata in casa, si gettò sul suo figliolino, lo portò nella sua stanza, lo tenne stretto al seno, interminabilmente, senza saziarsene. E quando Giuliano tornò per il pranzo, amabile, sorridente, pieno d'intenzioni cortesi, chiese perfino: "Babbo e mammina non vengono dunque ai Pioppi quest'anno?" lei gli fu così grata di questa gentilezza che quasi quasi gli perdonò la recente infedeltà e non ebbe più che quel desiderio: rivedere le due persone che nel cuore venivano subito dopo il bambino, e passò la serata a scrivere una lettera in cui chiamava, reclamava i suoi cari.









Essi annunziarono il loro arrivo per il 20 maggio. E si era ancora al 7! Giovanna li aspettava con impazienza sempre crescente, come se provasse, oltre all'affetto filiale, un bisogno nuovo di mettere il suo cuore a contatto di cuori virtuosi, parlare a viso aperto con gente proba, libera da ogni infamia, gente scrupolosa e perfetta di cui non si potesse rimproverare un tristo desiderio, un cattivo pensiero. Perché ciò che sentiva adesso più vivamente era l'isolamento della sua coscienza onesta in mezzo a tutte quelle coscienze corrotte; e benché avesse imparato a dissimulare, benché continuasse a ricevere la contessa con la mano tesa e col sorriso sulle labbra, questa sensazione di vuoto e di disprezzo cresceva a dismisura, fino ad avvolgerla tutta, e ogni giorno si aggiungevano le brutte novità del paese ad aumentarle il disgusto che era come una disistima dell'umanità. Ecco: la figlia dei Couillard aveva avuto un bambino, ma si sarebbe presto sposata. La serva dei Martin, quell'orfanella, era incinta: un'altra vicina che non aveva più di quindici anni, era incinta: e c'era anche una vedova incinta, quella disgraziata "Pillacchera", così chiamata per il suo sudiciume. Ogni tanto si veniva a sapere di una nuova gravidanza, della scappatella di una ragazza, di una contadina maritata e madre di famiglia, di qualche ricco e facoltoso fittavolo. Quell'ardente primavera sembrava avesse sconvolto insieme la linfa degli uomini e quella delle piante. Giovanna restava confusa, sbalordita, piena di ripugnanza e quasi d'odio per questa grande sconcezza della natura, anche perché i suoi sensi erano spenti e solo il cuore ferito e l'anima intenerita parevano ancora un po' mossi dagli aliti tepidi e fecondatori, tanto che si esaltava senza desideri e si appassionava d'ideale, immunizzata dalle necessità della carne. L'accoppiamento degli esseri la indignava ormai come una cosa contro natura, e il suo rancore per Gilberta non era perché le avesse sedotto il marito, ma perché era caduta nel fango universale, lei, lei, che non era della razza dei contadini dove i bassi istinti predominano. Come dunque aveva potuto darsi alla maniera dei bruti?



Il giorno stesso in cui dovevano arrivare i due vecchi Giuliano ravvivò le sue ripugnanze raccontandole allegramente, come cosa naturalissima e divertente, che ieri mattina il fornaio, avendo udito rumore nel forno, e non era giorno di cottura, aveva pensato di sorprendere un topo e aveva trovato invece sua moglie che, naturalmente, "non infornava del pane".









"Il fornaio tappò l'apertura, di modo che per poco quei due non sono morti soffocati là dentro. Ed è stato il figlio minore ad avvertire i vicini, avendo visto sua madre entrare nel forno. Ci fanno mangiare del pane d'amore quei briganti là" aggiungeva, divertito, Giuliano.









Giovanna non osava più toccare il pane.









Quando la carrozza di posta si fermò davanti alla gradinata e si affacciò allo sportello il viso beato di suo padre, Giovanna non poté nascondere una emozione profonda, un impetuoso slancio d'affetto, un'espansione ardente dell'anima. Ma restò colpita, quasi si sentì venir meno, allorché vide mammina. Invecchiata!



Invecchiata di dieci anni in sei mesi. Le sue enormi guance ricadevano flosce, imporporate, quasi gonfie di sangue; lo sguardo sembrava ormai spento; la poveretta non poteva muoversi più se non sostenuta sotto le braccia; e la pena, la pena di quella respirazione sempre più difficile, sempre più faticosa, che sibilava! Il marito l'aveva sott'occhio ogni giorno e non si era accorto di tanta decadenza, così che quando la poveretta si lamentava di quel suo soffocamento continuo, di quella sua crescente pesantezza, egli rispondeva invariabilmente che "l'aveva conosciuta sempre così".









Giovanna, dopo averli accompagnati nella loro stanza andò a piangere nella sua, smarrita, sconvolta. Poi volle vedere suo padre da solo, e gli si gettò sul petto con gli occhi pieni di lacrime.









"La mamma, la mamma! Com'è cambiata! Che ha? Dimmi tu che ha!" Egli era rimasto sorpreso.









"Credi?... Che idea? Ma no... Io che non l'ho mai lasciata, ti assicuro che non la trovo male, oh, proprio per niente. Sempre è stata così." La sera Giuliano disse a sua moglie: "Tua madre ha una gran brutta cera. Ho paura che... ". E poiché Giovanna scoppiava in singhiozzi, egli si impazientì subito. "Andiamo, andiamo, non dico mica che sia agli estremi. Tu sei sempre la grande esaltata. Si capisce che tua madre sia cambiata: è l'età." In capo a otto giorni Giovanna era già tranquillizzata. Aveva fatto l'abitudine alla fisionomia di sua madre, e così forse respingeva i suoi timori come si respingono le paure, le ansietà, le apprensioni, per una specie d'istinto egoista, per un bisogno naturale di serenità dello spirito. La baronessa, ormai impotente a camminare, usciva tutti i giorni per una mezz'oretta; non più.









Quando aveva percorso una sola volta il "suo viale", rinunziava a muovere un altro passo e voleva sedere sulla "sua" panca; quando poi si sentiva incapace di finire la passeggiata diceva invariabilmente:



"Fermiamoci. La mia ipertrofia oggi mi tronca le gambe." Non rideva più. Le cose che l'anno prima l'avrebbero fatta sussultare, ora non le strappavano che un lieve sorriso. Ma la vista era buona e le permetteva di consumar le giornate a rileggere "Corinne" e le "Meditazioni" di Lamartine: poi voleva che le portassero il cassettino dei "ricordi", e si vuotava in grembo le vecchie lettere care al suo cuore, appoggiando il cassetto sulla sedia vicina, per rimetterle dentro a una a una, le sue dolci "reliquie", dopo averle così ripassate. Quando era sola, proprio sola, ne baciava qualcuna come si baciano - di nascosto - i capelli dei morti che si sono molto amati.









Talvolta Giovanna, entrando improvvisamente, trovava mammina che piangeva. Piangeva le sue tristi, povere lacrime.









"Che hai, mammina?" "Sono le mie reliquie che mi fanno piangere" rispondeva mammina con un lungo sospiro. "Si risvegliano delle cose... delle cose che erano tanto belle e che non sono più. E poi ci sono delle persone a cui non si pensava affatto e che un giorno si ritrovano come se risuscitassero. Si ha l'impressione di vederle, di sentirle parlare... Che effetto! Un effetto spaventevole: lo proverai più tardi, figliola." In quei momenti di malinconia sopraggiungeva qualche volta il barone, e diceva:



"Senti, Giovanna. Brucia le tue lettere, quelle di tua madre, le mie, brucia, brucia. Non c'è niente di peggio, quando si è vecchi, che rimettere il naso nella propria giovinezza." Ma Giovanna invece conservava la sua corrispondenza, preparava la scatola delle "reliquie", obbedendo a una specie d'istinto ereditario, di sentimentalismo fantastico, benché, in verità, fosse tanto diversa da sua madre.









Il barone, dopo qualche giorno, dovette assentarsi per un suo affare, e partì.









Stagione incantevole! Le notti dolcissime, formicolanti di stelle, succedevano alle tiepide sere, le sere calme ai giorni luminosi, i giorni luminosi alle aurore che sfolgorano. Mammina si sentiva già molto meglio; Giovanna aveva già dimenticato gli amori di Giuliano e Gilberta ed era poco meno che felice. Tutta la campagna era fiorita e profumata e il gran mare, tranquillo sempre, risplendeva sotto il sole, dall'alba al tramonto.









Giovanna, un pomeriggio, prese Paolo fra le braccia e se ne andò per i campi. Guardava ora suo figlio, ora l'erba screziata di fiori lungo la strada, e si lasciava portare da una felicità senza freno, baciando di continuo il bambino oppure lo stringeva appassionata o anche si sentiva accarezzare da quella brezza profumata della campagna e le sembrava di venir meno, di perdersi come in un infinito benessere. E sognò l'avvenire di lui. Che sarebbe mai diventato il piccino? Ora lo voleva un grand'uomo, un uomo famoso, potente. Ora lo preferiva invece umile umile, che rimanesse presso di lei, devoto, tenero, le braccia sempre aperte a mammina. Quando lo amava col suo egoismo di madre, pretendeva che restasse suo figlio, null'altro che suo figlio: quando lo amava con la sua intelligenza appassionata, aspirava diventasse, nel mondo, qualcuno. Lo guardava, seduto sulla riva di un fosso.









Le sembrava di vederlo per la prima volta. E sbigottì improvvisamente, sbigottì al pensiero che quell'esserino sarebbe diventato grande, che avrebbe camminato con un passo fermo, avrebbe avuto la barba, avrebbe avuto un vocione. Da lontano qualcuno chiamava. Sollevò la testa. Oh, era Mario. Pensò che egli annunciasse una visita ai "Pioppi" e si alzò contrariata mentre il ragazzo che giungeva a spron battuto gridava:



"Signora, la signora baronessa sta male." Ebbe un'impressione come d'acqua fredda che le scendesse giù per la schiena. Sbalordita, quasi correndo, si avviò. Di lontano vide un crocchio di gente sotto il platano, allora si slanciò e fu quando, apertosi il gruppo, vide sua madre stesa a terra, con due guanciali che le sostenevano il capo. Faccia nera, occhi chiusi; e quel petto che da venti anni ansava non si muoveva più. La nutrice tolse pronta il piccino alle braccia materne e lo portò via.









Giovanna domandò, quasi violenta:



"Che è successo? Com'è caduta? Subito, a chiamare il medico." Ma, volgendosi, scorse il curato, chiamato da non si sa chi, che offriva i suoi servigi, si preparava rimboccando le maniche della sua tonaca. Ma l'aceto, l'acqua di colonia, le frizioni, niente serviva.









"Bisognerebbe spogliarla e metterla a letto" avvertì il prete.









Il fattore Giuseppe Couillard era lì, e anche papà Simone e Liduina. Aiutati dall'abate Picot, essi decisero di trasportare il corpo della baronessa; ma non appena l'ebbero sollevato, la testa si rovesciò all'indietro e il vestito subì un largo strappo, tanto era pesante e difficile a muovere. Giovanna si mise a gridare inorridita, e il corpo enorme inerte fu riadagiato per terra.









Allora si pensò a una poltrona del salone: sederla sulla poltrona, sollevarla così. Passo a dopo passo salirono la gradinata, poi la scala, ecco la sua stanza, il suo letto, e la depositarono sul letto. Ma qui la cuoca non riusciva a spogliarla da sola, ed ecco farsi avanti al momento giusto, venuta improvvisamente, come il prete, la vedova Dentu: forse che l'uno e l'altra, secondo il pensiero dei domestici, avevano sentito l'"odore della morte"?



Giuseppe Couillard partì a spron battuto in cerca del medico mentre il prete pensava all'olio santo, ma l'infermiera che la sapeva lunga gli disse una cosina all'orecchio:



"Non disturbatevi, signor curato. E' passata." Giovanna, come pazza, implorava, non sapeva che fare, non sapeva che tentare, cercava ancora nella sua povera testa un rimedio. Il curato, a ogni buon conto, brontolò l'assoluzione. E per due ore si aspettò davanti a quel corpo inanimato, violaceo; e Giovanna aspettò singhiozzando, in ginocchio, divorata dal dolore e dall'ansia. Finché la porta si aprì e il medico apparve, e le sembrò che portasse la salute, la consolazione, la speranza, e gli si slanciò contro balbettando tutto quel che sapeva.









"Passeggiava come tutti gli altri giorni... stava bene... quasi benissimo... aveva preso un brodo e due uova a colazione... è divenuta nera com'è adesso... e... e non si è più mossa... abbiamo fatto di tutto per rianimarla... di tutto..." Tacque, colpita da quel piccolo cenno che l'infermiera aveva fatto al sopraggiunto:



forse... forse per dire che tutto era finito... finito? Rifiutò di capire, si volse ancora al medico, cocciuta:



"E' grave? Credete che sia grave?" Finalmente il medico dice:



"Temo purtroppo che... che sia finito... finito... Bisogna farsi coraggio, un gran coraggio..." Giovanna aprì le braccia e si gettò sul corpo di sua madre.









Intanto Giuliano rientrava. Egli restò così, senza un grido di dolore e di sconforto apparente, ma piuttosto stupito, anzi contrariato, e preso troppo alla sprovvista per assumere un contegno di circostanza! Non seppe che dire: "Me l'aspettavo...









sentivo che la fine era prossima... e cercò un fazzoletto, si asciugò gli occhi, si inginocchiò si fece il segno della santa croce, borbottò qualche cosa e, rialzandosi, volle pure che si rialzasse sua moglie. Giovanna non dava retta: si stringeva con forza al cadavere e lo baciava, così tutta sottosopra. Bisognò portarla via a viva forza. Sembrava impazzita.









Dopo un'ora la si lasciò tornare. Non c'era più alcuna speranza.









La stanza, trasformata in camera ardente. Il prete e Giuliano parlavano sottovoce presso la finestra. La vedova Dentu si assopiva in una comoda poltrona, da donna abituata alle veglie e che si sente a suo agio là dove è entrata la morte. Cadeva la sera. Il curato si avvicinò a Giovanna, le prese le mani, cercò di farle animo versando in quel povero cuore l'onda untuosa dei conforti chiesastici, parlò della morta, la celebrò in termini sacerdotali, mostrandosi triste di quella falsa tristezza dei preti per i quali un cadavere rappresenta pur sempre un beneficio:



infine si offrì di passar la notte pregando accanto al cadavere.









Giovanna rifiutò fra i singhiozzi. No, no: voleva essere sola, assolutamente sola, in quella notte d'addio "Non è possibile" dichiarò Giuliano facendosi innanzi "Be', allora resteremo insieme..." No, no, diceva sempre no con la testa, incapace ormai di aprir bocca.









"E' mia madre" poté dire finalmente. "Voglio vegliarla da sola." Il medico intervenne.









"Lasciatela fare a modo suo. L'infermiera resterà nella camera accanto. Va bene?" Il prete e Giuliano, pensando ai loro letti, acconsentirono.









L'abate Picot si inginocchiò ancora una volta, pregò, si rialzò, uscì dicendo: "Era una santa!" con lo stesso accento con cui diceva: "Dominus vobiscum".









"Vuoi prendere qualche cosa?" chiese Giuliano a sua moglie con la sua voce di sempre.









Giovanna non rispose. Non si era neppure accorta che egli parlasse con lei.









"Faresti bene a mangiare qualcosa per sostenerti un pochino..." Ripeté con aria smarrita:



"Manda subito a chiamare papà." Egli uscì per inviare un messo a Rouen.









Giovanna restò accasciata in un dolore immobile, come se per abbandonarsi all'onda di questo disperato rimpianto avesse atteso proprio quest'ora ultima da passare con la mamma. Le ombre avevano invaso la stanza, come coprendo la morta di tenebra. La vedova Dentu girava qua e là col suo passo leggero, cercando, mettendo a posto, coi suoi gesti d'ombra, oggetti invisibili. Ecco: accendeva due candele, le posava sul comodino accanto al letto, su quella tovaglietta candida candida. Pareva che l'altra non vedesse, non sentisse, non comprendesse nulla. Aspettava di essere sola.









Giuliano rientrò. Aveva pranzato. Di nuovo azzardò:



"Proprio? Non vuoi prendere niente?" Giovanna fece segno di no con la testa.









Egli si sedette con un'aria più rassegnata che triste, e rimase così senza parola. Tutt'e tre, non vicini, immobili sulle loro sedie, in silenzio. Poi l'infermiera cominciò a sonnecchiare, russava un po', si svegliava di soprassalto. Infine Giuliano si alzò, si avvicinò a sua moglie in punta di piedi.









"Vuoi restar sola, ora?" "Oh, sì, lasciami!" rispose lei prendendogli la mano in uno slancio involontario.









"Tornerò a vederti di tanto in tanto" promise Giuliano, e la baciò sulla fronte.









Uscì con la vedova Dentu, che spinse la sua poltrona nella stanza vicina. Giovanna chiuse la porta, poi aprì le finestre, tutt'e due. Carezza d'una sera di fienagione! Il fieno della prateria, falciato il giorno innanzi, era steso sotto la luna. Ma quella sensazione dolcissima le fece male: non era come un'ironia? Meglio ritornare presso il letto, prendere una di quelle mani fredde e inerti, guardare a lungo, a lungo la mamma...









Oh, no, non era più così gonfia, e dormiva, dormiva placidamente come non le accadeva più da gran tempo. Le fiamme delle candele, agitate dai soffi d'aria, muovevano, diradavano ombre sul suo viso come se la facessero rivivere: ecco, ecco, si è mossa. Giovanna guardava avidamente, e quale folla di ricordi accorreva dalla fanciullezza lontana! Ecco le visite di mamma al parlatorio del convento, il gesto con cui le porge il cartoccetto dei dolci, quei piccoli particolari, piccoli fatti, piccole tenerezze, i gesti familiari, le pieghe degli occhi di quando ride, il gran sospiro soffocato di quando si mette a sedere. E ora restava là a contemplarla e ripeteva in quella specie d'intontimento: "Morta...









morta..." e allora capì che cosa voleva dire questa parola. Quella donna che giaceva immobile, la mamma, mammina, madama Adelaide, era proprio morta? Non si muoverà più, non parlerà più, non riderà più, non pranzerà più seduta di fronte al papà, non dirà più:



"Buon giorno, Giannetta". Morta, morta. La inchioderanno in una cassa, la seppelliranno, e tutto è finito. Non la si vedrà più. Ma è possibile? Come? Lei, lei non avrà più mamma? Quel caro volto così familiare, un volto che si è visto da quando si sono aperti gli occhi, un volto che si è amato da quando si sono aperte le braccia, quell'affetto così diverso da ogni altro, quell'essere amico, la madre, la mamma, l'essere superiore, l'essere preferito dall'anima fra tutti gli altri esseri... niente, niente:



scomparso. La figliola non ha più che poche ore per contemplare quel volto, un volto immobile e senza pensiero, e poi... niente, niente: un ricordo. S'abbandona sulle ginocchia in una crisi di disperazione, torce il lenzuolo con le mani convulse, preme la bocca sulle coperte, grida: "Mamma, mamma, mia povera mamma". Le sembra di impazzire come quella notte che era fuggita attraverso la neve. Si rialza, corre alla finestra, come per rinfrescarsi, per bere un po' d'aria, aria, aria nuova, che non sia quest'aria di morte. Il mare, la landa, come riposano laggiù in una pace silenziosa, e anche gli alberi, anche le erbe tagliate, sotto la soavità della luna! Come penetra nel cuore di lei questa dolcezza calmante, e il pianto si fa più dolce anch'esso, più sommesso...









Così si riavvicina al letto, si siede, riprende la mano di mammina come se la vegliasse, ammalata. E' entrato un grosso insetto nella stanza, forse attirato dal lume, rimbalza contro i muri come una palla, va da una parete all'altra come impazzito. Giovanna lì per lì si distrae da quel volo ronzante, alza gli occhi, non vede che un'ombra errante nel chiarore del soffitto. Non lo sente più.









Allora ecco il tictac leggero della pendola, ecco un rumore anche più piccolo, o piuttosto un ronzìo come di insetto, quasi impercettibile. Ah! l'orologio! l'orologio di lei, di mammina, che continua a camminare nell'abito buttato su una sedia ai piedi del letto. Strana cosa! Il confronto fra la morta e quel piccolo meccanismo che non si è mica arrestato! Guarda l'ora. Le dieci e mezzo, soltanto. E la paura folle, improvvisa di questa notte da passare qui dentro, tutta, tutta!



Altri ricordi, altre cose della sua vita: Rosalìa, Gilberta, tante amarezze del cuore... Tutto dunque non è che miseria, dolore, sventura, solitudine, morte. Tutto inganna, tutto mente, tutto fa soffrire e tutto fa piangere. Dove trovare un po' di riposo, un po' di gioia? Sì, forse in un'altra esistenza; quando l'anima sarà libera da questa lunga prova terrena. L'anima! Fantastica su questo mistero impenetrabile; accetta a un tratto ipotesi poetiche, le distrugge con altre ipotesi vaghe. Dov'è ora l'anima di sua madre? dov'è l'anima di quel corpo immobile e gelato?



Lontano, forse molto lontano. In qualche parte dello spazio? Ma dove? Evanescente come il profumo di un fiore disseccato? Vagante come un uccellino invisibile fuggito dalla sua gabbia? Richiamata a Dio? Dispersa a caso fra nuove creazioni, confusa insieme coi germi prossimi a sbocciare? Vicinissima forse? In questa stessa stanza attorno a questa carne inanimata che pure ha lasciato? Ah che paura! Le sembra a un tratto di sentirsi sfiorata da un soffio come dal contatto di uno spirito. E' una paura atroce e violenta; il cuore è tutto un rombo di battiti; non osa muoversi, respirare, voltarsi... Ah, l'insetto, l'insetto invisibile, che ha ripreso il suo volo, che sbatte sul muro e gira, gira! Rabbrividisce e poi si calma, quasi contenta di aver riconosciuto il ronzio, si alza, si volta e i suoi occhi vedono... Oh, guarda! lo stipetto con le teste di sfinge il mobile delle "reliquie"! Oh Dio, che strana idea! Se in quest'ultima veglia si mettesse a leggere - come si legge un libro di preghiere - le vecchie lettere così care a mammina? Non è come compiere un dovere delicato e sacro, qualcosa di veramente filiale, qualcosa che farà piacere a mammina, di là?



E' l'antica corrispondenza del nonno e della nonna, che non ha conosciuto. Vuol tender loro le braccia al di sopra del corpo della loro povera figliola, andar incontro a loro in questa notte funerea come se ne soffrissero anch'essi, vuol formare una specie di catena misteriosa di tenerezza tra quei morti di allora e colei che ora ora è scomparsa e lei stessa che rimane ancora di qua. Si alza, apre lo stipetto, afferra nell'ultimo cassetto una decina di quei piccoli pacchetti ingialliti: quei piccoli pacchetti così ben legati, disposti con tanto ordine. E li depone sul letto, qui, qui, fra le braccia della morta, come per una raffinatezza del suo sentimento, e comincia a sfogliare, e legge: "Mia cara", "mia cara piccina", "cara figlietta", "mia carina", "mia figlia adorata", "mia cara bambina", "mia cara Adelaide", gli inizi delle lettere che variano secondo che erano indirizzate alla bimba, alla fanciulla, alla dama... Tutte così piene di tenerezze appassionate e puerili, di mille piccole cose intime, di quei grandi e semplici avvenimenti della famiglia, così meschini per gl'indifferenti.









"Papà ha l'influenza", "Ortensia (la cameriera) si è bruciata un dito", "Mangiatopi (il gatto) è morto", "il pino a destra del cancello è stato abbattuto", "la mamma ha perduto il suo libro da messa nel ritornare dalla chiesa, ma crede che gliel'abbiano rubato"... Persone sconosciute a Giovanna; ma lei si ricorda un po' vagamente di averle sentite ricordare, una volta, laggiù, nell'infanzia... S'intenerisce a tutti questi particolari che le sembrano vere e proprie rivelazioni, come entrasse improvvisamente in tutta una vita, in tutta una vita segreta, nella vita del cuore di mamma. Alza gli occhi sul corpo gelido e poi, quasi di furia, si mette a leggere ad alta voce, e legge, sì, per la morta, come per distrarla, come per consolarla. E mammina sembra felice.









