Jerome Klapka Jerome (Walsall, 2 maggio 1859 - Northampton, 14 giugno 1927) è stato uno scrittore, giornalista e umorista britannico.
Il suo nome è soprattutto associato alla sua opera più famosa, il romanzo umoristico Tre uomini in barca. È ritenuto tra i maggiori scrittori umoristici inglesi. Lontano dai modi della farsa, del facile gioco di parole, dell'allusione oscena, il suo umorismo scaturiva anche dall'osservazione dalle situazioni più comuni e quotidiane.
Cresciuto a Londra con una famiglia povera in un'area disagiata dell'East End iniziò a lavorare giovanissimo, facendo vari mestieri; fu impiegato, insegnante e attore. Poco dopo il fallimento della sua compagnia teatrale, spinto dalla disperazione combatté la miseria scrivendo articoli umoristici per pochi soldi, finché la rivista The Play pubblicò alcuni racconti sulla sua carriera di attore.
A questa seguirono molte opere, nel primo periodo solo umoristiche, stroncate dalla critica dell'epoca, ma divorate dal pubblico suo coevo. Tra di esse le più note sono la raccolta di racconti Pensieri oziosi di un ozioso e il romanzo Tre uomini in barca (per tacere del cane).
Con Robert Barr fu condirettore del giornale The Idler e poi direttore del To-Day.
Nel 1900 pubblicò Tre uomini a zonzo, altro grande successo, seguito del primo romanzo. Da questo romanzo in poi la sua vena si fece più meditativa ma i successi non diminuirono.
Jerome, ormai divenuto famoso, iniziò a tenere conferenze in tutto il mondo. Pacifista, si arruolò nella prima guerra mondiale come autista di ambulanze della Croce Rossa. Nel 1919 rilasciò una delle sue opere più cupe, Tutte le vie conducono al calvario. La sua ultima opera sarà l'autobiografia La mia vita e i miei tempi nel 1926.
Jerome morì per un ictus a Northampton il 14 giugno 1927
JEROME K. JEROME
TRE UOMINI
IN UNA BARCA
(per tacer del cane)
Il romanzo, uscito nel 1889, nacque originariamente come opera contenente notizie storico-letterarie, utili per una guida turistica, e avrebbe dovuto intitolarsi La storia del Tamigi. L'editore fece tagliare le divagazioni storico culturali, creando i presupposti per l'enorme successo del libro, snellito rispetto al racconto originale, ma pieno di gag umoristiche. L'opera vendette un milione e mezzo di copie nella sola Gran Bretagna.
Versione di SILVIO SPAVENTA FILIPPI
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PREFAZIONE.
Non nello stile o nell’abbondanza e nell’utilità delle sue notizie, ma nella sua veracità
assoluta consiste la bellezza di questo libro. Son pagine, queste, che registrano eventi realmente
accaduti e che io non ho fatto che colorire, senza, per questo, aggiungervi un sovrapprezzo.
Giorgio, Harris e Montmorency non sono ideali poetici, ma esseri di carne e d’ossa —
specialmente Giorgio, che oltrepassa il quintale di sedici chili. Altri lavori possono rivaleggiar
con questo per profondità di pensiero e penetrazione della natura umana; altri libri possono
superarlo per originalità e lucentezza di forma; ma nulla ancora è stato scoperto che possa
sorpassarlo in incurabile sincerità. S’intende che questo, più di tutti gli altri pregi, lo renderà
prezioso agli occhi del lettore serio, e darà maggiore importanza alla morale della storia.
Londra, agosto del 1889.
J. K. JEROME.
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CAPITOLO I.
Tre invalidi. — Sofferenze di Giorgio e Harris. — Una vittima di centosette fatali malattie. —
Prescrizioni utili. — Cura della malattia di fegato nei ragazzi. — Concludiamo che lavoriamo
troppo e abbiamo bisogno di riposo. — Una settimana sulla profondità liquida. — Giorgio
consiglia il Tamigi — Montmorency affaccia un’obiezione. — La mozione approvata a
maggioranza.
Eravamo in quattro: Giorgio, Guglielmo Samuele Harris, io e Montmorency. Seduti nella
mia stanza, si fumava e si parlava di come stessimo male... male, intendo, rispetto alla salute.
Ci sentivamo tutti sfiaccati e ne eravamo impensieriti. Harris diceva che a volte si sentiva
assalito da tali strani accessi di vertigine, che sapeva a pena che si facesse; e poi Giorgio disse
che anche lui era assalito da accessi di vertigine e appena sapeva anche lui che si facesse. Io poi
avevo il fegato ammalato. Sapevo di avere il fegato ammalato, perchè avevo appunto letto un
annuncio di pillole brevettate nel quale si specificavano minutamente i vari sintomi dai quali il
lettore poteva arguire d’avere il fegato malato. Io li avevo tutti.
È strano, ma non mi avviene mai di leggere un annuncio di specialità brevettate, senza
sentirmi tratto alla conclusione d’essere affetto dalla peculiare malattia — nella sua forma più
virulenta — che forma il soggetto dell’annuncio. A ogni modo, la diagnosi par che corrisponda
sempre esattamente a tutte le mie particolari sensazioni.
Ricordo d’esser andato un giorno al British Museum a leggere il trattamento di un piccolo
malanno del quale avevo qualche leggero attacco — credo che fosse la febbre del fieno. Mi feci
dare il libro, e lessi tutto quello che dovevo leggere; e poi, in un momento d’oblio, voltai
oziosamente le pagine e cominciai a studiare indolentemente le malattie in generale. Non
ricordo più il primo morbo nel quale m’immersi — so che era un pauroso flagello devastatore
— e prima che avessi dato un’occhiata a una metà della lista dei «sintomi premonitori», ero già
bell’e convinto di esserne affetto.
Rimasi per un po’ agghiacciato d’orrore; e poi, nell’incuranza della disperazione, mi misi
a voltare le altre pagine. Arrivai al tifo — ne lessi i sintomi — scopersi d’averlo (dovevo averlo
da mesi senza saperlo) — mi domandai che altro avessi; incontrai il ballo di San Vito — trovai,
come m’aspettavo, d’avere anche quello, — cominciai a interessarmi al mio caso, e risoluto
d’andare fino in fondo, cominciai per ordine alfabetico — lessi della malaria e appresi che ne
ero affetto e che la fase acuta sarebbe cominciata fra una quindicina circa. Mi consolai trovando
che l’albuminuria l’avevo soltanto in forma attenuata, e che quindi, per quel che mi riguardava,
sarei potuto vivere ancora anni e anni. Avevo il colera con gravi complicazioni; e sembra che
con la difterite ci fossi nato. Percorsi faticosamente e coscienziosamente tutte quante le lettere
dell’alfabeto, e potei concludere che l’unica malattia che non avessi era il ginocchio della
lavandaia.
A questo sulle prime mi sentii un po’ offeso; mi sembrava che la cosa implicasse una
specie di dispregio. Perchè non avevo il ginocchio della lavandaia? Perchè questa oltraggiosa
distinzione? Dopo un poco, però, prevalsero dei sentimenti meno esclusivi. Pensai che avevo
tutte le malattie note in farmacologia, e divenni meno egoista, e risolsi di fare a meno del
ginocchio della lavandaia.
Pareva che la gotta, nella sua fase più maligna, mi avesse invaso senza che me ne fossi
accorto; e che avessi sofferto di zona fin dall’infanzia. Non v’erano altre malattie dopo la zona;
e così conclusi che non avevo altro.
Mi misi a riflettere. Pensai che cosa interessante dovessi essere dal punto di vista medico,
e che fortuna sarei stato per tutta la facoltà. Se gli studenti avessero potuto studiarmi, non
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avrebbero avuto bisogno di frequentare gli ospedali. Ero io tutto un ospedale. Non avrebbero
dovuto far altro che girarmi un po’ intorno e, dopo, farsi dare la laurea.
Allora mi domandai quanto avessi ancora da vivere. Provai a visitarmi. Mi tastai il polso.
In principio non mi riuscì di percepirlo. Poi, a un tratto, mi sembrò di avvertirlo. Cavai
l’orologio e contai: calcolai cento quarantasette pulsazioni al minuto. Tentai di sentir quelle del
cuore: non ci riuscii. Il cuore non batteva più. D’allora sono stato indotto a pensare che frattanto
ci fosse e che dovesse pur battere; ma non posso garantirlo. Mi palpai tutta la fronte, e dalla vita
alla testa, e vagai un po’ da un fianco all’altro, e un pochino su per la schiena. Ma non mi riuscì
di sentire e udire nulla. Tentai di guardarmi la lingua. La cacciai fuori finchè mi fu possibile, e
chiusi un occhio, cercando di esaminarla con l’altro. Ne potei vedere solo la punta, e l’unico
vantaggio che n’ebbi fu di sentirmi più che certo d’aver la scarlattina.
Ero entrato in quella sala di lettura felice e pieno di salute, e ne uscivo come un
miserabile cencio.
Andai dal mio medico, che è mio buon amico, mi tasta il polso, mi guarda la lingua, e
chiacchiera con me del tempo gratuitamente, quando m’immagino di sentirmi male. Pensai che
gli avrei fatto piacere andando allora da lui. «Ciò di cui un dottore abbisogna», mi dissi, «è la
pratica. Egli avrà me. Farà più pratica con me che con duemila dei soliti malati, che hanno al
massimo due o tre malattie per ciascuno». Lo trovai, ed egli mi disse:
— Bene, che c’è?
— Non ti farò perder tempo, caro amico — risposi — col farti l’elenco di ciò che ho. La
vita è breve, e tu potresti andartene, prima che io avessi finito. Ti dirò invece quello che non ho.
Non ho contratto il ginocchio della lavandaia. Non capisco perchè non ho il ginocchio della
lavandaia; il fatto sta che non l’ho. Ma tutto il resto l’ho.
E gli narrai come avessi fatto la scoperta. Allora egli m’aperse la bocca, e mi guardò
dentro, m’afferrò il polso, mi picchiò il petto quando non me lo aspettavo — un atto abbastanza
vile, debbo dire — e immediatamente dopo mi colpì con una zuccata. Dopo, si sedè a scrivere
una ricetta, la piegò, me la diede, e io me la misi in tasca e me ne andai.
Non mi venne in mente di aprirla. La portai dal farmacista più vicino, e gliela consegnai.
Il farmacista la lesse, e poi me la diede indietro.
Disse che quella roba non la teneva. Io domandai:
— Non fate il farmacista?
Mi rispose:
— Faccio il farmacista. Se fossi un magazzino cooperativo o un ristorante per famiglie,
sarei in grado di servirvi. Ne sono impedito dall’essere soltanto farmacista.
Lessi la ricetta. Diceva:
«1 libbra di bistecche con
1 pinta di birra amara ogni sei ore.
1 passeggiata di dieci miglia tutte le mattine.
1 letto alle 11 in punto tutte le sere.
E non t’ingombrare la testa di cose che non capisci».
Seguii quelle istruzioni, col felice risultato — parlando per conto mio — che mi fu
conservata la vita e continua ancora.
Nel caso presente, per ritornare all’annuncio delle pillole per il fegato, io avevo i sintomi
d’una malattia di fegato, dei quali il principale era «una generale svogliatezza al lavoro di
qualunque specie».
Quel che io soffro a questo riguardo nessuna lingua può dire. Dalla mia primissima
infanzia sono stato un martire della svogliatezza. Ragazzo, la malattia non mi lasciò libero
neppure una giornata. Chi sapeva, allora, che era il fegato? La scienza in quei tempi era molto
meno progredita, e in casa solevano battezzarla pigrizia!
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— Bene, pigraccio — mi dicevano — alzati e mettiti a fare qualcosa; — non sapendo,
naturalmente, ch’io ero malato.
E non mi si davano pillole, ma scapaccioni. E, per quanto possa apparir strano, quegli
scapaccioni spesso mi curavano... per il momento. E so che uno scapaccione faceva allora
effetto sul fegato, e mi metteva più voglia di andare difilato dove dovevo andare e di fare ciò
che doveva esser fatto, senza perder tempo, che non ora tutte le pillole dell’universo.
Si sa bene, spesso è così: i semplici rimedi d’una volta talvolta riescono più efficaci di
tutti gl’intrugli delle farmacie.
Rimanemmo lì una mezz’ora a descriverci a vicenda le nostre malattie. Io spiegai a
Giorgio e a Guglielmo Harris come mi sentivo quando la mattina mi levavo, e Guglielmo
Harris ci disse come si sentiva quando andava a letto; e Giorgio, che era sdraiato sul tappeto
accanto al caminetto, ci diede una bella e magnifica rappresentazione di come si sentiva la
notte.
Giorgio immagina d’essere malato; ma dovete sapere ch’egli non ha assolutamente nulla.
A questo punto picchiò all’uscio la signora Poppets per sapere se non volessimo andare a
cena. Ci scambiammo l’un l’altro un triste sorriso, e ci dicemmo che forse sarebbe stato meglio
provare a buttar giù un boccone. Harris aggiunse che un pezzettino di qualche cosa nello
stomaco spesso tiene a freno un malanno; e la signora Poppets ci portò il vassoio in tavola, e
noi ci avvicinammo, baloccandoci con qualche bistecchina con le cipolline, e qualche tartina.
Mi dovevo sentire una gran debolezza quella sera, perchè dopo la prima mezz’ora a un di
presso, non avevo più voglia di nulla — cosa insolita per me — tanto che non assaggiai
neanche il formaggio.
Compiuto il nostro dovere, ci riempimmo i bicchieri, accendemmo le pipe, e ripigliammo
la discussione sulle nostre condizioni di salute. Nessuno di noi era certo di ciò che in quei
giorni lo tormentava, ma fu opinione unanime che — qualunque cosa, fosse — era effetto del
troppo lavoro.
— Noi abbiamo bisogno — disse Harris — di riposo.
— Di riposo e d’un mutamento completo — aggiunse Giorgio. — Lo sforzo sul nostro
cervello ha prodotto una depressione generale in tutto l’organismo. Il cambiamento d’aria e
l’assenza della necessità di pensare ci ridaranno l’equilibrio mentale.
Giorgio, che ha un cugino indicato sul libro nero come studente di medicina, ha quindi
contratto una certa abitudine di esporre le cose in maniera alquanto scientifica.
Convenni con Giorgio, e suggerii che dovevamo scovare qualche punto deserto e ignoto,
lontano dalla folla matta e frettolosa, e passar in quei sentieri sonnolenti una settimana piena di
sole — un posticino obliato nascosto dalle fate, irraggiungibile dal mondo — qualche strano
nido accoccolato sulle rupi del tempo, dove l’eco delle incalzanti onde del secolo decimonono
non giungesse che remoto e fievole.
Harris disse che un posto simile sarebbe stato scomodo. Sapeva ciò che io intendevo: un
luogo dove si andava a letto con le galline, dove non si poteva avere una indiscrezione neanche
a pagarla un occhio, e bisognava fare dieci miglia a piedi per farsi la provvista di tabacco.
— No — disse Harris — per godere un po’ di riposo e cambiar d’aria, non c’è nulla di
meglio d’un viaggio di mare.
Io mi opposi vivamente al viaggio di mare. Un viaggio di mare giova quando si tratta
d’un paio di mesi, ma per una settimana non è affatto indicato.
Si parte il lunedì con l’idea fondata d’andare a divertirsi. Si dà un allegro addio agli amici
sulla riva, si accende la pipa più grossa e si vacilla su per il ponte, come se si fosse il capitano
Cook, sir Francesco Drake e Cristoforo Colombo concentrati in una persona sola. Il martedì si
vorrebbe non esser partiti. Il mercoledì, il giovedì e il venerdì, si vorrebbe piuttosto esser morti!
Il sabato si è in grado d’inghiottire un po’ di brodo, di sedere sul ponte, e di rispondere con un
debole, dolce sorriso alle persone gentili che s’informano del nostro stato di salute. La
domenica cominciate a far due passi, e a inghiottire un po’ di cibo. E il lunedì mattina, quando,
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con la valigia e l’ombrello in mano, ve ne state contro il parapetto in attesa di sbarcare, il
viaggio comincia a piacervi.
Ricordo mio cognato che, per salute, fece una volta un breve viaggio di mare. Comprò un
biglietto d’andata e ritorno Londra-Liverpool; e quando arrivò a Liverpool l’unico desiderio che
aveva era di vendere il ritorno.
Seppi che andò in giro per venderlo a enorme ribasso! e per caso potè sbarazzarsene per
trentasei soldi a un giovane d’aspetto bilioso che era stato appunto consigliato a girare in mare e
a far moto.
— Il mare! — disse mio cognato, mettendogli in mano affettuosamente il biglietto; — ne
avrete tanto da durarvi tutta la vita, e quanto a far moto!... farete più moto stando su quel
bastimento, di quanto mai ne fareste sulla terra asciutta, a esercitarvi nei salti mortali.
Quanto a lui — mio cognato — ritornò in treno, perchè, com’egli mi disse, la strada
ferrata gli faceva assai bene.
Conobbi un’altra persona che fece un viaggio lungo la costa. Prima della partenza gli si
presentò il dispensiere a domandargli se intendesse pagare il pasto ogni volta o pagare
anticipatamente tutti i pasti.
Il dispensiere gli raccomandò quest’ultimo modo, perchè avrebbe risparmiato molto. Si
trattava di cinquantotto lire per tutta la settimana. Colazione della mattina: pesce, seguito da
arrosto ai ferri; seconda colazione all’una, di quattro piatti. Desinare alle sei: minestra in brodo,
pesce, intramesso filetto, pollo, insalata, dolce, formaggio e frutta. E un pasto leggero alle dieci.
Il mio amico, che era una famosa forchetta, scelse di pagare le cinquantotto lire.
Appunto al largo di Sheerness fu servita la seconda colazione. Non si sentì così affamato
come si doveva sentire, e si limitò a un pezzettino di manzo allesso e a un po’ di fragole alla
panna. Ponderò molto durante il pomeriggio, talvolta con la sensazione di non aver mangiato
altro che allesso di manzo da settimane, e talvolta di non aver vissuto che di fragole alla panna
da secoli.
Neppure il manzo e le fragole alla panna, da parte loro, sembravano soddisfatte: si
mostravano parimenti malcontente.
Alle sei andarono ad annunciargli che il desinare era pronto. L’annuncio non suscitò in lui
alcun entusiasmo; ma, comprendendo che v’era da consumare un po’ delle sue cinquantotto
lire, andò da basso, sostenendosi alle gomene e agli altri oggetti che gli venivano sotto mano.
Un gradito odore di cipolline e di salame caldo, insieme con quello del fritto di pesce e della
verdura stufata, lo salutò in fondo alla scaletta; e poi il dispensiere gli si presentò con un sorriso
untuoso, dicendo:
— Desidera, il signore?
— Di andarmene via di qui — rispose fiocamente l’amico mio.
E lo portarono via in fretta in fretta, e lo appoggiarono a qualche cosa, sottovento, dove lo
lasciarono.
I quattro giorni seguenti egli visse una semplice e irreprensibile vita, alimentandosi di
biscotti sottili e d’acqua di soda; ma verso il sabato, si sentì meglio, e cominciò ad assaporare il
tè debole coi crostini, e il lunedì s’ingozzava già di ristretto di pollo. Lasciò il battello il
martedì, e mentre esso s’allontanava in mare fumando, l’amico mio dal punto dello sbarco lo
seguì con uno sguardo pieno di rimpianto.