A una a una getta le lettere ai piedi del letto, e pensa che bisogna deporle nella bara come vi si deporrebbero fiori. Scioglie un altro pacchetto. E' una scrittura nuova, questa volta.









Comincia: "Non posso più fare a meno delle tue carezze, ti amo alla follia...". Niente più; nessun nome. Volta il foglietto, senza comprendere. Pure c'è l'indirizzo: "alla signora baronessa Le Perthuis des Vauds". Apre la seconda lettera: "Vieni questa sera, appena lui sarà uscito. Avremo un'ora per noi. Ti adoro".









Apre una terza lettera: "Ho passato una notte di delirio a desiderarti inutilmente. Avevo il tuo corpo fra le braccia, la tua bocca sulle mie labbra, i tuoi occhi sui miei occhi. E poi mi sentivo prendere da un tal furore che mi sarei buttato dalla finestra al pensiero che tu nella stessa ora dormivi, al suo fianco, che egli ti possedeva...". Non capisce. Che è questo? A chi, per chi, di chi queste parole d'amore? China la testa; continua. Sempre dichiarazioni appassionate, appuntamenti, raccomandazioni di prudenza, e in fondo le parole immancabili: "Ti raccomando sopra tutto di bruciare questa lettera". Apre infine un biglietto banale, la semplice accettazione di un invito a pranzo, ma della stessa scrittura e con la firma "Paolo d'Ennemare":



quello che il padre chiama ancora, parlandone, "il mio vecchio Paolo", e sua moglie è stata la più intima amica di mammina.









Dubbio... certezza... Sì, la mamma ha avuto un amante! Respingere, respingere quelle lettere infami come respingerebbe una bestia velenosa salitale a poco a poco sul corpo. E corre alla finestra, e piange alla finestra con grida disperate, con grida involontarie che quasi le squarciano la gola, e poi si accascia giù nascondendo la faccia fra le tende perché nessuno oda il suo dolore, la sua disperazione infinita. Un rumore di passi nella stanza accanto?



Balza in piedi di botto. Forse suo padre? E quelle lettere, quelle lettere sparse sul pavimento, sul letto! Basterebbe che egli ne aprisse una. Saprebbe. Si slancia, afferra a piene mani quelle vecchie carte ingiallite, quelle dei nonni e quelle dell'amante, anche quelle che non aveva aperto, anche quelle che erano ancora nello stipetto, le getta tutte in un fascio nel caminetto, accende il fuoco con una di quelle candele. Divampa la grande fiammata, e rischiara la camera da letto, il cadavere con una luce mobile e viva, disegna in nero sul biancore del cortinaggio in fondo al letto il profilo tremolante della faccia rigida, la linea del corpo enorme sotto il lenzuolo.









Quando non c'è più che un mucchio di cenere, torna a sedersi accanto alla finestra aperta come se non osasse più rimanere vicino alla morta e si rimette a piangere con la faccia tra le mani: "Oh mia povera mamma! Povera, povera mamma!". Poi le viene un pensiero atroce. E se non fosse morta? Se non fosse che addormentata, caduta in un sonno letargico? Se a un tratto si levasse e parlasse? Se non le volesse più bene perché lei ha scoperto il segreto? No, non la bacerebbe con le stesse labbra.









Non l'accarezzerebbe con l'affetto di prima. Dice che no, non è possibile, e questo pensiero la strazia.









La notte si dirada, le stelle impallidiscono, è la fresca ora che precede il giorno. La luna calante si tuffa nel mare con una lunga scia di madreperla. E allora Giovanna ricorda un'altra notte passata alla finestra, quella del primo arrivo al castello. Com'è lontano! Tutto è cambiato. L'avvenire è "un'altra cosa". Ecco il cielo che si colora di rosa, di un rosa vivace, leggiadro, amoroso. Giovanna guarda, ora, sorpresa come davanti a un fenomeno, guarda quella radiosa nascita del giorno, e si chiede se è possibile che su questa terra dove sorgono simili aurore non ci sia posto né per la gioia né per la felicità. Trasale: è la porta che si apre.









"Ebbene?" chiese Giuliano. "Non sei troppo affaticata?" Negò col capo. Si sentiva sollevata al pensiero di non essere più sola.









"Adesso va a riposarti" le raccomandò suo marito.









Abbracciò dolcemente sua madre; le diede un bacio lungo, doloroso; ritornò in camera sua.









La giornata trascorse nelle tristi occupazioni della casa che accoglie una salma. Il barone arrivò verso sera; pianse molto. La baronessa fu sepolta il giorno seguente. Dopo che per l'ultima volta ebbe appoggiato le sue labbra sulla fronte gelida, ed ebbe vestito mammina per l'ultima volta, ed ebbe visto chiudere il povero corpo nella bara, Giovanna si ritirò. Giungevano allora gl'invitati. Gilberta arrivò per prima e si gettò singhiozzando fra le braccia della sua povera amica.









Dalla finestra si vedevano arrivare le carrozze svoltando dal cancello: arrivavano al trotto. Voci risuonavano nel grande vestibolo; signore vestite di nero (Giovanna non le conosceva) entravano in camera. L'abbracciava la contessa di Coutelier.









L'abbracciava la viscontessa di Briseville. D'un tratto si accorse che la zia Lisetta strisciava verso di lei. Oh, zia Lisetta! La strinse al petto con tenerezza, e quella quasi quasi sveniva.









Giuliano entrò, chiuso in un lutto strettissimo, elegante, affaccendato, soddisfatto di quell'affluenza. Parlò sottovoce a sua moglie per domandarle un consiglio. Aggiunse confidenzialmente:



"Tutta la nobiltà è intervenuta. Questa è una cosa che porta i suoi frutti." Se ne andò salutando, via via, con gravità, le signore.









Zia Lisetta e la contessa Gilberta rimasero sole con Giovanna mentre la cerimonia funebre si svolgeva, e la contessa se l'abbracciava quasi di continuo e diceva:



"Mia povera cara, mia povera povera cara!" Quando il conte di Fourville tornò per prendere sua moglie, piangeva anche lui, come se la mamma morta fosse la sua.





















Capitolo 10









Seguirono giorni tristissimi: i giorni tetri sospesi su una casa vuota per l'assenza di una persona scomparsa per sempre: giorni pieni di sofferenza per il continuo, implacabile incontro con i tanti oggetti che hanno subìto il contatto di lei. Ogni momento, è un ricordo che cade sul cuore e lo strazia. Ecco la sua poltrona, il suo ombrello rimasto nel vestibolo, il suo bicchiere che la cameriera non ha riposto, per dimenticanza. Ovunque si trova qualcosa lasciata lì per combinazione: le forbici, un guanto, un volume le cui pagine portano i segni delle dita pesanti, cento cose, cento nonnulla, che ora hanno ben altro aspetto, ben altra espressione, perché ricordano cento piccoli fatti... E la sua voce ci perseguita: si crede di udirla, si vorrebbe fuggire non importa dove, si vorrebbe sottrarsi alla persecuzione di questa casa, e bisogna invece restare perché altri rimangono, altri vivono, soffrono, in questa povera casa.









Giovanna era poi accasciata dal ricordo di ciò che aveva saputo e scoperto nella funesta veglia: un pensiero che pesa, e il cuore infranto ormai non ne guarisce. E questa solitudine che aumenta il gravoso segreto. L'ultima illusione caduta con l'ultima fede. Poi, dopo qualche tempo anche il papà volle andarsene, perché aveva bisogno di muoversi, cambiar aria, evadere da questo cupo dolore in cui tutti i giorni un po' si sprofonda. E la grande casa che vedeva così, di quando in quando, uno dei suoi padroni, ecco riprendeva il suo ritmo. Quando lo riperdette fu per la malattia del piccino. Giovanna perse la ragione: restò dodici giorni senza dormire, quasi senza mangiare. Paolo guarì; ma l'idea che egli potesse morire sconvolse la madre. Oh Dio, oh Dio! Che avrebbe fatto senza di lui? Che sarebbe accaduto di lei? E così, dolcemente, si abituò al pensiero di un altro bambino. Lo sognò; fu riassalita dal suo antico desiderio di avere intorno due cari piccoli esseri: bambino e bambina.









Ma, dopo il fatto di Rosalìa, viveva separata da Giuliano, né sembrava possibile un riavvicinamento, dati i loro rapporti coniugali. Giuliano amava un'altra donna: lei lo sapeva bene, sino a fremere di ripugnanza al pensiero di nuove carezze di lui.









Eppure... eppure, a queste carezze si sarebbe rassegnata, tanto la perseguitava la bramosìa di riessere madre; ma poi si chiedeva in qual modo avrebbero potuto ricominciare a dividere il talamo.









Giovanna sarebbe morta d'umiliazione anziché lasciar sospettare il suo pensiero, e ormai Giuliano non si curava di lei e non vedeva in lei più la donna. Forse avrebbe rinunziato anche alla seconda maternità, ma ecco il sogno di ogni notte: una bambina che gioca sotto il platano col piccolo Paolo! Talvolta perfino le prendeva la smania di alzarsi dal letto, di andare nella stanza di lui, così, improvvisamente, senza aprir bocca. Due volte arrivò fino all'uscio: tornò indietro tutt'e due le volte, col cuore angosciato, che le batteva come per vergogna.









Il papà era partito. Mammina era morta. Giovanna non aveva più nessuno a cui confidarsi, a cui chiedere aiuto e consiglio. Decise allora di andare a vedere l'abate Picot, perché sentiva che all'abate Picot avrebbe confidato il suo intimo segreto, sotto il suggello della confessione. Lo trovò che leggeva il breviario nel suo piccolo giardino che era piuttosto un frutteto.









Così, dopo aver parlato per qualche minuto del più e del meno, Giovanna balbettò non senza arrossire:



"Signor abate, vorrei... confessarmi..." Il prete si stupì fino a togliersi gli occhiali, sì, per guardarla meglio, e poi rise.









"Oh, non dovete avere grossi peccati sulla coscienza, voi" "No, ma ho un consiglio da chiedervi" riprese lei turbandosi tutta. "Un consiglio così... così... difficile a dirsi che non oso... non oso chiedervelo qui ." Egli si spogliò immediatamente della sua naturale bonarietà e assunse la dignità del suo grado.









"Ebbene, figliola mia, v'ascolterò nel confessionale. Venite." No, no! Lo trattenne con un'esitazione angosciosa per quella specie di scrupolo di parlare di certe cose "non belle" nel raccoglimento di una chiesa vuota "Ecco, signor curato, io posso... posso .. se volete... posso dirvi anche qui... Se andassimo a sederci laggiù... sotto il chiosco?" Andarono lentamente verso quel piccolo chiosco. Lei cercava intanto le parole, le prime parole, poi, quando si sedette con lui, come se stesse per confessarsi, incominciò:



"Padre mio..." esitò ancora, ripeté: "Padre mio..." e non osò proseguire, sconcertatissima.









"Ebbene, figlia mia" diss'egli infine per incoraggiare quell'imbarazzo "si direbbe che non osiate. Andiamo, su fatevi animo." "Padre mio" si decise Giovanna come un codardo che si slanci verso un pericolo "vorrei avere un altro bambino..." Egli non sapeva proprio che dire: non capiva. Allora Giovanna cercò di spiegarsi, perdendo le parole, confondendosi:



"Io sono sola nella vita... mio padre e mio marito non vanno d'accordo.... mia madre è morta... e... e..." (qui rabbrividisce e abbassa la voce) "l'altro giorno poco è mancato che perdessi mio figlio... E se moriva? Che sarebbe stato di me?" Tacque. Il prete la guarda senza sapercisi raccapezzare.









"Insomma" disse "venite al fatto." Lei ripeteva sempre la stessa cosa "Vorrei un altro bambino... Vorrei avere un altro bambino..." Allora egli sorrise, abituato com'era alle facezie grossolane dei contadini che non avevano riguardi con lui, e rispose crollando il capo da malizioso:



"Ebbene, mi sembra che non dipenda che da voi." Giovanna alzò verso di lui i suoi occhi limpidi, onesti, e si confuse.









"Ma... ma..." balbettò "voi capite che dopo quel fatto... il fatto a vostra conoscenza... della mia cameriera... capite bene che mio marito ed io viviamo separati... già... completamente..." L'abate Picot era troppo abituato alle promiscuità e al costume libero della campagna per non stupirsi di una rivelazione come questa; ma tutt'a un tratto credette di aver intuito e guardò di sbieco la giovane signora, tutto pieno di benevolenza e di simpatia per il suo tenero affanno:



"Capisco, capisco perfettamente. La vostra... sì, la vostra "vedovanza" vi pesa. Siete giovane, sana. In fin dei conti la cosa è naturale... naturalissima..." Si rimetteva a sorridere, secondo il suo temperamento di prete di campagna, e dava certi colpettini confidenziali sulla mano a Giovanna: "E' permesso, più che permesso, dai comandamenti. L'opera della carne non sarà fatta che nel matrimonio. Voi siete maritata, no? E non certo per piantar rape." Fino allora non aveva compreso i sottintesi del parroco come il parroco non aveva compreso le esitazioni di lei; ma non appena le parve intuire, diventò rossa, tremò, si agitò, le si empirono gli occhi di lacrime: "Oh, signor curato, che dite mai? che pensate?



Vi giuro... vi giuro che..." I singhiozzi la soffocavano.









"Ma no, ma no" ribatteva lui, tutto sorpreso, per consolarla "non ho voluto mica addolorarvi. Non vi siete accorta che scherzavo?



Non si può dunque scherzare? Ma contate, contate su me, potete contare su me: vedrò il signor Giuliano..." Giovanna non sapeva ormai più che cosa dire. Forse bisognava anche rifiutare un intervento da riputarsi inabile e pericoloso; ma non osava più neppure questo, e scappò via ringraziando il signor curato con un balbettìo. E così passarono per lei otto giorni, otto lunghi giorni di un'angosciosa inquietudine.









Una sera, a pranzo, Giuliano la guardò in un modo stranissimo, con una certa piega del labbro, come una "contusione" nel sorriso, che era quasi il preannunzio del desiderio, e lei lo sapeva. C'era anche nei suoi modi una specie di galanteria lievemente ironica; e un poco più tardi camminandole a fianco lungo il viale di mammina, egli si chinò per dirle sottovoce all'orecchio:



"Pare che abbiamo fatto la pace." Lei non rispose. Guardava in terra, quella specie di linea diritta, quasi invisibile, per l'erba ormai rispuntata: era la traccia del piede materno che si cancellava come si cancella un ricordo. E si sentì stringere il cuore, il suo cuore inondato di tristezza. Era così sperduta nella vita, lontana, divisa da tutti!



"Per me, non domando di meglio" riprese Giuliano. "Credevo di spiacerti, Giovanna." Il sole tramontava; l'aria era dolce. Giovanna non sapeva che cosa fosse. La opprimeva come un desiderio di pianto, un bisogno di espansione verso un cuore amico, un bisogno di abbracciare, di stringere e di confidare insieme il suo affanno. Ecco, il singulto che sale alla gola... Aprì le braccia e cadde sul petto di lui per quest'altro sfogo di lacrime. Sorpreso, egli le guardava i capelli, non potendo vedere il viso che gli era nascosto sul petto, e pensò che sua moglie lo amasse ancora e le depose sui capelli, presso la nuca, il suo bacio condiscendente.









Rientrarono senza parlare. Giuliano la seguì nella sua stanza e passò la notte con lei.









Così furono ripresi gli antichi rapporti. Per lui erano semplicemente un dovere, che tuttavia non dispiace, lei li subiva come una necessità disgustosa e penosa, decisa a troncarli nettamente appena si accorgesse di essere incinta. Ma si accorse ben presto che gli amplessi di lui erano diversi da quelli d'un tempo: più raffinati, forse, ma incompleti.









Oh! La trattava da amante discreto: non più da sposo tranquillo.









Allora, una notte, Giovanna gli mormorò sulla bocca:



"Perché non ti dài a me completamente come una volta?" "Perbacco" il marito ghignò "ma per non ingravidarti, carina." "Perché?" chiese lei trasalendo. "Non vuoi più averne, bambini?" Pareva che la sorpresa lo istupidisse:



"Che? Sei pazza? Un altro bambino? Ah no davvero! Ce n'è d'avanzo di uno per strillare. E il danaro che costa. E il daffare per tutti. Ah no! Grazie, grazie." Lo prese fra le braccia, lo baciò, lo circuì di carezze, gli parlò sottovoce:



"Giuliano, Giuliano, te ne supplico, fammi madre ancora una volta." Egli si irritò come se lo avessero offeso.









"Via, tu perdi la testa. Risparmiami le tue sciocchezze, da brava." Giovanna tacque, ma non si diede per vinta, e sempre più angustiata, sempre più divorata dal suo desiderio, dalla sua idea fissa, pronta ad affrontare tutto, a osar tutto, ritornò dall'abate Picot.









L'abate Picot finiva di far colazione e appariva più rosso del solito per via di quelle palpitazioni che lo tormentavano un po' dopo i pasti. Appena la vide entrare, egli espresse con un rumoroso "ebbene?" tutta la sua curiosità di sapere che cosa aveva fruttato il suo consiglio.









Risoluta, adesso, senza vergogna, senza timidezza, fece di colpo:



"Mio marito non vuol più bambini." L'abate Picot si voltò verso di lei, interessato di quei misteri intimi che gli rendevano piacevole il confessionale:



"O... come mai?" "Lui... lui..." spiegava Giovanna, già un po' turbata, non ostante gli arditi propositi "lui rifiuta di rendermi madre..." Il prete capì tutto. Egli sapeva bene queste cose; e si mise a far domande precise e minute, con una golosità di uomo costretto al digiuno. Poi ci pensò su brevemente, e con voce tranquilla come se parlasse del raccolto che prometteva bene, le prospettò un piano di condotta abile per mettere a posto ogni cosa:



"Non avete che un mezzo, figliola mia, ed è quello di fargli credere che siete già incinta. Egli non si controllerà più e voi rimarrete incinta davvero." "E... se non mi crede?" osò Giovanna determinata a tutto, arrossendo fino agli occhi.









"Annunziate a tutti di essere incinta" insistette il curato che conosceva troppo bene le astuzie che muovono e trattengono gli uomini "ditelo a tutti, ditelo dovunque, e finirà per crederci anche lui." Aggiunse, quasi per assolversi di quello stratagemma:



"E' infine il vostro diritto. La Chiesa non tollera i rapporti fra uomo e donna che allo scopo della procreazione." Giovanna seguì l'astuto consiglio; e quindici giorni dopo annunziava tranquillamente la cosa al marito. Egli sussultò:



"Non è vero! E' impossibile!" Indicò subito la ragione dei suoi sospetti.









"Bah" fece egli rassicurato. "Aspetta un poco. Vedrai." E domandava tutte le mattine: "Ebbene? e così?". E lei rispondeva:



"No, non ancora". E aggiungeva: "Sarebbe una bella delusione se non fossi incinta". Ma Giuliano finì con l'arrabbiarsi davvero, e si mostrava irritato e furioso nello stesso tempo che confessava di non raccapezzarcisi più.









"Sì, sì, non mi ci raccapezzo" diceva. "Se sapessi come questa cosa è accaduta, to', vorrei m'impiccassero." In capo a un mese diffuse la notizia. Tacque solo con la contessa Gilberta, per una specie di pudore complesso e delicato. Quanto a Giuliano, non avvicinò più sua moglie dopo la prima sfuriata, poi - benché a malincuore - si abituò a quell'idea, disse: "Eccone uno che non era stato chiesto" e riprese a frequentare la camera di sua moglie. Così trionfarono le previsioni dell'astuzia pretesca.









Giovanna era incinta.









Allora, tutta invasa da una gioia spasmodica, chiuse la sua porta ogni sera e, in uno slancio di riconoscenza verso la vaga divinità che adorava, si votò a perpetua castità. Era felice. E si stupiva che il dolore per la morte di sua madre si fosse addolcito così rapidamente. Non si era creduta inconsolabile, fino a ieri? Ecco, in due mesi appena la piaga si rimargina, è chiusa. Resta solo una malinconia leggera, come un tenue velo di dolore gettato sulla sua vita. Nessun altro avvenimento le sembrava possibile più: i suoi bambini e lei che invecchia tranquilla, contenta, senza più occuparsi di lui.









Verso la fine di settembre l'abate Picot venne in visita di congedo con una tonaca nuova (non aveva ancora otto giorni di macchie) e presentò il suo successore, l'abate Tolbiac: un prete giovanissimo, magro, un po' piccolo, enfatico; ma gli occhi incavati e cerchiati di nero indicavano un temperamento violento.









Al sentire che il vecchio curato veniva nominato decano di Goderville, Giovanna era stata presa da grande tristezza. Oh, come la faccia di quel brav'uomo era legata a tutti i suoi ricordi di fanciulla! Egli l'aveva sposata, aveva battezzato Paolo, aveva seppellito la mamma, e ormai non poteva immaginarsi Etouvent senza la grossa pancia dell'abate Picot, che andava qua e là per i cortili delle fattorie, e poi sentiva di volergli bene perché era allegro e sincero. Ma, nonostante l'emozione, egli sembrava contento, e diceva:



"Mi dispiace, signora contessa; pensate che sono qui da diciotto anni. Oh, il comune rende poco e non vale granché. Gli uomini non fanno gran calcolo della religione, e le donne... quelle, vedete, non hanno moralità. Le ragazze non si avvicinano all'altare per maritarsi se prima non hanno fatto un pellegrinaggio a Nostra Signora del Ventre Grosso, e i fiori d'arancio è inutile cercarli da queste parti. Tanto peggio, sì, tanto peggio, ma io lo amavo, questo paese, lo amavo." Il nuovo curato faceva segni di impazienza, smaniava, arrossiva, e finì col dire bruscamente: "Con me le cose andranno altrimenti".









Aveva l'aria di ragazzo rabbioso, pallido, magro, nella sua sottana un po' consunta, sì, ma pulita.









L'abate Picot gli diede un'occhiata di sbieco come faceva nei momenti di buon umore.









"Vedete, abate mio, per impedire certe cose bisognerebbe che metteste alla catena tutti i vostri parrocchiani, e poi... e poi..." "Lo vedremo" rispose alteramente il pretino "Ecco, l'età; vi calmerà l'età" disse il vecchio curato annusando la sua presa di tabacco. "E poi sarà l'esperienza. Perché altrimenti, allontanereste dalla chiesa gli ultimi fedeli, e buona notte. In questo paese sono testardi, ma testardi, badate! In fede mia, quando vedo venire alla predica una ragazza che mi pare un po' grossa, dico fra me: "Costei mi conduce un parrocchiano di più" e procuro di metterla in regola. Credetemi, voi non potete impedir loro di peccare, ma potrete andar a trovare il giovanotto e impedirgli di abbandonare la piccola mamma. Maritateli abate, maritateli, e non occupatevi di altro." Il nuovo curato rispose con durezza:



"Noi pensiamo in modo diverso. E' inutile insistere." L'abate Picot si rimise a rimpiangere il suo villaggio, il mare che vedeva dalle finestre del presbiterio, le vallicelle concave dove si recava a leggere il breviario, guardando di lontano passare i battelli. Poi i due preti si congedarono. Il vecchio abbracciò Giovanna che quasi piangeva.









Otto giorni dopo, l'abate Tolbiac ritornò e si mise subito a parlare delle riforme che stava compiendo come avrebbe potuto fare un principe che prende possesso del suo stato; poi pregò la signora viscontessa di non mancare alla messa domenicale; poi le raccomandò la comunione nelle solennità.









"Voi e io" diceva "siamo a capo del paese, noi dobbiamo governarlo e quindi è necessario mostrarci sempre come un esempio da seguire.









Bisogna essere uniti per essere potenti e rispettati. Se la chiesa e il castello si daranno la mano, la capanna ci temerà e ci obbedirà." Ma la religione di Giovanna era fatta di sentimento, e lei aveva quella fede sognante che hanno quasi sempre le donne, sì che, se osservava press'a poco i precetti della chiesa, era sopra tutto per un'abitudine conservata fin dal convento, poiché la filosofia del barone aveva scosso da tempo le sue convinzioni. L'abate Picot si era accontentato del poco che lei aveva potuto dargli e non l'aveva mai rimproverata; ma il successore non la pensava mica così. Non avendo visto la dama in chiesa la domenica dopo, era ricomparso al castello inquieto e severo.









Giovanna non volle mettersi in rotta e promise per compiacenza, sapendo bene quanto la sua assiduità sarebbe durata: non più di quelle prime settimane. Ma a poco a poco cedette all'abitudine e finì col subire l'influenza di quel fragile prete autoritario e tutto d'un pezzo. Eppure sentiva, in virtù del suo misticismo, che quell'esaltazione e quegli ardori di prete non le spiacevano e che egli faceva vibrare in lei quella corda della poesia religiosa che risuona in tutte le anime femminili. Un'austerità rigidissima, un disprezzo del mondo e della sensualità, un disgusto delle preoccupazioni umane, un timore di Dio senza limiti, la giovanile e selvaggia inesperienza, quella parola rude, quella volontà inflessibile, tutto ciò dava a Giovanna un'idea dei martiri e del martirio, e si lasciava sedurre, lei addolorata e delusa, dal fanatismo inflessibile di un ragazzo ministro di Dio. Perché egli la guidava al Cristo consolatore mostrandole come le mistiche gioie calmano tutte le sofferenze e la poveretta si inginocchiava davanti a questo prete che sembrava avesse, al più, quindici anni.









Ma ben presto la campagna lo odiò. D'una severità rigidissima verso se stesso, egli si mostrava con gli altri di un'intolleranza implacabile. E ciò che lo indignava ed esaltava e lo metteva fuori di sé era quella cosa orrenda: l'amore. Nelle sue prediche ne parlava con veemenza, in termini crudi, secondo l'uso ecclesiastico, lanciando su un uditorio di contadini certi periodoni tonanti contro la concupiscenza, e tremava di rabbia, battendo i piedi, esaltato, spaventato dalle immagini evocate nelle sue stesse sfuriate. Allora le ragazze e i giovanotti si scambiavano occhiatine furtive da una parte all'altra della chiesa, e i vecchi contadini che amavano sempre scherzare su queste cose disapprovavano l'intolleranza del piccolo curato ritornando alla fattoria, dopo la messa, accanto al figlio in blusa turchina e alla fattoressa in nera mantiglia. Il paese intero era sconvolto. Si raccontavano a bassa voce le severità del nuovo curato al confessionale, si sbigottiva al rigore delle penitenze che egli infliggeva; ma quando egli si ostinò a rifiutare l'assoluzione alle ragazze la cui castità aveva ceduto, allora incominciarono i motteggi. Alle messe solenni, se si notava qualche ragazza rimasta al suo banco invece d'andarsi a comunicare con le altre, erano tutti sogghigni e risatine. Poi, egli si mise a spiare gl'innamorati. Voleva impedire che si incontrassero, voleva fare come fanno le guardie coi bracconieri. Nelle notti di luna dava la caccia agli amanti dietro i granai, fra i boschetti di giunchi, sul versante delle costarelle. Una volta ne scoprì due che, vedendolo, non si staccarono: essi tenevano le braccia allacciate alla vita e andavano così allacciati verso un borro colmo di sassi.









Il prete gridò:



"Volete finirla una buona volta, tangheri che siete?" "Pensate agli affari vostri" gli rispose il giovanotto voltandosi.









"Questi, signor curato, non sono affari che riguardino voi." Allora il prete si chinò a raccogliere sassi e ne scagliò contro quei due come si fa con i cani. E quei due se ne fuggirono ridendo, felici, ma egli li denunziò, nomi e cognomi, in piena chiesa. Così i giovanotti del paese cessarono di andare alle funzioni.









Il curato tutti i giovedì pranzava al castello, ma si recava spesso durante la settimana a parlare con la sua penitente che si esaltava con lui, discuteva sulle cose materiali, maneggiava tutto il vecchio e complicato arsenale delle controversie religiose.









Camminavano insieme in su e in giù per il grande viale della baronessa parlando di Cristo e degli Apostoli, della Vergine e dei santi padri come se li avessero conosciuti: di quando in quando si arrestavano proponendosi questioni profonde che erano soltanto mistiche ubbie, lei perdendosi in ragionamenti poetici che salivano al cielo come razzi, lui, più preciso, argomentando come un avvocato monomane che dimostri matematicamente la quadratura del circolo.









Giuliano trattava il nuovo curato con grande rispetto, e ripeteva sempre: "Questo prete mi piace: non transige" e si confessava e comunicava volentieri, per dar l'esempio, con una certa prodigalità.









Ora Giuliano andava quasi ogni giorno dai Fourville, tanto più che il conte amava averlo compagno come cacciatore e non poteva fare a meno di lui, e con la contessa continuava ad andare a cavallo nonostante le piogge e il tempo cattivo.









"Sono fanatici con quel loro cavallo" il conte osservava. "Ma il cavalcare fa bene a mia moglie." A metà novembre tornò finalmente il barone. Era malato, invecchiato, fiacco, sopraffatto da una tristezza cupa che aveva invaso il suo spirito. Sembrava quasi che l'amore per la sua cara Giovanna fosse accresciuto; come se quei mesi di triste solitudine avessero acuito, esasperato il suo bisogno di tenerezza e di confidenza. E Giovanna non gli confidò le sue nuove idee, né il suo ardore religioso, né la sua intimità con l'abate Tolbiac; ma la prima volta che egli vide il pretino provò un'antipatia veemente contro di lui, e quando la figlia gli chiese: "Come lo trovi?" egli rispose francamente che quell'uomo gli sembrava un inquisitore e doveva essere molto pericoloso. Poi seppe dai suoi amici contadini tutte le severità del curato e le sue prepotenze e quella specie di persecuzione contro le leggi e gli istinti congeniti e l'odio avvampò nel suo cuore. Egli era della razza dei vecchi filosofi adoratori della natura che si inteneriscono se vedono due animali accoppiarsi, restano in ginocchio davanti a una specie di Dio panteista e si ribellano alla concezione cattolica di un Dio con intenzioni borghesi, collere gesuitiche, vendette da tiranno; un Dio che rimpiccioliva la creazione, fatale, senza limiti, onnipotente, mentre la creazione era luce, terra, pensiero, pianto, roccia, uomo, aria, bestia, stella, Dio, insetto; e creava appunto perché era la creazione, più forte della volontà, più vasta della ragione, produttrice sempre, senza scopo e senza fine in tutti i sensi e in tutte le forme, attraverso l'infinità dello spazio, seguendo le necessità del caso e le vicinanze dei soli che riscaldano il mondo. La creazione conteneva tutti i germi, poiché il pensiero e la vita si sviluppavano in lei come i fiori e i frutti sugli alberi. Per lui dunque la riproduzione era la gran legge generale, alta, sacra rispettabile, divina, che compie l'oscura e costante volontà dell'Essere Universale. E cominciò di fattoria in fattoria una campagna animosa contro il prete intollerante persecutore della vita.









Giovanna ne fu desolata. Pregava il Signore, pregava e implorava suo padre, ma egli inesorabile:



"Bisogna combattere questi uomini. E' nostro dovere, nostro diritto. Non sono umani." Riprendeva, scuotendo la sua zazzera bianca:



"Non sono umani: non capiscono nulla; agiscono in una fatale incoscienza. Sono antifisici" e gridava come per maledire: "antifisici!" Il prete sentiva perfettamente il nemico, ma voleva restar padrone del castello e della giovane signora, e così temporeggiava, sicuro, convinto della vittoria finale. E poi c'era l'idea fissa:



gli amori di Giuliano e Gilberta che aveva scoperto per caso.









Voleva farla finita anche con questi.









Un giorno, trovandosi in visita, dopo una conversazione mistica, lunghissima, eterna, egli chiese finalmente a Giovanna di unirsi a lui per combattere, uccidere il male che era sulla sua stessa famiglia, per salvare due anime in pericolo. Lei non comprese.









Volle sapere. Il prete rispose che l'ora non era ancora venuta.









"Arrivederci presto" e scomparve.









L'inverno stava per finire: un inverno marcio, come si dice in campagna, umido, tiepido. L'abate Tolbiac ritornò qualche giorno più tardi e parlò, in termini oscuri, di una di quelle relazioni indegne fra persone che dovrebbero essere irreprensibili; e poi a chi spetta impedire con tutti i mezzi questi orrendi fatti se non a coloro che li sono venuti a conoscere? Passò, a poco a poco, a considerazioni più elevate, finché afferrò le mani di lei e la scongiurò di aprire gli occhi, di comprendere, di aiutarlo, in nome di Dio. Giovanna aveva capito, sì, questa volta; aveva capito e taceva, spaventata al pensiero della tempesta che poteva addensarsi sulla sua casa, per il momento tranquilla, e fingeva di cader dalle nuvole: che voleva mai dire l'abate? Allora egli troncò gl'indugi, parlò chiaramente.









"E' un dovere spiacevole che sto per compiere, signora contessa, ma non posso fare altrimenti. E' il mio ministero che m'impone di non lasciarvi ignorare un fatto che voi potete impedire. Sappiate dunque che vostro marito mantiene una relazione colpevole con la signora di Fourville." Abbassò la testa, rassegnata, senza più forza.









"Ebbene?" riprese il prete. "Che contate di fare?" Allora Giovanna balbettò:



"Che cosa volete che faccia?".









"Combattere" rispose lui con violenza. "Combattere questa passione colpevole." "Ma se mi ha già ingannata con una cameriera; ma se non mi ascolta; ma se non m'ama più; se mi maltratta appena esprimo un desiderio che non gli garbi... Che cosa posso fare io? che cosa posso fare io?" "Allora piegate la testa? L'adulterio è sotto il vostro tetto! Voi consentite. Voi tollerate. Il delitto si compie sotto i vostri occhi e voi guardate da un'altra parte. Chi siete voi? Non siete una sposa? una cristiana? una madre?" "Che cosa volete che faccia? che cosa volete che faccia?" singhiozzava la poveretta.









"Tutto, piuttosto che permettere questa infamia. Tutto, vi dico, tutto. Abbandonatelo, fuggite da questa casa immonda!" "Ma io non ho denaro, signor abate. E poi sono senza coraggio.









Partire così senza prove... Mi pare di non averne il diritto..." "E' la viltà che vi consiglia" gridò il prete levandosi fieramente.









"Io vi credevo, diversa signora. Voi siete indegna della misericordia di Dio." "Oh, ve ne prego" disse cadendo in ginocchio "consigliatemi, consigliatemi, non abbandonatemi." "Aprire gli occhi al signor di Fourville" consigliò il prete con voce secca, implacabile. "E' il signor di Fourville che romperà questa relazione. Tocca a lui." "Ma li ucciderebbe" gridò Giovanna impaurita a questo pensiero. "E dovrei essere io a denunciarli? Signor abate, no, questo no." Allora egli alzò la mano come per maledirla, tutto rosso e vibrante di collera:



"Restate nella vostra onta e nella vostra colpa, giacché voi siete più colpevole di loro. Voi, voi, la sposa compiacente! Qui non mi resta altro da fare" e fece l'atto di andarsene così furibondo che tutto il suo corpo tremava.









Giovanna lo seguì, smarrita, disposta a cedere, disposta a promettere, ecco, sì, prometteva; ma egli era tutto in preda alla sua santa ira e camminava a passi sempre più rapidi, agitando il suo ombrellone azzurro, alto come lui. Vicino al cancello si imbatté proprio in Giuliano che dirigeva i lavori di potatura, e allora svoltò a sinistra, per attraversare la fattoria dei Couillard, e ripeteva sempre: "Lasciatemi, signora; non ho più niente da dirvi". E si diresse verso il cortile, là dove un crocchio di ragazzi, della casa e del vicinato, tutti aggruppati intorno al casotto della cagna Mirza, osservavano curiosamente qualcosa, attenti, silenziosi, come concentrati in quello spettacolo. In mezzo ad essi il barone (sembrava un maestro di scuola) guardava pure con interesse, le mani dietro la schiena. Ma quando scorse di lontano l'abate, filò diritto, per evitare di incontrarlo, salutarlo, parlargli.









E Giovanna veniva dietro, sempre supplicando:



"Lasciatemi qualche giorno, signor abate, poi ritornate al castello... Vi dirò quel che avrò potuto fare, quel che avrò preparato... ci regoleremo..." Passarono l'una e l'altro presso il gruppo dei ragazzi in mezzo al cortile, e il curato si avvicinò per vedere. Era la cagna che partoriva. Mentre il prete si curva, la bestiola rattrappita si allunga, si allarga e appare il sesto canino. Tutti i monelli si mettono a gridar dalla gioia.









"Eccone un altro! eccone un altro! un altro!" Era un gioco, non più che un gioco: un gioco naturale in cui non v'era niente di impuro, e consideravano quella nascita come avrebbero guardato cader delle mele.









L'abate Tolbiac dapprima allibì, poi, preso da furore irresistibile, levò alto il grande ombrellone e con quello, picchiando all'impazzata, sbaragliò la ragazzaglia, finché si trovò davanti soltanto la cagna partoriente che si sforzava di alzarsi essa pure. Ma egli non le lasciò il tempo di drizzarsi, ché la copriva già della sua rabbia, e la povera bestia, come incatenata, gemeva di strazio dibattendosi sotto la furia dei colpi. In quel momento, si spezzò l'ombrellone. Allora, a mani libere, il prete montò sulla cagna, calpestandola, spiaccicandola, massacrandola, mentre la povera bestia sotto la violenta pressione metteva al mondo un altro piccino; un altro colpo di tallone brutale e il corpo sanguinolento finì di agitarsi in mezzo ai piccoli neonati che pigolavano, ciechi, incapaci di muoversi e pur cercando oscuramente il latte materno.









Giovanna era scappata; ma il prete a un tratto si sentì preso per il collo, e uno schiaffo fece volare il tricorno: era il barone che, esasperato, portò il prete di peso fin presso il cancello e lo gettò in mezzo alla strada. Si volse, e vide sua figlia ginocchioni che singhiozzava sui poveri cagnolini e li raccoglieva nella sottana. Egli ritornò a gran passi verso di lei, gesticolando, gridando:



"Eccolo, eccolo, l'uomo in gonnella! L'hai visto adesso? l'hai visto?" I contadini accorrevano; tutti guardavano la bestia massacrata.









"Ma è possibile" disse Couillard "è possibile essere selvaggi fino a questo punto?" Giovanna aveva raccolto i sette neonati e pretendeva di allevarli.









Si tentò di dare loro del latte; ne morirono tre il giorno dopo.









Papà Simone corse per tutto il paese in cerca di una cagna che allevasse i piccini; non trovò che una gatta, e diceva che sarebbe andata bene lo stesso. Bisognò allora uccidere altri tre cuccioli e affidare l'ultimo, come il più fortunato, alla cara nutrice dell'altra razza. La gatta adottò immediatamente il cagnolino e gli tese la mammella così coricata sul fianco. Ma per non esaurire la madre adottiva, il cagnolino fu svezzato in capo a quindici giorni e Giovanna si incaricò di nutrire lei stessa col poppatoio il povero Totò. Lo aveva chiamato Totò; il barone volle ribattezzarlo e lo chiamò Massacro.









L'abate Tolbiac, che non si era più fatto vedere, lanciò dall'alto al pubblico, la domenica dopo, non si sa quante imprecazioni, maledizioni e minacce contro il castello dicendo che bisognava introdurre il ferro infuocato nelle piaghe, scagliando anatemi contro il barone, che ne rise, accennando con un'allusione velata, ancora timida, ai nuovi amori di Giuliano. Giuliano ne fu esasperato, ma il timore di uno scandalo maggiore fermò lì per lì la sua collera. Allora, di predica in predica, il prete ripeté gli annunzi delle sue vendette, profetando che si avvicinava l'ora di Dio, che tutti i suoi nemici sarebbero stati colpiti da Dio.









L'altro scrisse all'arcivescovo una lettera rispettosa, ma energica. L'abate Tolbiac fu minacciato di sanzioni, e tacque.









Adesso lo si incontrava che camminava a grandi passi, esaltato, con la faccia stravolta. Giuliano e Gilberta, nelle loro passeggiate a cavallo, lo incontravano spesso, talvolta lo vedevano spuntare di lontano in fondo alla pianura o sulla spiaggia, come un punto nero, altre volte lo trovavano che stava leggendo il breviario nella stessa valletta dove stavano per scendere, e allora facevano svoltare i cavalli per non passargli vicino.









La primavera era venuta a ravvivare l'amore di quei due, gettandoli ogni giorno l'uno nelle braccia dell'altro, ora qui ora là, sotto un qualsiasi riparo incontrato nelle loro scorribande.









Ma il fogliame era rado e l'erba umida e non potevano ancora perdersi fra i cespugli dei boschi come in estate, e così finivano col nascondere i loro amori vagabondi nella capanna mobile di un pastore abbandonata fin dall'autunno in cima alla costa di Vaucotte. Era là, quella capanna, isolata, alta sulle ruote, a cinquecento metri dal declivio, proprio nel punto in cui cominciava il ripido pendio della vallata. Là erano sicuri, là non sarebbero stati colti in flagrante, perché dominavano la pianura, e i cavalli, così legati alle stanghe della capanna, avevano l'abitudine di aspettare pazientemente che i loro padroni fossero sazi di baci. Se non che, un giorno, nel momento che essi lasciavano questo rifugio, scorsero l'abate Tolbiac, seduto, quasi nascosto tra i giunchi della scogliera. Giuliano credette necessario lasciare i cavalli giù nel burrone, perché altrimenti li avrebbero potuti denunciare di lontano: avrebbero fatto la spia. E da quel momento presero l'abitudine di legare i cavalli in una sinuosità della valle tutta aggrovigliata di sterpi. Poi, una sera, mentre ritornavano tutt'e due alla villa, dove dovevano pranzare col conte, incontrarono il curato di Étouvent che usciva dal castello e che, facendosi da parte per lasciar passare i colpevoli, salutò, ma senza guardare negli occhi. I due lì per lì si sorpresero, ma fu un'inquietudine breve.









Ai primi di maggio, in un pomeriggio di gran vento (Giovanna indugiava ancora al caminetto, e leggeva), scorse d'un tratto il conte di Fourville che veniva avanti così di furia, così scalmanato, che temette una disgrazia. Si alzò, gli andò incontro, lo guardò in viso: era pazzo. Aveva sulla testa un grosso berretto di pelo che portava solo in casa, la solita giacca da caccia lo infagottava dandogli qualcosa di selvaggio, era così pallido che i suoi baffi rossicci che non spiccavano di solito su una faccia molto colorita, parevano accesi, di fiamma, e gli occhi erravano muti, smarriti, vuoti di pensiero.









"E' qui mia moglie?" "Veramente... non l'ho veduta... oggi..." Allora sedette, come se gli si fossero spezzate le gambe. Si tolse il berretto, si asciugò la fronte col fazzoletto più e più volte.









Poi balzò in piedi, si avvicinò alla signora, le mani tese, la bocca spalancata, come se volesse parlare, confidarle il suo strazio, ma si arrestò, la guardò fissamente, delirò:



"Ma è vostro marito, è vostro marito... Anche voi..." E fuggì verso il mare.









Giovanna corse dietro per fermarlo, chiamando, implorando, con la morte nel cuore. Perché, sì, egli sapeva tutto. E ora? e ora? Che avrebbe fatto? Oh Dio, purché non li trovasse! Correva, correva senza poterlo raggiungere, e lui non la vedeva, non l'ascoltava, andava sempre avanti, come se avesse una sicurezza, una mèta: valicava il fossato, scavalcava le canne, via via a passi di gigante, fino al declino. Giovanna, dritta sul boscoso pendio, lo seguì lungamente con gli occhi, poi lo perse di vista e dovette rientrare tutta divorata dall'ansia. E lui va, svolta a destra, si è rimesso a correre. Il mare romba rotolando i suoi cavalloni, grosse nubi nerastre arrivano folli, veloci, passano, svoltano inseguite da altre compagne più folli, rovesciando ognuna una marea d'acqua. Il vento fischia, geme, spiana l'erba, curva le messi recenti, trasporta nella sua corsa come dei fiocchi di spuma che sono grandi uccelli marini e li trasporta là fra le campagne.









Via, fra le spighe di grano che gli spazzano il viso, gli bagnano i baffi e le guance, riempiono di strepito le sue orecchie, riempiono di tumulto il suo cuore. Ecco, laggiù, davanti a lui, la valle di Vaucotte che apre la sua gola profonda. Null'altro fin là che una capanna di pastore presso una stalla di montoni vuota. Due cavalli legati alle stanghe della casetta mobile. Essi erano là.









Che mai potevano temere con quella tempesta?



Appena li scorge, egli si mette per terra bocconi e si trascina sulle mani e sui ginocchi, come una specie di mostro, così coperto di fango e con quel berretto di pelo, e si arrampica, su, fino alla capanna solitaria, e vi si nasconde al di sotto per non essere svelato dalle fessure dell'assito. Ma i cavalli lo vedono e si inquietano. Col coltello che ha in mano egli taglia le briglie, così che quelli fuggono via impauriti nella tempesta, impauriti della stessa grandine che flagella il tetto inclinato della casetta di legno facendola tremare sulle ruote. Allora egli si drizza sulle ginocchia, accosta l'occhio alla porta, a uno spiraglio e guarda: guarda dentro. Ora non si muove più, sembra attendere. Passa un tempo infinito. A un tratto, si alza tutto coperto di fango, pieno di fango dalla testa ai piedi. Con un gesto da forsennato, spinge il catenaccio che chiude la capanna dal di fuori, e poi afferra le stanghe e poi si mette a scuotere quella nicchia come per fracassarla, e poi a quelle stanghe si attacca come una bestia da soma, piegando l'alta figura in uno sforzo disperato, tirando simile a un bue, soffiando, ansimando, e trascina verso il ripido pendio la casetta mobile e quelli che vi sono dentro, quelli che gridano, quelli che battono i pugni nel tavolato senza saper che succede. Ecco il precipizio, ecco l'orlo!



Allora egli lascia la casetta leggera che rotola giù giù per la costa inclinata, precipita nella sua corsa pazza, giù giù, saltando, inciampando, ballonzolando come una bestia, percuotendo la terra con le stanghe. Un vecchio mendicante che sta rannicchiato in un fosso la vede passare d'un balzo quasi sopra la sua testa, sente grida disperate partire da quella cassa di legno, e la cassa di legno perde una ruota in una scossa violenta e si abbatte su un fianco e si mette a rotolare come una palla, come una casa divelta rotolerebbe giù da una montagna. Eccola giunta all'orlo dell'ultimo burrone, e sobbalza, descrive una curva, precipita nel fondo, si schiaccia laggiù come un uovo. Allora il vecchio mendicante che l'ha vista passare, scende cautamente fra i rovi, finché la sua prudenza di contadino non lo consiglia di evitare il casotto sventrato, ma di raggiungere piuttosto la vicina fattoria dove racconterà l'accaduto. Accorre gente; cercano tra i frantumi; appaiono due corpi sanguinolenti, pesti, maciullati. Lui ha la fronte spaccata, il volto fracassato; la mascella di lei penzola, forse staccata da un urto; povere membra molli come se non avessero ossa sotto la carne.









Furono tuttavia riconosciuti; e quella gente fece lunghe supposizioni sulla causa dell'infortunio.