— Ecco che se ne va — egli mormorò — ecco che se ne va con cinquantotto lire di vitto
che m’appartengono e che io non ho consumate.
Disse che con un altro giorno di tempo avrebbe fatto partita pari.
Così io mi opposi al viaggio di mare. Non, come spiegai, per me, giacchè non ero mai
strano e fantastico, ma per téma di Giorgio. Giorgio disse che quanto a lui gli sarebbe piaciuto,
ma che consigliava me e Harris di non pensarci, perchè era certo che noi ci saremmo sentiti
male. Harris osservò che per lui era un mistero come mai avvenisse a tanti di soffrire il mal di
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mare — forse lo facevano a bella posta, per affettazione. Lui, per quanto ci si fosse provato,
non ci era mai riuscito.
Poi ci narrò degli aneddoti su quelle volte che aveva attraversato il Canale in tempesta, e
che si dovevano legare i passeggeri nelle cabine, mentre lui e il capitano erano le sole anime
vive a bordo rispettate dal male. Talvolta era soltanto lui col secondo, bene in gamba; ma
generalmente si trattava di lui e di un altro. Se non di lui e di un altro, allora di lui solo.
Strano, ma nessuno ha il mal di mare... a terra. In mare, s’incontrano a iosa persone
veramente in cattive condizioni; se ne incontrano bastimenti pieni; ma in terra non ho ancora
incontrato alcuno che sappia che cosa sia il mal di mare. Dove le migliaia e migliaia di cattivi
marinai, che sciamano in ogni bastimento, si nascondano quando sono in terra è per me un
mistero.
Se la maggior parte fossero come un tale che io vidi un giorno sul battello di Yarmouth,
questo apparente enigma potrebbe essere facilmente spiegato. Fu al largo del molo di Southend,
ricordo, ed egli si chinava fuori d’uno dei finestrini del bastimento in atteggiamento pericoloso.
Corsi da lui per tentar di salvarlo.
— Ehi, venite dentro — dissi, scotendolo per le spalle. — Cadrete in mare.
— Dio volesse — fu la sola risposta che riuscii a cavargli di bocca; e dovetti lasciarlo lì.
Tre settimane dopo, nella sala del caffè d’un albergo di Bath, lo incontrai che parlava dei
suoi viaggi e spiegava, con entusiasmo, come fosse appassionato del mare.
— Buon marinaio! — rispose a una domanda di un mite giovane che lo guardava con
occhi ammirati. — Pure una volta, lo confesso, mi sentii un po’ sconcertato. Fu al largo del
capo Horn. La mattina appresso il battello era naufragato.
Gli domandai:
— Un giorno non vi sentiste un po’ scosso presso il molo di Southend, tanto da desiderare
d’essere gettato in mare?
— Il molo di Southend! — mi rispose con un’espressione impacciata.
— Sì, andando a Yarmouth, tre settimane fa. Era di venerdì.
— Ah, oh... sì — rispose, irradiandosi; — ora ricordo. Avevo un mal di testa quel giorno.
Avevo fatto indigestione di sottaceti. I sottaceti più orribili che io avessi mai mangiati in un
battello rispettabile. E voi non li avevate assaggiati?
Per conto mio, io ho scoperto, nell’equilibrarmi, un eccellente preventivo contro il mal di
mare. Vi mettete in piedi nel centro del ponte, e, come il bastimento si solleva e s’abbassa, vi
girate col corpo in maniera da tenervi sempre ritto. Quando la prua si alza, vi chinate in avanti,
finchè la tolda vi tocchi quasi il naso; e quando si alza la poppa, vi appoggiate all’indietro.
Questo va benissimo per un paio d’ore; ma non potete stare a equilibrarvi per tutta una
settimana.
Giorgio disse:
— Andiamo al fiume.
Avremmo avuto aria fresca, moto e quiete: il continuo mutamento di scena ci avrebbe
occupato la mente (compreso ciò che rimaneva di quella di Harris); e l’attivo lavoro ci avrebbe
dato un grande appetito e ci avrebbe fatto dormire saporitamente.
Harris disse che non credeva che Giorgio dovesse far cosa che avesse la virtù di renderlo
più dormiglione di quel che era sempre stato, perchè poteva riuscirgli pericoloso. Non capiva
affatto come Giorgio avrebbe potuto dormire più di quanto dormiva di solito, visto che non
v’erano in un giorno che ventiquattr’ore sole, tanto d’estate che d’inverno: se avesse dormito di
più, tanto valeva che si decidesse a morire, risparmiandosi così il vitto e l’alloggio.
Harris aggiunse, però, che il fiume gli andava perfettamente a capello. Calzava
perfettamente a capello anche a me, e Harris e io convenimmo che l’idea di Giorgio era buona,
e in un tono che sembrava in qualche modo implicare che eravamo sorpresi dell’accorgimento
di Giorgio.
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Il solo a cui la cosa non piacque fu Montmorency. Del fiume non ne voleva mai sapere,
Montmorency.
— Va bene per voi — egli disse — a voi piace, ma a me no. Per me non v’è nulla da fare.
Il panorama non è il mio genere. Se io veggo un topo, voi non vi fermate; e se io mi
addormento, voi cominciate a baloccarvi con la barca, e mi buttate in acqua. Se volete sapere il
mio parere, io vi dichiaro che commettete una vera stupidità.
Eravamo tre contro uno, però; e la mozione fu approvata.
CAPITOLO II.
I piani discussi. — Il piacere del riposo all’aperto nelle notti serene. — Idem nelle notti piovose. —
L’accordo. — Le prime impressioni di Montmorency. — Timori ch’egli sia troppo buono per
questo mondo; timori poi abbandonati perchè senza fondamento. — La riunione si aggiorna.
Cavammo fuori le carte, e discutemmo i piani.
Stabilimmo di partire il sabato seguente da Kingston. Harris e io saremmo andati giù nella
mattinata a condurre la barca a Chertsey, e Giorgio, che non avrebbe potuto uscir da Londra se
non nel pomeriggio (Giorgio va a dormire in una banca dalle dieci alle quattro, tutti i giorni,
tranne il sabato, che dev’esser svegliato e messo fuori alle due), ci avrebbe raggiunti colà.
Ci saremmo accampati all’aperto o avremmo dormito negli alberghi?
Giorgio e io ci dichiarammo per l’accampamento all’aperto. Saremmo stati così soli e
liberi; così patriarcali, inoltre!
Pian piano la memoria aurea del sole morto svanisce dai cuori delle nuvole tristi e fredde.
Silenziosi, come fanciulli afflitti, gli uccelli hanno cessato di cantare, e soltanto il grido
lamentoso della gallinella d’acqua e il rauco grido della pernice turbano il religioso silenzio
intorno al letto delle onde sulle quali il giorno morente dà l’ultimo respiro.
Dalle selve oscure sull’una e l’altra riva, l’esercito spettrale della notte, le grige ombre,
scivolano con tacito passo a scacciare la retroguardia della luce che s’attarda, e passano con
silenziosi e invisibili piedi sulle piante acquatiche ondeggianti e attraverso i giunchi sospirosi; e
la notte, dal suo fosco trono, ripiega le ali nere sopra il mondo abbuiato, e regna in calma dal
suo fantastico palazzo.
Allora noi guidiamo la nostra piccola imbarcazione in un tranquillo recesso, e viene
piantata la tenda, e la cena frugale cucinata e mangiata. Si caricano le grosse pipe e si
accendono, e si chiacchiera allegramente sottovoce, mentre negl’intervalli della conversazione,
il fiume, trastullandosi intorno alla barca, mormora e strane fiabe e segreti, intona piano la
vecchia canzone infantile che ha cantato per tante migliaia d’anni, e canterà ancora per tante
migliaia d’anni, prima che la voce gli diventi roca e vecchia — una canzone della quale noi, che
abbiamo imparato ad amare il suo viso mutevole, e che ci siamo rannicchiati così presso nel suo
seno compiacente, crediamo a ogni modo di comprendere il senso, benchè non sapremmo dire
in chiare parole la storia che essa ci narra.
E ci sediamo sul margine del fiume, mentre la luna, che anche lo ama, si china a baciarlo
con un bacio di sorella, e lo allaccia con le sue braccia d’argento. E lo guardiamo correre,
sempre cantando, sempre bisbigliando, incontro al suo re, il mare — finchè le note voci si
dileguano nel silenzio, e le pipe si spengono — finchè noi, abbastanza comuni e pari a tanti
altri, ci sentiamo stranamente pieni di pensieri, mezzo malinconici, mezzo dolci, e non ci
curiamo o non sentiamo il bisogno di parlare — finchè ridiamo, e, alzandoci, scotiamo la cenere
delle pipe spente, e ci diciamo «buona notte», e, cullati dal gorgoglio delle acque e dallo
stormire delle frondi, cadiamo addormentati sotto le grandi, calme stelle, e sogniamo che la
terra sia di bel nuovo giovane — giovane e dolce come soleva essere prima che secoli di
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tristezza e di affanni le solcassero la bella faccia, prima che i peccati e le follie dei suoi figliuoli
le invecchiassero il cuore affettuoso — giovane e dolce com’era nei giorni remoti in cui, madre
novella, ci nutriva, al proprio profondo petto — prima che gli artefici d’una simulata civiltà ci
allontanassero dalle sue braccia d’amore, e i truci sogghigni della convenzione ci rendessero
vergognosi della vita semplice che conducevamo con lei, e della semplice, sublime casa dove
l’umanità nacque tante migliaia d’anni fa.
Harris disse
— E quando piove?
Noi non possiamo mai scuotere Harris. Non v’è ombra di poesia in Harris — in lui mai un
acuto desiderio dell’irraggiungibile. Mai una volta che Harris «pianga, chi sa mai perchè». Se
gli occhi di Harris si riempiono di lagrime, si può scommettere che ha mangiato cipolle crude, o
che ha sparso troppo pepe di Caienna, sulla sua costoletta.
Se uno, trovandosi di notte sulla riva del mare con Harris, gli dicesse: — Odi? Non son le
sirene che cantano nel seno profondo delle onde, o gli spiriti maligni che intonano inni funebri
su pallidi cadaveri impigliati nelle alghe? — Harris lo piglierebbe per il braccio, e
risponderebbe: — So io di che si tratta, amico. Tu sei febbricitante. Ora vieni con me. So un
posticino qui alla cantonata, dove si può avere un sorso del più squisito liquore immaginabile, e
ti sentirai subito meglio.
Harris conosce sempre un posticino alla cantonata dove si può avere qualche sorso del più
squisito liquore immaginabile. Credo che se si incontrasse Harris in Paradiso (immaginando la
probabilità d’una cosa simile), vi saluterebbe immediatamente con un: — Oh che piacere che
sei venuto, amico bello; ho trovato un posticino qui alla cantonata, dove si può bere un nettare
strafino.
Nel caso di cui ora si tratta, però, riguardo all’accampamento all’aperto, egli accennò
opportunamente alla poca praticità dell’idea. Essere all’aperto col tempo piovoso non è
piacevole.
È sera. Vi siete bagnato tutto, e nella barca vi sono cinque centimetri d’acqua, e nulla che
non sia inzuppato. Trovate un posto sulla riva che non è così infangato come gli altri, e
approdate e tirate fuori la tenda, e due della brigata si dispongono a piantarla.
La tenda è pesante e fradicia d’acqua, e si rovescia e vi precipita addosso, e vi s’aggrappa
intorno alla testa facendovi ammattire. Intanto continua a piovere violentemente. È abbastanza
difficile piantare una tenda col tempo asciutto; con la pioggia, il compito diventa erculeo. Vi
sembra che il compagno, invece di aiutarvi, si diverta semplicemente a crearvi delle difficoltà.
Nel momento che l’avete bravamente fissata dal lato vostro, egli la solleva per il lembo che ha
in mano lui, e guasta tutto.
— Ehi, che cosa fai? — gridate.
— Che fai tu? — egli ribatte. — Vuoi lasciar andare?
— Non tirare; l’hai rovinata tutta, asino che non sei altro! — v’infuriate.
— Io non ho rovinato niente! — vi latra in risposta; — allenta dalla tua parte.
— Ti dico che hai rovinato tatto! — ruggite, desiderando d’aver l’amico nelle mani; e
intanto date uno strappo alle corde, e spiantate tutti i pioli dall’altra parte.
— Ah, lo squisito idiota! — udite brontolare dal compagno; e allora accade una violenta
scossa e salta il vostro lato. Gettate via il martello e balzate in giro per esprimere all’amico la
vostra opinione in tutta quella faccenda; mentre, nell’atto stesso, egli balza in giro nella
medesima direzione per venirvi a spiegare la sua. E vi seguite l’un l’altro, intorno alla tenda,
scagliandovi imprecazioni a gara, finchè tutto va a catafascio, e rimanete a fissarvi fra le ruine,
esclamando indignati nello stesso istante
— Lo vedi ora? Non te l’avevo detto?
Intanto il terzo compagno, che s’è affannato a vuotar la barca dell’acqua, riversandosela
tutta nella manica e bestemmiando continuamente negli ultimi dieci minuti, vuol sapere a che
maledetto giuoco state giocando, e perchè quella maledetta tenda non è ancora piantata.
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Infine, in un modo o nell’altro, la tenda è piantata, e vi trasportate gli utensili. Siccome è
inutile tentar di accendere un fuoco di legna, accendete il fornello a spirito denaturato, intorno a
cui vi date da fare.
L’acqua piovana è il principale ingrediente del vitto a cena. Il pane è per due terzi acqua
piovana, il pasticcio di carne ne è fradicio, e la marmellata, il burro, il sale e il caffè si son tutti
alleati con essa per far la minestra.
Dopo cena, si trova che il tabacco è umido, e non si può fumare. Fortunatamente c’è una
bottiglia di ciò che, preso in giusta quantità, rallegra e inebria; ed è la sola cosa che riesce a
ridestarvi tanto interesse nella vita da mandarvi a letto.
Vi sognate che un elefante vi s’è improvvisamente seduto sul petto, e che un vulcano ha
esploso scagliandovi nel fondo del mare — l’elefante continua tranquillamente a dormirvi in
seno. Vi svegliate e credete che realmente sia accaduto chi sa che cosa di terribile. La prima
impressione è che sia la fine del mondo, e poi si pensa che non può essere, e che si tratti di
ladri, o di assassini o di un incendio, invece, e questa opinione si esprime nella maniera
consueta. Nessuno accorre in aiuto, però, e tutto ciò che sapete è che centinaia di persone vi
pigliano a calci e che siete soffocato.
Sembra, inoltre, che qualche altro soffra la stessa disgrazia. Sentite che delle deboli grida
si levano di sotto il vostro letto. Proponendovi, in ogni caso, di vender cara la vita, lottate
eroicamente, picchiando a destra e a sinistra, con le braccia e le gambe, e latrando forte nel
frattempo, finchè qualcosa cede, e sbucate con la testa all’aria fresca. Un paio di metri lontano,
scorgete oscuramente un brigante seminudo che aspetta per ammazzarvi, e vi preparate per una
lotta a sangue, quando comincia a balenarvi in niente che sia l’amico Gianni.
— Ah, sei tu? — egli dice, riconoscendovi nello stesso momento.
— Sì — rispondete, stropicciandovi gli occhi — che è accaduto?
— Credo che sia andata in aria la tenda — egli dice. — Dov’è Guglielmo?
Allora voi due vi mettete a chiamar forte Guglielmo, e il suolo al di sotto si solleva e
barcolla, e la voce soffocata, che avete sentito prima, risponde di sotto le macerie:
— Presto, liberatemi la testa!
E Guglielmo si divincola, ed esce fuori tutto pesto e infangato, e in atto abbastanza
aggressivo, giacchè ha l’impressione che tutta la faccenda sia stata a bella posta tramata contro
di lui.
Nella mattinata siete tutti e tre muti, per il forte raffreddore che vi siete beccato durante la
notte, e spinti da un umore litigioso, imprecate l’uno contro l’altro in rauchi bisbigli per tutto il
tempo della colazione,
Deliberammo perciò di dormire all’aperto nelle notti serene, e di andare negli alberghi,
nelle locande, negli alloggi e stallaggi, da persone rispettabili quali eravamo, nelle notti di
pioggia, o tutte le volte che ci sentissimo disposti a cambiare.
Montmorency salutò questo accordo con viva approvazione. Esso non apprezza la
solitudine romantica. Dategli qualche cosa di rumoroso, che tanto più gli piacerà quanto più
sarà volgare. Guardando Montmorency, immaginereste che fosse un angelo mandato in terra,
per una ragione impenetrabile all’umanità, sotto la specie d’un piccolo fox-terrier. Par che
Montmorency dica col suo aspetto: — Oh che malvagio mondo che è questo, e come vorrei
farlo migliore e più nobile! — un’espressione da far spuntare le lacrime agli occhi di tutte le
vecchie bigotte.
Dal primo giorno che cominciò a vivere a mie spese, pensai che non sarei stato in grado
di tenerlo per molto tempo. Solevo star seduto a considerarlo, mentre esso mi fissava dal
tappeto, e mi dicevo: — Questo cane non camperà; sarà rapito nei lucenti cieli in una carretta.
Ecco ciò che gli capiterà.
Ma, dopo ch’ebbi pagato per una dozzina di pulcini da lui uccisi, e lo ebbi tratto fuori,
digrignante e riottoso, per la pelle del collo, da un centinaio di mischie, ed ebbi veduto un gatto
morto portato al mio esame da una femmina irata, che mi diede dell’assassino; dopo che fui
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citato, per aver mandato in giro un cane feroce, da un vicino, che era rimasto confitto, per due
ore di una rigida notte, nel bugigattolo dei suoi strumenti agricoli, temendo di avventurare il
naso fuori dell’uscio, ed ebbi appreso che il giardiniere, a mia insaputa, s’era guadagnato una
cinquantina di lire con l’addestrare Montmorency ad ammazzare topi in un tempo dato, allora
cominciai a pensare che dopo tutto, lo avrebbero fatto rimanere in terra un po’ più a lungo.
Gironzare intorno alle stalle, raccogliere un branco dei peggiori cani che errano per la
città e condurli per i più miserabili quartieri a combattere contro altri cani della stessa risma, è
l’idea che della vita si fa Montmorency; e così, come ho già osservato, esso diede alla proposta
degli alberghi, delle locande e degli alloggi e stallaggi, la sua più energica approvazione.
Prese, quindi, le disposizioni del ricetto notturno con soddisfazione di tutti e quattro, la
sola cosa alla quale rimaneva da provvedere era ciò che avremmo portato con noi; e s’era
cominciato già a discutere, quando Harris disse che aveva già speso abbastanza oratoria per
quella sera, e che ci proponeva di uscire, perchè aveva trovato un posticino sulla cantonata della
piazzetta, dove si poteva bere un sorso di nettare degno degli dei.
Giorgio disse che si sentiva assetato (mai una volta che Giorgio non abbia sete); e
siccome io avevo un presentimento che un po’ di alcool caldo, con una fettina di limone,
avrebbe lenito il mio male, la discussione fu, di comune accordo, rimandata alla sera seguente;
e l’assemblea si mise il cappello e uscì.