"Che cosa facevano in quel casotto?" chiese una donna.









Naturale, secondo il mendicante, che si erano rifugiati là dentro per ripararsi dalla bufera e il vento impetuoso aveva dovuto svellere e precipitare la casupola: e spiegava che egli stesso stava per nascondercisi quando aveva visto i cavalli legati alle stanghe e aveva capito che il posto era preso. "Senza di questo" aggiunse con una certa soddisfazione "sarebbe capitata a me." "Non sarebbe stato meglio?" disse qualcuno.









"Perché? Perché sarebbe stato meglio?" replicò il buon uomo quasi infuriandosi. "Perché io sono povero e loro sono ricchi?



Guardateli, guardateli ora." E così, tutto tremolante, lacero, sordido, grondante acqua, la barba incolta e i lunghi capelli spioventi dal cappellaccio sformato mostrò i due cadaveri con la punta del suo bastone ricurvo:



"Tutti uguali davanti a Quella!".









Altri contadini erano giunti e guardavano attorno con occhio inquieto, sornione, spaventato, egoista e vigliacco. Si deliberò sul da farsi. Fu deciso che i corpi sarebbero stati portati al castello, nella speranza di una ricompensa. Si attaccarono due carrettelle; ma qui sorse una nuova difficoltà; alcuni erano del parere di coprire semplicemente di paglia il fondo della carretta, altri avrebbero voluto mettervi dei materassi, per convenienza.









"Ma si inzupperanno di sangue" disse la donna che aveva già parlato "e poi bisognerà lavarli, quei materassi." Intervenne un grosso fattore dal viso gioviale! "Vi pagheranno bene. Più costerà, più sarà caro." E l'argomento parve decisivo. Le due carrette, alte, sospese alle ruote, senza molle, partirono al trotto, l'una di qua, l'altra di là, scuotendo, sballonzolando ad ogni urto dei solchi profondi quei rimasugli di esseri umani.









Il conte di Fourville, dopo aver visto rotolare la casupola sul ripido pendio, si era dato alla fuga, velocissimo, attraverso la pioggia e la burrasca. Aveva corso così parecchie ore, passando le strade, saltando gli argini, devastando le siepi, ed era tornato allo scendere della notte, senza sapere come, al castello. I domestici lo aspettavano, spaventati. Dissero che i due cavalli erano ritornati senza cavalieri. Dissero che il cavallo del signor Giuliano aveva seguito l'altro, della dama.









Il signor di Fourville barcollò.









"Sarà capitata qualche disgrazia con questo tempo orribile" disse con voce rotta. "Si vada in cerca di loro." Ripartì egli stesso; ma appena lo perdettero di vista, si nascose in un rovo e rimase lì a spiare la strada per la quale doveva tornare morta o moribonda, forse storpiata, forse sfigurata per sempre, colei che egli amava ancora selvaggiamente. E la carretta che portava qualcosa di strano passò. Sì, egli se la vide passare davanti, nel suo nascondiglio.









Dinanzi al castello la carretta sosta un momento. Poi entra. E' lei, sì, è lei; ma un'angoscia spaventosa lo inchioda lì, nel suo covo, un'ansia di sapere, uno spavento della verità, e non si muove più, si accovaccia, resta lì come una lepre, trasalendo al minimo soffio. Aspetta un'ora, aspetta due ore. La carretta non esce. Pensa che sua moglie sta forse per rendere l'ultimo respiro, e allora il pensiero di vederla, di incontrare il suo sguardo, lo riempie di tale orrore, di tal raccapriccio, che ha perfino paura di essere scoperto nel suo nascondiglio, di essere obbligato a rientrare per assistere a quell'agonia. E fugge ancora; si rintana nel mezzo del bosco. Poi, quasi di colpo, riflette che forse ha bisogno di soccorso e nessuno l'assiste, e torna indietro disperato correndo. Ecco, il giardiniere al cancello. Gli grida:



"Ebbene?". Quegli non sa rispondere. "E' morta?" Il servitore balbetta: "Sì, signor conte". E allora è come il sollievo; è la calma che penetra nel sangue, che entra nei muscoli, e così egli sale a passo franco i gradini del grande scalone.









L'altra carretta era giunta all'altro castello. Giovanna la vide di lontano, si accorse del materasso, indovinò che un corpo v'era steso sopra, e capì tutto. Allora cadde svenuta. Quando riprese i sensi, suo padre le teneva il capo e le bagnava le tempie d'aceto.









Poi le domandò se sapeva. Lei mormorò: "Sì, papà". Volle alzarsi.









Non poté, non poté, tanto soffriva.









La sera stessa partorì una creatura morta: era una piccina.









Non vide nulla del seppellimento di lei, non vide e non seppe più nulla. Si accorse soltanto dopo un giorno o due che era tornata zia Lisetta. Nelle allucinazioni febbrili che l'agitavano cercava di ricordarsi con ostinazione da quanto tempo la vecchia zitella fosse partita dai "Pioppi", in quale epoca, in quali circostanze.









Non ci riusciva nemmeno nei momenti di lucidità: era sicura soltanto di averla vista dopo la morte della sua povera mamma.





















Capitolo 11









Giovanna rimase tre mesi nella sua camera, così debole e pallida che la credevano e la dicevano perduta, ma poi a poco a poco si riprese. Il babbo e la zia non l'abbandonavano più, restavano, si stabilivano ai "Pioppi". Quelle ultime scosse avevano lasciato la poveretta prostrata e con una malattia nervosa: il minimo rumore la faceva quasi svenire: cadeva in lunghe sincopi per nulla.









Com'era morto Giuliano? Non aveva mai chiesto. Non chiedeva. Che gliene importava? Non ne sapeva abbastanza? Tutti credevano a una disgrazia, ma lei non si faceva illusioni, lei custodiva nel suo cuore quel suo tormentoso segreto, ed era la sicurezza dell'adulterio, era la visione di quell'improvvisa e terribile visita del conte, il giorno della catastrofe. Ed ecco, ora, la sua anima come penetrata di ricordi teneri, dolci e malinconici delle brevi ore d'amore che le aveva un giorno prodigato il suo sposo.









Trasaliva spesso a certi inattesi risvegli, e rivedeva lui da fidanzato, rivedeva il Giuliano che le era stato caro per quella breve passione sbocciata sotto il sole della Corsica. I suoi difetti si erano come affievoliti al ricordo, sparite le durezze, attenuate le infedeltà, via via che i giorni accrescevano la lontananza fra la vita e la tomba Era come se Giovanna fosse invasa da una specie di gratitudine postuma per quell'uomo che l'aveva tenuta fra le braccia, e scartava le sofferenze passate per non sognare che i giorni felici. Poi, il perpetuo fluire del tempo, i mesi che si susseguivano ai mesi, copersero d'oblio, come di una polvere accumulata, reminiscenze e dolori: Giovanna si era dedicata interamente a suo figlio.









Ecco l'idolo, l'unico pensiero dei tre esseri riuniti intorno a lui, ed ecco il regno del despota. Una specie di gelosia nacque in ciascuno dei tre schiavi, a cominciare dalla madre che non guardava di buon occhio il nonnino quando riceveva i baci del piccolo in cambio della galoppata sul ginocchio. E la povera zia, negletta da lui come era stata sempre da tutti, trattata come una serva da questo padrone che non spiccicava ancora le parole, la zia Lisetta si chiudeva a piangere in camera sua paragonando sconsolatamente quelle poche insignificanti carezze che le toccavano, mendicate e appena ottenute, con le grandi espansioni che toccavano di diritto alla mamma e al nonnino.









Passarono così due anni: due anni tranquilli senza alcun avvenimento; con la preoccupazione incessante del piccolo. Sul principio del terzo inverno si decise di andare a stabilirsi a Rouen, fino alla primavera, e tutta la famiglia partì. Ma, arrivati alla vecchia dimora abbandonata e umida, Paolo cadde malato: e fu una bronchite così grave che si temette degenerasse in pleurite, e i tre poveri esseri smarriti si convinsero che non poteva fare a meno dell'aria dei "Pioppi" e ve lo ricondussero appena guarito.









Ebbe inizio una serie di anni monotoni e dolci. Sempre insieme, tutt'e tre, intorno al piccolo: ora nella sua stanza, ora nel gran salone, ora in giardino: e si estasiavano ai balbettamenti, alle espressioni strane, alle mossette. La mamma lo chiamava, per vezzo, Paolino; ma era una parola difficile per quel bamberottolo che diceva invece Pollino, e non è da dire quanto facesse ridere una simile inesattezza. Il soprannome restò: egli non era più né Paolo né Paolino: era Pollino.









Poiché cresceva in fretta, una delle preoccupazioni predilette dei suoi tre ammiratori (il barone diceva "le tre madri") era di misurargli la statura, e così fu che sulla parete di fronte alla porta del salone piccoli segni a matita ne indicarono, di mese in mese, il progresso. Questa scala, battezzata "la scala di Pollino", occupava un posto considerevole nell'esistenza di tutti.









Poi un nuovo individuo venne a rappresentare in famiglia una parte importante: il cane "Massacro", che era stato in un primo tempo negletto dalla padrona preoccupata unicamente del figlio. Sicché il povero Massacro, nutrito da Liduina e messo a dormire in un vecchio barile davanti alla scuderia, era vissuto solitario e sempre alla catena; finché un giorno il bambino lo notò e si mise a gridare per andar incontro al cane e abbracciarlo. E quando con infinite precauzioni lo avvicinarono a Massacro, il cane fece festa al bambino e il bambino pianse perché non voleva più essere separato da un simile amico. Da allora Massacro fu liberato e ammesso in famiglia. E divenne l'amico di Paolo: l'amico di tutte le ore. Cane e bimbo si rotolavano insieme, dormivano vicini sul tappeto, anzi Massacro finì col dormire nel letto di Paolino che non voleva più lasciare il suo amico. Giovanna talvolta se ne desolava a causa delle pulci, ma zia Lisetta cominciò a nutrire un rancore sordo verso quel cane che prendeva tanta parte delle possibilità affettive del piccolo, perché era tutto amore - così le sembrava - rubato a lei, conteso al suo desiderio.









Rare visite si erano scambiate coi Briseville e coi Coutelier; solo il sindaco e il medico rompevano regolarmente la solitudine del vecchio castello. Giovanna, dopo la strage della cagna e sospettando che il prete avesse una parte di responsabilità nella morte orribile della contessa e di Giuliano, non entrava più in chiesa, irritata contro un Dio che poteva avere di questi ministri. E l'abate Tolbiac, di quando in quando, lanciava anatemi con allusioni chiare contro il castello: il castello, sicuro, visitato dallo Spirito del Male, dallo Spirito di Eterna Rivolta, dallo Spirito di Menzogna e di Errore, dallo Spirito di Iniquità, dallo Spirito di Corruzione e d'Impurità. Così egli designava il barone.









Quasi tutti, d'altronde, si tenevano lontani dalla sua chiesa, e quando egli andava per i campi dove i lavoratori spingevano l'aratro, i contadini non solo evitavano di fermarlo e parlargli, ma si giravano dall'altra parte per non salutarlo. Si credeva perfino che fosse uno stregone perché aveva scacciato il demonio da un'ossessa, si diceva che egli conoscesse parole misteriose per scongiurare i malefici: le "diavolerie" o magari anche (era il suo pregio) le "burle di Satana". Stendeva le mani sulle mucche che davano il latte turchino o che avevano la coda attorcigliata, o faceva ritrovare gli oggetti smarriti borbottando una misteriosa parola. Il suo spirito gretto e fanatico si dava con passione allo studio dei libri religiosi che trattano dell'apparizione del Diavolo sulla terra, le diverse manifestazioni della sua potenza, le sue influenze occulte, che sono infinite, tutte le risorse di cui dispone, i soliti raggiri delle sue innumerevoli astuzie. E siccome egli si sentiva particolarmente chiamato a combattere questa potenza tenebrosa e fatale, si era premunito di tutte le formule di esorcismi indicate nei manuali ecclesiastici. Così che l'abate Tolbiac credeva sempre di sentir errare nell'ombra il Maligno, ed ecco sulle sue labbra lo scongiuro immancabile: "Sicut leo rugiens circuit quaerens queum devoret".









Allora il terrore della sua fama occulta si diffuse. I suoi stessi colleghi, preti ignoranti di campagna, quelli per cui Belzebù è un articolo di fede, quelli che si turbano delle prescrizioni minuziose dei riti nel caso che si manifesti quella potenza del male e giungono a confondere la religione con la magìa, quei poveri pretonzoli considerarono l'abate Tolbiac né più né meno che uno stregone e lo rispettarono tanto per il potere occulto che gli attribuivano quanto per l'irreprensibile austerità della vita.









L'abate Tolbiac, incontrando Giovanna, non salutava. E non è a dire come questo stato di cose turbasse la zia Lisetta che nel suo animo timoroso di vecchia zitella non capiva, proprio non capiva come si potesse disertare la chiesa. Perché lei era pia, certamente, si confessava e si comunicava benché non si sapesse e non si cercasse di sapere. E allora quando era sola con Paolo - ma sola, veh, proprio sola - gli parlava a bassa voce, misteriosamente, di Dio, ed era "il buon Dio". Egli l'ascoltava quasi con attenzione se gli narrava storie prodigiose, ma se diceva che era necessario amarlo molto, il buon Dio, allora faceva una smorfia e chiedeva:



"Ma dov'è, zia, il buon Dio?" Quella indicava il soffitto, con una gran paura del barone:



"Lassù, lassù, ma non bisogna dirlo." Un giorno le disse, Pollino: "Il buon Dio è dappertutto ma non in chiesa". E si capiva che si era confidato col nonno e che il nonno rispondeva così alle rivelazioni della zia.









Ora aveva dieci anni, il ragazzo, e sua madre ne dimostrava almeno quaranta. Era forte, era audace, turbolento: sapeva arrampicarsi sugli alberi: non sapeva fare quasi altro. Tutte le volte che il nonno provava a mettergli un libro davanti, ecco l'immancabile interruzione materna:



"Lascialo stare, lascialo giocare. Non bisogna affaticarlo troppo.









E' tanto ragazzo!" Per lei, aveva sempre sei mesi o un anno. Appena si rendeva conto che camminava, correva, parlava come un ometto, così che lei viveva nel perpetuo timore che cadesse che avesse freddo, che avesse caldo (quando si agitava), che mangiasse troppo per il suo stomaco, troppo poco per il suo sviluppo. Nacque, proprio in quel tempo, una grave questione: quella della prima comunione. Un bel mattino la zia Lisetta si presenta in camera di Giovanna e le fa notare che non si può lasciare più a lungo quel povero piccolo senza l'adempimento dei primi doveri, e mette in campo mille argomenti, invoca mille ragioni, in primo luogo l'opinione autorevole delle persone di conoscenza. La madre si turba, esita, è indecisa, crede che si possa aspettare ancora un pochino. Ma un mese più tardi era in visita dalla viscontessa di Briseville, che le domandava come a casaccio:



"Non è quest'anno che il vostro Paolo deve far la sua prima comunione?" Giovanna, presa alla sprovvista, mormorò: "Sissignora" e fu questa semplice parola che la decise, e senza dire nulla a suo padre incaricò zia Lisetta di portare il ragazzo al catechismo.









Per un mese, tutto andò bene. Ma Pollino tornò una volta con la gola roca, e il giorno dopo tossiva. Sua madre lo interrogò spaventata, e seppe così che il curato lo aveva mandato ad aspettare la fine della lezione sulla porta della chiesa (con quella corrente d'aria dell'atrio!) perché aveva fatto il cattivo.









Allora non lo mandò più alle lezioni e preferì insegnargli in casa, alla buona, quella specie di alfabeto della religione; ma l'abate Tolbiac, nonostante le suppliche di Lisetta, rifiutò di ammettere Paolino fra i comunicandi perché "non sufficientemente istruito".









E così l'anno dopo: "non sufficientemente istruito"! Il barone giurò e spergiurò che il ragazzo non aveva bisogno di credere a quelle sciocchezze, a quel simbolo puerile della transustanziazione, per essere un galantuomo; e fu deciso che sarebbe stato educato da cristiano, ma non da cattolico praticante: libero, liberissimo alla maggiore età di fare il piacer suo. Ma Giovanna, che aveva recentemente visitato i Briseville, notò che la visita non veniva restituita, e ne fu un poco stupita conoscendo la gentilezza meticolosa di quella gente.









La marchesa di Coutelier, con alterigia, le disse come andavano le cose. Perché la marchesa di Coutelier, per la posizione di suo marito, il marchese di Coutelier, per il suo titolo autentico, per la sua ricchezza considerevole, si riteneva una specie di regina della nobiltà normanna, e regnava da vera sovrana mostrandosi, secondo le occasioni, gentile o sgarbata, e ammoniva e redarguiva o dispensava le sue grazie. Questa volta, dopo alcune parole glaciali, sentenziò in tono secco:



"La società si divide in due classi: quelli che credono in Dio e quelli che non credono in Dio. Gli uni, anche i più semplici, sono amici nostri: gli altri non possono essere nulla per noi." Giovanna sentì l'attacco e si difese:



"Non si può credere in Dio senza frequentare le chiese?" "No, signora. I fedeli vanno a pregar Dio nella sua chiesa come si va a trovare gli uomini nelle loro case." "Dio è dappertutto" riprese Giovanna, ferita. "Quanto a me, se credo dal fondo del cuore alla sua bontà, non lo sento più quando certi preti si mettono fra lui e me.









La marchesa si alzò.









"Il sacerdote porta il vessillo della Chiesa. Chiunque non segue il suo vessillo è contro di lui e contro di noi." Giovanna si era alzata, a sua volta, e fremeva.









"Signora, voi credete al Dio di un partito. Io credo al Dio della gente onesta." Salutò e uscì.









Però, però, anche i contadini la biasimavano di non aver fatto fare la comunione a Pollino. Perché i contadini non andavano alle funzioni, non si accostavano ai sacramenti, o a mala pena si comunicavano a Pasqua, secondo le formali prescrizioni della Chiesa; ma per le creature era un'altra cosa, per i marmocchi l'inimicizia o l'indifferenza cadeva, e quella gente si sarebbe ritratta davanti all'audacia di educare un ragazzo al di fuori della legge comune: insomma... insomma, la religione era la religione.









Si accorse subito di essere così disapprovata, e si indignò nella sua anima di tutti questi patteggiamenti, di queste transazioni con la coscienza e di questo mercanteggiare, di questa gran paura di tutto, della viltà annidata in fondo ai cuori, la bella viltà dissimulata da tanta rispettabilità quando vorrebbe far capolino.









Il nonno assunse la direzione degli studi di Paolo e pensò di iniziarlo al latino. La madre non aveva che una raccomandazione:



"Soprattutto non affaticarlo troppo" e restava inquieta dietro la porta della stanza da studio perché il barone gliene aveva vietato l'ingresso, dato che aveva già provato a interrompere le lezioni in ogni momento per chiedere: "Hai freddo ai piedi, Pollino?" o anche: "Pollino, ti fa male la testa?" o magari, interrompendo il maestro: "Non lo far parlar tanto: gli stanchi la gola". Appena veniva rilasciato, il ragazzo scendeva in giardino, con la mamma e la zia, tanto più che aveva cominciato ad appassionarsi alla terra e la coltivava a suo modo, così che a primavera anche la mamma e la zia lo aiutavano a piantare giovani alberi o seminavano erbe o si incantavano a vederle spuntare e tagliavano i rami e coglievano fiori per farne grandi mazzi.









Il maggior pensiero del giovinetto era forse la coltivazione delle insalate. S'era messo a dirigere quattro grandi quadrati dell'orto dove coltivava con cura infinita lattughe, lattughe romane, cicoria, indivia, radicchi, tutte le specie conosciute di queste piante commestibili, e vangava e annaffiava e sarchiava e trapiantava, e le sue due mamme gli andavano dietro sommessamente, poiché le faceva lavorare come due donne a giornata, né era difficile vederle in ginocchio sulla terra grassa (sporche le mani, macchiati i vestiti) mentre introducevano quelle radici di tenere pianticine nei buchi che scavavano con un solo dito ficcato nella terra perpendicolarmente.









Ecco Pollino già grande, eccolo già a quindici anni: la scala del salone segna esattamente un metro e cinquantotto centimetri. Ma egli è rimasto spiritualmente un bambino, ignorante, un po' sciocco, e come soffocato tra quelle due donnette e quel vecchio, quel caro vecchio amabile, ma che ormai ha fatto il suo tempo. Una sera infine il barone parlò di collegio, e la madre non trovò di meglio da fare che mettersi a piangere mentre, sgomenta, zia Lisetta se ne stava rincantucciata in un angolo buio.









"Ma che bisogno ha mai di saper tante cose?" azzardò la povera mamma. "Ne faremo un uomo di campagna, un 'gentilhomme campagnard'. Coltiverà le sue terre come fanno tanti nobili, vivrà e invecchierà felice in questa casa dove avremo vissuto prima di lui, dove moriremo... Che gli si può chiedere di più?" Ma il barone crollava la testa:



"Che cosa gli risponderai se a venticinque anni ti dirà: 'Non so niente, per colpa tua, per colpa del tuo egoismo materno. Ecco, mi sento incapace di lavorare, di diventare qualcuno, eppure non ero fatto per questa vita oscura, per questa vita umile e triste a cui mi ha condannato la tua imprevidente tenerezza...'".









Piangeva sempre: implorava sempre che le lasciassero il figlio.









"Dimmi, Pollino, dimmi, non mi rimprovererai di averti troppo amato?" "No, mamma" rispondeva quel fanciullone.









"Me lo giuri?" "Sì, mamma." "Vuoi restar qui, non è vero?" "Sì, mamma." Allora il barone parlò con chiarezza, con fermezza:



"Senti, Giovanna. Tu non hai il diritto di disporre così di quella vita. Ciò che tu fai è vile, è quasi criminoso sì, perché sacrifichi tuo figlio alla tua felicità individuale." "Sono stata così disgraziata" gemette la poveretta singhiozzando, nascondendo la faccia tra le mani. "Oh, così disgraziata! Ora che sono tranquilla con lui, ora me lo portano via... Che cosa sarò io mai? Sola, sola, sempre sola..." "E io, Giovanna?" chiese il padre dolcemente, e le sedette vicino, l'attirò al suo petto, stringendola forte.









Giovanna gli cinse il collo con furia, lo abbracciò con violenza, e poi, ansimante, ancora soffocata dai singhiozzi, finì col dargli ragione.









"Sì, forse è vero, papà... Ero pazza, ma ho tanto sofferto! Sì, desidero anch'io che entri in collegio..." Senza capire chiaramente che cosa stavano per fare di lui, il ragazzo si mise a piagnucolare. Allora le sue tre madri lo baciarono, gli fecero coraggio, e quando si rinchiusero nelle proprie stanze, mamma, nonno e zia Lisetta avevano il cuore stretto e finirono col piangere a letto, non escluso il barone che aveva sempre dimostrato di sapersi, almeno lui, contenere.









Fu dunque deciso che alla riapertura delle scuole si sarebbe chiuso il figliolo in un collegio dell'Havre, e così nell'estate Pollino ebbe più carezze che mai. Sua madre, che piangeva spesso al pensiero della separazione, preparò per lui un corredo spettacoloso come se dovesse intraprendere un viaggio di dieci anni; e un mattino d'ottobre, dopo una notte insonne, salirono con lui in una carrozza a due cavalli e partirono al trotto. In un viaggio precedente avevano già scelto il suo posto: il posto in classe, il posto in dormitorio. Mamma e zia passarono tutto il giorno a disporre gli oggetti nel piccolo comò, ma il mobile non conteneva nemmeno la quarta parte di quello che avevano portato e la madre chiese del provveditore per ottenerne subito un altro. Fu chiamato l'economo, il quale non poté esimersi dal dichiarare che tanti effetti ed oggetti avrebbero soltanto ingombrato senza servire mai veramente; poi rifiutò la concessione col regolamento alla mano. La madre, delusa, pensò di affittare una stanza d'albergo raccomandando all'albergatore di recare egli stesso a Pollino ciò che egli avrebbe richiesto. Poi fecero un giro lungo il porto per veder entrare e uscire i piroscafi. La triste sera cadde sulla città che si illuminò a poco a poco. Pranzarono in una trattoria: nessuno aveva fame: si guardavano l'un l'altro con gli occhi un po' umidi: i piatti passavano davanti ai commensali e tornavano indietro quasi intatti. Poi, lentamente, ripresero la via del collegio. Ragazzi, ragazzi di tutte le stature arrivavano da tutte le parti, in compagnia di qualcuno: mamme, parenti, domestici. Molti piangevano. Si udiva qualche singhiozzo, qualche sommessa voce di pianto nel grande cortile appena rischiarata da un lume. La madre e Pollino si strinsero a lungo. Zia Lisetta restava indietro, già, dimenticata lei, dimenticata! E nascondeva la faccia nel fazzoletto, povera vecchia zia. Ma il barone che cominciava a intenerirsi anche lui, accorciò autorevolmente gli addii, e trascinò lontano sua figlia. La carrozza li attendeva alla porta: salirono in silenzio tutti e tre: si trottò verso i "Pioppi" che era notte. Di quando in quando un singhiozzo, nell'ombra...









Giovanna, il giorno dopo, pianse fino a sera. Quell'altro giorno fece attaccare e partì, naturalmente, per l'Havre. Il ragazzo sembrava si fosse già rassegnato alla separazione; per la prima volta in vita sua aveva dei compagni e il desiderio di giocare, nello stesso parlatorio, lo faceva saltare sulla sedia. Ritornò così ogni due giorni; non mancò per l'uscita delle domeniche. Non sapendo che fare durante le lezioni fra l'una e l'altra ricreazione, se ne stava seduta in parlatorio, senz'aver né la forza né il coraggio di allontanarsi di lì, finché il provveditore la esortò a venire meno spesso. Naturalmente, non tenne conto di una raccomandazione come questa. Allora il superiore avvertì che se continuava così, cioè se distoglieva il figliolo dallo studio, se gli impediva di unirsi ai compagni nelle ore di riposo, egli avrebbe dovuto ridarglielo, e di ciò fu avvertito con un biglietto il barone. Rimase dunque ai suoi "Pioppi" guardata a vista come una prigioniera, aspettando le vacanze con maggiore ansietà di quanto non le aspettasse suo figlio.









Allora l'assalì una strana inquietudine: girava sola qua e là per il paese, passava intere giornate fantasticando a vuoto, in compagnia di Massacro, passava ore e ore a guardare il mare seduta sulla scogliera, scendeva fino a Yport attraverso il bosco, rifacendo le antiche passeggiate, coi ricordi che la perseguitavano. Com'era lontano il tempo in cui aveva percorso quelle stesse strade fanciulla, fanciulla inebriata di sogni!



Ogni volta che rivedeva suo figlio le sembrava come se fossero stati separati per tanto tempo: dieci anni! Egli diventava uomo di mese in mese: di mese in mese diventava sempre più vecchia. Il barone sembrava suo fratello. Zia Lisetta aveva l'aria di una sorella maggiore; perché quella non invecchiava e restava com'era a venticinque anni: appassita. E Pollino, lui, non studiava:



ripeté la quarta, la terza non andò né bene né male, ma ripeté la seconda, e quando si trovò in liceo aveva esattamente vent'anni.









Era diventato un giovanottone biondo, con favoriti già folti, e c'era anche l'ombra dei baffi. Ormai era lui che veniva, ogni domenica, ai "Pioppi", tanto più che da qualche tempo frequentava una scuola di equitazione e con un cavallo preso a nolo faceva la strada in due ore. La mattina presto la madre gli andava incontro con la zia Lisetta e col nonno (il barone si curvava sempre più, camminava come un vecchietto, le mani dietro la schiena, quasi volesse sostenersi a quel modo) e andavano lentamente lungo la strada sedendosi a volte sul margine di un fossato o guardando da lontano se non si vedesse ancora il bel cavaliere. Appena il giovanotto appariva, come un punto nero sulla linea bianca, i tre agitavano i loro fazzoletti e lui metteva il suo cavallo al galoppo per piombare come l'uragano, così che i teneri cuori femminili si impaurivano e il nonno si esaltava e gridava: "Bravo, bravissimo!" con l'entusiasmo di chi non è più da tanto.









Sebbene Pollino avesse sopravanzato sua madre di tutta la testa, Giovanna lo trattava sempre come un bambino, gli chiedeva ancora:



"Non hai freddo ai piedi, Pollino?" e quando egli passeggiava davanti alla gradinata fumando una sigaretta, apriva una finestra per gridargli: "Ti prego, Pollino, non uscire a capo scoperto: ti prenderai un raffreddore di testa". Ma soprattutto tremava di inquietudine quando il figliolo partiva a cavallo, di notte: "Oh Dio, mio piccolo Pollino, non andrai troppo in fretta! Per carità, sii prudente: pensa alla tua povera mamma che morirebbe se ti capitasse qualcosa...".









Ma ecco che, un sabato mattina, riceve una lettera di Paolo con l'annuncio che domani non verrà per via di una gita di piacere che gli hanno organizzato gli amici. E così per tutta la domenica fu torturata dall'angoscia, per non sapeva quale presentimento, e il giovedì successivo non poté più resistere: partì. Le sembrò cambiato senza che se ne spiegasse il motivo. Era più animato, parlava con disinvoltura, aveva una voce maschia. Disse subito, come una cosa tutta naturale:



"Sai, mamma, giacché sei venuta oggi, non verrò domenica ai "Pioppi". Rifaremo ancora una gita." L'altra restò colpita, soffocata, come se egli le avesse annunziato che partiva per il nuovo mondo.









"Oh Pollino!" esclamò quando poté parlare. "Che hai, Pollino?



Dimmi che succede." "Nulla" rispose egli ridendo e abbracciandola. "Vado a divertirmi coi miei amici, mamma: è l'età." E lei non seppe che dire. Era l'età! Ma, ritornando al castello, sola, rannicchiata nella carrozza, le venne uno strano pensiero:



non aveva riconosciuto il suo Pollino, il suo piccolo Pollino, il suo ragazzo d'un tempo. Si accorse per la prima volta, si accorse che era grande, che era cresciuto, che non era più suo, che voleva vivere a modo proprio, senza occuparsi dei vecchi. Le sembrava che egli si fosse trasformato, in un giorno. Come? Era suo figlio, il suo piccolo povero ragazzo che una volta le faceva piantar l'insalata (lattuga e radicchio, indivia e cicoria) quel giovanotto robusto la cui volontà si affermava?



Per due mesi Paolo non tornò a rivedere i suoi cari che a lunghi intervalli, e sempre col desiderio (oh, glielo leggevano in viso) di andarsene presto, cercando di guadagnare un'ora ogni volta.









Giovanna si spaventava, e il padre le ripeteva sempre per consolarla:



"Lascialo fare, quel ragazzo. Ha vent'anni!" Ma un giorno si presenta un signore d'età, assai mal vestito, che chiede con un forte accento teutonico: "La signora contessa?" e, dopo molti saluti e complimenti, tira fuori di tasca un portafogli sordido e dichiara: "Io afere... piccola carta per foi..." e tende, spiegandolo, un foglio di carta unta.









Giovanna lesse, rilesse, guardò l'ebreo, rilesse ancora, infine domandò:



"Ebbene? Che cosa vuol dire?" Il vecchio spiegò tutto ossequioso:



"Fi dirò. Fostro figlio afefa bisogno di danaro et io, sapendo foi essere buona matre, gli ho dato piccola somma per suo pisogno..." Tremava.









"Ma perché non chiederla a me?" L'ebreo spiegò che si trattava di un debito di gioco da pagare il giorno dopo, prima di mezzogiorno: che Paolo non era ancora maggiorenne e perciò nessuno gli avrebbe prestato un centesimo:



che il suo onore sarebbe stato "compromesso" senza il "piccolo servizio di favore" che lui l'ebreo, aveva reso a quel giovanotto.









Giovanna avrebbe voluto alzarsi, chiamare suo padre, ma era come se non ne avesse la forza: l'emozione la paralizzava. Disse infine a quello strozzino:



"Volete avere la compiacenza di suonare il campanello?" Egli esitò, come temendo un inganno.









"Se fi disturba, tornerò..." No, no: lei fece segno di no con la testa. Il vecchio suonò: e aspettarono, l'uno di fronte all'altro, in silenzio.









Comparve il barone. Capì subito di che si trattava. L'obbligazione era per millecinquecento franchi. Ne pagò mille, dicendo all'uomo, gli occhi negli occhi:



"Soprattutto: non tornate mai più." L'altro saluta, si inchina, scompare.









La madre e il nonno partirono immediatamente per l'Havre; ma in collegio si sentirono dire che Paolo non si era più fatto vivo da un mese. Il rettore, anzi, aveva ricevuto quattro lettere firmate da Giovanna: la prima annunziava una malattia dell'allievo, le altre davano ampie e dettagliate notizie con l'ausilio dei certificati medici: tutto falso, naturalmente. Quei poveretti restavano lì a guardarsi, muti, atterriti.









Il rettore, desolato, li condusse dal commissario di polizia.









Giovanna e suo padre alloggiarono, per quella notte, all'albergo.









E il giorno dopo il giovanotto fu trovato all'Havre in casa di una poco di buono. E lo condussero via, lo portarono ai "Pioppi" senza che una sola parola fosse scambiata fra loro durante il tragitto.









Giovanna piangeva sommessamente con la faccia nascosta nel fazzoletto; Paolo, indifferente, alzava gli occhi a guardar la campagna.









In otto giorni si scoprì che negli ultimi tre mesi aveva fatto debiti per una somma discreta: quindicimila franchi. I creditori non si erano fatti subito avanti perché sapevano che ben presto egli sarebbe stato maggiorenne.









Niente, niente, nessuna "spiegazione". Si voleva riconquistarlo con la dolcezza. Gli offrivano pietanzine delicate, gli sorridevano, lo blandivano, quasi a finirlo di guastare. Era di primavera. E gli si noleggiò a Yport un battellino perché potesse fare (oh, i nuovi timori di Giovanna!) tutte le gite in mare che voleva. Solo, non gli si lasciava il cavallo per paura che ritornasse ancora laggiù. Disoccupato, egli divenne irritabile, talvolta perfino brutale. Invece il barone si inquietava per via degli studi incompleti, mentre Giovanna si spaventava all'idea di una separazione e nello stesso tempo si chiedeva che cosa avrebbero fatto di lui.









Una sera, Paolo non tornò. Si seppe che era andato in barca con due marinai. Sua madre ansiosa scese a Yport, senza niente in testa, di notte. C'erano alcuni uomini che attendevano sulla spiaggia il ritorno dell'imbarcazione. Appare al largo un piccolo lume: viene, si approssima, dondola. Ma Paolo non c'è, non è a bordo. Non è a bordo perché si è fatto condurre all'Havre, all'Havre!



La polizia ebbe un bel cercarlo: questa volta non lo trovò. La ragazza che lo aveva già nascosto una prima volta era anche lei scomparsa senza lasciar traccia: venduto il mobilio, pagato l'affitto. Nella stanza di Paolo, ai "Pioppi", si scoprirono due lettere di questa ragazza che sembrava pazza d'amore per lui, e poi questa ragazza parlava di un certo viaggio in Inghilterra, avendo trovato finalmente (questo affermava) i denari.









Quei tre poveretti vissero silenziosi e tristi al castello nel cupo inferno delle torture morali. I capelli della madre, già grigi, erano ormai tutti bianchi. Si chiedeva ingenuamente perché il destino la colpisse così. E fu il giorno che ricevette una lettera dell'abate Tolbiac: "Signora, la mano di Dio pesa su voi.









Voi gli avete rifiutato il vostro bambino. Egli ve l'ha preso per gettarlo nelle braccia di una sgualdrina. Non aprite gli occhi nemmeno a questo avvertimento del Cielo? La misericordia del Signore è infinita. Forse vi perdonerà se voi verrete a inginocchiarvi davanti a Lui. Io sono il suo servitore ed io vi aprirò la porta della sua Casa quando verrete a bussarvi". Rimase a lungo così, con questa lettera in grembo. Forse era vero. Sì, forse quel che diceva il prete era vero. E tutte le incertezze religiose, ecco, venivano a straziare, a lacerare la sua coscienza. Dio poteva essere vendicativo e geloso come gli uomini?



Ma se Egli non si fosse mostrato geloso, chi lo avrebbe temuto?



Nessuno. Chi lo avrebbe adorato? Nessuno. Per farsi meglio conoscere a noi, senza dubbio, Egli si mostrava agli uomini coi loro stessi sentimenti. E allora il dubbio vile che spinge nelle chiese coloro che esitano, coloro che dubitano, penetrò dentro di lei, al punto da spingerla una sera, al calar della notte, verso il presbiterio, e così, di nascosto, si inginocchiò ai piedi dello smunto abate implorando l'assoluzione. Egli le promise un mezzo perdono, non potendo Iddio riversare tutte le sue grazie sopra un tetto che proteggeva un uomo come il barone Le Perthuis des Vauds.









"Voi" affermò "sentirete presto gli effetti della Divina Provvidenza." Infatti, due giorni dopo, ricevette una lettera del suo figliolo; e nell'esaltazione del suo affanno considerò questa lettera come il principio del sollievo promesso dal sacerdote:



"Mia cara mamma, non essere inquieta. Sono a Londra in buona salute, ma ho gran bisogno di denaro. Non abbiamo più un soldo e non mangiamo tutti i giorni. Colei che mi segue e che amo con tutta l'anima mia ha speso tutto ciò che possedeva per non lasciarmi, cioè cinquemila franchi, e tu capisci che rendere questa somma è per me obbligo d'onore. Tu sarai così buona da anticiparmi una quindicina di migliaia di franchi sull'eredità del papà, perché io sarò presto maggiorenne. Mi trarrai così da un grande imbarazzo.









"Addio, cara mamma. T'abbraccio con tutto il cuore e così abbraccio il nonno e zia Lisetta. Spero di rivederti presto. Tuo figlio, Visconte Paolo di Lamare."









Le aveva scritto! Dunque... non la dimenticava. Non pensò nemmeno che egli bussava a quattrini. Ma sì, gliene avrebbe mandato del denaro, poiché egli non ne aveva più. Che importava il denaro? Le aveva scritto! E corse, piangendo, a mostrare questa lettera al padre. Zia Lisetta fu chiamata e si rilesse parola per parola questa cara carta di lui. Ogni frase fu ripetuta. Ogni frase fu discussa. E Giovanna passava dalla disperazione completa a una specie di ebbrezza, e lo scusava, Paolo, il suo Paolo:



"Ritornerà, ritornerà presto. L'ha scritto!" "E' lo stesso" disse, più calmo, il barone. "Egli ci ha lasciati per quella femmina.









Dunque l'ama più di noi perché non ha esitato tra lei e noi." Era un ragionamento così chiaro che si ripercosse nel cuore di Giovanna con una fitta acutissima, e da quel momento la poveretta si sentì nascere l'odio, un odio invincibile, selvaggio, un odio di mamma gelosa, per quell'amante che le rubava il figliolo. Fino a quel momento tutti i suoi pensieri erano stati per Paolo. Appena ricordava che una sgualdrina fosse stata la causa dei suoi errori; ma ora, d'un tratto, da quando le avevano evocato la rivale, da quando le avevano rivelato il suo funesto potere, ecco, sentiva che fra lei e quella donna cominciava una lotta accanita e pensava perfino che avrebbe preferito perdere suo figlio piuttosto che dividerlo con quella. Tutta la sua gioia crollò. D'accordo col padre mandò i quindicimila franchi al figliolo, e non se ne seppe nulla per ben cinque mesi. Dopo cinque mesi si presenta un uomo d'affari per regolare la successione di Giuliano. Giovanna e il barone rendono i conti senza discutere: concedono anzi la parte di usufrutto che toccherebbe alla madre. Paolo intasca centoventimila franchi e ritorna a Parigi. E scrive quattro lettere in sei mesi:



lo stile è conciso: un po' freddine le proteste d'affetto in ogni chiusa. "Lavoro: trovato un posto alla Borsa. Spero di abbracciarvi tutti ai 'Pioppi', miei cari." Non una parola della donna e quel silenzio diceva più che se avesse parlato di lei per quattro pagine. Giovanna sentiva quella donna nascosta dietro le lettere gelide, era lì, era lì, l'implacabile, l'eterna nemica delle madri, la prostituta.









I tre solitari discutevano sempre sul modo di salvare quel poveretto, e non trovavano nulla. Un viaggio a Parigi? A che scopo? Il barone era del parere di lasciar esaurire quella passione: poi il ragazzo sarebbe tornato da sé. Ma intanto, che vita penosa! Giovanna e la zia continuano ad andare in chiesa di nascosto del vecchio... E passa il tempo, e le notizie non giungono: finché un brutto giorno arriva una lettera, una lettera disperata, che mozza il respiro:.









"Mia povera mamma, io sono perduto, non mi resta più che bruciarmi le cervella: se tu non vieni in mio aiuto. Una speculazione che presentava tutte le probabilità del buon successo, è andata a rotoli e io sono debitore di ottantacinquemila franchi. Se non pago, è la rovina, è il disonore, è l'impossibilità di poter fare qualcosa in avvenire. Sono perduto, ti ripeto, e mi ucciderò anziché sopravvivere alla vergogna. Forse lo avrei già fatto, senza l'incoraggiamento di una donna di cui non ti parlo, ma che è la mia provvidenza. Ti bacio dal fondo del cuore, mia cara mamma, e forse per sempre. Addio.









Paolo."









Alcuni fogli di carta bollata aggiunti alla lettera davano i chiarimenti particolareggiati del disastro.









Il barone rispose immediatamente che avrebbe provveduto. Partì per l'Havre per consultarsi e trattare; poi ipotecò alcune terre ed ebbe il denaro per Paolo. Paolo rispose con tre lettere piene di tenerezza e di entusiasmo, annunciando sempre il suo prossimo arrivo, per abbracciare i cari parenti; ma non si fece mai vivo.









Un anno intero passò.









Giovanna e il barone stavano per andare in cerca di lui e tentare un ultimo sforzo, quando seppero da un suo biglietto che era di nuovo a Londra a costituire un'impresa di battelli a vapore: PAOLO DELAMARE E COMPANY. Egli scriveva: "E' la fortuna assicurata per me, forse la ricchezza. E non rischio nulla. Voi vedete già tutti i vantaggi. Quando ritornerò, avrò una bella posizione sociale.









Oggi, non vi sono che gli affari per trarsi d'impaccio".









Tre mesi più tardi la compagnia dei piroscafi era in stato di fallimento, e il direttore ricercato per irregolarità nei libri commerciali. Giovanna ebbe una crisi di nervi che durò parecchie ore: poi si allentò. Il barone riparte per l'Havre, vede, si informa, parla con avvocati, parla con uomini d'affari e con uscieri, constata che il deficit della società DELAMARE è di duecentotrentacinquemila franchi, ipoteca di nuovo i suoi beni.









Gravato per una forte somma il castello dei "Pioppi" con le sue due fattorie... Una sera, mentr'egli regolava le ultime formalità in un gabinetto di procuratore, rotolò sul pavimento, per un colpo apoplettico. Giovanna fu avvertita da un messo ma quando arrivò sul luogo, il suo povero papà era spirato. Ritornò ai "Pioppi" così annientata che il suo dolore era più che disperazione, stordimento. L'abate Tolbiac nonostante le suppliche delle due donne, non volle il cadavere in chiesa, e il barone fu seppellito senza cerimonia, sul far della notte.









Paolo (sempre nascosto in Inghilterra) seppe della disgrazia da uno dei liquidatori del suo fallimento, e scrisse per scusarsi di non essere venuto, avendo appreso la disgrazia con troppo ritardo.









"D'altronde" diceva "ora che mi hai tolto da ogni impiccio, rientrerò in Francia e così potrò riabbracciarti." Ma Giovanna viveva in un tale abbattimento di spirito che sembrava non capire più nulla.









Verso la fine dell'inverno, zia Lisetta, in età di sessantotto anni, ebbe una bronchite che degenerò in polmonite. Disse: "Mia povera Giannetta, io vado a chiedere al buon Dio che abbia pietà di te", e spirò dolcemente. Giovanna la seguì al cimitero, vide cadere la terra sulla cassa e quasi svenne, come prostrata dal desiderio di finire, di morire anche lei, di non soffrir più, di non pensare più, e allora si fece avanti una robusta contadina che afferrò quella poveretta fra le sue solide braccia e se la portò via con sé, in braccio, proprio come una bambina.









Al castello, Giovanna, che aveva passato cinque notti al capezzale della vecchia zia, si lasciò spogliare e mettere a letto da quella sconosciuta che la maneggiava con dolcezza e con autorità, e cadde in un sonno profondo, un sonno d'esaurimento, dopo tanta fatica e tanto dolore. E si svegliò a mezzanotte. Ardeva una lampada sul caminetto. Una donna dormiva su una poltrona, lì vicino. Chi era?



Non la riconosceva. E si sporgeva sulla sponda del letto, per sapere. Difficile distinguere i lineamenti in quella luce tremolante dello stoppino che fluttuava nell'olio di un bicchiere di cucina. Eppure... eppure le sembrava di aver visto quel viso.









Sì, qualche volta. Ma quando? Dove? La donna dormiva tranquilla col capo inclinato sulla spalla, e la cuffia era caduta per terra.









Poteva avere quaranta, quarantacinque anni: forte, colorita, quadrata, possente... Le mani pendevano abbandonate ai lati della poltrona. E i capelli alle tempie erano grigi... Giovanna guardava ostinata, con quel turbamento dello spirito che è proprio del risvegliarsi da un sonno febbricitante che segue a una grande sventura. Oh sì, aveva già visto quel viso! Da molto tempo? Da poco? Non sapeva. Nulla sapeva. E si alzò piano piano per guardar la dormiente più da vicino, le si accostò in punta di piedi. Sì, era lei, era la donna che l'aveva presa in braccio al cimitero, e poi coricata. Ricordava confusamente, sì, ma ricordava. Non l'aveva incontrata altrove, in un'altra epoca della sua vita?



Oppure credeva di riconoscerla soltanto per il ricordo oscuro di quell'ultimo giorno? E come mai la sconosciuta era in questa stanza, e perché?



La donna solleva le palpebre, vede la signora, si drizza di colpo.









Sono così vicine, faccia a faccia, che i loro petti quasi si toccano.









"Come? In piedi? Prenderete un malanno, a quest'ora. Tornate a letto, che sarà meglio." "Chi siete?" domanda Giovanna.









Ma la donna apre le braccia, afferra quel povero corpo, lo solleva, lo riporta a letto, con la sua forza virile. E mentre lo adagia delicatamente sulle coltri, piegata, quasi coricata su quel povero corpo, si mette a piangere e a baciare: bacia con passione quel viso, bacia quei capelli, bacia quegli occhi, bacia e bagna di lacrime, e dice:



"Mia povera padrona, signorina Giovanna, signorina Giovanna, non mi riconoscete dunque più?" "Rosalìa?" Si buttano le braccia al collo, si stringono e si baciano e singhiozzano tutt'e due e, così strette, mescolano le loro lacrime: non si sciolgono più.









Rosalìa fu la prima a calmarsi.









"Adesso basta. Bisogna che facciate giudizio. Non dovete prendere freddo." Raccolse le coperte, rincalzò il letto, riaccomodò il guanciale sotto il capo della sua antica padrona che soffocava ancora nel pianto, tutta agitata dai ricordi che nascevano via via nel suo cuore.