CAPITOLO III.
Le disposizioni prese. — Il metodo di lavoro di Harris. — Come il padre di famiglia appende un quadro.
— Giorgio fa un’osservazione accorta. — Delizia del bagno mattutino. — In caso di rovesci.
Così, la sera seguente, ci riunimmo di nuovo, per discutere ed elaborare i nostri piani.
Harris disse:
— Ora, la prima cosa da stabilire è ciò che bisogna portarci. Tu, Gerolamo, piglia un
pezzo di carta e scrivi; e tu, Giorgio, piglia il catalogo della drogheria, e datemi un pezzetto di
lapis, chè farò la lista.
Questo è tutto Harris — così pronto ad assumersi l’onere di ogni cosa e poi di addossarlo
agli altri.
Egli mi fa venire sempre in mente il mio povero zio Podger. In vita mia non avevo visto
mai tanto trambusto in una casa, come nel momento che mio zio Podger si accingeva a far
qualche cosa. Un quadro era ritornato dal negoziante di cornici, ed era stato lasciato ritto contro
una parete della sala da pranzo aspettando d’essere appeso. La zia domandava che cosa si
doveva farne, e lo zio diceva:
— Lascia fare a me. Nessuno di voi s’impicci del quadro. Farò tutto io.
E allora si cavava la giacca, e cominciava. Mandava, la fantesca a comprare cinquanta
centesimi di chiodi, e poi uno dei bambini che la raggiungesse per dirle di che dimensione
dovevano essere, e dopo imprendeva gradatamente a mettere in moto tutta la casa.
— Ora, tu, Guglielmo, va a pigliarmi il martello — gridava — e tu Tommasino, va a
pigliarmi la squadra; e m’occorrerà anche la scaletta, e forse sarà meglio una sedia di cucina.
Tu, Gianni, fa due salti dal signor Goggles; digli: — Tanti saluti da parte di papà, e come state
con le gambe? — e se mi vuol prestare il livello. E tu, Maria, non te ne andare, perchè ho
bisogno che qualcuno mi tenga la candela; e quando ritorna la fantesca, deve andare a comprare
un pezzo di cordone; e, Tommasino!... dov’è Tommasino?... Tommasino, vieni qui; piglia il
quadro e dammelo!
E allora il quadro sollevato gli cadeva di mano, e saltava dalla cornice, ed egli, per salvare
il vetro, si tagliava un dito; e allora si metteva a saltare per la stanza, cercando il fazzoletto. Non
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poteva trovare il fazzoletto, perchè l’aveva nella tasca della giacca, e non sapeva dove aveva
lasciata la giacca, e tutti di casa dovevano interrompere la ricerca degli strumenti e cominciare a
cercar la giacca, mentr’egli intanto seguitava a saltare in giro, impacciandoli.
— Sa nessuno in tutta la casa dov’è la mia giacca? Non m’è capitato mai di vedere gente
simile! Siete in sei!... e non siete capaci di trovare una giacca che mi son cavata, cinque minuti
fa!... Quant’è vero...
In quel momento era seduto, e scoprendo di star sopra la giacca, gridava:
— È inutile che andiate in giro. L’ho trovata da me. Rivolgermi a voi perchè troviate
qualche cosa, è come dirlo al gatto.
E, dopo ch’aveva impiegato mezz’ora a legarsi l’indice, ed era stato trovato un altro vetro,
e gli strumenti, e la scala, e la sedia e la candela erano lì pronti, cominciava un altro
divertimento: chè tutta la famiglia, compresa la fantesca e la donna a giornata, doveva assistere
in semicerchio, pronta a dare una mano. Due persone dovevano reggere la sedia, una terza
doveva consegnargli un chiodo, una quarta passargli il martello; e lui, pigliando in consegna il
chiodo, lo lasciava cadere.
— Ecco — diceva, in tono d’offesa — è caduto il chiodo!
E tutti dovevamo inginocchiarci a cercarlo, mentr’egli se ne stava ritto sulla sedia a
brontolare, e a domandarsi se doveva rimaner lì tutta la sera.
Il chiodo veniva finalmente scovato, ma intanto lui aveva perduto il martello.
— Dov’è il martello? Che n’ho fatto del martello? Giusto cielo! Ve ne state lì in sette a
bocca aperta, e non sapete che cosa n’ho fatto del martello!
Gli trovavamo il martello; e intanto aveva perso di vista il segno da lui fatto sulla parete,
per configgervi il chiodo; e ciascuno doveva a turno salire accanto a lui sulla sedia per cercar di
trovare il segno; e ciascuno lo scopriva in un punto diverso; e lui ci chiamava stupidi, l’uno
dopo l’altro, ordinandoci di scendere. E prendeva la squadra, per prender le misure un’altra
volta, e trovando che gli occorreva la metà di ottantuno centimetri e tre settimi di centimetro
dall’angolo, tentava di fare il calcolo a memoria e gli pareva d’impazzire.
E tutti tentavamo a memoria, e tutti giungevamo a risultati diversi, e ci davamo l’un
l’altro la beffa. Nel trambusto generale, era dimenticato il numero originale e zio Podger
doveva rimettersi a prender le misure.
Questa volta egli usava un pezzo di corda, e, nel momento critico che lo zio era inclinato
sulla sedia a un angolo di quarantacinque, provando di raggiungere un punto un decimetro più
di quanto si potesse sporgere, gli scappava la corda, ed egli s’abbatteva sul pianoforte, con un
effetto musicale veramente bello, prodotto dalla velocità con cui la testa e il corpo avevano
colpito contemporaneamente tutte le note.
E zia Maria esclamava che non voleva che i bambini stessero lì presenti a sentire le
espressioni di mio zio.
Finalmente, zio Podger fissava di nuovo il punto, mettendovi su l’estremità aguzza del
chiodo con la sinistra, e prendeva il martello nella destra. E, al primo colpo, si schiacciava il
pollice, e con un urlo, lasciava cascare il martello sui piedi del più vicino.
Zia Maria osservava con dolcezza che la prossima volta che zio Podger avrebbe dovuto
ficcare un chiodo nel muro, le facesse la finezza di avvertirla in tempo, perchè essa potesse
disporre le cose in modo da andare nel frattempo a passare una settimana con la madre.
— Oh! le donne fanno sempre un mondo di difficoltà per niente — rispondeva zio
Podger, riprendendosi. — Ebbene, a me piace di lavorare un po’ a questo modo.
E allora ci si provava di nuovo, e, al secondo colpo, il chiodo entrava tutto quanto
nell’intonaco, trascinandosi dietro mezzo martello, mentre zio Podger veniva proiettato contro
la parete con forza quasi sufficiente da appiattirgli il naso.
Allora gli dovevamo trovar di nuovo la squadra e la corda, e si doveva fare un buco
nuovo; e, verso mezzanotte, il quadro era appeso — storto e alquanto instabile, con la parete
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che per dei metri in giro sembrava grattata da un rastrello, e tutti stanchi morti e infelici —
tranne lo zio Podger.
— Ecco qui — diceva, balzando pesantemente dalla sedia sui calli della donna a giornata,
e dando uno sguardo a tutta quella confusione in giro con orgoglio evidente. — Molti avrebbero
avuto bisogno d’un operaio per fare un lavoretto come questo.
So che Harris sarà la stessa specie d’uomo quando sarà attempato, e glielo dissi. Aggiunsi
che non potevo permettere che s’addossasse tanta mole di lavoro, e osservai:
— No, piglia tu la carta, il lapis e il catalogo; Giorgio scriverà, e io farò il lavoro.
La prima lista che compilammo dovè essere rigettata. Era chiaro che il corso superiore del
Tamigi non avrebbe permesso la navigazione d’una barca tanto grande da contenere gli oggetti
segnati come indispensabili. Lacerammo la lista, e ne ideammo un’altra.
Giorgio disse:
— Sapete che siete assolutamente su una falsa pista? Non si deve pensare a ciò che ci
potrebbe occorrere, ma soltanto a quello di cui non si può far senza.
Giorgio, talvolta, se ne esce con delle osservazioni piene di buon senso, che vi
sorprendono. Io la dichiaro, questa, vera saggezza, non semplicemente rispetto al nostro caso
particolare, ma al nostro pellegrinaggio sul fiume della vita, in generale. Quanta gente, in tal
viaggio, carica la propria barca, arrischiando continuamente di farla arenare, con un monte di
stupidità che si credono essenziali al piacere e alla comodità della gita, ma che in realtà son
ciarpame inutile.
Come si sovraccarica la povera barchetta, fino all’altezza dell’albero, di splendide vesti e
di grandi caseggiati, di servi inutili e d’un esercito di eleganti amici che non si curano un fico
secco del proprietario, e che il proprietario non stima un centesimo; di dispendiosi ricevimenti,
che non divertono nessuno, di formalità e di mode, di alterigia e di ostentazione, e della paura
— oh il più grave e folle ciarpame! — della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che
nauseano soltanto, di piaceri che annoiano, di vacui sfoggi, che, come la corona di ferro dei
delinquenti d’una volta, fanno gonfiare e sanguinare la testa dolente che li porta!
È ciarpame, amico, tutto ciarpame! Gettalo in mare. Esso aggrava la barca, e t’è difficile
guidarla, e tu quasi svieni sui remi. La rende ingombrante e pericolosa, e tu non hai un
momento libero da ansie e da cure, non un momento per sognare a tuo agio — non un momento
per guardare le ombre procellose che affiorano dalle profondità, o lo scintillio dei raggi fra le
onde che s’increspano, i grandi alberi della sponda che vi contemplano la loro immagine, o i
boschi tutti verde e oro, o i gigli candidi e gialli, o i cupi giunchi ondeggianti, o le alghe, o le
orchidee e gli azzurri non-ti-scordar-di-me.
Getta via il ciarpame, amico! Che la tua barchetta sia leggera, e porti soltanto ciò di cui
hai bisogno — una casa modesta e dei piaceri semplici, un paio d’amici degni di questo nome,
qualche persona da amare e che ti ami, un gatto, un cane, un paio di pipe, abbastanza da
mangiare e da metterti addosso, e un po’ più di abbastanza da bere, perchè la sete è cosa
pericolosa.
Troverai che la tua barca si guida più facilmente e che sarà meno soggetta a rovesciarsi.
Se poi si rovescia, che importa? La buona, la semplice mercanzia resiste all’acqua. Avrai tempo
di pensare, come anche di lavorare. Tempo di bere nel sole della vita — tempo di ascoltare la
musica eolia che il vento di Dio trae dalle corde dei cuori umani che ci stanno d’intorno —
tempo di...
Domando scusa. M’ero per un momento obliato.
Dunque, lasciammo che facesse la lista Giorgio, ed egli la cominciò.
— Non porteremo una tenda — consigliò Giorgio — avremo la barca coperta. È molto
più semplice, e più comoda.
L’idea ci sembrò ottima, e noi approvammo. Non so se voi abbiate mai veduto l’oggetto
al quale s’accenna. Si fissano degli archi di ferro sulla barca, e su di essi si stende una grossa
tela, legandola intorno intorno, da prua a poppa: la barca si trasforma in una specie di bella e
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comoda casetta, sebbene un po’ afosa; ma, già, ogni cosa ha i suoi difetti, come disse quel tale
quando gli morì la suocera e dovè pagare le spese dei funerali.
Giorgio disse che quindi dovevamo portarci una coperta per ciascuno, una lampada, del
sapone, un pettine e una spazzola (fra tutti), uno spazzolino da denti (per ciascuno), un catino,
della polvere dentifricia, degli strumenti da raderci (sembra un esercizio di francese, non è
vero?) e un paio di grandi accappatoi da bagno. Io osservo che la gente fa sempre dei
giganteschi preparativi quando deve recarsi presso l’acqua, ma che quando ci si trova, di bagni
non ne fa molti.
Accade lo stesso quando si va al mare. Io decido sempre — quando ci penso stando a
Londra — che mi leverò presto la mattina e andrò a tuffarmi in acqua prima di colazione; e
metto religiosamente nella valigia un paio di mutandine e l’accappatoio e compro sempre le
mutandine rosse. Mi piace di figurare in mutandine rosse, che s’adattano così bene alla mia
carnagione. Ma quando sono al mare, non sento la stessa voglia che sentivo in città, di levarmi
la mattina presto.
Al contrario, provo più che mai il bisogno di restarmene a letto fino all’ultimo momento,
e poi d’alzarmi a far colazione. Un paio di volte la virtù trionfò, e m’alzai alle sei e mi vestii
alla meglio, e, afferrando le mutandine e l’accappatoio, uscii melanconicamente di casa. Ma
non mi divertii. Quando vado a bagnarmi la mattina presto, par che si tenga in serbo, a bella
posta per me, uno speciale e tagliente vento di levante che m’aspetta, e poi che si raccolgano
tutte le pietre triangolari, che le mettano al di sopra, le aguzzino agli scogli e ne coprano le
punte con un po’ di sabbia, in modo che io non possa vederle, e che quindi piglino il mare e me
lo scaraventino due miglia lontano, così che io ho da rannicchiarmi tutto e saltellare fin laggiù,
rabbrividendo a traverso dieci centimetri di acqua. E quando ci arrivo, al mare, non s’immagina
quanto esso si mostri oltraggioso e brutale.
Un cavallone mi abbranca con invincibile violenza, e mi costringe a rannicchiarmi contro
uno scoglio ch’è stato messo lì per me. E, prima che io possa dire: — Ahi, oh! — e scoprir ciò
che è accaduto, il cavallone ritorna e mi trasporta in mezzo all’oceano. Comincio a divincolarmi
freneticamente verso la sponda, e mi domando se rivedrò mai la famiglia e gli amici, e vorrei
esser stato più buono con la mia sorellina, da ragazzo. Proprio quando ho rinunziato a ogni
speranza, l’ondata si ritira e mi lascia in convulsione sulla sabbia, come una stella di mare; e mi
levo e mi guardo indietro per trovare che ho corso rischio della vita in sessanta centimetri
d’acqua. Salto a vestirmi, e torno mogio mogio a casa, dove debbo fingere d’essermi divertito
un mondo.
Noi, in quel momento, parlammo come se ci dovessimo bagnare e nuotare a lungo tutte le
mattine. Giorgio disse ch’era un piacere svegliarsi nella barca la mattina al fresco, e tuffarsi nel
limpido fiume. Harris disse che non v’era nulla come un po’ di moto prima di colazione per
dare appetito. Il moto gli metteva sempre appetito. Giorgio osservò che, se il moto doveva far
mangiare ad Harris più di quanto mangiasse ordinariamente, si sentiva in dovere di protestare
contro l’intenzione di Harris di bagnarsi anche una volta sola.
E gli fece osservare che già c’era molto da lavorare per trascinar contro corrente le
vettovaglie capaci di soddisfar il suo appetito ordinario.
Feci riflettere a Giorgio quanto sarebbe stato più piacevole aver Harris lindo e fresco in
giro nella barca, anche se avessimo dovuto portare un po’ più di quintali di provviste; ed egli
finì col veder le cose nella stessa luce in cui le vedevo io, e ritirò la sua opposizione contro il
bagno di Harris.
Ci accordammo finalmente di portar tre accappatoi, invece di due, per non starci ad
aspettare a vicenda.
Per gli abiti, Giorgio disse che due costumi di flanella sarebbero stati sufficienti, giacchè
potevamo lavarli da noi, nel fiume, quando fossero divenuti sudici. Gli domandammo se avesse
mai tentato di lavar la flanella nel fiume, ed egli ci rispose: — No, io veramente no; ma conosco
delle persone che lo han fatto, ed è abbastanza facile; — e Harris e io fummo abbastanza deboli
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da credere che sapesse di che cosa parlava, e che tre giovani, rispettabili sì, ma ancora senza
posizione e influenza, e senza alcuna esperienza di bucato, potessero realmente lavarsi le
camicie e i calzoni nel fiume Tamigi con un pezzo di sapone.
Dovevamo apprendere nei giorni avvenire, quand’era troppo tardi, che Giorgio era un
miserabile impostore, il quale della faccenda non doveva intendersi un bel niente. Se aveste
veduto quegli abiti dopo... Ma non anticipiamo.
Giorgio ci persuase di portarci una muta di biancheria e una buona quantità di calze, in
caso dovessimo colare a picco e avessimo bisogno di roba asciutta; inoltre abbondanza di
fazzoletti, perchè avrebbero servito ad asciugar degli oggetti, e oltre le scarpe da barca un paio
di stivaloni di cuoio, da servirci nel caso che la barca si rovesciasse.
CAPITOLO IV.
La questione del vitto. — Obiezioni al petrolio come atmosfera. — Vantaggi del cacio come compagno
di viaggio. — Una signora maritata abbandona la casa. — Altre provviste per colare a picco. —
Faccio il bagaglio. — Malignità degli spazzolini da denti. — Giorgio e Harris fanno il bagaglio.
— Terribile condotta di Montmorency. — Andiamo a riposare.
Poi discutemmo la questione del vitto. Giorgio disse:
— Cominciamo dalla colazione. — (Giorgio è così pratico!) Ora per la colazione
abbiamo bisogno d’una padella... — (Harris disse ch’era indigesta; ma noi lo avvertimmo
semplicemente di non fare lo stupido, e Giorgio continuò)... d’una teiera, d’un calderino e d’una
cucinetta economica a spirito denaturato.
— Niente petrolio — disse Giorgio, con uno sguardo espressivo; e Harris e io
approvammo.
Comprammo una volta un fornello a petrolio, ma non ci accadrà mai più. Quella
settimana fu come se si vivesse in una vendita di petrolio. Non avevo visto mai nulla che avesse
la penetrazione del petrolio. Lo tenevamo a prua, e di lì stillava giù sul timone, impregnando
tutta la barca e ogni oggetto che incontrava sulla sua via, e poi si riversava nel fiume, saturava il
paesaggio e corrompeva l’atmosfera. A volte soffiava un vento di ponente olezzante di petrolio,
e altre volte un vento di levante olezzante di petrolio, e altre volte ancora un vento di
settentrione olezzante di petrolio, e forse anche un vento di mezzogiorno olezzante di petrolio;
ma sia che venisse dalle nevi del polo artico, sia che si levasse nell’immensità delle sabbie del
deserto, il vento ci arrivava sempre carico della fragranza del petrolio.
E il petrolio continuava a stillare e ci rovinava il tramonto del sole; e quanto al chiaror
della luna, esso odorava positivamente di petrolio.
Provammo a fuggire e a riparare a Marlow. Lasciammo la barca accanto al ponte, e
andammo a passeggio per la città, ma l’odore ci seguiva. Tutta la città era impregnata di
petrolio. Passammo per il cimitero, e ci sembrò che i cadaveri fossero sepolti nel petrolio. Il
corso puzzava di petrolio; e ci domandammo come la popolazione potesse viverci.
Camminammo miglia e miglia sulla via di Birmingham: tutto inutile, la campagna era
inzuppata di petrolio.
Alla fine di quella passeggiata ci riunimmo insieme a mezzanotte in un campo solitario,
sotto una quercia maledetta e facemmo un terribile giuramento (avevamo imprecato tutta una
settimana intorno alla cucinetta economica in maniera ordinaria e familiare, ma era cosa
abituale) un terribile giuramento di non portar più petrolio in una barca mai più — tranne,
naturalmente, in caso di malattia.