"Come mai sei tornata, Rosalìa, povera figliola mia?" "Potevo lasciarvi sola in questo momento?" "Accendi una candela, accendi, accendi, perché possa vederti." Il lumino a olio passò sul comodino, e allora si guardarono, si considerarono a lungo, senza sapersi dire una parola. Poi Giovanna stese alla sua vecchia serva le braccia.









"Non ti avrei riconosciuta. Sei molto cambiata. Non però come me, non come me..." Rosalìa non si saziava di guardare quella signora dai capelli bianchi, magra, avvizzita, che aveva lasciata giovane e bella.









"E' vero. Voi siete cambiata più di quel che dovrebbe essere. Ma pensate che sono ventiquattr'anni. Sono ventiquattro anni che non ci siamo viste." "Sei stata almeno felice?" chiese Giovanna dopo una pausa, dopo aver riflettuto.









Rosalìa esitò, come temendo di ridestare in lei qualche ricordo penoso.









"Peuh... Non ho da lagnarmi. Sono stata più felice di voi... sì...









certamente... Una cosa sola mi ha sempre addolorata, ed è di non essere rimasta qui..." Tacque improvvisamente, spiacente di aver detto questo, senza pensarci su.









"Ma sai, figliola mia", riprese con dolcezza Giovanna "non si fa sempre ciò che si vuole. Anche tu sei vedova no?" Poi, con una voce che trema d'angoscia: "Altri figlioli... hai altri figlioli?" "Nossignora." "E lui, tuo... tuo figlio, che cosa fa? Com'è? sei contenta?" "Sissignora. E' un buon ragazzo, lavora volentieri. E' ammogliato da sei mesi, si prenderà la mia fattoria. Perché io... sono ritornata con voi..." "Allora.. tu non mi lascerai più, figlia mia?" "Certamente" affermò con un tono brusco la serva. "Ho dato tutte le mie disposizioni per questo." E, per un lungo tempo, non si dissero altro. Giovanna si rimetteva, suo malgrado, a confrontare la sua vita e quella di Rosalìa, ma senza amarezza, rassegnata ora alla crudeltà della sorte.









"Tuo marito... com'è stato con te?" "Oh, era un brav'uomo, signora, mica un fannullone, e il denaro l'ha messo da parte. E' morto tisico..." In questo momento Giovanna si sedette addirittura sul letto, con una gran voglia di sapere.









"Vediamo, dimmi tutto, figliola. Raccontami la tua vita. Sento che mi farà bene." Rosalìa avvicina una sedia, si siede, si accomoda e si mette a raccontar la sua vita. Parla di sé, della sua casa, della sua famiglia: entra in tutti quei piccoli particolari che sono così cari alla gente di campagna: descrive il suo cortile e ride, ride delle cose antiche che le richiamano le ore buone della vita: e a poco a poco alza anche la voce, da fattoressa avvezza al comando.









Finisce per dichiarare:



"Oh sì, ormai ho della terra al sole e non ho paura di nulla." Riprese a voce più bassa, un po' turbata:



"E' a voi che debbo tutto, signora. E mettetevi bene in mente che non voglio salario. Ah, no! Mai! E poi se vorreste darmene, me ne andrei subito via." "Non pretenderai mica di servirmi per nulla?" "Sissignora, sissignora. La paga! Voi mi dareste la paga! Ma se ne ho ormai come voi! Sapete quel che vi resta con tutto quel garbuglio di ipoteche, di prestiti e di interessi non pagati che aumentano a ogni scadenza? Lo sapete? No, vero? Ebbene, io scommetto che non avete più di diecimila franchi di rendita.









Nemmeno diecimila, capite? Ma io metterò in ordine tutto, sì, e anche presto." S'era messa a parlare a voce alta, eccitata, indignata per quegli interessi trascurati, per la rovina che incombeva. E siccome passava sul volto della sua padrona un vago sorriso di tenerezza, esclamò, ribellandosi: "Non bisogna ridere, signora, perché senza soldi ci sono solo i tangheri e i villanacci." Giovanna le prese le mani e le tenne un po' fra le sue. Disse poi lentamente, sempre perseguitata dal pensiero che la opprimeva:



"Oh, io non sono stata fortunata. Tutto è andato male per me. La fatalità si è accanita contro di me." Ma Rosalìa scoteva la testa.









"Non bisogna dire queste cose. Non bisogna dire queste cose. Voi siete stata maritata male, ecco tutto. Non ci si marita a quel modo, senza conoscere bene chi si prende." Così, continuarono a parlar di se stesse come avrebbero fatto due vecchie povere amiche. Il sole spunta, e parlano ancora.





















Capitolo 12









In otto giorni Rosalìa assunse il governo della casa e della gente del castello (ed era governo assoluto) mentre Giovanna, rassegnata, passivamente sorrideva e obbediva. Giovanna era debole debole; trascinava le gambe come già la sua mamma, sempre appoggiata al braccio della cameriera, che la faceva camminare a lenti passi e non le risparmiava le parole brusche o la riconfortava con paroline tenere trattandola come una bambina malata. E parlavano sempre del passato! La padrona con le lacrime che le facevano nodo alla gola, l'altra col tono calmo e tranquillo dell'apatia contadina. Rosalìa ritornava spesso su quell'argomento scottante degl'interessi non pagati, e pretendeva le si dessero tutte le carte, quelle tristi carte che la padrona ignara di affari, avrebbe voluto nascondere per materna pietà verso il suo Paolo. Allora, per una settimana, Rosalìa andò tutti i giorni a Fécamp dal notaio, perché il notaio le spiegasse tutto ben bene.









Una sera, dopo aver messo a letto la sua padrona, si sedette accanto al letto e cominciò:



"Ora che vi ho messo a nanna, signora mia, discorriamo un poco fra noi." Ed espose la situazione. Quando tutto fosse stato regolato, sarebbero rimasti sette o otto mila franchi di rendita: non di più.









"Che vuoi, vecchia mia? So bene che non invecchierò e ne avrò sempre abbastanza." Rosalìa ci si arrabbiò.









"Per voi, certamente, signora; ma il signor Paolo volete lasciarlo senza il becco d'un quattrino?" "Te ne prego" disse lei con un brivido "non parlarmi di lui, non parlarmene mai. Soffro troppo quando ci penso..." "E io voglio parlarvene! E io voglio parlarvene, perché voi non siete capace di far niente! Ora fa delle sciocchezze, ma non ne farà sempre, si ammoglierà, avrà i suoi figlioli e ci vorrà il denaro per allevarli... Ecco, va bene: voi vendete i "Pioppi"." Giovanna sobbalzò, e restò seduta sul letto.









"Dici sul serio? Vendere i "Pioppi"? Ah no! questo no!" Rosalìa non si scompose.









"Io vi dico che venderete il castello dei "Pioppi". Perché, signora, bisogna." E sfoderò la sua scienza: ragionamenti, calcoli, progetti. Venduto il castello con le sue due fattorie a un compratore che aveva sottomano, sarebbero rimaste le quattro fattorie di San Leonardo, le quali fattorie, liberate da ogni ipoteca, avrebbero dato una rendita di ottomilatrecento franchi. Occorrevano milletrecento franchi l'anno per la manutenzione dei beni, e restavano esattamente settemila franchi, cinquemila per il bilancio annuale, duemila per il fondo di riserva. E aggiungeva:



"Tutto il resto è stato mangiato ed è finito. E poi io terrò le chiavi, capite? e quanto al signor Paolo, non avrà più un soldo che è un soldo, capite? Egli vi porterebbe via anche l'ultimo spicciolo." Giovanna piangeva in silenzio.









"E... se non avrà da mangiare?" "Se avrà fame, verrà a mangiare da noi. Ci sarà sempre un posto a tavola e un letto per lui. Credete voi che egli avrebbe fatto tante sciocchezze se aveste resistito fin dal principio?" "Ma egli, vedi, aveva dei debiti... sarebbe stato disonorato se..." "Quando voi non aveste più nulla, ciò gl'impedirebbe di farne? Voi avete pagato e sta bene, ma adesso non pagherete più: sono io che ve lo dico. E ora, signora buona notte." Giovanna non poté chiudere occhio, agitata dal pensiero di vendere i "Pioppi", di andarsene, di lasciar la sua bella casa a cui era legata tutta la sua vita. E la mattina dopo, quando vide entrare Rosalìa, ammise che non si sarebbe mai decisa ad allontanarsi di lì. La cameriera ci si arrabbiò per davvero.









"L'ho già detto, signora: è indispensabile. Il notaio sta per venire con quello che vuol comperare il castello. Altrimenti, fra quattro anni voi non avrete più un cavolo." "Mai, mai, non potrò, non potrò" andava ripetendo Giovanna che sembrava svanita, annichilita.









Un'ora dopo il fattore le rimetteva una lettera di Paolo: Paolo le chiedeva altri diecimila franchi. Che fare? Sbigottita, consultò Rosalìa.









"Eh? Che vi dicevo?" rispose Rosalìa levando al cielo le braccia.









"Se non fossi tornata io, sareste proprio restati senza un soldo, senza un soldo, tutt'e due." Giovanna piegò il capo, e rispose:



"Figlio mio caro, io non posso fare più nulla per te. Mi hai rovinata. Sono perfino obbligata a vendere i 'Pioppi'. Non dimenticare però che avrò sempre un tetto da offrirti quando vorrai rifugiarti presso la tua vecchia mamma che hai fatto tanto soffrire.









Giovanna."









Quando poi arrivò il notaio col signor Jeoffrin, un vecchio raffinatore di zucchero, ricevette questi signori lei stessa e li invitò a visitare tutto minutamente. Un mese dopo firmava il contratto di vendita e comprava nello stesso tempo una casina borghese presso Goderville, sulla strada maestra di Montivilliers, frazione di Batterville. Poi passeggiò sola nel viale di mammina, fino a sera. Che affanno! Che strazio! Camminava e mandava singhiozzi e addii disperati a tutte quelle cose note e care che sembravano entrate nei suoi occhi e nella sua anima: al sedile tarlato sotto il platano, al giardino, al boschetto, a un vecchio tronco contro cui si appoggiava, all'argine davanti alla landa dove si era tante volte seduta, da cui aveva visto correre il conte di Fourville il giorno della morte di Giuliano, un terribile giorno! Rosalìa venne a chiamarla, la prese per un braccio, la obbligò a rientrare. Un robusto contadino di venticinque anni attendeva davanti alla porta. Salutò amichevolmente come se questa signora la conoscesse, lui, da gran tempo.









"Buon giorno, signora Giovanna. Come state? La mamma mi ha detto di venire, per via dello sgombero. Vorrei saper subito quel che c'è da trasportare, perché porterò via la roba un poco alla volta.









Per non sospendere i lavori in campagna." Era il figlio della sua domestica, era il figlio di Giuliano, il fratello di Paolo. Le parve improvvisamente che il cuore le si fermasse: e nello stesso tempo avrebbe voluto abbracciarlo, ma sì, quel ragazzo! Lo guardava, lo guardava, e tentava di scorgere su quel viso una rassomiglianza: sì, col marito! col figliolo! Egli era tutto rubicondo, vigoroso, capelli biondi, occhi azzurri (gli occhi di Rosalìa), eppure... eppure rassomigliava a Giuliano!



Dove? Perché? Non sapeva, precisamente, proprio, non sapeva, ma egli aveva certo qualche cosa di lui, di Giuliano...









"Mi fareste un favore" continuava il ragazzo "se mi mostraste subito quello che c'è da portare." Ma lei non sapeva ancora, non sapeva come si sarebbe decisa a scegliere, essendo la sua nuova casa piccola assai, e lo pregò di tornare, ecco, verso la fine della settimana. Allora il suo trasloco la preoccupò, la distrasse nella sua vita triste, senza scopo. Passava da una stanza all'altra cercando con gli occhi i mobili che le ricordavano qualche avvenimento, i mobili amici che fanno parte della nostra esistenza, quasi del nostro essere, conosciuti e amati fin dall'infanzia e a cui sono legati ricordi di gioia e di tristezza e tante date della nostra esistenza, che sono stati i compagni mesti delle ore liete e delle ore nere e hanno vegliato, si sono logorati vicino a noi, stoffe in parte stracciate, fodere consunte, intelaiature sconnesse, colori sbiaditi. E lei li sceglieva a uno a uno, spesso esitando, affannata, turbata, come se prendesse una decisione importante, e ritornava di continuo sulle sue decisioni o pesava i meriti di due poltrone o di qualche vecchio stipetto in confronto a un tavolino da lavoro o apriva cassetti cercando di ricordarsi dei fatti, e finalmente, quando si era ben detto: "Be', prenderò questo", si portava l'oggetto prescelto in sala da pranzo. Naturalmente non rinunciava al mobilio della sua camera da letto e salvava le sue tappezzerie, salvava la pendola, tutto; sceglieva qualche sedia del salone, quelle stesse di cui nella sua infanzia aveva adorato i disegni, la volpe e la cicogna, la volpe e il corvo, la cicala e la formica e il malinconico airone. Poi, frugando in tutti gli angoli di quella cara dimora, che doveva abbandonare per sempre sali, un giorno, su nel solaio. E qui restò sbigottita. Un ammasso di oggetti d'ogni genere, alcuni spezzati, alcuni coperti di polvere, altri confinati lassù senza ragione, perché non piacevano più, perché rimpiazzati alla svelta; rivedeva certi oggettini, certe cianfrusaglie già conosciute e simpatiche un tempo e poi tutt'a un tratto scomparse, scomparse così, senza che ci avesse mai fatto caso; certi nonnulla che aveva avuto fra le mani, vecchi piccoli oggetti insignificanti che aveva trascinato per quindici anni presso di sé, che si era abituata a rivedere ogni giorno senza curarsene troppo e adesso, qui, ritrovati di colpo, in solaio, vicino ad altri più antichi di cui ricordava benissimo il posto al momento del suo arrivo al castello, ecco, assumevano improvvisamente una grande importanza, di testimoni dimenticati, di amici finalmente ritrovati. Ma sì, le facevano l'effetto di quelle persone che si sono frequentate a lungo senza che si siano mai rivelate e tutt'a un tratto, una sera, a proposito di non si sa che, si espandono, si espandono, fino a svelare un'anima che non sembrava proprio ci fosse.









"Guarda guarda, sono io che ho incrinato questa tazza cinese" si diceva Giovanna con piccoli sussulti al cuore passando dall'uno all'altro pezzo. "Ricordo ancora quando fu: pochi giorni prima del mio matrimonio. Ah, ecco la lucernina della mamma. Ecco il bastone che papà ruppe quando voleva aprire il cancello: il legno si era gonfiato, già, per la pioggia..." E c'erano pure, là in mezzo cose che lei non conosceva, che non le ricordavano nulla, quelle che provengono dai nonni e dai bisnonni, che sembrano più povere delle altre con quell'aria di esilio in questo tempo che non è più il loro, e sono tanto tristi per l'abbandono in cui vengono lasciate; cose di cui nessuno sa più la storia perché nessuno ha mai visto coloro che le hanno scelte, acquistate, possedute, amate, perché nessuno ha conosciuto le mani che le toccavano ogni giorno, gli occhi che le guardavano con gioia. E Giovanna sfiorava questi oggetti con le sue mani, li girava e li rigirava, lasciava la traccia delle sue dita su quegli strati di polvere, restava lì in mezzo ai vecchiumi nella luce scialba che pioveva da qualche finestrino a vetri aperto nel tetto, osservava attenta certe sedie a tre gambe chiedendosi se non le ricordassero nulla o una bacinella di rame o uno scaldapiedi sfondato (questo le sembrava di riconoscerlo) o un mucchio di utensili fuori uso. Poi riunì tutti gli oggetti da portar via e Rosalìa fu incaricata di ritirarli. Ma Rosalìa si indignava. Non voleva, no, non voleva caricarsi di tutte quelle "sudicerie". Giovanna non aveva ormai più una volontà sua, ma quella volta tenne duro e bisognò proprio obbedirla.









Finalmente un mattino, il giovane contadino figlio di Giuliano, Dionigi Lecoq, se ne venne con la sua carretta per fare un primo viaggio. Rosalìa lo accompagnò per sorvegliare lo scarico e mettere a posto la roba. Giovanna, così rimase sola. E' sola, e vaga per le stanze del suo castello con la morte nell'anima, e bacia con improvvisi slanci d'amore tutto ciò che non può portare con sé nell'altra casa: e sono gli uccelli della tappezzeria del salone sono i vecchi candelabri, tutto ciò che incontra, tutto ciò su cui posa gli occhi, i suoi poveri occhi gonfi di lacrime... E il mare? Bisognerà bene dire addio anche al mare!



Era verso la fine di settembre: un cielo basso e grigio sembrava pesare sulla terra: onde tristi e giallastre si stendevano a perdita d'occhio. E lei restò là, non si sa quanto, in piedi sull'alta scogliera, in quei tormentosi pensieri, aspettando l'arrivo della notte. Fece notte, e lei tornò indietro sapendo bene di aver sofferto in quel giorno né più né meno che per le sue maggiori sventure.









Rosalìa l'aspettava. Era entusiasta della casa nuova, Rosalìa.









Diceva che era molto più allegra di questa gran carcassa di bastimento, che non dava nemmeno su una strada. Ma Giovanna pianse tutta la sera...









Da quando il castello era stato venduto, i fittavoli non avevano più per lei i dovuti riguardi e la chiamavano "la pazza", senza saperne bene il motivo, ma intuendo col loro istinto brutale quella sensibilità morbosa e crescente, quelle fantasticherie da esaltata, il disordine di quella povera anima sconvolta dalle sventure.









La vigilia della partenza entrò in scuderia quasi per caso, e un brontolìo la fece trasalire. Massacro! Erano mesi e mesi che non aveva pensato a Massacro. Eccolo qua il poveretto, cieco e paralitico, giunto all'età venerabile ancora vivo sul suo letto di paglia, per le cure di Liduina che non lo aveva mai dimenticato.









Giovanna lo prese fra le sue braccia, lo baciò, lo portò dentro casa. Grosso come un barile, Massacro si trascinava a stento sulle sue gambe rigide e storte e abbaiava come quei cani di legno che si portano in dono ai ragazzi.









Ed ecco l'ultimo giorno. Giovanna aveva dormito nella vecchia stanza di Giuliano (la sua era rimasta senza mobili), e scese dal letto estenuata, ansimante, come se avesse fatto una gran corsa.









La carretta era già nel cortile, con le valigie e il resto della roba: dietro le avevano attaccato un carrettino a due ruote dove dovevano prender posto la padrona e la serva. Papà Simone e Liduina sarebbero rimasti soli al castello fino all'arrivo del nuovo proprietario, poi si sarebbero ritirati presso i loro parenti con una piccola rendita che la padrona aveva assegnato a entrambi i fedeli. E avevano anche le loro economie questi poveri vecchi servitori diventati brontoloni ed inutili. Quanto a Mario, si era voluto ammogliare e così aveva già da qualche tempo lasciato la casa.









Verso le otto cominciò a cadere la pioggia. Era una pioggia fine e gelata, spinta da una leggera brezza marina. Allora bisognò coprire la carretta. Le foglie cominciavano già a distaccarsi dai rami. Sulla tavola, in cucina, tazze di caffè e latte fumavano.









Giovanna si sedette davanti alla sua e bevette a piccoli sorsi.









S'alzò e disse:



"Andiamo." Poi si mise il cappello e lo scialle, e Rosalìa le calzava intanto le soprascarpe di gomma.









"Ti ricordi, figliola, come pioveva quando siamo partiti da Rouen per venire qui?" Ebbe come una specie di spasimo, portò le mani al petto, cadde supina: svenuta. Restò così, come morta, un'ora intera, finché aprì gli occhi e furono convulsioni e ancora lacrime. Ritornata la calma, si sentì così debole che non poteva più alzarsi, e allora l'energica Rosalìa, temendo che un nuovo ritardo potesse cagionare altre crisi, chiamò il suo figliolo, e la padrona la sollevarono insieme, la deposero nel carrettino su quella specie di panchina di legno coperto di tela cerata. Rosalìa le sedette vicino, le raccolse le gambe, le coprì le spalle con un gran mantellone, aprì un ombrello, lo tenne alto come riparo, e gridò:



"Presto, Dionigi, fila!" Quello balza sul carrettino, vicino a sua madre e, poggiando su una sola coscia per mancanza di posto, lancia il cavallo a gran trotto, così da far sobbalzare le donne.









Quando svoltarono l'angolo del villaggio, ecco uno che cammina in lungo e in largo (la strada è sua) e sembra spiare quella partenza: il prete, l'abate Tolbiac! Ora si ferma per lasciar passare la vettura. Con una mano tiene rialzata la sua sottana perché non si bagni e le sue gambette magre nelle calze nere finiscono in due enormi scarpe fangose. Giovanna abbassa lo sguardo per non incontrare gli occhi di lui, ma Rosalìa - che sa tutto - diventa furibonda: "Mascalzone!" e tira per la manica il figliolo:



Dagli una frustata, Dionigi!" E Dionigi, passando vicino all'abate, fece entrare in un solco la ruota del suo carrettino lanciato a tutta velocità così che si alzò un fiotto di fango che coprì dalla testa ai piedi l'abate Tolbiac.









Rosalìa, raggiante, si voltò a mostrargli i pugni mentre quel coso nero si asciugava col suo fazzolettone. Dopo cinque minuti, tutt'a un tratto Giovanna alzò la testa e gridò:



"Abbiamo dimenticato Massacro!" Bisognò fermarsi. Dionigi scese giù prontamente, corse a prendere il cane, e Rosalìa teneva intanto le briglie. E lui ricomparve portando in braccio la grossa bestia informe e spelata: e fra le sottane delle due donne si fece posto anche a Massacro.





















Capitolo 13









Due ore dopo il veicolo si fermò davanti a una piccola casetta di mattoni che sorgeva in mezzo a un bell'orto piantato a peri in forma di conocchia, sul margine della strada maestra. Quattro chioschi a pergolato tutti coperti di caprifogli e clemàtidi formavano i quattro angoli del giardino diviso in piccoli quadrati coltivati a legumi e separati da stretti sentieri tra file di alberi da frutto. Una siepe viva, molto alta, cingeva questa proprietà che un campo separava dalla fattoria vicina. Una fornace, sulla strada, cento passi più in là; le altre abitazioni più vicine distavano almeno un chilometro.









La vista in giro si stendeva sulla pianura di Caux, una pianura tutta disseminata di fattorie, circondate ciascuna dalle solite quattro doppie file di grandi alberi che racchiudevano il frutteto di meli.









Giovanna, appena arrivata, voleva riposare. Rosalìa non fu di questo parere: forse temeva che si rimettesse a fantasticare. Ecco il falegname di Goderville venuto per la sistemazione dei mobili, e si cominciò subito a mettere a posto quelli che c'erano già, in attesa della vettura che faceva l'ultimo viaggio. Fu un lavoro considerevole che esigeva lunghe riflessioni, ragionamenti infiniti. Poi, di lì a un'ora, la carretta apparve al cancello e bisognò scaricarla sotto la pioggia. Scese la sera. La casa era ancora in disordine, piena di oggetti ammucchiati alla rinfusa, e Giovanna si addormentò appena a letto, stanca morta.









Nei giorni seguenti non ebbe tempo di intenerirsi tanto fu sopraffatta dal lavoro, e non si può dire le dispiacesse fare qualche cosa, rendere un po' più bellina la sua nuova casa, tanto più che si cullava sempre nell'illusione che suo figlio l'avrebbe un giorno abitata. Le antiche tappezzerie della sua stanza da letto furono tese nella nuova stanza da pranzo che era anche salotto, e Giovanna arredò con una cura tutta particolare uno dei locali del primo piano che chiamò pomposamente fra sé:



"l'appartamento di Pollino". Riservò l'altra, del primo piano, a se stessa: Rosalìa doveva abitare di sopra vicino al solaio.