Perciò, allora, ci limitammo allo spirito denaturato. Anche questo è abbastanza cattivo. Se
ne hanno dei pasticci denaturati e delle torte denaturate. Ma lo spirito denaturato è più sano del
petrolio, se penetra nell’organismo in grande quantità.
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Per gli altri oggetti della colazione, Giorgio consigliò le uova e il lardo, facili a cucinare,
carne fredda, tè, pane, burro e marmellata — ma niente cacio. Il cacio, come il petrolio, è
troppo prepotente. Esige tutta la barca per sè. Si effonde per la cesta, e dà il suo odore a tutto
ciò che vi trova. Non si saprebbe dire se si mangia una torta di mele, una salsiccia tedesca o
delle fragole alla panna: sembra tutto cacio. V’è troppa fragranza nel cacio.
Ricordo un amico che aveva comperato un paio di forme di cacio a Liverpool. Erano due
forme di cacio tenere e morbide, della giusta maturità, e con un odore di cento cavalli a vapore,
che, si poteva garantire, avrebbe esercitato la forza di trazione per tre miglia e atterrato un uomo
a duecento metri. Mi trovavo a Liverpool in quei giorni, e il mio amico mi pregò, se non mi
fosse d’incomodo, di portargliele a Londra, giacchè lui non sarebbe ripartito prima di un paio di
giorni, e voleva che il cacio si trovasse bene al sicuro a casa.
— Oh, con piacere, caro amico — risposi — con piacere.
Andai a pigliare le due forme, e me le misi in carrozza, un veicolo sconquassato, tirato da
una specie di sonnambulo asmatico, con le ginocchia che si urtavano, come castagnette, e che il
suo proprietario, durante la conversazione, si compiacque di designare col nome di cavallo.
Misi le due forme sull’imperiale, e partimmo a un’andatura che avrebbe fatto orrore al più
rapido compressore a vapore mai fabbricato, e tutto andò lietamente come una campana di
funerale, finchè non voltammo la cantonata. Là il vento portò una zaffata di cacio in pieno sul
nostro puledro. La zaffata lo svegliò e, con un nitrito di terrore, esso si slanciò a tre miglia
all’ora. Il vento soffiava ancora nella sua direzione, e, prima che raggiungessimo l’altro capo
della strada, trottava già alla velocità di quattro miglia, lasciando gli storpi e le signore grasse a
distanza incalcolabile.
Per tenerlo, alla stazione, ci vollero due facchini insieme col vetturino, e non credo che
neppure ci sarebbero riusciti, se uno dei tre non avesse avuto l’idea di tappargli il naso col
fazzoletto, e di accendere un foglio di carta.
Comprai il biglietto, e mi diressi orgogliosamente alla piattaforma, con le mie due forme
di cacio, mentre la gente si tirava rispettosa indietro dall’uno e l’altro lato. Il treno era gremito,
e io dovetti salire in una vettura stipata già di altre sette persone. Un burbero vecchio protestò;
ma io, ciò nonostante, entrai, e deponendo il cacio nella rete, mi feci largo fra i compagni di
viaggio con un bel sorriso, dicendo che faceva caldo. Passarono pochi momenti, e poi il vecchio
cominciò ad agitarsi.
— Si sta assai stretti, qui — disse.
— Si sente una specie d’oppressione — disse il viaggiatore accanto.
E allora entrambi cominciarono ad annusare, e, alla terza annusata, si levarono senza
un’altra parola e se ne andarono. E poi si levò una signora grassa, disse che era una vergogna
che una rispettabile madre di famiglia dovesse essere perseguitata a quel modo, raccolse una
valigia e otto pacchetti, e discese. Gli altri quattro viaggiatori stettero un altro po’, ma poi, in un
angolo, un tale dall’aspetto solenne, che dal vestito e dall’apparenza generale sembrava
appartenesse alla classe degl’intraprenditori di pompe funebri, disse che quell’odore gli
rammentava i bambini morti; mentre gli altri tre passeggeri, urtandosi malamente, si
slanciavano tutti e tre insieme allo sportello, svignandosela.
Io sorrisi al signore nero, dicendogli che credevo che avremmo avuto la vettura tutta a
nostra disposizione; ed egli rise piacevolmente e disse che certa gente faceva tanto baccano per
un’inezia. Ma, dopo che furono partiti, anche lui mi parve stranamente depresso, e così, alla
fermata di Crewe, lo invitai a venire a bere un bicchierino. Egli accettò, e ci aprimmo un varco
al banco del ristorante, dove gridammo, e battemmo i piedi, e picchiammo gli ombrelli per un
quarto d’ora; e dove poi si presentò una signorina, domandandoci se desiderassimo nulla.
— Che pigliate? — dissi, volgendomi all’amico.
— Per piacere, signorina, una mezza corona d’acquavite... pura — egli rispose.
E dopo che l’ebbe bevuta, se n’andò tranquillamente e montò in un’altra vettura: una
bassezza, pensai.
19
Da Crewe ebbi il compartimento per me solo, benchè tutto il treno fosse affollato. Come
si giungeva alle diverse stazioni, la gente, vedendo vuota la mia vettura, si precipitava per
salire. «Ecco, qui, Maria; corri, c’è tanto posto». «Bene, Tommaso, saliamo qui», si gridava. E
accorrevano con delle valige pesanti, e s’azzuffavano innanzi allo sportello per entrar prima. E
uno aprì e salì sul montatoio, ma barcollò e ricadde nelle braccia di chi gli stava di dietro; e tutti
venivano ad annusare, per poi fuggire e andarsi a comprimere nelle altre vetture, o pagare la
differenza e viaggiare in prima.
A Euston trasportai il cacio in casa dell’amico. Quando si presentò la moglie
nell’anticamera, odorò in giro per un istante, e poi disse:
— Che cosa c’è? Ditemi tutto.
Risposi:
— Due forme di cacio. Tommaso le ha comprate a Liverpool, e m’ha pregato di portavele
qui.
E aggiunsi che m’auguravo ch’ella comprendesse che io non ci entravo; ed ella mi disse
che certo così era; ma che Tommaso al suo ritorno l’avrebbe sentita.
Il mio amico fu trattenuto a Liverpool più a lungo di quanto credeva; e, tre giorni dopo,
siccome non era ancora tornato, la moglie venne a trovarmi. Mi domandò:
— Che ha detto Tommaso di quel formaggio?
Risposi che aveva raccomandato che fosse tenuto in un luogo fresco, e che nessuno
dovesse toccarlo.
Essa osservò:
— Probabilmente nessuno lo toccherà. L’aveva odorato?
Risposi che credevo di sì, e aggiunsi che egli m’era parso molto affezionato a quel
formaggio.
— Se io dessi a qualcuno una sterlina per portarlo a seppellire, credete che potrebbe
reggere?
Risposi che quel qualcuno non avrebbe sorriso mai più.
Le lampeggiò un’idea. Disse:
— Vi disturberebbe tenerlo voi? Lo manderò a casa vostra.
— Signora — risposi — per quel che riguarda me, l’odore del formaggio mi piace, e il
viaggio dell’altro giorno con esso lo ricorderò sempre come il coronamento felice d’una bella
vacanza. Ma in questo mondo noi dobbiamo considerare gli altri. La signora, sotto il cui tetto io
ho l’onore di risiedere, è vedova, e, per quel che io so, probabilmente anche orfana. Essa ha una
forte, un’eloquente avversione contro ciò che essa chiama imposizione. La presenza del
formaggio di vostro marito in casa sua sarebbe da lei, lo sento istintivamente, ritenuta come
un’imposizione; e non sarà detto mai che io voglia impormi a una vedova, e a un’orfana.
— Benissimo, allora — disse la moglie del mio amico, levandosi — tutto ciò che ho da
dire è che piglierò con me i bambini, e me ne andrò in un albergo, finchè quel formaggio non
sarà finito. Rifiuto di continuare a viverci accanto.
Mantenne la parola, e lasciò la casa in mano della fantesca a mezzo servizio, la quale
quando le fu domandato se poteva resistere a quell’odore, rispose: «Che odore?», e quando fu
condotta da presso al formaggio e le fu detto di odorare forte, osservò che le pareva di sentire
come un odore di cocomeri. Da ciò fu desunto che poco danno poteva derivare alla donna da
quell’atmosfera, e vi fu lasciata.
Il conto dell’albergo ammontò a trecentosettantacinque lire, e il mio amico, dopo aver
tirato le somme di tutto, trovò che il formaggio gli era costato duecentodieci lire la libbra. Disse
che il formaggio gli piaceva molto, ma che a quel prezzo era oltre i suoi mezzi. E così risolse di
sbarazzarsene. Lo gettò nel canale; ma dovette ripescarlo, perchè i barcaiuoli si lagnarono.
L’odore toglieva loro tutte le forze. E, dopo di ciò, egli in una notte buia prese le due forme e le
portò nel cimitero della parrocchia. Ma il custode le scoperse, e sollevò un tremendo baccano.
20
Disse che era stato fatto un complotto per privarlo dei mezzi di sussistenza svegliando i
morti.
Il mio amico se ne liberò, finalmente, col trasportare il cacio in una città di mare, dove lo
seppellì sulla spiaggia, rendendo quel punto famoso. I visitatori dicevano che non s’erano mai
accorti che l’aria fosse così forte e corroborante, e le persone deboli di petto e i tisici vi
accorsero in folla per anni.
Perciò, per quanto io sia appassionato del formaggio, sostenni che Giorgio aveva ragione
nel rifiutare di provvedercene.
— Non avremo il tè delle cinque — disse Giorgio (la faccia di Harris a questo punto
s’allungò); — ma faremo un eccellente, abbondante e magnifico pasto alle sette... desinare, tè e
cena tutti insieme.
Harris diventò più allegro. Giorgio consigliò carne e torte di mele, carne fredda,
pomidori, frutta ed erbaggi. Per bevanda, delle meravigliose decozioni, appiccicose, di mano di
Harris, che si mischiano con l’acqua e si chiamano limonate, molto tè, una bottiglia di whisky,
nel caso, come disse Giorgio, dovessimo colare a picco.
A me parve che Giorgio insistesse troppo sull’idea dell’andare a picco, e che non si
dovesse intraprendere un’escursione con una prospettiva simile.
Ma fui lieto che si prendesse lo whisky.
Non si doveva portare nè birra, nè vino. Sul fiume essi sono un errore. Vi fanno sentire
torpidi e assonnati. Un bicchiere la sera quando fate un giretto per la città per guardare le
ragazze è utile; ma non bisogna bere quando il sole vi fiammeggia in testa e occorre lavorare
seriamente.
Prima di separarci quella sera, redigemmo la lista degli oggetti indispensabili e fu
piuttosto lunghetta. Il giorno dopo, che era venerdì, li mettemmo insieme, e ci riunimmo la sera
per fare i bagagli. Comprammo una grossa valigia per gli abiti, e due ceste per le vettovaglie e
gli utensili di cucina. Spostammo il tavolino contro la finestra, facemmo di tutto un mucchio in
mezzo al pavimento e ci sedemmo a guardare.
Dissi che avrei fatto il bagaglio io.
Io ho un certo orgoglio del mio metodo di fare i bagagli. Fare i bagagli è una delle molte
cose che io so a menadito, più di qualunque altra persona viva. (Mi sorprendo, a volte,
considerando quante cose so). Persuasi della mia abilità Giorgio e Harris, e dissi di lasciar fare
interamente a me. Accettarono la proposta con una prontezza che mi parve alquanto strana.
Giorgio si caricò la pipa, e si allungò nella poltrona; Harris allungò le gambe sul tavolino, e si
accese un sigaro.
Veramente io non la intendevo così. Infatti, ciò che volevo era di sorvegliare il lavoro e di
metter in moto Giorgio e Harris sotto la mia direzione, incitandoli a volta a volta: «Ehi, tu...!»
«Dà qui». «Ecco fatto, abbastanza semplice!» in realtà guidandoli, così per dire. Ma il loro
intenderla nella maniera che la intendevano mi irritò. Non v’è nulla che m’irriti più come veder
gli altri starsene con le mani in mano, mentre io lavoro.
Vissi una volta con un tale che a questo modo mi faceva ammattire. Se ne stava sdraiato
sul sofà e mi guardava lavorare per ore di seguito, seguendomi con gli occhi nella stanza,
dovunque andassi. Diceva che la mia attività gli faceva bene. Gli faceva sentire che la vita non
era un pigro sogno da passar stirandosi e sbadigliando, ma un nobile còmpito, pieno di dovere e
di austero esercizio. Si domandava spesso come avesse potuto andare avanti, prima d’aver
incontrato me, come avesse potuto durare fino allora senza un esempio innanzi agli occhi di
fervida attività.
Invece io sono diverso. Non posso rimanermene ozioso e veder un altro affannarsi a
sudare. Voglio levarmi e sovraintendere, e aggirarmi con le mani in tasca, ordinando ciò che si
deve fare. Obbedisco all’energia della mia natura, e non posso resisterle.
Non dissi nulla, però, e cominciai a fare il bagaglio. La bisogna sembrava più lunga di
quanto avessi immaginato; ma arrivai a finire la valigia, vi puntai il ginocchio e legai le cinghie.
21
— E gli stivali dove li lasci? — disse Harris.
Guardai in giro, e vidi che li avevo dimenticati. Harris è così. Naturalmente non avrebbe
detto una parola, se non avessi chiuso prima la valigia. E Giorgio scoppiò in una risata... una di
quelle stupide, idiote, dure e irritanti risate sue che mi fanno diventare furioso.
Apersi la valigia e vi ficcai le scarpe; e poi, proprio nel momento che stavo per chiuderla,
mi lampeggiò in mente un’orribile idea. Ci avevo messo lo spazzolino da denti? Non so che mi
accade, ma non mi rammento mai se ho messo o no nella valigia lo spazzolino da denti.
Lo spazzolino da denti è una cosa che mi ossessiona in viaggio, e mi rende la vita
infelice. Mi sogno di non averlo chiuso nella valigia, e la fronte mi stilla di sudor freddo e
scendo dal letto in cerca dello spazzolino. E la mattina lo caccio nella valigia prima di averlo
usato, e debbo aprirla un’altra volta, ed è sempre l’ultimo oggetto che ne cavo fuori; e poi
richiudo la valigia e dimentico lo spazzolino, e all’ultimo momento debbo correre di sopra a
prenderlo, e portarlo alla stazione avvolto nel fazzoletto.
Naturalmente, in quel momento, dovetti cavare a uno a uno dalla valigia tutti gli oggetti,
e, naturalmente, non mi riuscì di trovarlo. Li gettai fuori forse nello stesso stato in cui dovevano
esser prima della creazione del mondo, quando regnava il caos. Naturalmente, trovai diciotto
volte di seguito lo spazzolino di Giorgio e quello di Harris, ma non potei trovare il mio. Ripresi
la roba capo per capo, sollevando ogni oggetto e scotendolo. Trovai lo spazzolino in uno
stivale. Poi rimisi tutto nella valigia e la chiusi.
Finito che ebbi, Giorgio mi domandò se ci avessi messo il sapone. Gli risposi che non
m’importava un bel niente se ci fosse o non ci fosse il sapone; e strinsi la valigia, e legavo le
cinghie, quando accorgendomi d’averci lasciato dentro la borsetta del tabacco, dovetti riaprirla.
Fu chiusa finalmente alle dieci e cinque pomeridiane, e allora rimanevano da riempire le ceste.
Harris osservò che avevamo innanzi a noi meno di dodici ore di tempo, e che credeva sarebbe
stato meglio che lui e Giorgio s’occupassero del resto. Io approvai e mi sedetti, e cominciarono
essi.
Cominciarono con molto slancio e leggerezza, per mostrarmi come andavan fatte le cose.
Io non pronunciai alcun commento; aspettai soltanto. Quando Giorgio sarà impiccato, Harris
sarà il migliore imballatore di questo mondo, e mi misi a guardare i mucchi di piatti e di tazze,
il calderino, le bottiglie e i boccali, i pasticci, i fornelli, le torte, i pomidori, eccetera; e compresi
che la faccenda sarebbe diventata interessante.
Così fu. Cominciarono col rompere una tazza. Fu questa la loro prima operazione. Per
dimostrarmi, s’intende, che sapevano fare, e attrarre la mia attenzione.
Poi Harris mise la marmellata di fragole su un pomidoro e lo spiaccicò, e lui e Giorgio
dovettero raccogliere il pomidoro col cucchiaino.
E poi fu la volta di Giorgio, che mise i piedi sul burro. Io non dissi nulla, ma andai a
sedermi sull’orlo del tavolino, e li guardai lavorare. Questo li irritò più di qualunque cosa io
avessi potuto dire. Io lo capii. Diventarono nervosi ed eccitati, e camminavano sulla roba, e si
mettevano degli oggetti di dietro, e non potevano più trovarli quando ne avevano bisogno; e poi
mettevano i pasticci nel fondo delle ceste per posarvi della roba pesante al di sopra, e
sbriciolarli.
Rovesciarono il sale da per tutto, e, quanto al burro, non ho visto mai due persone fare,
con un paio di lire di burro, più di quanto essi furono capaci di fare. Dopo che Giorgio l’ebbe
tratto da una pianella, tentarono di metterlo in un calderino. Non ci entrava, e quel che era
dentro veniva di fuori. Lo trassero tutto, finalmente, raschiandolo, e lo misero su una sedia, e
Harris, ci si sedè sopra, e il burro gli si appiccicò, e poi si misero a cercarlo per tutta la stanza.
— Giurerei d’averlo messo su quella sedia — diceva Giorgio, fissando il posto vuoto.
— L’ho visto anch’io, neppure un minuto fa — disse Harris.
Allora si misero di nuovo a girar per la stanza, cercando, e s’incontrarono nel centro,
guardandosi.
— La cosa più straordinaria che mi sia mai capitata — disse Giorgio.
22
— Veramente misteriosa! — disse Harris.
Allora Giorgio girò intorno ad Harris, e vide il burro.
— Ah, eccolo qui — esclamò indignato.
— Dove? — esclamò Harris, girando come un fuso.
— Stai un momento fermo! — ruggì Giorgio, correndogli dietro.
E raccolsero il burro e lo misero nella teiera.
Montmorency prendeva parte a tutto, naturalmente. L’ambizione di Montmorency nella
vita è di cacciarsi fra le gambe d’ogni persona ed essere mandato al diavolo. Se può insinuarsi
in qualche punto dove non è affatto desiderato, disturbare, mandare in bestia le persone e
vedersi scagliare degli oggetti in testa, allora sa di non aver sciupata la giornata.
Far inciampare qualcuno su di lui e sentirsi maledire per un’ora, è il suo ideale più alto; e
quando gli riesce di vederlo effettuato, la sua vanità diventa assolutamente insopportabile.
Esso andava a sedersi sugli oggetti, appunto quando bisognava riporli, e si affannava in
giro con l’idea fissa che tutte le volte che Harris e Giorgio stendevano la mano per pigliar
qualcosa, avessero bisogno del suo naso umido e fresco. Mise una gamba nella marmellata,
molestò i cucchiaini, immaginò che i limoni fossero topi, e saltò nella cesta uccidendone tre,
prima che Harris potesse assestargli un colpo di padella.