Ora la casetta poteva dirsi graziosa, accomodata così con quel garbo, e Giovanna se ne compiacque, dapprima, benché le mancasse qualcosa, una cosa di cui non sapeva rendersi conto. Poi lo scrivano del notaio di Fécamp le portò ben tremilaseicento franchi come prezzo dei mobili lasciati ai "Pioppi"; e ricevette questo denaro con un sottile brivido di piacere e in fretta in fretta si mise il suo cappellino per correre a Goderville e mandare quella somma insperata al suo figliolo. Ma ecco, sulla via maestra, Rosalìa che torna dal mercato! Rosalìa non intuisce subito la verità: però ha un vago sospetto: quando poi ha scoperto tutto, poiché Giovanna non sa più nasconderle nulla, allora Rosalìa posa il paniere per terra per arrabbiarsi comodo. E grida coi pugni sui fianchi, poi prende la sua padrona per il braccio destro, infila nel sinistro il paniere, e sempre furiosa e tempestando sempre, si rimette in cammino verso casa.









Quando furono a casa, la serva volle che le fosse consegnato il denaro. Giovanna annuì, ma tenendosi seicento franchi per sé, piccola astuzia che fu ben presto scoperta dalla serva che era anche più astuta, e bisognò versare anche quelli. Tuttavia Rosalìa, magnanima, acconsentì che questo residuo fosse inviato al figliolo.









Paolo ringraziò quasi subito: "Tu mi hai reso un gran servizio, cara mamma, perché la nostra è miseria, quella nera".









Ma Giovanna non riusciva ad abituarsi a Batterville, le sembrava sempre di non respirare più come prima, di essere ancora più sola, abbandonata, perduta. Usciva per far quattro passi, arrivava fino al borgo di Verneuil, ritornava dalle Tre Paludi, e, appena rientrata, si rialzava con la smania di uscire di nuovo come se avesse dimenticato di andare dove voleva. E ciò ricominciava tutti i giorni, senza che potesse farsi una ragione di questo strano bisogno, finché improvvisamente le salì alle labbra una parola, una frase che le svelò il segreto di tanta inquietudine. Aveva detto, sedendosi a tavola:



"Che voglia di vedere il mare!" Il mare le mancava. Le mancava il suo grande vicino (vicino da venticinque anni), il mare con l'aria salata, la collera, la voce brontolante, il mare che vedeva ogni mattino dalla sua finestra (la finestra dei "Pioppi"), che respirava giorno e notte, che sentiva presso di sé, che si era messa ad amare, senza saperlo, come una persona. Massacro stesso viveva in una strana agitazione.









S'era installato fin dalla sera del suo arrivo sotto l'armadio della cucina senza che fosse possibile farlo sloggiare. Restava lì tutto il giorno quasi immobile, rivoltandosi ogni tanto con un brontolìo sordo; ma appena cadeva la notte si rialzava e si trascinava verso la porta del giardino, urtando qua e là contro i muri. Usciva un momento e rientrava e rimaneva vicino al fornello ancora caldo, seduto sulle zampe di dietro, e sembrava quasi aspettasse che le sue padrone fossero andate a letto per mettersi a urlare. Urlava così tutta notte in un tono sempre più lamentoso e più lungo, e talvolta smetteva e riprendeva con note ancora più strazianti. Lo si legò davanti alla casa, dentro un barile. E allora urlava sotto le finestre. Poi, dato che era infermo e ormai vicino a morire, fu riportato in cucina.









Giovanna aveva perduto il sonno per via di questa disgraziata bestia che piangeva e raspava senza requie, cercando di orientarsi nella nuova dimora, comprendendo che quella non era casa sua. Come calmarlo? Si assopiva durante il giorno, quasi che i suoi occhi spenti e la coscienza della sua infermità gli avessero impedito di muoversi con tutti gli altri esseri viventi, e si metteva invece a girare senza riposo proprio al cader del giorno, quasi non osasse vivere e muoversi che fra le tenebre che rendono tutti gli esseri ciechi. Finalmente una mattina fu trovato morto. E questo fu un grande sollievo.









L'inverno si avvicinava e l'anima di Giovanna era come stretta nella morsa di un'invincibile disperazione. Non era uno di quei dolori acuti che paiono torcerla, l'anima, ma una cupa, una lugubre tristezza. Niente la distraeva; nessuno si occupava di lei. Davanti alla sua porta, a destra e a sinistra, la via maestra: sempre così, sempre vuota! Solo di tanto in tanto passava un "tilbury" al trotto, guidato sempre da un tale dalla faccia rossa, con una blusa gonfia di vento, come una specie di pallone azzurro; a volte era una carretta che andava lenta lenta, a passi di lumaca; oppure si vedevano spuntar da lontano due contadini, un uomo e una donna, piccoli piccoli in fondo all'orizzonte: poi ingrandivano smisuratamente e, passata la casa, rimpicciolivano da quest'altra parte, fino a parere due insetti all'estremità della linea bianca allungata a perdita d'occhio, salendo e scendendo a seconda delle tenui ondulazioni del terreno. Quando ricominciò a spuntare l'erba una ragazzetta con la sottanella corta passava tutte le mattine davanti al cancello, conducendo due mucche magre che pascolavano lungo i fossati. E tornava sul far della sera, con la stessa andatura sonnolenta, facendo un passo ogni dieci minuti, dietro le bestie.









Ogni notte Giovanna sognava di abitare ai suoi "Pioppi"; vi si trovava, come un tempo, col papà e con la mamma, talvolta anche con zia Lisetta, e rifaceva cose dimenticate e finite, si immaginava di sostenere la signora Adelaide che camminava su e giù nel suo viale: e ad ogni risveglio erano lacrime.









Pensava sempre a Paolo e chiedeva a se stessa: "Che farà? Come sarà adesso? Si ricorderà di me qualche volta?". Passeggiava lentamente nei sentieri che dividevano le due fattorie e così poteva fantasticare su mille idee che la torturavano, ma soprattutto soffriva di una gelosia invincibile contro quell'ignota che le aveva rubato il figliolo. Solo quell'odio le impediva di agire, di far qualche cosa, di andare in cerca di lui, di penetrare in casa di lui. Le sembrava perfino di vedere l'amante in piedi sulla porta di casa: "Che volete qui, signora?".









La sua fierezza di madre si ribellava alla possibilità di un simile incontro e un orgoglio quasi arrogante di dama rimasta sempre pura, senza debolezze, senza macchie, la esasperava sempre più contro le turpitudini dell'uomo fatto schiavo dalle basse pratiche della sensualità che rende vili gli stessi poveri cuori.









L'umanità le sembrava immonda se pensava a tutti i segreti impuri dei servi, alle carezze che avviliscono, ai misteri appena intuiti di certi accoppiamenti indissolubili.









Passò la primavera, passò anche l'estate. Ma quando tornò l'autunno con le sue lunghe piogge, col suo cielo grigiastro e le nuvole cupe, allora fu presa da una tale stanchezza di vivere che decise di fare un ultimo sforzo per riprendere il suo povero Pollino. Pensò che la passione per quella donna doveva essere sazia. E gli scrisse una lettera commovente:



"Figlio mio caro, ti scongiuro, ti supplico di venire da me. Ricordati che sono vecchia, malata, sola sola, tutto l'anno, con una serva! Abito attualmente in una casina che dà sulla strada. Oh, com'è triste!



Ma se tu ci fossi, tutto cambierebbe per me. Io non ho che te al mondo e non ti vedo da sette anni. Figliolo, tu non puoi nemmeno immaginare come io sia stata disgraziata, io che avrei voluto riposare il mio cuore sul tuo. Tu eri la mia vita, il mio sogno, la mia sola speranza, il mio solo amore, e tu mi manchi, m'hai abbandonata!



Oh ritorna, Pollino, ritorna ad abbracciarmi, Pollino mio, vieni dalla tua vecchia mamma che ti tende disperata le braccia. Giovanna."









Rispose dopo qualche giorno il figliolo:



"Mia cara mamma, non chiederei di meglio che di venirti a vedere, ma ora non ho un soldo. Mandami un po' di denaro e verrò. Del resto, pensavo già di venire per parlarti di un progetto che mi permetterà di appagare il tuo desiderio.









Il disinteresse, l'affetto di colei che m'è stata compagna nei giorni tristi sono, a mio avviso, senza limiti. Non è possibile che io resti più a lungo senza riconoscere pubblicamente il suo amore e la sua devozione a tutta prova. Lei ha, d'altronde, qualità magnifiche che tu potrai un giorno apprezzare: è istruita, legge molto, insomma non puoi farti un'idea di quel che sia sempre stata questa donna per me. Sarei un mostro se non le testimoniassi la mia riconoscenza. Ti domando dunque il permesso di sposarla. Mi perdonerai le mie scappate e si abiterà tutti insieme nella nuova dimora.









Oh, se la conoscessi mi daresti senz'altro il tuo assenso.









T'assicuro che è perfetta, distintissima. L'amerai, ne sono certo.









Quanto a me, senza di lei non potrei vivere.









Attendo la tua risposta con impazienza, cara mamma ti abbracciamo con tutto il cuore. Tuo figlio.









Visconte Paolo di Lamare."









Giovanna rimase annientata. Eccola immobile, con la lettera sulle ginocchia, col pensiero rivolto a quell'astuzia di femmina, di quella che aveva saputo avvincere suo figlio, che non lo aveva lasciato venire una sola volta da lei, attendendo l'ora propizia, l'ora in cui la madre che non può più resistere al desiderio di riabbracciare il suo figliolo, china il capo e concede ogni cosa.









Il dolore della preferenza di Paolo per quell'altra straziava il suo povero cuore. Egli non le voleva più bene! non le voleva più bene!



Entrò Rosalìa.









"Adesso la vuole sposare" disse semplicemente Giovanna.









"Oh, signora, non lo permetterete! Il signor Paolo non deve raccattare quella robaccia!" "Mai, mai, figliola" ripeté la madre accasciata, ma pronta a reagire. "E siccome egli vuol venire qui, sarò io che andrò da lui, e la vedremo. Vedremo quale delle due vincerà." Scrisse subito a Paolo per annunciargli il suo arrivo, chiedendo di vederlo in un altro luogo che non fosse la casa abitata da quella sgualdrina. Intanto, nell'attesa della risposta, fece i suoi preparativi, e Rosalìa cominciò a pigiare in una vecchia valigia la biancheria e gli abiti della sua padrona, ma nell'atto di piegare una veste, una antica veste di campagna, esclamò:



"Vi manca soltanto qualcosa da mettere sulle spalle. Io non vi permetterò di andar via in questo modo. Sono sicura che tutti se ne meraviglierebbero e le signore di Parigi vi riterrebbero una serva." Giovanna si lasciò convincere, e le due donne andarono insieme a Goderville a scegliere una stoffina a quadretti verdi che fu data alla sarta del borgo. Poi passarono dal notaio, il signor Roussel, che faceva ogni anno un viaggio di una quindicina di giorni nella capitale, con l'intenzione di chiedere certi chiarimenti, perché Giovanna da venti anni non aveva rivisto Parigi. E il signor Roussel diede numerose istruzioni sul modo di evitare le carrozze, sul modo di stare in guardia per non essere derubati, consigliando di cucire il denaro nelle fodere dei vestiti e di non tenere in tasca che l'indispensabile; si dilungò a parlare delle trattorie a prezzi modici, ne indicò due o tre frequentate specialmente da donne e indicò anche l'"Albergo di Normandia", dove scendeva egli stesso, un ottimo albergo vicino alla stazione della ferrovia.









Giovanna si presentasse pure a suo nome.









Da sei anni queste ferrovie (questa gran cosa di cui si parlava dappertutto) funzionavano tra Parigi e l'Havre, ma Giovanna era stata oppressa da troppe dolorose vicende per sapere come erano fatti gli strani carrozzoni a vapore che mettevano in subbuglio la Francia. E Pollino non rispondeva! Giovanna attese otto giorni, attese quindici giorni, e ogni mattina andava sulla strada incontro al postino:



"Nulla per me, Malaudain?" "Nulla nemmeno stamattina" rispondeva quello, invariabilmente, con la sua voce rauca per la cattiva stagione.









Era lei, quella donna, che impediva a Pollino di rispondere.









Allora Giovanna non poté più resistere e volle partire. Se prendesse con sé Rosalìa? No, no: Rosalìa rifiutava. Non voleva aumentare le spese del viaggio. E non permetteva nemmeno che la sua padrona avesse in tasca più di trecento franchi.









"Se ve ne occorreranno degli altri, scriverete, e io andrò dal notaio perché ve li faccia avere. Se ve ne dessi di più, se li intascherebbe il signor Paolo." E quel mattino di dicembre serva e padrona risalirono sul carrettino di Dionigi Lecoq venuto a prenderle per condurle alla stazione: fin là, cioè fino al treno, Rosalìa avrebbe accompagnato Giovanna. Così poterono informarsi prima del prezzo del biglietto, poi, quando tutto fu regolato e la valigia registrata, si misero ad aspettare insieme davanti a quelle linee di ferro, cercando di spiegarsi come funzionasse una simile cosa, ed erano così preoccupate da questo mistero che non pensavano già più al triste perché del viaggio. Poi girarono la testa a un fischio lontano e scorsero una macchina nera che diventava sempre più grande; e finalmente, con un fragore spaventoso, passa davanti ai loro occhi trascinando una lunga catena di piccole casine rotolanti, finché un impiegato apre una di quelle porticine e Giovanna si gira tutta piangente ad abbracciare la sua serva e così sale in una di quelle casine.









"Arrivederci, signora" gridò Rosalìa emozionata. "Buon viaggio, a presto, signora." "Arrivederci, arrivederci, figliola mia." Un fischio ancora, e quella lunga fila di carrozze si mise a rotolare pian pianino, poi un po' più in fretta, infine con una velocità spaventosa.









Nello scompartimento di Giovanna, due signori, tutti addossati agli angoli, dormivano. Giovanna guardava passare le campagne, gli alberi, le fattorie, i villaggi, sbigottita da quella velocità, sentendosi come trasportata in una vita nuova che non era più la sua, della sua giovinezza tranquilla, della sua dolce monotonia quotidiana.









Calava la sera: il treno giungeva a Parigi.









Ed ecco che un facchino si impadronisce della valigia e lei lo segue stupita, sballottata, incapace di farsi largo tra la folla che si intreccia e si mescola, correndo quasi dietro quell'uomo per timore di perderlo di vista. E quando è nello scrittoio dell'albergo, si presenta così:



"Sono raccomandata dal signor Roussel." La padrona, un'enorme donna arcigna, seduta al suo posto, si strinse nelle spalle perché non sapeva nulla del signor Roussel.









"Ma è il notaio di Goderville" riprese, interdetta, Giovanna "il notaio di Goderville che viene qui tutti gli anni..." "E' possibile. Io non lo conosco. Volete una camera?" "Sì, signora." Un cameriere si impadronì del bagaglio e salì lo scalone davanti a lei. Lei si sentiva il cuore stretto, e poi si sedette a quel tavolino e pregò che le si portasse un brodo con un'ala di pollo, perché non aveva mangiato nulla dall'alba. E in quella stanza d'albergo, alla luce di una candela, mangiò con tanta tristezza, pensando a mille cose, ricordando il suo passaggio in quella stessa città al ritorno dal viaggio di nozze, le prime manifestazioni del carattere di lui, dello sposo, lo sposo che si rivelava fin da quel primo soggiorno a Parigi. Ma lei a quel tempo era giovane, era fiduciosa, era forte. Ora eccola qui, una povera vecchia impacciata, debole, timida, che sbigottisce e trema per nulla.









Quando ebbe finito, si mise alla finestra a guardare la strada piena di gente. Le sarebbe piaciuto uscire e non osava. Era certa che si sarebbe smarrita. Meglio, meglio dormire; e si coricò soffiando sul lume.









Ma tutto quel brusìo, la sensazione della città sconosciuta, l'agitazione del viaggio, i pensieri, Pollino, Rosalìa, le impedivano il sonno. Le ore passavano, i rumori della strada si attenuavano gradatamente senza che potesse dormire, e quella specie di dormiveglia della grande città la snervava, perché lei era abituata al profondo sonno dei campi che addormenta tutto, gli uomini, le bestie, le piante, e sentiva invece intorno a sé una misteriosa inquietudine. Voci strane, inafferrabili le giungevano come se si fossero insinuate fra i muri, un pavimento scricchiolava, un campanello suonava, una porta si chiudeva: poi, tutt'a un tratto, verso le due del mattino, quando incominciava ad assopirsi, ecco una donna che lancia un grido nella stanza vicina.









Giovanna si sedette spaventata sul letto, ma le parve di sentire invece ridere un uomo. Allora, man mano che l'alba si approssimava, la riassalì il pensiero di Paolo, e non le restava più che aspettare quel primo po' di luce per vestirsi.









Paolo abitava in via del Selvaggio, nella "Cité", e lei si decise a raggiungerla a piedi per obbedire alla sua serva che aveva raccomandato l'economia. Il tempo era buono, l'aria tiepida pungeva un poco la pelle, la gente si ammassava sui marciapiedi camminando rapidamente, e come spronata dall'esempio, affrettava il passo anche lei, seguendo la strada che le avevano appunto indicata e sapendo bene che in fondo a questa via doveva voltare a destra, poi a sinistra, finché, giunta in una piazza, avrebbe dovuto informarsi di nuovo. Ma, che è, che non è, questa piazza non si vede; e si informò da un fornaio che le diede tutt'altre indicazioni. Si rimise in cammino, si sviò, sbagliò, girovagò ancora a casaccio, seguì altri consigli, e si smarrì senza scampo.









Era sul punto di far cenno a un vetturino quando scorse - e le si allargò il cuore - la Senna. E allora camminò sulla riva.









Un'ora dopo, conquistava la via del Selvaggio, una specie di vicolo, un chiasso. E questa era la casa, e la porta. L'emozione fu tanta che non poteva più fare un sol passo. Pollino, il suo Pollino, era qui!



Entrò, seguì un corridoio (le tremavano le ginocchia e le mani), scorse lo sgabuzzino del portinaio, offrì una moneta d'argento.









"Potreste... potreste salire dal signor Paolo di Lamare? Dirgli che una vecchia signora, ecco, un'amica di sua madre, lo attende qui dabbasso?" "Il signor Paolo di Lamare? Ha cambiato casa." Che brivido! Chiese:



"Dove... dove abita adesso?" "Questo poi non lo so." Le parve di svenire. Non aveva più parole. Poi, con uno sforzo violento, si raccapezzò e mormorò:



"Da quando... è partito?" "Saranno quindici giorni" rispose il portinaio decidendosi a fornire abbondanti ragguagli. "Sono partiti una sera come se nulla fosse, e non sono più ritornati. Avevano debiti in tutto il quartiere, e così non hanno lasciato il loro indirizzo." Ora Giovanna vedeva come dei bagliori, grandi guizzi di fiamme, quasi le avessero sparato un colpo di fucile davanti agli occhi; ma c'era un'idea che la sosteneva, e la faceva rimanere in piedi, in quel luogo, calma in apparenza, lucida di mente. Sì, ecco.









Voleva sapere. Voleva ritrovare Pollino.









"Così egli non ha lasciato detto nulla prima di andarsene?" "Nulla. Se ne sono andati per non pagare. Ecco tutto." "Ma dovrà pur mandare a prendere la sua corrispondenza." "Oh sì, una bella corrispondenza! Quella gente non riceveva più di dieci lettere l'anno. Gliene ho portata una quindici giorni prima che se ne andassero..." La sua lettera, sì, la sua lettera! Disse precipitosamente:



"Ascoltate. Io sono sua madre. Sono venuta a cercarlo. Ecco dieci franchi per voi. Se avete qualche notizia, qualche chiarimento, io abito all'"Albergo di Normandia", Via dell'Havre. Sarete ricompensato, brav'uomo." "Signora" egli rispose "potete contare su me." E lei si rimette in cammino senza pensare a una meta, si affretta come sospinta da qualcosa di urgente, sfiora i muri, urta la gente, attraversa la strada, non si cura delle carrozze (e i vetturini la ingiuriano), inciampa sui marciapiedi (non fa attenzione ai marciapiedi), corre qua e là perdutamente. Tutt'a un tratto si trovò in un giardino. Era ormai così stanca che pensò di sedersi, e restò su quella panchina a lungo, piangendo senza accorgersene, e non si accorgeva neppure che qualcuno si fermava a guardarla. Poi sentì un gran freddo e si alzò per rimettersi in marcia. Com'era debole! Com'era accasciata! Le gambe la sostenevano appena. Dov'era una trattoria? Sarebbe entrata a chiedere un brodo. Ma come osare passare la soglia di uno di questi locali? Aveva insieme paura e vergogna, come una specie di pudore del suo affanno, che si vedeva, che doveva pure vedersi sul viso. E si fermava a una porta a vetri, guardava dentro, vedeva tutta quella gente seduta a tavola, tutta quella gente che mangiava e beveva, e fuggiva via intimidita dicendosi: "Entrerò in quest'altra trattoria". E finì col comperare dal fornaio un piccolo pane in forma di luna e lo sbocconcellò camminando. Le venne sete, ma non sapeva dove andare a bere, e non bevve.









Girò un angolo ed eccola in un altro giardino con tanti bei portici intorno. Lo riconobbe: il Palazzo Reale! Allora sedette ancora, nel giardino del Palazzo Reale, perché il sole e il movimento l'avevano un poco accaldata. Ma qua entrava la folla, una folla elegante che chiacchiera, ride e saluta, una folla felice in cui le donne sono tutte belle e gli uomini sono tutti ricchi, la folla che vive solo per l'eleganza e per la gioia. La poveretta fu come impressionata di trovarsi in mezzo a quella gente chiassosa e gaudente e si alzò per fuggire, ma poi sentì improvvisamente che proprio qui avrebbe potuto incontrare il suo Paolo, e si mise a girare per quel giardino cittadino, da un capo all'altro, su e giù, su e giù, col suo passo umile e rapido, spiando i volti, le fisionomie, per ritrovare il suo Paolo. Ma c'era già chi si girava a guardarla, altri se la indicavano quella donnina buffa, e ridevano, così che Giovanna fuggì piena di vergogna pensando che, senza dubbio, quelli si prendevano gioco del suo mantello a scacchi verdi scelto da Rosalìa, fatto dalla sarta di Goderville, sempre sulle indicazioni di Rosalìa.









Ora non osava più chiedere la strada ai passanti; ma poi si decise e finì col trovare il suo albergo. E passò il resto della giornata seduta su una sedia ai piedi del letto, senza mai muoversi. Pranzò come il giorno prima: una zuppa, un piatto di carne. Si coricò come la sera prima: ogni gesto compiuto automaticamente, come dalla macchina dell'abitudine.









Il giorno dopo si recò alla prefettura di polizia perché le ritrovassero suo figlio, e qui se ne sarebbero occupati ma nessuno poté prometterle nulla. E ancora girovagò per le strade, sempre con la speranza di incontrare Pollino, e in quel mare umano si sentiva più sola, più sperduta, più miserabile che nella deserta campagna. Ma quando tornò in albergo, la sera, le fu detto che un uomo aveva chiesto di lei da parte del signor Paolo e che egli sarebbe ripassato domani. Un fiotto di sangue le salì al cuore, non chiuse occhio per tutta la notte. Era lui? Era proprio lui?



Sì, era lui, benché i connotati che le avevano dati non fossero quelli. Verso le nove del mattino, fu bussato alla porta, gridò:



"Entrate!" pronta a slanciarsi con le braccia aperte, e si presentò invece un ignoto, il quale si scusava di dover disturbare la signora ma il portinaio di via del Selvaggio gli aveva indicato l'albergo, e giacché non poteva rintracciare il suo debitore, si rivolgeva giustamente alla madre. La madre sentiva che le venivano le lacrime, ma non voleva che si vedesse e afferrò la carta che colui le porgeva, vi lesse una cifra (novanta franchi) trasse di tasca il danaro, pagò. E non uscì, per quel giorno.