Harris disse che ero io che lo incoraggiavo. Niente affatto vero. A un cane come quello
non occorrono incoraggiamenti. È il peccato naturale e originale che gli fa commettere delle
imprese simili.
Il bagaglio fu finito alle dodici e mezzo; e Harris si adagiò sulla cesta grossa, dicendo di
sperare che non si sarebbe trovato nulla di rotto. Giorgio disse che se qualche cosa era rotta, era
rotta; e questa riflessione parve lo confortasse. Aggiunse che era pronto per andare a letto.
Eravamo tutti pronti. Harris doveva dormire con noi quella notte, e ci avviammo di sopra.
Giocammo a sorte i letti, e Harris, cui toccò di dover dormire con me, disse:
— Preferisci l’interno o l’esterno, Gerolamo?
Risposi che preferivo generalmente di dormire nell’interno d’un letto.
Harris osservò che era vecchia.
Giorgio disse:
— Amici, a che ora vi debbo svegliare?
— Alle sette — rispose Harris.
— No — io dissi — alle sei; — perchè volevo scrivere delle lettere.
Harris e io ci bisticciammo un po’, ma infine spaccammo la differenza, e ci accordammo
per le sei e mezza.
— Svegliaci alle sei e mezza, Giorgio — dicemmo.
Giorgio non rispose, e trovammo che s’era già addormentato; e così mettemmo il bagno
in modo che potesse precipitarvi dentro, svegliandosi la mattina; e andammo a letto anche noi.
CAPITOLO V.
La signora Poppets ci sveglia. — Giorgio il pigro. — La truffa della previsione del tempo. — Il
bagaglio. — La depravazione del ragazzino. — Il popolo si raccoglie intorno a lui. — Partiamo in
pompa magna e arriviamo alla stazione di Waterloo. — Innocenza dei funzionari della strada
ferrata rispetto a simili cose mondane come i treni. — Siamo a galla, a galla in una barca aperta.
Fu la signora Poppets che mi svegliò la mattina dopo.
Essa disse:
— Sapete che son quasi le nove, signore?
— Le nove? — gridai, balzando a sedere sul letto.
— Le nove — essa rispose per il buco della toppa. — Credo che abbiate fatto tardi.
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Svegliai Harris, e glielo dissi. Egli domandò:
— Non ti volevi svegliare alle sei?
— Già — risposi; — perchè non mi hai svegliato?
— Se tu non hai svegliato me, come potevo io svegliare te? — ribattè. — Così non
saremo al fiume che dopo le dodici. Ora non serve neanche che ti dia il disturbo di alzarti.
— Uhm! — risposi — sei fortunato se mi alzo. Se io non ti avessi svegliato, saresti
rimasto a letto per tutta la quindicina.
Ci rimbeccammo a questa maniera per un po’ di minuti, quando fummo interrotti da un
suono di sfida di Giorgio, che russava profondamente. Mi rammentai allora la prima volta, dopo
il nostro risveglio, della sua esistenza. Eccolo là — l’uomo che voleva saper l’ora per svegliarci
— eccolo là, supino, la bocca spalancata e le ginocchia congiunte.
Certo, non ne so la ragione; ma la vista di chi dorme in letto mentr’io sono in piedi, mi
mette in furia. Mi rivolta vedere le ore preziose della vita d’un uomo — gl’istanti impagabili
che non ritorneranno mai più — sciupati così, in un semplice sonno da bruto.
Ecco Giorgio che sperpera in una tristissima accidia l’inestimabile dono del tempo; ecco
la sua preziosa vita, di cui deve un giorno render stretto conto, minuto per minuto, dileguarsi
inutilmente. Egli avrebbe potuto ingozzarsi di uova e prosciutto, stuzzicare il cane, o
corteggiare la fantesca, invece di starsene lì, immerso in una mortale oblivione.
Fu un tremendo pensiero, che parve lampeggiasse nello stesso istante in me e Harris.
Deliberammo di salvare Giorgio, e, con questo nobile proposito, dimenticammo la nostra
disputa. Ci slanciammo a strappargli le coperte: Harris gli diede un colpo di pantofola, e io lo
svegliai con un grido nell’orecchio.
— Alzati, dormiglione! — ruggì Harris. — Sono le dieci meno un quarto.
— Come! — gridò Giorgio, saltando dal letto nel bagno. — … Chi diavolo ha messo
questa roba qui?
Gli dicemmo che era stato uno sciocco a non vedere il bagno.
Finimmo di vestirci, e, quando arrivammo agli accessori, ricordammo d’aver chiuso nella
valigia gli spazzolini, la spazzola e il pettine (so bene che lo spazzolino sarà la mia morte), e
dovemmo andar da basso a ripescarneli. E dopo che ce ne fummo serviti, Giorgio voleva gli
strumenti da radersi. Gli osservammo che quella mattina doveva farne senza, perchè non
avremmo aperto un’altra volta la valigia, nè per lui, nè per un altro come lui.
Egli disse:
— Non dite sciocchezze. Come posso uscire così per Londra?
Era certamente abbastanza duro per Londra, ma che c’importava dell’umana sofferenza?
E Harris disse, in maniera molto volgare, che Londra s’andasse a far friggere.
Andammo da basso a far colazione. Montmorency aveva invitato altri due cani ad
assistere alla sua partenza, e intanto passavano il tempo ad azzuffarsi sulla soglia. Li calmammo
con un ombrello, e ci sedemmo innanzi alle costolette e al manzo freddo.
Harris disse:
— L’importante è di fare una buona colazione; — e cominciò con un paio di costolette,
osservando che le prendeva mentre erano calde, giacchè il manzo poteva attendere.
Giorgio s’impadronì del giornale, e ci lesse le disgrazie fluviali e marittime, e la
previsione del tempo, che vaticinava «pioggia, freddo, vento» (tutto ciò che ci può esser di
peggiore nel tempo), e qualche temporale locale, con depressione generale sulle contee centrali
(Londra e Canale). Barometro in discesa».
Io credo che fra tutte le sciocchezze e irritanti buffonerie, che ci tormentano, questa frode
della previsione del tempo sia la più grave. Essa «prevede» precisamente ciò che accadde ieri o
l’altro ieri, e precisamente l’opposto di ciò che deve accadere oggi.
Ricordo una vacanza d’un autunno passato che mi fu completamente rovinata dalla
relazione sul tempo del giornale locale. «Oggi c’è probabilità di grossi acquazzoni con fulmini»
stampò il giornale un lunedì; e noi rinunziammo alla scampagnata, e ci fermammo in casa
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aspettando la pioggia. E la gente passava sotto le finestre, riempiendo i calessi e le carrozze, più
allegra che mai, con un sole fulgidissimo e neppure una nuvoletta.
— Ah! — dicevamo, guardando, di fuori — ritorneranno a casa fradici!
E gongolavamo di piacere pensando a come si sarebbero bagnati, e tornavamo ad
attizzare il fuoco; e pigliammo i libri, e poi ordinammo le nostre collezioni di alghe e di
conchiglie. Alle dodici, col sole che inondava la stanza, il calore si fece opprimente, e ci
domandammo quando sarebbero cominciati quei grossi acquazzoni.
— Ah! vedrete che si rovesceranno nel pomeriggio — ci dicevamo l’un l’altro. — La
gente tornerà inzuppata. Che allegria!
All’una, la padrona di casa venne a domandarci perchè non uscissimo con una così bella,
giornata.
— No, no — rispondemmo con la risata di chi la sa lunga — noi no. Non abbiamo
l’intenzione di fare un bagno... no, no.
E dopo che il pomeriggio se ne fu quasi andato, e non si avvertiva ancora nessun indizio
di pioggia, provammo a rallegrarci con l’idea che un rovescio di pioggia si sarebbe scatenato
tutto a un tratto, appunto quando la gente si sarebbe avviata per il ritorno, lontana da qualunque
riparo, in modo che sarebbe stata inaffiata più che mai. Ma non cadde neppure una goccia
d’acqua, e così finì una magnifica giornata e quindi una bellissima sera.
La mattina appresso leggemmo che sarebbe stata una «bella, calda, giornata». Ci
vestimmo con gli abiti leggeri, e uscimmo, e mezz’ora dopo che eravamo partiti, si scatenò una
fortissima pioggia, e si mise a imperversare un vento terribilmente freddo che durò tutto il
giorno. Tornammo a casa col raffreddore e pieni di reumi, e ce ne andammo a letto.
Il tempo è una cosa alla quale non arrivo: io non la capisco mai. Il barometro è inutile:
inganna come le previsioni dei giornali.
Ce n’era uno appeso in un albergo di Oxford, dove stavo la primavera scorsa, e, quando
io vi arrivai, indicava «bello stabile». Semplicemente fuori pioveva che Dio la mandava, e
l’aveva mandata tutto il giorno; e io non potevo assolutamente capirne nulla. Picchiai il
barometro, ed esso diede un salto e indicò «molto secco». Il lustrascarpe dell’albergo, che
passava, si fermò, e disse di credere che volesse intendere per il domani. Immaginai che forse il
barometro pensava alla settimana prima, ma il lustrascarpe disse di no, credeva di no.
La mattina seguente picchiai di nuovo il barometro, e la pioggia si rovesciò più forte che
mai. Il mercoledì andai a picchiarlo di nuovo, e la lancetta girò verso «bello stabile», «molto
secco» e «molto caldo», finchè non fu arrestata dal piolo, e non potè andar più oltre.
L’istrumento faceva tutto ciò che gli era possibile: era fabbricato in modo che non poteva
profetare «bello stabile» con più energia senza rompersi. Evidentemente avrebbe voluto
seguitare, e prognosticare siccità, carestia d’acqua, colpi di sole, monsoni e simile roba, ma il
piolo glielo impediva, e si doveva rassegnare a indicare il semplice e volgare «molto secco».
Intanto, la pioggia veniva giù a torrenti, e la parte bassa della città era sott’acqua, perchè
il fiume aveva traboccato.
Il lustrascarpe disse che certo qualche volta si sarebbe avuto un lungo periodo di
magnifico tempo, e lesse una poesia stampata a capo sull’estremità dell’oracolo che diceva:
Lunga la previsione, è breve la durata;
ma quando è a breve termine, è subito passata.
Quell’estate il bel tempo non venne mai. Credo che lo strumento alludesse alla primavera
seguente.
Poi vi sono quelle nuove fogge di barometri lunghi e dritti. Io non ci ho mai capito nè
capo nè coda. V’è un lato per le dieci antimeridiane di ieri, e un lato per le dieci antimeridiane
di oggi; ma sapete bene che uno non può alzarsi sempre a quell’ora. Esso sale o discende per la
pioggia e il bel tempo, per il vento forte o debole, e se lo picchiate non vi dice nulla. E dovete
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correggerlo secondo il livello del mare, e ridurlo al metodo Fahrenheit; ma anche allora io non
ci capisco nulla.
Ma chi è che vuol sapere che tempo farà? È già abbastanza cattivo quando viene, senza
aver l’infelicità di saperlo in anticipo. Il profeta che piace a noi è quel vecchio il quale, la
mattina d’un giorno particolarmente fosco, che noi vogliamo sia bello, guarda in giro
l’orizzonte con uno sguardo di speciale intelligenza, e dice:
— Ah, no, signore, io credo che si rischiarerà, e sarà abbastanza bello.
— Ah, lui lo sa — diciamo noi, che desideriamo il bel tempo, e partiamo; — strano come
questi vecchi sanno regolarsi!
E per quell’uomo sentiamo un’affezione, che non è diminuita dal fatto che il tempo non si
rischiara, ma continua a piovere tutto il giorno.
— Ah, bene, — diciamo — egli ha fatto quello che ha potuto.
Per l’uomo, che vaticina il brutto tempo, invece, abbiamo dei sentimenti di rancore e di
vendetta.
— Credete che si rischiarerà? — gridiamo allegramente, passando.
— Eh, no, signore; temo che durerà così tutto il giorno — risponde scotendo il capo.
— Stupido vecchio! — mormoriamo. — Che ne sai poi? — E, se la sua predizione risulta
esatta, ritorniamo a casa con una sorda ira contro di lui, o con una vaga idea che, in un modo o
nell’altro, egli abbia avuto mano nella faccenda.
Quella speciale mattina era troppo lucente e radiosa, perchè la triste lettura di Giorgio «il
barometro in discesa», «disturbi atmosferici, che passano in linea obliqua sull’Europa del sud»,
e «pressione in aumento», ci sconvolgessero molto; e così, trovando ch’egli non poteva
rattristarci e non faceva che sciupare il suo tempo, gli strappai la sigaretta che s’era arrotolata
per sè, e me ne andai.
Poi Harris e io, preparate le poche carabattole rimaste sul tavolino, trasportammo tutto il
bagaglio sulla soglia di casa, e aspettammo una carrozza.
Il bagaglio ci sembrò molto, dopo che lo vedemmo raccolto tutto insieme. V’era la valigia
monumentale e la valigetta, le due ceste, un grosso rotolo di coperte, quattro o cinque soprabiti
e gl’impermeabili, un po’ d’ombrelli, e poi un mellone da solo in un sacchetto, perchè era
troppo voluminoso da trovar posto in qualche parte, un paio di libbre d’uva in un altro
sacchetto, un ombrello di carta giapponese, e una padella, che essendo troppo lunga da esser
cacciata in qualche parte, era stata avviluppata con carta grigia.
Tutto aveva l’apparenza d’un lotto da portare a vendere, e Harris e io ce ne vergognammo
un po’, benchè non ne sapessimo dir la ragione. Nessuna vettura passava, ma passavano i
monelli e, interessati, a quanto pareva, alla mostra, si fermavano.
Il garzoncello di Bigg fu il primo a comparire. Bigg è il nostro fruttivendolo, e la sua più
grande abilità consiste nell’assicurarsi i servizi dei marmocchi più maleducati e abbandonati
che la civiltà abbia mai prodotti. Se nel nostro vicinato avviene qualche cosa di più canagliesco
del solito fra la ragazzaglia, sappiamo che è l’ultima del garzone di Bigg. Si diceva che, al
tempo dell’assassinio di Great Coran Street, si fosse rapidamente concluso che il garzone di
Bigg (di quel periodo) non fosse stato del tutto estraneo alla faccenda, e che se egli non fosse
stato capace, in risposta all’interrogatorio al quale lo aveva assoggettato il n. 19 (quando gli
erano state date delle ordinazioni, la mattina, dopo il delitto), assistito dal n. 21, che in quell’ora
era per caso sulla soglia della propria abitazione, di provare un completo alibi, avrebbe passato
un brutto quarto d’ora. Io non conoscevo allora il garzone di Bigg, ma da ciò che ho veduto
negli altri suoi successori dopo, neanch’io avrei dato a quell’alibi molta importanza.
Il garzone di Bigg, com’ho detto, sbucò primo dalla cantonata. Era evidentemente in gran
fretta, nel primo istante che gli albeggiò la visione, ma, come scòrse Harris, me, Montmorency
e la roba, allentò il passo e si mise a guardare. Harris e io lo fissammo con le ciglia aggrottate,
atto che avrebbe ferito una natura più sensibile; ma i garzoni di Bigg non sono di regola
suscettibili. Si fermò di proposito deliberato, a un passo dalla soglia di casa nostra, e,
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raccattando una paglia da biasciare, ci fissò insolentemente. Evidentemente intendeva veder
partire tutta la baracca.
Un momento dopo sbucò il garzone del droghiere dal lato apposto. Il garzone di Bigg lo
salutò.
— Ehi, se ne va il pianterreno del numero 42.
Il garzone del droghiere traversò la via, e si piantò sull’altro lato della soglia. Allora
giunse il signorino della bottega del calzolaio che si strinse al garzone di Bigg; mentre un altro
monello, sovraintendente ai recipienti vuoti della bettola della cantonata, prendeva una
posizione indipendente sul marciapiede.
— Accidenti alle provviste! Non hanno intenzione di morir di fame — disse il signorino
del calzolaio.
— Anche tu ti porteresti qualche cosa — ribattè l’ultimo monello — se dovessi fare la
traversata dell’Atlantico in una barchetta.
— Non faranno la traversata dell’Atlantico — interruppe il garzone di Bigg; — partono
alla ricerca di Stanley.
Intanto s’era raccolta una piccola calca, e la gente si domandava di che cosa si trattasse.
Alcuni (la parte giovanile e fantasiosa della folla) sostenevano che si trattava d’un matrimonio e
indicavano Harris come lo sposo; mentre i più attempati e sagaci della plebaglia eran tratti a
credere che si trattasse d’un funerale, dicendo che probabilmente ero io il fratello del morto.
Finalmente, spuntò una vettura vuota (è una via, dove, di regola, quando non ne
occorrono, di vetture vuote ne passano in media tre al minuto, e sfarfalleggiano in giro e vi si
caccian fra i piedi), e montatici noi e i nostri beni mobili, e cacciando un paio di amici di
Montmorency, che avevano evidentemente giurato di non abbandonarlo, partimmo seguiti dalle
grida e dagli applausi della folla, e da una carota scagliataci dal garzone di Bigg per augurio.
Arrivammo alla stazione di Waterloo alle undici, e domandammo di dove partisse il treno
delle undici e cinque. Naturalmente nessuno lo sapeva; nessuno alla stazione di Waterloo sa
mai di dove un treno deve partire, o dove va un treno quando parte, o qualche altra cosa di
simile. Il facchino, che s’era assunto il nostro bagaglio, opinava che sarebbe partito dalla
piattaforma numero due, mentre un altro facchino, con cui egli discusse la questione, aveva
udito la voce che sarebbe partito da quella numero uno. Il capostazione, d’altra parte, era
convinto che sarebbe partito dalla piattaforma dei treni locali.
Per sincerarsi della faccenda, ci recammo di sopra dal direttore del traffico, il quale ci
disse d’aver incontrato appunto una persona, che aveva visto il treno sulla piattaforma numero
tre. Ci recammo alla piattaforma numero tre, ma lì i capi ci dissero di credere che quel treno
fosse piuttosto il diretto di Southampton, o forse quello della coincidenza di Windsor. Erano
certi, però, che non era il treno di Kingston, benchè non sapessero la ragione della loro certezza.
Allora il nostro facchino disse di credere che si dovesse andare alla piattaforma ad alto
livello; lo conosceva lui quel treno. Andammo quindi alla piattaforma ad alto livello, e ci
presentammo al macchinista, domandandogli se fosse diretto a Kingston. Rispose di non
poterlo dire sicuramente, ma inclinava piuttosto per il sì. Però, se non era l’undici e quindici per
Kingston, sperava che fosse quello delle nove e trentadue per Virginia Water, o il diretto delle
dieci antimeridiane dell’isola di Wight, o di qualche luogo nella stessa direzione: l’avremmo
saputo con precisione all’arrivo. Insinuammo mezza corona nella mano del macchinista, e lo
pregammo di essere l’undici e cinque per Kingston.
— Nessuno mai saprà su questa linea che cosa siate e dove andiate — perorammo. — Voi
sapete la via, e cheto cheto ve ne andate a Kingston.
— Bene, io non so, signori miei — rispose quell’anima nobile; — ma immagino che
qualche treno debba andare a Kingston. Ci andrò io.
E così andammo a Kingston.
Apprendemmo dopo che il treno col quale eravamo arrivati era veramente quello postale
di Exeter, e che si erano perdute ore e ore a cercarlo, senza sapere che ne fosse successo.