E il giorno dopo se ne presentano altri, tutti creditori di Paolo, al punto che lei dà tutto quel che le resta, e non tiene che venti franchi per sé. Poi scrive a Rosalìa per informarla della sua situazione. Così passò i suoi giorni, attendendo la risposta, senza sapere che fare, come ammazzare le ore, le ore lugubri, le ore interminabili, non avendo nessuno a cui dire una parola amica, nessuno che sapesse della sua disgrazia, e camminava a caso, stimolata ora dall'ansia di partire, di ritornare laggiù nella piccola casa, sul margine della strada solitaria. Oh, la sua piccola casa! Pochi giorni prima le sembrava di non poterci vivere tanto si sentiva povera e triste mentre ora sapeva, ora sapeva che la vera vita era là dove si sono radicate le povere tristi abitudini.









Finalmente, una sera, trovò una lettera di Rosalìa con dentro un po' di denaro:



"Signora Giovanna, ritornate subito, perché io non vi manderò più neppure un centesimo. Quanto al signor Paolo, verrò io a stanarlo quando avremo sue notizie.









"Vi saluto.









Vostra serva Rosalìa."









Giovanna ripartì per Batterville un mattino in cui faceva molto freddo. Nevicava.





















Capitolo 14









Non usci più, non si mosse più. Si alzava tutte le mattine alla stessa ora, guardava dalla finestra che tempo facesse, scendeva e si metteva a sedere vicino al fuoco in saletta. Restava accanto al fuoco intere giornate, immobile, gli occhi fissi sulla fiamma, lasciando vagare i suoi tristi pensieri, seguendo la triste sfilata delle memorie. L'ombra invadeva a poco a poco la piccola stanza senza che si muovesse, fuorché per aggiungere, a intervalli, legna nel caminetto. Rosalìa allora portava la lanterna e gridava:



"Andiamo, su, signora Giovanna. Scuotersi, scuotersi! Altrimenti non avremo appetito nemmeno stasera." Spesso la perseguitavano certe idee fisse, tenaci, o la torturavano preoccupazioni quasi insignificanti, come se le più piccole cose prendessero chi sa quanto spazio nel suo cervello malato. Le accadeva soprattutto di rivivere nel passato, nel vecchio passato, nei ricordi dei primi tempi della sua giovinezza e del suo viaggio di nozze, laggiù, in Corsica. Nascevano improvvisamente davanti a lei, come dai tizzoni del focolare, i paesaggi dell'isola dimenticati ormai da gran tempo, e allora si ricordava tutti i particolari, le figure incontrate laggiù. Tanto la perseguitava la bella testa della guida Giovanni Ravoli che credeva di udire a volte la sua voce.









Poi sognava i dolci anni dell'infanzia di Paolo, quando egli le faceva trapiantare le insalatine e lei si inginocchiava sulla terra grassa, a fianco di zia Lisetta, che rivaleggiava con lei per compiacere il bambino e la lotta era a chi avrebbe fatto germogliare meglio le pianticine, e a chi ne avrebbe ottenute di più. E con appena il soffio del respiro, le sue labbra mormoravano: "Pollino, mio piccolo piccolo Pollino" come se parlasse proprio a Pollino, e fermando le sue fantasticherie su questa parola si sforzava a volte di disegnare col dito nell'aria le lettere che componevano il nome, e le tracciava davanti al fuoco, pian piano, e le sembrava proprio di vederle, finché, credendo di essersi sbagliata, ricominciava la "P" col braccio tutto indolenzito, ridisegnava il nome sino in fondo per ricominciare da capo. Alla fine, quando non ne poteva più, cancellava ogni cosa, tracciava altre parole snervandosi fin quasi a impazzirne.









Aveva tutte le manie dei solitari. La minima cosa fuori posto, un po' più in qua o un po' più in là, la irritava. Spesso Rosalìa la obbligava a camminare e la portava là sulla strada, ma non erano passati venti minuti che Giovanna dichiarava di non poterne più e si sedeva sull'orlo di un fosso. Impigriva, non avrebbe voluto più muoversi, non le piaceva che il letto. Una sola abitudine le era rimasta fin dall'infanzia, ed era di alzarsi di colpo dopo aver bevuto il suo caro caffellatte. Come allora, teneva esageratamente al suo caffellatte, e ne avrebbe sentito la mancanza più di non si sa che. Attendeva ogni mattina Rosalìa con un'impazienza quasi un po' sensuale, attendeva che Rosalìa posasse la tazza sul comodino, per mettersi a sedere sul letto e la vuotava immediatamente, con una golosità di bambina. Poi buttava indietro le coperte e cominciava a vestirsi.









Ma a poco a poco si abituò a fantasticare qualche altro minuto e, dopo aver posato la tazza sul piatto, si stendeva di nuovo prolungando di giorno in giorno quella pigrizia fino al momento che Rosalìa tornava furiosa e la vestiva quasi per forza.









D'altronde, non aveva più un'ombra di volontà, così che se talvolta la sua serva le chiedeva un consiglio o le poneva una questione o voleva informarsi del suo parere, rispondeva invariabilmente: "Fa' come vuoi, figlia mia". Aveva finito col credersi presa di mira dalla cattiva sorte e l'abitudine di veder svanire i suoi sogni e crollare le sue speranze faceva sì che non osasse tentare la più piccola impresa o che esitasse a lungo, intere giornate, prima di fare la cosa più semplice, convinta ormai che si sarebbe messa nella strada peggiore, sempre a suo scorno e a suo danno. E ripeteva:



"Non ho avuto fortuna nella vita." "Ah, non avete avuto fortuna!" gridava allora Rosalìa. "Che direste dunque se vi toccasse lavorare per avere un pezzo di pane?



Se foste obbligata ad alzarvi tutti i giorni alle sei del mattino per andare a giornata? Ci sono pure tante povere donne costrette al lavoro e quando diventano vecchie, crepano di miseria, sapete." "Pensa che sono sola" rispondeva lei dolcemente "pensa che il mio figliolo mi ha abbandonata..." "Questo non vuol dire niente. E i ragazzi che vanno soldati? E quelli che vanno in America?" (L'America era per lei un paese vago dove si andava a far fortuna e da cui non si tornava mai.) "C'è sempre un momento in cui bisogna separarsi perché, sapete, i vecchi e i giovani non sono fatti per restare insieme." E concludeva quasi con ferocia: "Ebbene, che direste se fosse morto?".









Giovanna non aveva allora più niente da aggiungere.









Riacquistò un po' di forza quando l'aria si addolcì sul principio della primavera, ma metteva anche questo ritorno di energia al servizio dei suoi più foschi pensieri. Ma quel giorno che era salita in solaio a cercare qualche cosa ebbe anche la sua gioia aprendo una cassa piena di quei vecchi calendari che la gente di campagna ama conservare di anno in anno: le parve così di ritrovare gli anni stessi del suo passato e fu colpita da una strana e confusa emozione davanti a quel mucchio di cartoni quadrati che rivolle nel suo salottino. Ce n'erano di tutte le dimensioni, piccoli e grandi, e lì, sulla tavola, si mise a ordinarli per anni. Ecco il primo. Ecco quello che aveva portato ai "Pioppi" lei stessa. Eccolo qui, coi giorni cancellati da lei (ricordava, sì, ricordava) il mattino della sua partenza da Rouen, dopo essere uscita dal convento. E pianse, pianse lacrime tristi e lente, lacrime di vecchia, di donna finita, sulla sua povera vita distesa davanti a lei, tutta qui, tutta qui, sulla tavola. E le venne un'idea, e si accanì in questa idea. Voleva ritrovare, giorno per giorno, quel che aveva fatto: giorno per giorno, ricostruire tutta la vita. E li appese al muro, sulla tappezzeria, l'uno dopo l'altro, quei cartoni ingialliti, e passò ore e ore di fronte a questo o a quello chiedendosi: "Che mi è successo dunque in quel mese?". Perché aveva segnato le date memorabili della sua povera storia e riusciva talvolta a ritrovare un mese intero, ricostruendo a uno a uno, raggruppando, riattaccando l'uno all'altro i piccoli fatti che avevano preceduto o seguito un avvenimento importante. Riusciva così, a forza di ostinata attenzione, di volontà concentrata, di testardaggine, perseveranza, sforzi della memoria, riusciva a ristabilire quasi interamente i suoi due primi anni al castello, poiché i ricordi lontani della sua vita le si riaffacciavano con una facilità, un rilievo! Ma gli anni seguenti era come se si perdessero nella nebbia, si mischiassero, si accavallassero l'uno sull'altro, così che restava talvolta ore e ore con la testa piegata verso il calendario, con lo spirito teso verso il passato, senza riuscire a mettere in chiaro se quel tale ricordo potesse essere trovato in quel certo cartone. Girava intorno alla stanza, dall'uno all'altro di questi quadri dei giorni tramontati, fermandosi qua e là come alle stazioni della sua stessa via crucis. Poi, tutt'a un tratto, metteva la sedia davanti a un cartone e rimaneva lì fino a notte, immobile, seduta, sprofondata nelle sue assurde ricerche.









In seguito, quando i semi si risvegliarono sotto il tepore e le messi spuntarono per i campi, gli alberi rinverdirono, i meli aprirono i loro bottoni rosei nei cortili, profumando tutte le strade, allora la poveretta fu tutta in subbuglio. Non poteva più star ferma, andava e veniva, usciva e rientrava, girovagava per la campagna, visitava le fattorie, esaltandosi in una specie di febbrile rimpianto. La vista di una margheritina nascosta in un ciuffo d'erba, di un raggio di sole che scivolava tra le foglie, di una pozza d'acqua in un solco (vi si rispecchiava il cielo turchino), queste e altre cose la commuovevano, la intenerivano, la sconvolgevano, le risvegliavano sensazioni lontane, come un'eco delle sue emozioni di fanciulla quando andava sognando per i campi. Oh, sì, erano gli stessi fremiti, era la stessa dolcezza, la stessa ebbrezza perturbatrice degli altri giorni primaverili, quando attendeva l'avvenire, e ora che l'avvenire era chiuso riaveva tutto, tutto! Ne gioiva e ne soffriva allo stesso tempo, come se la gioia eterna del mondo risvegliato, penetrando nella sua pelle avvizzita, nel suo sangue gelato, nella sua anima vinta, non vi potesse più infondere che un incanto debole e dolente.









Le sembrava, anche, che qualcosa fosse cambiata intorno a lei, dappertutto. Il sole doveva essere un po' meno caldo che nei giorni della sua giovinezza, il cielo un po' meno azzurro, l'erba un po' meno verde, e quanto ai fiori, erano sicuramente più pallidi, meno odorosi e non inebriavano più come allora. E tuttavia, qualche volta, la prendeva un tale benessere di vita, che ricominciava a fantasticare, a sperare, ad attendere, perché... perché è mai possibile che, non ostante la crudeltà della sorte, non si possa sognare ancora quando fa bello? E andava, andava per ore e ore come sferzata dall'eccitazione della sua anima, e si fermava di colpo sedendosi sull'orlo della strada a ripensare sempre le stesse cose: perché non era stata come le altre? perché non aveva avuto anche le semplici gioie di un'esistenza tranquilla? E per un momento dimenticava di essere vecchia, di non aver più nulla davanti, fuorché qualche anno lugubre e solitario; dimenticava che la sua strada era già stata percorsa e faceva come un tempo, come a sedici anni, tanti progetti dolci al suo cuore, vagheggiando così l'avvenire. Poi era come se le piombasse sopra, crudelmente, la sensazione della realtà, si rialzava esaurita come se un peso le avesse spezzato le vene e diceva a se stessa: "Oh vecchia pazza! vecchia pazza!" riprendendo, più lentamente, la via della casa.









Adesso Rosalìa non si stancava di ripetere:



"Ma mettetevi un po' tranquilla! Che cos'avete che non state mai ferma?" "Che vuoi?" rispondeva lei tristemente. "Sono come Massacro nei suoi ultimi giorni." Quella mattina Rosalìa entrò in camera prima del solito e depose sul comodino la gran tazza del caffellatte:



"Andiamo, bevete in fretta. Dionigi è giù che ci aspetta. Si va ai "Pioppi" perché ho qualcosa da fare laggiù." Giovanna credette di svenire per la commozione, e si vestì debole, ansimante, smarrita al pensiero di rivedere la sua cara casa, i suoi "Pioppi".









Era una bella giornata, c'era un cielo radioso, e anche il ronzino, come contagiato dall'allegria di stagione, se ne andava quasi al galoppo. Quando si accorse di essere entrata nel comune di Étouvent, Giovanna credette di respirare a fatica tanto era il sussulto del cuore; e quando vide le colonnine del cancello disse due o tre volte, senza volerlo, fra sé: "Oh! oh! oh!" come davanti alle cose che scompigliano o esaltano il cuore.









Si staccò il cavallo dai Couillard e Rosalìa e il figliolo andarono per i fatti loro mentre i fattori proponevano a Giovanna di approfittare dell'assenza dei padroni per rivedere il castello:



ed ecco il mazzo di chiavi. Giovanna andò sola, e quando fu dinanzi all'antica dimora, verso la parte del mare, si fermò stupita a guardarla, benché nulla fosse cambiato al di fuori. Il vasto fabbricato grigio aveva quel giorno come dei sorrisi di sole su per i vecchi muri dove tutte le imposte erano chiuse.









Un ramoscello secco cadde sulla sua veste; Giovanna alzò gli occhi: era caduto dal platano! S'avvicinò al grande platano dalla scorza pallida e liscia: l'accarezzò come se fosse un animale. Il piede urtò, nell'erba, un pezzetto di legno marcito: era l'ultimo avanzo della panchina dove si era seduta così spesso coi suoi:



ricordò che la panchina era stata messa qui, sotto il platano, lo stesso giorno della prima visita di Giuliano. Raggiunse così la doppia porta del vestibolo, ma non riusciva ad aprire questa porta (la chiave arrugginita non girava nella serratura, che finì per cedere con un acuto stridore di molle) e servì anche una spinta per il battente rimasto. Immediatamente Giovanna salì correndo alla sua antica stanza da letto. Ma... era questa, questa? Non la riconobbe. Era tutta un'altra stanza, tappezzata con una carta chiara... Eppure le bastò aprire una finestra per sentirsi commossa fin nel profondo dell'anima davanti al suo amato orizzonte, e poi il boschetto e gli olmi e la landa e il mare tutto disseminato di vele brune che sembravano immobili laggiù.









Allora si mise a girare da padrona nella grande casa vuota.









S'incantava a guardare sui muri certe macchie familiari ai suoi occhi, e si arrestò davanti a un piccolo buco fatto dal papà in una parete, sì, dal papà che si divertiva spesso, in ricordo della sua giovinezza, a tirar di scherma col suo bastone, colpendo appunto questa parete quando passava di qui. Ma che cosa trova mai nella stanza di mamma! Una spilla sottile dalla capocchia d'oro appuntata dietro una porta, in un angolo oscuro presso il letto, ed è proprio la spilla (ora se ne ricorda) che mammina vi ha infisso una volta e poi ha cercato invano per anni. Nessuno l'ha scoperta, dei nuovi! E se la prende come una reliquia, e come una reliquia la bacia.









Metteva il naso dovunque, braccava e cercava segni quasi invisibili nelle tappezzerie delle camere che erano rimaste intatte, rivedeva quelle figure bizzarre che la fantasia vede spesso nei disegni delle stoffe e dei marmi o nelle ombre dei soffitti macchiati dal tempo. Camminava a passi silenziosi, sola nel grande e muto castello, come attraverso un cimitero. La sua vita era qui, tutta qui! Ma il salone era cupo nell'ombra delle imposte chiuse, e Giovanna guardava e si girava intorno senza distinguere nulla, finché a poco a poco il suo sguardo si abitua all'oscurità e riconosce le tappezzerie, quelle su cui sono disegnati gli uccelli che svolazzano. Due poltrone restavano davanti al camino come se le avessero lasciate allora allora; e poi c'era l'odore della stanza, un odore che il salone aveva sempre avuto come ogni essere ha il suo, un odore vago e tuttavia percettibile, quel sentore impreciso dei vecchi appartamenti; qualcosa che penetrava adesso Giovanna e l'avviluppava di ricordi e la inebriava. E così era tutta ansimante a respirare quell'alito di passato, cogli occhi fissi su quelle due poltrone: finché improvvisamente, in un'allucinazione precipitosa nata dalla sua idea fissa, credette di vedere, vide, come li aveva sempre veduti, suo padre e sua madre che si scaldavano i piedi accanto al fuoco.









Indietreggiò spaventata, urtò col dorso nello stipite della porta, si appoggiò per non cadere: ma non poteva distogliere gli occhi!



La visione era scomparsa. Dopo quello smarrimento, riprese il dominio di se stessa e pensò di fuggire per paura della follia. Ma il suo sguardo cadde per caso sullo zoccolo a cui si appoggiava e vide... la "scala di Pollino"! Ecco i piccoli segni che salivano su per la pittura a regolari intervalli, ecco le cifre segnate a matita che indicavano l'età, i mesi, la statura crescente del figlio. Talvolta era la scrittura del nonno, più grossa, talvolta la sua, un po' più piccola, talvolta quella della zia Lisetta, un po' tremolante, e le parve che il ragazzo di allora fosse qui davanti a lei, coi suoi capelli biondi, con la piccola fronte contro il muro, così, certo, perché lo misurassero. Il nonno gridava: "Giovanna, è cresciuto di un centimetro in sei settimane!". E allora, con una frenesia amorosa, la poveretta si mise a baciare lo zoccolo mentre di fuori Rosalìa chiamava:



"Signora Giovanna, signora Giovanna! Venite dunque! V'aspettano per far colazione!" Uscì con la mente sconvolta e da quel momento nulla capì e nulla seppe: non capì nulla di quel che le dicessero, mangiò quello che le servirono, ascoltò parlare senza sapere di che si parlasse, parlò senza dubbio coi fattori che si informarono della sua salute, si lasciò baciare, baciò lei stessa delle guance che le si offrirono, risalì finalmente in carrozza. E quando perdette di vista, attraverso gli alberi, l'alto tetto del castello, sentì nel cuore uno schianto. Ecco, sì, aveva dato alla sua casa l'ultimo addio.









Mentre stava per rientrare in quest'altra casa di Batterville, scorse qualcosa di bianco, sotto la porta: era una lettera che, durante la sua assenza, il postino aveva cercato di infilare in quella fessura. Paolo, Paolo! Aveva scritto Paolo. Era una lettera di Paolo. L'aprì, tremando d'angoscia. Diceva Paolo:



"Mia cara mamma, non t'ho più scritto perché non volevo farti fare un viaggio inutile a Parigi, dovendo io stesso venire da te da un momento all'altro. In questo momento una grande disgrazia mi colpisce, e mi trovo pure in seri imbarazzi. Quella poveretta è moribonda dopo aver dato alla luce una bambina, tre giorni fa, in una casa dove non c'è il becco d'un quattrino. Io non so che fare della neonata che, per ora, la portinaia alleva come può (col poppatoio), ma ho una gran paura di perderla. Non potresti incaricartene tu? Io non so assolutamente dove sbattere la testa per metterla a balia.









Rispondi per mezzo del corriere.









Tuo affezionatissimo figlio.









Paolo."









Giovanna, accasciata su una sedia, aveva appena la forza di chiamare Rosalìa. Poi rilessero insieme la lettera e non si dissero nulla per lungo tempo, sempre restando l'una di fronte all'altra. "Vado io a cercare la bambina" disse infine Rosalìa.









"Non si può lasciarla così." "Va', va', figlia mia." "Mettete il vostro cappello" riprese Rosalìa. dopo una pausa.









"Bisogna andare a Goderville dal notaio. Se l'altra muore, bisogna pure che il signor Paolo la sposi. Per la piccina, per dopo, che diamine!" Giovanna, senza dire nulla, si mise il suo cappellino. Era felice.









Che è, che è questa gioia profonda e quasi inconfessabile che inonda il suo cuore? E' una gioia perfida, una gioia da nascondersi ad ogni costo, una di quelle felicità abominevoli di cui si arrossisce, ma delle quali si gode ardentissimamente in segreto, giù, giù nel segreto misterioso dell'anima: quella donna, l'amante di suo figlio, che sta per morire!



Il notaio diede a Rosalìa molte indicazioni particolareggiate che lei si fece ripetere più volte. E la bravissima serva, dopo aver dichiarato (sicura di non commettere spropositi): "Non temete di nulla, mo' me ne incarico io" partì la notte stessa per Parigi.









Giovanna passò due giorni in un tumulto dell'anima che la rendeva incapace di qualsiasi riflessione o pensiero. Il terzo giorno ricevette due sole righe di Rosalìa che le annunciava il suo ritorno col treno della sera, e niente altro. Verso le tre, con la carrozzella di un vicino, si fece condurre alla stazione di Beuzeville, e lì aspettò la sua serva, ritta sul marciapiedi, lo sguardo fisso sulla linea diritta delle rotaie che fuggivano e si avvicinavano in fondo all'orizzonte, laggiù. Di quando in quando guardava l'orologio. Che ora è? Oh, ancora dieci minuti. Cinque minuti. Due minuti. E' l'ora. Ma sì, non è l'ora?



Non si scorgeva nulla sulla via lontana. Ma tutt'a un tratto ecco una macchia biancastra, ecco il fumo e sotto il fumo un punto nero che ingrandisce ingrandisce, corre corre. Ora la grossa macchina rallenta, passa davanti a Giovanna, come ansando e russando, e Giovanna tiene d'occhio gli sportelli che si aprono qua e là lasciando giù borghesi in cappello floscio, contadini in blusa, fattori, panieri. Oh Rosalìa! Rosalìa con quella specie di fagottino candido in braccio...









Giovanna corse incontro alla serva, ma quasi cadeva, tanto le sue gambe erano diventate deboli, molli. Rosalìa aveva visto benissimo e raggiunse con la sua bella calma la signora.









"Buon giorno, buon giorno. Eccomi di ritorno. Che fatica!" "Ebbene?" "Ebbene... la madre è morta stanotte. Si sono sposati. Ecco qua la piccina." E porse il marmocchio invisibile, quella specie di piccolo involto. Giovanna lo prese macchinalmente e le due donne uscirono dalla stazione per salire insieme in carrozza.









"Il signor Paolo" riprese Rosalìa "verrà dopo i funerali, forse domani a quest'ora." Giovanna mormorò: " Paolo..." e non seppe dire altro.









Il sole calava verso l'orizzonte, inondava di luce i piani verdeggianti, macchiati qua e là dall'oro dei navoni fioriti, dal sangue dei fiori di papavero. Una quiete infinita si stendeva sulla terra pacificata in cui germogliavano le sementi. Il contadino schioccava la frusta per eccitare il suo cavallino e la carrozza andava di gran trotto.









Giovanna guardava davanti a sé nell'aria e nel cielo tagliato come da frecciate di rondini e le sembrava tutt'a un tratto che un dolce calore, un calore di vita, le attraversasse le vesti, raggiungesse le gambe, penetrasse nella carne: oh, era il calore del piccolo essere che le dormiva in grembo, qui, qui! E fu un'emozione infinita. Con un moto istintivo, scoprì la faccina che non aveva ancor vista: ecco, ecco, la figlia del figlio. E come la fragile creatura, colpita dalla luce viva, apriva i suoi occhi turchini con una piccola smorfia, Giovanna se la strinse al petto, appassionata, furiosa, l'alzò sulle braccia e si diede a baciarla senza remissione, anzi a mangiarla di baci.









Rosalìa la fermò. "Andiamo, signora" fece Rosalìa brusca brusca, ma in fondo contenta. "Finirete col farla strillare." Poi aggiunse, rispondendo senza dubbio ai suoi propri pensieri:



"La vita, vedete, non è né così bella né così brutta come si crede."

F I N E

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