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La nostra barca ci aspettava a Kingston sotto il ponte, e verso di essa c’indirizzammo, e
intorno a essa ammucchiammo il bagaglio, e in essa discendemmo.
— Pronti, signori — disse l’uomo che la custodiva.
— Pronti — rispondemmo; e Harris ai remi, io al timone, e Montmorency, infelice e
profondamente sospettoso a prua, ci slanciammo sulle acque che ci avrebbero fatto da casa per
una quindicina.
CAPITOLO VI.
Kingston. — Osservazioni istruttive sulla storia inglese antica. — Note istruttive sulla quercia intagliata
e la vita in generale. — Triste caso di Stivving, iuniore. — Meditazioni sull’antichità. —
Dimentico di stare al timone. — Importante risultato. — Il laberinto di Hampton Court. — Harris
guida.
Era una mattinata magnifica, della fine della primavera, o dell’inizio dell’estate, come
meglio vi piace, e la squisita lucentezza dell’erba e delle foglie si stava mutando in un verde più
cupo: l’anno sembrava una bella vergine giovinetta che tremasse di segreti e strani palpiti
sull’orlo della femminilità.
Le bizzarre strade posteriori di Kingston apparivan, dove venivano ad affacciarsi sull’orlo
del fiume, veramente pittoresche nella fulgida luce del sole, col fiume che scintillava gremito di
barche, con la strada dell’alzaia boscosa, con le eleganti villette sull’uno e l’altro lato, con
Harris, che aveva una giubba rossa e arancione e brontolava sui remi, con la visione distante del
vecchio e grigio palagio dei Tudor. Era un quadro radioso, così lucente, ma calmo, così pieno di
vita e pure così tranquillo, che, sebbene fosse di mattina presto, mi pareva di essere
fantasticamente cullato come in un sogno pensoso.
Pensavo a Kingston o «Kynigestun», come era chiamato nei giorni che i re sassoni
v’andavano a incoronarsi. Il gran Cesare traversò lì il fiume, e le legioni romane s’accamparono
su quei declivî. Cesare, come più tardi la regina Elisabetta, sembra si fermasse da per tutto:
soltanto, egli era più rispettabile della buona regina Betta: non discendeva a tutte le locande.
Era appassionata delle locande, la regina d’Inghilterra. Non v’era un albergo di qualche
attrattiva, nel raggio di dieci miglia da Londra, nel quale, a quel che si dice, non fosse una volta
o l’altra entrata, o non si fosse fermata, o non avesse dormito. Mi domando ora, facendo
l’ipotesi che Harris cominciasse una vita nuova, divenisse un grande e brav’uomo, e fosse
nominato primo ministro, e morisse, se non verrebbero messe delle lapidi sulle liquorerie e i
ristoranti da lui frequentati: «Harris bevve un bicchiere in questa casa», «Harris prese qui due
bicchierini di whisky nel 1888»; «Harris fu chiamato da qui nel dicembre 1886».
No, ve ne sarebbero troppe. Sarebbero le liquorerie da lui omesse che diventerebbero
famose: «Una liquoreria in Londra in cui Harris non bevve mai». La popolazione accorrerebbe
in folla per saper la ragione di simile abbandono.
Come il povero re Edwy dovè odiare Kynigestun? La festa dell’incoronazione era stata
una grave fatica per lui. Forse la testa di cinghiale ripiena di dolci non gli era piaciuta (so che
non sarebbe piaciuta neppure a me), ed egli ne aveva abbastanza del vino di Xeres e d’idromele,
e sparì quatto quatto dall’orgia strepitosa per avere un’ora di tranquilla luce lunare con la diletta
Elgiva.
Forse, dal vano della finestra, con le mani allacciate, essi guardavano la calma luce della
luna sul fiume, mentre dalle sale lontane l’orgia strepitosa fluttuava in echi interrotti di cupo
trambusto.
Le forze brutali di Odo e san Dustan si aprirono il varco nella cheta stanza, e scagliarono
atroci insulti alla regina dal dolce viso, e trascinarono il povero Edwy fra il tremendo clamore
degli ubbriachi.
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Anni dopo, al cozzo della musica della battaglia, i re sassoni e l’orgia sassone erano
sepolti a fianco a fianco, e per un po’ la grandezza di Kingston si dileguò per riaffacciarsi
ancora una volta, quanto Hampton diventò il palazzo dei Tudor e degli Stuardi, e le
imbarcazioni reali andavano ad ormeggiarsi alla riva del fiume, e i vagheggini dai fulgidi
mantelli si pavoneggiavano giù per gli scalini del fiume in attesa delle barche.
Molte delle vecchie case, intorno intorno, parlano molto eloquentemente di quei giorni
che Kingston era un borgo reale, e la lunga strada verso le porte del palazzo s’allietava tutto il
giorno di tintinnio d’acciai e di palafreni caracollanti, di sete fruscianti, di velluti e di graziosi
visi. Gli edifici larghi e spaziosi, con le finestre a sesto acuto, con gli enormi focolari e gli alti
comignoli, respirano i tempi delle maglie e del giustacuore, dei busti ricamati di perle, e dei
giuramenti complicati. Furono eretti nei giorni che gli uomini sapevano fabbricare. I duri
mattoni rossi non si son che consolidati col tempo, e le loro scale di quercia non scricchiolano e
non brontolano quando si cerca di discenderne pian piano.
A proposito di vecchie scale di quercia, ricordo che ve n’è una magnificamente intagliata
in una delle case di Kingston. È in una bottega ora, in piazza del mercato, ma una volta, certo,
era nella magione di qualche gran personaggio. Un amico mio, di Kingston, entrò in quella
bottega un giorno a comprar un cappello, e, in un momento d’oblio, si mise la mano in tasca e
pagò immediatamente.
Il cappellaio, che conosce il mio amico, fu naturalmente un po’ sorpreso in principio; ma
subito riavendosi, comprendendo che qualcosa si doveva fare per incoraggiare quella specie di
commercio, chiese al nostro eroe se desiderava di vedere qualche bel lavoro di quercia
intagliata. — Il mio amico disse di sì, e il bottegaio, quindi, lo condusse a traverso la bottega,
fino alla scalinata della sua abitazione. Le balaustrate erano un modello di magnifica
esecuzione, e la parete accanto alla scala, era, da capo a fondo, tutta rivestita di quercia con
intagli che avrebbero fatto onore al più sontuoso palazzo.
Dalla scala i due entrarono nel salotto, che era un’ampia e splendida stanza, decorata di
una, alquanto strana, benchè allegra, tappezzeria di carta su fondo azzurro. Non v’era nulla di
notevole, però, in giro e il mio amico domandò perchè mai fosse stato condotto colà. Il
proprietario si avvicinò alla tappezzeria, e la picchiò. Essa rispose con un rumor di legno.
— Quercia — egli spiegò. — Tutta quercia intagliata, fino al soffitto, appunto come avete
visto sulla scalinata.
— Ma, giusto cielo! amico — esclamò l’altro; — ma, non mi vorrete dire che avete
coperto la quercia intagliata con la tappezzeria di carta azzurra.
— Sì, — rispose il cappellaio; — e m’è costata parecchio. Naturalmente doveva essere
pareggiata ben bene. Ma la stanza ora ha l’apparenza allegra. Prima era d’una tristezza mortale.
Non posso dire assolutamente che il cappellaio abbia torto (cosa questa, che, senza
dubbio, lo consolerà molto). Nei suoi panni, che sarebbero i panni del proprietario di una casa
in generale, il quale desidera di passar la vita con la maggiore leggerezza possibile e non nella
maniera del maniaco di anticaglie, egli ha ragione. La quercia intagliata è molto piacevole a
vedere, ad averne un poco, ma per quelli, la cui fantasia mira in altre direzioni, è molto
opprimente sfregarla per ogni dove. Sarebbe come vivere in una chiesa.
No, triste nel suo caso era il fatto ch’egli, che non si curava della quercia intagliata,
doveva averne il salotto tutto ricoperto, mentre della gente che ne va matta deve spendere dei
tesori per averla. Par che a questo mondo la regola sia questa. Ogni persona ha ciò che non
vuole, e ciò che vorrebbe l’hanno gli altri.
Gli ammogliati hanno le mogli, e par che non le vogliano; e gli scapoli si lamentano che
non possono averle. Della gente che tira la vita coi denti ha otto robusti figliuoli. Delle vecchie
coppie, ricche sfondate, con nessuno a cui lasciare il loro denaro, muoiono senza figli.
Poi vi sono ragazze con i loro innamorati. Le ragazze che hanno gl’innamorati non ne
hanno bisogno. Dicono che ne farebbero volentieri a meno, che essi le seccano. E perchè non
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vanno a far l’amore con la signorina tale e tal’altra, che sono brutte e vecchie, e non sono
fidanzate? Ma queste non le vogliono, gl’innamorati; non intendono sposarsi.
Non giova indugiarsi su queste cose; si diventa tristi.
V’era un ragazzo nella mia scuola che noi solevamo chiamare Sandford e Merton. Il suo
vero nome era Stivving. Era il ragazzo più straordinario ch’io avessi mai incontrato. Credo che
realmente gli piacesse lo studio. Soleva avere delle terribili liti per star levato sul letto a leggere
il greco; e, quanto ai verbi irregolari francesi, era semplicemente impossibile nasconderglieli.
Pieno di strane e non naturali idee intorno alla possibilità di far onore ai parenti e alla scuola,
agognava di guadagnarsi i primi premi, e di crescere un brav’uomo, come tutti quei deboli di
mente che hanno di queste idee. Io non avevo mai visto una così strana creatura, ma innocua,
badate, come un bambino appena nato.
Bene, quel ragazzo soleva ammalarsi circa due volte la settimana, di modo che non
poteva andare a scuola. Non vi fu mai per ammalarsi un altro simile a Sandford e Merton. Se
v’era qualche malattia nota che infuriava a dieci miglia lontano, egli la pigliava, e in maniera
grave. S’ammalava di bronchite nei giorni della canicola, e pigliava la febbre del fieno a Natale.
Dopo un periodo di sei settimane di siccità, veniva colpito dalla febbre reumatica; e usciva nella
nebbia di novembre, per tornare a casa con un colpo di sole.
Lo misero un anno sotto il gas esilarante, povero ragazzo, e gli estrassero i denti, e gli
misero la dentiera finta, perchè soffriva in continuazione d’un terribile mal di denti che poi si
trasformò in nevralgia e mal d’orecchi. Egli non stette mai senza raffreddore, salvo una volta
per nove settimane in cui ebbe la scarlattina; ed ebbe sempre i geloni alle mani e ai piedi.
Durante la grande epidemia di colera del 1871, il nostro vicinato ne rimase fortunatamente
immune. Vi fu un unico caso accertato nell’intera parrocchia: e quel caso fu il giovane Stivving.
Aveva da stare in letto quand’era malato e mangiava pollo in gelatina e crema, e dell’uva
di serra; ed egli giaceva sospiroso, perchè non gli lasciavan fare gli esercizi latini e gli
strappavan la grammatica tedesca.
E noi altri ragazzi, che avremmo sacrificato dieci trimestri di vita scolastica per esser
malati una giornata, e non avevamo alcun desiderio di dar motivo ai nostri genitori d’esser
orgogliosi di noi, non potevamo avere neppure la piccola gioia d’un torcicollo. Ci trastullavamo
nelle correnti d’aria, e ci facevan bene, rinfrescandoci; mangiavamo roba che ci doveva far
ammalare e tutto c’ingrassava invece finchè non venivano le vacanze. Allora all’alba
pigliavamo il raffreddore, la tosse canina e ogni sorta di malattia, e duravan finchè si riaprivan
le scuole: quando nonostante tutto, si faceva il contrario di quel che si doveva fare, ci sentivamo
di nuovo bene e meglio che mai.
Questa è la vita; e noi siamo come l’erba che è falciata, messa nel forno e bruciata.
Per ritornare alla questione della quercia intagliata, dovevano avere delle magnifiche
nozioni dell’artistico e del bello i nostri antenati. Giacchè tutti i tesori d’arte odierni non sono
che oggetti comuni scavati dopo tre o quattrocento anni. Io mi domando se vi sia una reale,
intrinseca bellezza nelle scodelle, nei boccali da birra, negli smoccolatoi che sono tenuti tanto in
pregio ora, o se non sia soltanto l’aureola dell’età che li illumina e dà loro quel fascino che vi
scoprono i nostri occhi. Le vecchie terraglie azzurre che adornano le nostre pareti erano i
comuni oggetti familiari di pochi secoli fa; e i pastorelli rosei e le pastorelle gialle che noi
pigliamo in mano oggi, e mostriamo ai nostri amici perchè spasimino d’ammirazione, fingendo
d’intenderli, erano gli ornamenti soliti della mensola del camino, che la mamma del secolo
decimottavo dava al piccino da succhiare quando piangeva.
Sarà lo stesso nel futuro? Gl’impareggiabili tesori dell’oggi saranno sempre le comuni
inezie del giorno prima? Saranno i piatti con cui noi desiniamo oggi, schierati sopra i caminetti
dei grandi nell’anno duemila e tanti? Le candide tazze con l’orlo e il bel fiore d’oro dentro (di
specie sconosciuta), che le nostre persone di servizio ora rompono allegramente, saranno poi
accuratamente rappezzate, messe su una mensoletta e spolverate soltanto dalla padrona di casa?
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Penso al cane di porcellana che adorna la camera da letto del mio appartamentino
ammobiliato. È un cane bianco dagli occhi azzurri, dal naso d’un rosso delicato con chiazze
nere. Ha la testa dolorosamente ritta, con un’espressione di amorevolezza che arriva fino
all’orlo dell’imbecillità. Io non lo ammiro affatto. Considerandolo come un lavoro d’arte, posso
dire che m’irrita. I miei poco riguardosi amici ne sorridono, e la mia stessa padrona di casa non
ha alcuna ammirazione per lui, e ne scusa la presenza in casa col fatto che glielo ha regalato la
zia.
Ma fra un paio di secoli è più che probabile che quel cane sarà dissepolto in questa o
quella parte, senza le gambe e con la coda tronca, e sarà venduto per porcellana antica e messo
in un armadietto a vetri. Si rimarrà sorpresi dalla meravigliosa profondità del colore del naso, e
si faranno delle congetture sulla coda perduta, che doveva essere bellissima.
Noi, nell’età nostra, non vediamo la bellezza di quel cane, che ci è troppo familiare. Esso
è come il tramonto del sole, come le stelle: la loro bellezza non ci fa riverenti, perchè per i
nostri occhi è comune. Così con quel cane di porcellana. Nel duemila duecento ottantotto la
gente spalancherà gli occhi ammirati. La manifattura di cani simili sarà divenuta un’arte
perduta. I nostri discendenti si domanderanno meravigliati come mai noi riuscissimo a
modellarli, e celebreranno la nostra abilità. Si alluderà a noi amabilmente, come a «quei
magnifici vecchi artisti che fiorivano nel secolo decimonono e producevano quei cani di
porcellana».
Si parlerà del «modello» che la figliuola maggiore ricamò a scuola come della
«tappezzeria dell’êra vittoriana» e non ci sarà denaro che lo comprerà. Si darà la caccia ai
boccali bianchi e azzurri degli alberghi di campagna odierni, e saranno screpolati e slabbrati,
venduti a peso d’oro, e i ricchi li useranno per i vini fini, e i viaggiatori giapponesi
compreranno tutti i «Doni di Ramsgate» e i «Ricordi di Ramsgate», che potranno essere
sfuggiti alla distruzione, e se li porteranno a Jeddo come antiche curiosità inglesi.
A questo punto Harris gettò via i remi, si levò, lasciando il suo posto, si sedette sul dorso,
e congiunse le gambe in aria. Montmorency urlò, fece un salto mortale, e la cesta di sopra balzò
e cadde, riversando tutto ciò che conteneva.
Io fui alquanto sorpreso, ma rimasi calmo. Dissi, piacevolmente:
— Ohi! Perchè mai?
— Perchè mai? Perchè...
No, ripensandoci, non ripeterò ciò che disse Harris. Io posso aver avuto la mia parte di
torto, lo ammetto; ma nulla scusa la violenza di linguaggio e la villania delle espressioni,
specialmente in un uomo, che, come Harris, è stato attentamente educato. Io pensavo ad altro, e
avevo dimenticato, come chiunque avrebbe potuto facilmente comprendere, che reggevo il
timone, e la conseguenza fu che noi ci mischiammo un po’ troppo con la strada dell’alzaia. Fu
per quel momento difficile distinguere fra noi e la riva di Middlesex; ma ci ritrovammo dopo un
po’, e potemmo separarci dalla riva.
Harris, però, disse che aveva lavorato abbastanza per un tratto, e mi invitò a lavorare a
mia volta; così, siccome eravamo nella barca, io uscii e presi il cavo di rimorchio, tirandolo fin
oltre Hampton Court. Che bel vecchio muro è quello che corre lungo il fiume in quel senso!
Tutte le volte che ci passo mi sembra di sentirmi meglio alla sua vista. Un vecchio muro, dolce,
morbido e lucente! Che bel quadro formerebbe col lichene che s’arrampica in un punto, il
musco che s’arrampica in un altro, con una timida, giovane vite che s’affaccia sulla vetta da una
parte, per veder che accade sulla corrente affaccendata, e la mite, vecchia edera, che s’ammassa
un poco più giù! Vi sono cinquanta ombre e tinte e sfumature in ogni dieci metri di quel
vecchio muro. Se solo sapessi disegnare, e come dipingere, certo potrei fare un bello schizzo di
quel vecchio muro. Spesso ho pensato che mi piacerebbe vivere ad Hampton Court. Sembra
così cheto e tranquillo, ed è un così caro recesso da vagarvi la mattina presto, prima che molta
gente sia in giro.
31
Ma, ecco, non credo che me ne curerei più che tanto, se si venisse ad attuare il mio
desiderio. Sarebbe così spettrale e cupo e deprimente la sera quando la vostra lampada gittasse
delle ombre paurose sui muri rivestiti di legno, e l’eco di grida lontane sonasse a traverso i
corridoi di marmo, e ora s’avvicinasse, ora s’allontanasse, e tranne le pulsazioni del proprio
cuore, non si sentisse che un mortale silenzio.
Noi siamo creature del sole, noi uomini e donne. Amiamo la luce e la vita. Ecco perchè ci
affolliamo nei paesi e nelle città, e la campagna diventa ogni anno sempre più deserta. Alla luce
del sole — nelle ore del giorno, quando la natura è viva e tutta affaccendata intorno a noi,
amiamo abbastanza le apriche colline e i boschi profondi; ma la notte, che la nostra madre terra
s’è addormentata, lasciandoci svegli, ahi! il mondo ci sembra così desolato, e noi abbiamo
paura, come bambini in una casa silenziosa. Allora ci sediamo a singhiozzare, e bramiamo le
vie illuminate dal gas, e il suono delle voci umane e la corrispondente pulsazione della vita
umana. Ci sentiamo così soli e così piccini nella gran calma, quando gli alberi bui stormiscono
al vento notturno. Vi sono tanti spettri in giro, e i loro taciti sospiri ci fanno sentir così tristi. E
ci raccogliamo nelle grandi città, e accendiamo dei grandi falò d’un milione di becchi di gas, e
gridiamo e cantiamo insieme per darci coraggio!
Harris mi domandò se io avessi visto mai il laberinto di Hampton Court. Aggiunse
d’esservi andato una volta a mostrare a qualche altro la via. L’aveva studiato su una carta, ed
era così semplice che il laberinto gli sembrava una sciocchezza — degno appena dei quattro
soldi che si pagavano per l’ingresso. La carta doveva esser stata disegnata per abbindolare i
gonzi, perchè non corrispondeva affatto affatto alla realtà, e traviava invece di guidare. Era un
cugino di campagna, che Harris aveva accompagnato.
— Noi ci andremo — aveva detto Harris al cugino — e così tu potrai dir di esserci stato,
ma è semplicissimo. È una sciocchezza chiamarlo laberinto. Tu continui a infilare la prima
voltata a destra, cammini per una diecina di minuti, e poi vai a fare colazione.
Incontrarono della gente che era entrata, la quale disse che vi s’era aggirata per tre quarti
d’ora e n’aveva abbastanza. Harris invitò tutti a seguir lui, se loro non dispiaceva; egli entrava
appunto allora, avrebbe fatto il giro, e sarebbe uscito. Lo ringraziarono per tanta cortesia, gli si
misero dietro e s’avviarono.
Raccolsero per via varie altre persone che volevano uscire, finchè non raggrupparono
quanti erano presenti nel laberinto. Persone che avevano rinunziato alla speranza di vederne la
fine e di uscirne mai più, o di rivedere la casa e i parenti, ripresero coraggio alla vista di Harris
e della sua compagnia, e si unirono alla processione, benedicendolo. Harris raccontava che
dovevano essere almeno in venti a seguirlo; e una donna con un piccino, la quale s’era aggirata
lì tutta la mattina, gli si aggrappò al braccio, per paura di perderlo.
Harris continuava a voltare a destra, ma la via sembrava lunga, e il cugino gli disse di
immaginare che il laberinto fosse enorme.
— Ah, uno dei più grandi! — disse Harris.
— Sì dev’esser così — rispose il cugino — perchè abbiamo percorso almeno un paio di
miglia.
Harris cominciò a pensare che il laberinto fosse piuttosto bizzarro, ma continuò ad andare
sinchè, infine, non inciamparono in un mezzo panino di due soldi che il cugino di Harris giurò
di aver veduto già in terra sette minuti prima. — Oh, impossibile! — ma la donna col piccino
disse: — Verissimo — perchè lei stessa l’aveva strappato prima dalle mani del bambino e
gettato lì, prima d’incontrare Harris. Aggiunse anche che avrebbe desiderato di non incontrarlo
mai, esprimendo l’opinione ch’egli era un impostore. Questo mandò sulle furie Harris, che cavò
la carta e spiegò la sua teoria.
— La carta può anche essere esatta — disse uno della compagnia — ma bisognerebbe
sapere in che punto ora ci troviamo.
Harris non lo sapeva, e dichiarò che la cosa migliore sarebbe stata di tornare indietro
all’ingresso e cominciare da capo. Per cominciare da capo non vi fu molto entusiasmo; ma
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riguardo all’opportunità di tornare all’ingresso vi fu unanimità assoluta, e così tornarono, a
rimorchio di Harris, nella direzione opposta. Passarono circa altri dieci minuti, e poi si
ritrovarono nel centro.
Harris pensò sulle prime di fingere che era quello il punto al quale aveva mirato; ma il
branco aveva un aspetto pericoloso, ed egli decise di considerar la cosa un semplice caso.
A ogni modo, essi ora avevano un punto da cui partire. Sapevano dove si trovavano: la
carta fu consultata ancora una volta, la cosa parve più semplice che mai, e si misero in via per la
terza volta.
E tre minuti dopo erano di nuovo nel centro.
Dopo, non seppero arrivare più in nessun altro punto. Qualunque via infilassero, essa li
portava indietro nel mezzo. Divenne una cosa tanto normale, infine, che alcuni si fermarono lì e
aspettavano che gli altri facessero un giro per vederli tornare. Harris cavò di nuovo la carta,
dopo un poco, ma quella vista fece montare in bestia la folla, che gli gridò d’andare con la sua
carta ad arricciarsi i capelli. Harris, come poi disse, non potè non sentire che, in un certo modo,
aveva perso la fiducia popolare.
Divennero tutti furiosi, infine, e chiamarono gridando il custode, il quale corse ad
arrampicarsi sulla scala al di fuori, e di lì gridò delle istruzioni. Ma i visitatori avevano, a
quell’ora, una così turbinosa confusione in testa che furono incapaci di afferrar nulla. Così il
custode raccomandò loro di fermarsi dove si trovavano, chè sarebbe andato lui. Si
aggrupparono, e aspettarono; quegli discese e andò.
Disgrazia volle ch’egli fosse un custode giovane, e nuovo del luogo. Quindi egli non potè
trovarli, e vagò in giro, tentando di raggiungerli, ma si smarrì. I visitatori lo vedevano di tanto
in tanto correre contro l’altro lato della siepe; ed egli vedeva essi, e correva per raggiungerli;
ma lo aspettavano per cinque minuti, e poi quegli riappariva di nuovo esattamente allo stesso
punto, domandando dove si fossero cacciati.
Si dovè aspettare che tornasse da desinare il vecchio custode, prima che potessero uscire.
Harris disse che, per quanto lui poteva giudicare, era un bel laberinto; e noi ci
accordammo che avremmo tentato di mandarvi Giorgio, al nostro ritorno.
CAPITOLO VII.
Il fiume nella sua veste domenicale. — Equipaggiamento sul fiume. — Un’occasione per gli uomini. —
Assenza di gusto in Harris. — La giubba di Giorgio. — Una giornata con la donna vestita secondo
il figurino. — La tomba della signora Thomas. — L’uomo che non si diletta di tombe, di feretri e
di scheletri. — Harris furioso. — Le sue opinioni su Giorgio, le rive e la limonata. — Acrobazia
di Harris.
Fu mentre passavamo per Moulsey che Harris mi narrò la sua prova del laberinto. Ci volle
qualche tempo per passar la chiusa, perchè la nostra era l’unica barca, e la chiusa di Moulsey è
grande. Non mi ricordavo d’averla mai vista prima con un’unica barca. Essa è, credo, neppure
eccettuata quella di Boulter, la più affollata.
Io son stato a guardarla, talvolta, quando non vi si vedeva affatto acqua, ma solo una
splendida confusione di lucenti giubbe, di berretti gai, di cappellini civettuoli, di parasoli a vari
colori, di coperte di seta, di mantelli, di nastri ondeggianti e di elegante biancheria; quando a
guardar sulla chiusa dalla riva si poteva immaginar che essa fosse un’enorme cassa in cui fiori
d’ogni colore e sfumatura fossero stati gettati confusamente e stessero ammucchiati in un fascio
d’arcobaleni, per tutti gli angoli.
Le belle domeniche essa presenta questo aspetto quasi tutta la giornata, mentre su per la
corrente e giù per la corrente, stanno, aspettando il loro turno, fuori delle porte, lunghe schiere
di altre imbarcazioni; e imbarcazioni s’avvicinano e s’allontanano, così che il fiume radioso, su
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dal Palazzo alla chiesa di Hampton, è punteggiato e chiazzato di giallo, di azzurro, d’arancione,
di bianco, di rosso e di roseo. Tutti gli abitanti di Hampton e di Moulsey si vestono in costume
fluviale e vanno a gironzare intorno al fiume con i loro cani, e corteggiano le ragazze, fremono
e guardano le barche; e fra i berretti e le giacche degli nomini, le belle acconciature colorate
delle donne, i latrati festosi dei cani, le barche che passano, le vele bianche, il bel panorama e lo
scintillio dell’acqua, si gode assolutamente uno dei più bei spettacoli visibili nei pressi di questa
vecchia e fosca città di Londra.
Il fiume dà una buona occasione per abbigliarsi. Poichè, una volta su questa via, noi
uomini siamo in grado di dimostrare il nostro gusto per i colori, e credo, se volete saperlo, che
facciamo, dopo tutto, una graziosa figura. A me piace d’avere sui vestiti sempre un po’ di rosso.
Sapete che la mia chioma è come se fosse d’un bel castagno dorato, piuttosto una bella
sfumatura, mi s’è detto, e il rosso scuro le si accompagna bellamente; e poi, credo che una
cravatta di leggero azzurro le si adatti bene, per non dir del paio di scarpe di cuoio russo e un
fazzoletto rosso di seta intorno alla vita — un fazzoletto è più bello d’un cinturino.
Harris, invece, tiene alle sfumature e ai misti di arancione o di giallo, ma non credo
ch’egli se ne intenda troppo. La sua carnagione è troppo scura per i gialli. I gialli non gli si
confanno: è indiscutibile. Io vorrei ch’egli prendesse l’azzurro come sfondo, rilevato dal bianco
o dal crema; ma, vedete, meno una persona ha gusto e più ostinata si mostra. È un gran peccato,
perchè egli non farà mai bella figura, mentre vi sarebbe qualche colore in cui egli veramente
non parrebbe così brutto, come appare con quel suo cappello.
Giorgio ha comprato, per questa escursione, della roba nuova, ed io ne sono piuttosto
irritato. La giubba è atroce. Non mi piacerebbe che Giorgio sapesse il mio giudizio, ma
veramente non conosco altra parola per designarla. La portò a casa e ce la mostrò giovedì sera.
Gli domandammo di che colore egli credeva che fosse, e ci rispose che non sapeva. Il mercante
gli aveva detto ch’era di disegno orientale. Giorgio se la mise e ci domandò come ci paresse.
Harris disse che come un oggetto da piantare in un’aiuola in primavera, per spaventare gli
uccelli, egli l’avrebbe rispettata, ma che, considerata come un capo di vestiario per qualunque
essere umano, tranne che per un negro di Margate, gli stava male. Giorgio si stizzì; ma, come
Harris gli disse, se non voleva la sua opinione, perchè gliela domandava?
Ciò che turba Harris e me, sul conto di quella giubba, è che noi temiamo di attirare
l’attenzione pubblica sulla nostra barca.
Le ragazze, poi, non stanno male in una barca, se son vestite graziosamente. Nulla è più
attraente, secondo me, di un indovinato abito da barca. Ma un «costume da barca» — che
fortuna se tutte le signore lo capissero — deve essere un costume che può essere portato in una
barca e non semplicemente sotto una campana di vetro. La gita è addirittura rovinata se c’è
nella barca gente che in tutto il tempo pensa più al vestito che alla passeggiata. Ebbi la disgrazia
una volta di vogare con due signore di questa specie. Che divertimento!
Erano entrambe elegantemente vestite — tutte merletti e stoffa di seta, e fiori, e nastri e
scarpette squisite e guanti sottili. Ma erano abbigliate per un gabinetto di fotografia, non per
un’escursione in barca. Portavano il costume da barca d’un figurino francese. Era ridicolo,
trattandosi di doverlo mettere in contatto con la terra, con l’aria e con l’acqua.
La prima cosa alla quale pensarono fu che la barca non era pulita. Noi spolverammo tutti i
sedili, perchè si sedessero, e poi le assicurammo che tutto era pulito; ma non ci vollero credere.
Una sfregò il cuscino con l’indice del guanto, e mostrò il risultato all’altra, e sospirarono
entrambe, e si sedettero con l’aria dei primi martiri cristiani che si provavano ad accomodarsi
contro il palo del supplizio. A noi càpita di tanto in tanto di spruzzare un po’ d’acqua remando,
e parve che una goccia d’acqua avesse rovinato i due abiti. Il segno non si cancellò mai, e la
macchia, rimase in eterno.
Ero io che remavo a poppa, e facevo del mio meglio, mettendo di piatto il remo a sessanta
centimetri di altezza, fermandomi alla fine d’ogni colpo per lasciare stillar le pale prima di
voltarle, scegliendo un tratto eguale d’acqua per tuffarle ogni volta. (Il prodiere disse, dopo un
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po’, ch’egli non si sentiva abile abbastanza da remare con me, ma che si sarebbe riposato, se
glielo avessi permesso). Ma, nonostante ciò, e per quanto facessi, non potevo evitare che di
tanto in tanto qualche spruzzo d’acqua non arrivasse su quelle vesti.
Le signorine non si lamentavano, ma si rannicchiavano insieme, e stringevano le labbra, e
ogni volta che arrivava loro una goccia, si contraevano visibilmente e rabbrividivano. Era un
sublime spettacolo la loro tacita sofferenza, ma io mi sentivo assolutamente snervato: sono
troppo sensibile. Divenni selvaggio e furioso coi remi, e feci spruzzar l’acqua che più forte non
potevo.
Ci rinunziai finalmente, e dissi che avrei remato a prua. Il prodiere disse che forse sarebbe
stato meglio, e ci scambiammo il posto. Le donne cacciarono un sospiro involontario di sollievo
quando mi videro andare, e per un momento s’irradiarono perfino. Povere ragazze! dalla
padella nelle brace. Il rematore che avevano adesso era una specie di ottuso giovialone
spensierato, con meno sensibilità d’un cucciolo di Terranova. Voi potevate lanciargli degli
sguardi furiosi per un’ora, e lui non li vedeva, e non se ne sarebbe dato per inteso, se li avesse
visti. Egli diede un forte, sollazzevole, vigoroso colpo che fece salir in alto gli spruzzi come
zampilli di fontana, e cacciò tutti in piedi in un momento. Dopo ch’ebbe sparso quattro litri
d’acqua su uno di quei vestiti, fece un bel risolino, e disse:
— Vi chieggo scusa — e offerse alle donne un fazzoletto per asciugarsi.
— Oh, non importa — mormorarono in risposta le poverine, e si tirarono di soppiatto
addosso coperte e soprabiti per tentar di proteggere sè stesse e i parasoli.
A colazione se la passarono molto male. Gli altri vollero sedersi sull’erba, e l’erba era
impolverata, e i tronchi degli alberi, contro i quali furono invitate ad appoggiarsi, pareva che
non fossero stati spazzolati da settimane: così stesero i loro fazzoletti al suolo e si sedettero sui
fazzoletti, come impalate. Qualcuno, girando con un pasticcio di carne, inciampò su una radice,
e mandò in terra il pasticcio. Fortunatamente non ne furono sfiorate, ma il caso le avvertì d’un
nuovo pericolo e le agitò; e tutte le volte che qualcuno si moveva, dopo, con qualche cosa in
mano che potesse cadere e toccarle, lo seguivano con gli occhi con crescente ansietà, finchè non
lo vedevano seduto.
— Ora dunque, signorina — disse loro l’amico rematore, allegramente dopo che tutto fu
finito; — avanti, dobbiamo far pulizia.
Sulle prime non compresero; ma quando afferrarono l’idea, dissero di temere di non saper
come fare.
— Oh, ve lo insegnerò io! — egli esclamò. — È un divertimento. Vi sedete giù sul
vostro... voglio dire vi chinate sulla riva, e così, sapete, lavate gli oggetti nell’acqua.
La sorella maggiore temeva, disse, di non avere indosso degli abiti adatti.
— Oh, non fa, nulla — disse quegli spensieratamente — vi tirate un po’ più su le gonne.
E ve le obbligò, dicendo che quel lavacro era la più bella cosa dell’escursione; ed esse
osservarono ch’era interessante.
Ora che ci ripenso, era quel giovane ottuso come noi credevamo? oppure era... No,
impossibile, v’era in lui un’espressione così infantile e semplice!...
Harris voleva andare nella chiesa di Hampton a vedervi la tomba della signora Thomas.
— Chi è la signora Thomas? — domandai.
— Che vuoi che ne sappia io? — rispose Harris.
— Una donna che s’è fatta fare una tomba curiosa, e io vorrei vederla.
Io mi opposi. Non so se son fatto male, ma sembra che io non provi mai un vivo desiderio
sepolcrale. So che la prima cosa da fare, quando si arriva in un paese o in una città, si è di
precipitarsi nel cimitero, a divertirsi con le tombe; ma è un divertimento del quale faccio
sempre a meno. Non m’interessa affatto vagare in chiese tristi e fredde dietro dei vecchi
asmatici a leggere epitaffi. Neanche la vista d’un bronzo screpolato ficcato in una pietra mi dà
ciò che chiamo un reale piacere.
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Io offendo dei rispettabili custodi con l’imperturbabilità che son capace di assumere
innanzi eccitanti iscrizioni; e con la mia mancanza di entusiasmo per la storia delle famiglie del
luogo, e la mia mal dissimulata ansietà di correre all’aperto, ferisco terribilmente i loro
sentimenti.
Un’aurea mattina di un giorno radioso, addossato contro il muretto basso che circonda la
piccola chiesa d’un villaggio, fumavo, beandomi della calma gioia della dolce, tranquilla scena
— la grigia antica chiesa con la sua massa d’edera, il suo bizzarro portico di legno intagliato, il
bianco sentiero che serpeggiava giù per la collina fra alte file di olmi, i tetti delle case che
spiavano fra le siepi bene eguagliate, il fiume d’argento nella valle e le colline boscose più
oltre.
Era un bel panorama, idillico, poetico e ispiratore. Mi faceva sentir nobile e pio. Non
volevo essere mai più malvagio e peccatore. Sarei andato a vivere lì, e non sarei mai più caduto
nel male, e avrei condotto una vita immacolata, e avrei avuto i capelli d’argento, divenuto
vecchio, eccetera, eccetera.
In quel momento perdonai a tutti i miei amici e parenti la loro malignità e la loro
malvagità, e li benedissi. Essi non sapevano che li benedicevo. Continuavano nella loro triste
vita assolutamente inconsapevoli di ciò che io, lontano in quel tranquillo villaggio, stavo
facendo per loro; ma io li benedicevo, e avrei voluto far loro sapere il mio atto, perchè
desideravo che si sentissero felici. Stavo così meditabondo in questi sublimi e teneri pensieri,
quando la mia fantasticheria fu interrotta da un’acuta, stridula voce che gridava:
— Sì, signore, vengo, vengo. Sì, signore, senza fretta.
Levai lo sguardo e vidi un vecchio calvo che, traverso il cimitero, se ne veniva alla mia
volta zoppicando, con un grosso mazzo di chiavi in mano, scotendolo e facendolo tintinnare a
ogni passo.
Lo allontanai, solennemente dignitoso, con un cenno, ma egli continuava ad avanzare,
stridendo intanto:
— Vengo, signore, vengo. Sono un po’ zoppo. Non son più svelto come una. volta. Da
questa parte, signore.
— Va via, miserabile vecchio — dissi.
— Son venuto più presto che ho potuto, signore — rispose. — Mia moglie fino questo
momento non vi aveva visto. Seguitemi, signore.
— Vai via — ripetei. — Lasciami prima che io salti oltre il muro, e ti ammazzi.
Egli parve sorpreso.
— Non volete vedere le tombe? — disse.
— No — risposi — non voglio vederle. Voglio star qui appoggiato a questo muro. Va
via, e non mi disturbare. Io son pieno di nobili e puri pensieri, e voglio rimaner così, perchè mi
sento d’una squisita bontà. Non venir qui a infuriarmi, cacciando via tutti i miei buoni
sentimenti con le tue sciocche pietre tombali. Va via, a seppellire qualche cadavere a buon
mercato, che io pagherò metà della spesa.
Per un momento egli si sentì sconcertato. Si stropicciò gli occhi e mi guardò fisso. Io
sembravo abbastanza umano dal di fuori, ed egli non poteva comprendere. Disse:
— Voi siete forastiero. Non abitate qui.
— No — dissi — no. Tu non vorresti abitarci, se ci abitassi io.
— Bene allora — disse — voi volete veder le tombe... i monumenti... la gente sepolta,
sapete bene... i feretri.
— Tu dici una menzogna — risposi, levandomi sdegnato. — Io non voglio veder le
tombe... le tue tombe. Perchè dovrei vederle? Noi abbiamo le nostre tombe, la mia famiglia le
ha. Mio zio Podger ha una tomba, nel cimitero di Kensal Green, che è l’orgoglio di tutta quella
contrada e la cripta di mio nonno, a Bow, è capace di ricevere otto visitatori, mentre la mia
prozia Susanna ha una tomba di mattoni nel cimitero di Finchley, con un comignolo di marmo e
una specie di caffettiera in bassorilievo, e una lapide del più bel marmo che copre tutto e costa
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Dio sa quanto. Quando io ho bisogno di tombe, è lì che vado a divertirmi. Io non ho bisogno di
quelle degli altri. Quando sarai sepolto tu, verrò a veder la tua. Questo è tutto quello che posso
fare per te.
Egli si mise a piangere. Disse che una tomba aveva un pezzo di pietra, al di sopra, che
qualcuno aveva detto rappresentava probabilmente i resti della figura d’un uomo, e che un’altra
portava delle parole incise che nessuno era stato capace di decifrare.
Io rimanevo ancora ostinato, ed egli mi disse con accenti assai commossi:
— Bene, non volete vedere la finestra monumentale?
Io non volevo vedere neanche quella, ed egli sparò allora la sua ultima cartuccia. Mi
s’avvicinò e mi bisbigliò raucamente:
— Ho un paio di teschi giù nella cripta, — disse — venite a veder quelli. Ah, venite a
vedere i teschi! Voi siete un giovane in vacanza e dovete divertirvi. Venite a vedere i teschi.
Allora io mi voltai e fuggii, e, mentre me la davo a gambe, lo udii gridare:
— Ah, venite a vedere i teschi, ritornate, e venite a vedere i teschi!
Harris, però, gozzoviglia in tombe, monumenti sepolcrali, epitaffi e iscrizioni; e il
pensiero di dover rinunziare alla tomba della signora Thomas lo fece pensoso. Disse che aveva
sperato di veder la tomba della vedova Thomas dal primo momento ch’era stato proposto il
viaggio — disse che non sarebbe venuto se non fosse stato per la speranza di veder la tomba
della signora Thomas.
Gli rammentai Giorgio, e come noi dovevamo condurre la barca a Shepperton per le
cinque, dove dovevamo incontrarlo. Allora egli si scagliò contro Giorgio. Perchè Giorgio si
doveva divertire tutto il giorno, e lasciar noi trascinare quella maledetta barca su e giù per il
fiume per andare incontro a lui? Perchè Giorgio non era venuto anche lui a far qualche cosa?
Perchè non aveva fatto vacanza, e non era venuto con noi? Maledetta la banca! Che bene faceva
egli alla banca?
— Quand’io ci sono andato alla banca — continuò Harris — io non l’ho mai visto
lavorare. Sta seduto dietro un vetro tutto il giorno, tentando di far credere che lavori a qualcosa.
Che bene può far uno dietro un vetro? Io devo lavorare per vivere. Perchè egli non lavora? A
che serve egli lì, e a che servono mai le banche? Ti prendono il tuo denaro, e poi quando
firmate un assegno te lo rimandano indietro insudiciato scrivendovi sopra: «Deposito esaurito».
«Respinto al correntista». A che serve dunque? È questo il tiro che m’hanno fatto due volte la
settimana scorsa. Io non ci resisterò più a lungo. Ritirerò i miei denari. Se egli fosse qui, andrei
a vedere quella tomba. E poi non credo ch’egli sia alla banca. Si starà divertendo chi sa dove; fa
sempre così per lasciar lavorare noi. Adesso vado fuori a bere qualcosa.
Gli feci osservare che eravamo delle miglia distanti da qualunque spaccio di bevande; e
allora egli si mise a mormorare del fiume: e a che serviva il fiume, e dovevano tutti venir sul
fiume a morir di sete?
È meglio che Harris faccia a suo modo quando diventa così. Dopo che s’è sfogato, si
calma.
Gli ricordai che nella cesta c’era della limonata concentrata, e un boccale d’acqua a prua,
e che non occorreva che mischiarle per fare una fresca, deliziosa bibita.
Allora egli si scagliò contro la limonata e simili acque sporche, com’egli le chiamava,
contro le orzate e gli sciroppi di amarena, che producevano tutti la dispepsia, e rovinavano
l’anima e il corpo, ed erano la causa di metà di tutta la delinquenza inglese.
Egli doveva fare qualcosa, però, e s’arrampicò sul sedile, chinandosi per afferrar la
bottiglia. Essa era proprio nel fondo del paniere, e sembrava difficile trovarla, ed egli dovè
chinarsi sempre più, e, tentando di guidare nello stesso tempo, da sotto in sopra, tirò l’altra
funicella del timone, e mandò la barca contro la sponda. L’urto lo rovesciò, ed egli affondò nel
paniere, e vi si tuffò con la testa, tenendosi disperatamente ai fianchi del battello, con le gambe
in aria. Non osava muoversi per paura di cadere, e dovè rimanere così finchè non lo afferrai per
le gambe e non lo tirai, facendolo più che mai infuriare.
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CAPITOLO VIII.
Ricatto. — Il mezzo giusto da adottare. — L’egoismo del proprietario rivierasco. — Cartelli di divieto.
— Il poco cristiano sentimento di Harris. — Come Harris canta una canzone comica. — Un
ricevimento di prima classe. — Vergognosa condotta di due esecrabili giovani. — Informazioni
inutili. — Giorgio compra un banjo.
Ci fermammo sotto i salici di Kempton Park, e facemmo colazione. È un bel posticino
quello: un’amena spianata erbosa, che corre lungo la riva tutta ombreggiata di salici. Avevamo
appunto iniziato il terzo piatto — il pane col prosciutto — quando un tipo in maniche di
camicia e una pipetta corta in bocca si fece innanzi, e ci domandò se sapessimo di stare in
terreno privato. Noi risponderemo che non avevamo considerato abbastanza la faccenda, da
essere in grado di arrivare a una conclusione esatta su quel punto, ma che se egli ci assicurava
sulla sua parola di gentiluomo che noi eravamo in terreno privato, lo avremmo, senza alcuna
esitazione, creduto.
Egli ci diede l’assicurazione richiesta, e noi lo ringraziammo; ma continuò a gironzarci
intorno, e siccome pareva poco soddisfatto, gli domandammo se potessimo fare qualche altra
cosa per lui; e Harris, ch’è d’istinti ospitali, gli offerse un pezzo di pane col prosciutto.
Immagino che quell’uomo dovesse appartenere a una società che aveva giurato di
astenersi dal pane col prosciutto, perchè rifiutò burberamente l’offerta, come si sentisse irritato
di essere così tentato, e ci disse che il suo dovere era di espellerci.
Harris disse che se era un dovere doveva esser compiuto, e domandò all’uomo quale idea
egli avesse riguardo al mezzo migliore per compierlo. Harris è ciò che si direbbe una persona
ben costruita, della dimensione circa numero uno, e ha un aspetto vigoroso e massiccio; e
l’uomo lo squadrò di su e di giù, dicendo che sarebbe andato a consultare il padrone, e che poi
sarebbe tornato a buttarci tutti e due nel fiume.
Naturalmente, noi non lo vedemmo più, e, naturalmente, tutto ciò che gli occorreva erano
un paio di lire. V’è un certo numero di gaglioffi rivieraschi che, durante l’estate, si fanno
assolutamente una rendita con l’aggirarsi intorno al fiume e ricattare a questo modo i gonzi.
Essi si presentano come mandati dal proprietario. Il miglior mezzo da adottare è di offrir loro il
vostro nome e l’indirizzo, e lasciare che il proprietario, se veramente ha qualcosa da fare nella
faccenda, vi citi e provi il nocumento arrecatogli per esservi seduti su un pezzettino della sua
proprietà. Ma la maggioranza della gente è così intensamente accidiosa e timida, che preferisce
incoraggiare quella tirannia col subirla, piuttosto che troncarla con l’esercizio d’un po’ di
fermezza.
Dove realmente i proprietari sono da biasimare, dovrebbero essere biasimati. L’egoismo
dei proprietari rivieraschi aumenta sempre più ogni anno. Se essi potessero fare a loro modo,
chiuderebbero interamente il Tamigi. Veramente fanno così lungo le minori correnti tributarie e
nelle acque di rigurgito. Piantano dei pali nel letto della corrente, e tirano delle catene da una
riva all’altra e inchiodano cartelli su ogni albero. La vista di quei cartelli sveglia nella mia
natura i più pravi istinti. Sento che strapperei tutti i cartelli, e li picchierei sulla testa dell’uomo
che li ha messi, fino ad ucciderlo, e poi lo seppellirei e gli metterei sulla fossa il cartello come
una lapide.
Confessai questi miei sentimenti ad Harris, ed egli dichiarò di averne di più feroci. Non
solo avrebbe ammazzato l’uomo che faceva affiggere il cartello, ma gli sarebbe piaciuto
uccidere tutta la sua famiglia, tutti i suoi amici e parenti, e poi bruciar le loro case. A me parve
che questo fosse uno spingersi troppo lontano, e lo dissi ad Harris; ma egli mi rispose:
— Ma che! Date a tutti una bella lezione e io mi metterò a cantare delle canzoni allegre
sulle macerie.
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Mi dispiaceva di sentire Harris continuare in questa sanguinaria disposizione. Noi non
dobbiamo mai permettere che i nostri istinti di giustizia degenerino in semplice spirito di
vendetta. Ci volle molto perchè io potessi persuadere Harris a considerar l’argomento in una
luce più cristiana, ma ci riuscii finalmente, ed egli mi promise che a ogni modo avrebbe
risparmiato la vita agli amici e ai parenti, e non avrebbe cantato delle canzoni allegre sulle
macerie.
Voi non avete mai sentito Harris cantare delle canzoni allegre; altrimenti comprendereste
il servizio da me reso all’umanità. Una delle idee fisse di Harris si è quella ch’egli sa cantare le
canzoni allegre; l’idea fissa, invece, fra quegli amici di Harris che lo hanno sentito, si è che non
sa farlo, che non ne sarà mai capace e che non gli si dovrebbe permettere di cantare.
Quando è in una brigata e gli vien chiesto di cantare, Harris risponde: — Bene, sapete, io
non so cantare che delle canzonette allegre — e lo dice in un tono che implica che il suo canto
però è una cosa che voi dovete udire una volta, prima di morire.
— Ah, è una bellezza! — dice la padrona di casa. — Cantatene una, signor Harris; e
Harris si leva, dirigendosi al piano, con la radiosa allegria d’un uomo dal cuor generoso, che sta
per donare chi sa che a qualcuno.
— Ora, silenzio, per piacere, tutti quanti — dice la padrona di casa, con uno sguardo in
giro. — Il signor Harris sta per cantarci una canzonetta allegra.
— Oh, che bellezza — mormorano tutti; e molti corrono dalla sala, dal piano di sopra, e
s’affrettano a chiamar gli altri dalle altre stanze, affollandosi nel salotto, sedendosi e sorridendo
beatamente in anticipo.
Allora Harris comincia.
Bene, voi non badate molto alla voce in una canzonetta allegra. Non vi aspettate dei
fraseggi e dei vocalizzi corretti. Non vi curate se chi canta s’accorge, nel bel mezzo d’una nota,
d’averla presa troppo alta, e ne discende con una stecca. Non state a sottilizzare sul tempo. Non
badate se il cantore corra due battute avanti di chi l’accompagna, e si fermi in mezzo a un verso
a discutere col pianista per cominciare la strofa da capo. Ma voi vi aspettate le parole.
Non v’aspettate che il cantore non ricordi altro che i primi tre versi della prima strofa, e
continui a ripeterli finchè sia il momento di cominciare il coro. Non v’aspettate che il cantore
v’interrompa nel mezzo d’un verso, e sorrida, e dica che esso è assai buffo, ma che gli pigli un
accidente, se se ne rammenta più. Non v’aspettate che il cantore, quando è arrivato a una parte
diversa della canzone, a un tratto si ricordi del verso dimenticato, e s’interrompa senz’altro per
tornare indietro e dirvelo immediatamente. Non vi aspettate... Bene, vi darò appunto un’idea
delle canzonette allegre di Harris, e potrete giudicare da voi.
Harris (ritto di fronte al pianoforte e volgendosi agli uditori che aspettano): — Sapete,
temo che sia molto vecchia. Credo che tutti la sappiate, sapete. Ma è l’unica che io so. È la
canzone del Giudice del «Pinafore»... No, non volevo dire il «Pinafore»... volevo dire... già
sapete ciò che volevo dire... quell’altro, sapete. Dovete tutti unirvi al coro, sapete.
(Mormorio di piacere e ansia per unirsi al coro. Brillante esecuzione del preludio della
canzone del Giudice nel «Trial by Jury» da parte d’un pianista nervoso. Arriva il momento per
Harris di slanciarsi. Harris non se ne accorge. Il pianista nervoso comincia da capo il preludio, e
Harris, cominciando a cantare nello stesso istante, emana i primi due versi della canzone
dell’Ammiraglio del «Pinafore». Il pianista nervoso tenta di seguitare col preludio, ma ci
rinunzia, e provandosi a seguire Harris con l’accompagnamento della canzone del Giudice del
«Trial by Jury», trova che non va, tenta di ricordarsi ciò che sta facendo e dove si trova, si sente
venir meno e si arresta bruscamente).
Harris (con gentile incoraggiamento): — Va bene. Veramente accompagnate benissimo.
Continuate.
Il pianista nervoso: — Temo sia accaduto un errore. Che cosa cantate?
Harris (pronto): — Ma la canzone del giudice del «Trial by Jury». Non la sapete?
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Qualche amico di Harris (dal fondo della stanza): — No, bestia, tu invece canti la canzone
dell’Ammiraglio del «Pinafore».
(Lunga discussione fra Harris e l’amico di Harris su ciò che Harris realmente canti.
L’amico finalmente dichiara che non importa ciò che Harris canti finchè Harris continuerà a
cantare; e Harris, sotto il morso intimo d’un evidente senso d’ingiustizia, prega il pianista di
cominciar da capo. Il pianista, allora, dà inizio al preludio della canzone dell’Ammiraglio, e
Harris, approfittando di ciò che considera un’apertura favorevole della musica, comincia).
Harris:
Quand’ero giovanotto e andavo in tribunale
(Generale scoppio di risa, scambiato da Harris per un complimento. Il pianista, pensando
alla moglie e alla famiglia, rinunzia alla tenzone ineguale e si ritira: il suo posto è preso da un
signore dai nervi più solidi).
Il nuovo pianista (allegramente): — Ora su, caro; voi cominciate, e io vi seguirò. Non
staremo a seccarci col preludio.
Harris (sul quale ha albeggiato pian piano la spiegazione delle cose... ridendo): — Per
Giove! Vi domando scusa. Capisco... ho mischiato insieme le due canzoni. Sapete bene, è stato
Jenkins che m’ha confuso. Ora, avanti.
(Canta. La sua voce pare che salga dalla cantina e fa pensare ai primi indizi d’un
terremoto che s’avvicina).
Quand’ero giovanetto, con zelo e con amore
servii da fattorino un celebre dottore.
(Da parte al pianista): — È troppo basso, caro; ricominceremo da capo se non vi dispiace.
(Ripete i due versi, questa volta in falsetto. Gran sorpresa da parte degli uditori. Una
vecchia signora nervosa accanto al fuoco comincia a piangere, e dev’essere condotta fuori).
Harris (continuando):
Spazzavo le finestre, spazzavo il pavimento...
E poi... No... no...
pulivo le finestre di tutto il casamento...
E pulivo il pavimento... no, acciderba... domando scusa... Strano, non mi ricordo quel
verso. E... E... Ah bene, intoniamo il coro, comunque (canta):
E din din din dina, e din din dina
or sono comandante di tutta la marina.
Ora poi, sapete, il coro... sono gli ultimi due versi ripetuti.
Coro generale:
E din din din dina, e din din dina
or sono comandante di tutta la marina.
E Harris non s’accorge della figura che fa, e come annoi un monte di persone che non gli
han fatto mai male. Egli onestamente immagina che le ha divertite, e annunzia che canterà
un’altra canzonetta dopo cena.
A proposito di canzonette allegre e di brigate, mi rammento di un incidente piuttosto
curioso, al quale assistei una volta; incidente, che proietta molta luce sull’intimo congegno della
natura umana in generale e che, perciò, credo debba essere registrato in queste pagine.
Eravamo una compagnia di gente elegante e assai colta. Avevamo i nostri abiti migliori,
parlavamo leggiadramente ed eravamo lieti — tutti, tranne due giovani studenti, reduci da poco
dalla Germania, persone comunissime, che sembravano non goder molto del trattenimento,
quasi lo trovassero troppo basso per loro. La verità era che per loro eravamo noi troppo alti. La
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nostra brillante e polita conversazione, i nostri gusti fini non erano da essi compresi. Fra noi si
sentivano come due pesci fuor d’acqua. Non dovevano mai essersi trovati in una società così
eletta. Tutti lo dissero, dopo.
Si sonarono pezzi dei vecchi maestri tedeschi. Si discusse di filosofia e di etica. Si
corteggiaron le signore con dignità piena di grazia. Si faceva dell’umorismo in modo
singolarmente elegante.
Qualcuno, dopo cena, recitò una poesia francese, e noi dicemmo che era bella, e una
signora, poi, cantò una ballata sentimentale in ispagnuolo, che fece piangere qualcuno di noi...
Era così patetica!
E infine quei due giovani si levarono, per domandarci se avessimo mai sentito Herr
Slossenn Boschen (arrivato appunto allora, e che era giù nella sala da pranzo) cantare una sua
magnifica canzonetta tedesca.
Per quanto ci rammentavamo, nessuno mai l’aveva sentita.
I due giovani dissero che era la più allegra canzonetta che fosse mai stata scritta, e che, se
mai, l’avrebbero fatta cantare da Herr Slossenn Boschen in persona, che essi conoscevano assai
bene. Era una canzonetta così irresistibile, che quando Herr Slossenn Boschen l’aveva cantata
una volta innanzi all’imperatore di Germania questi era stato trasportato via a letto. Nessuno
poteva cantarla come Herr Slossen Boschen: egli si manteneva così gravemente serio mentre la
diceva, che si poteva credere recitasse una tragedia; e questo, naturalmente, accresceva il
divertimento. Neppure un momento il suo tono e le sue maniere dimostravano ch’egli cantasse
qualche cosa di allegro... l’incanto sarebbe scomparso. Era la sua aria di gravità, quasi di
pathos, che la faceva così irresistibilmente divertente.
Noi dicemmo che desideravamo di udirla, che ci volevamo allietare con una buona risata;
ed essi corsero da basso, e ci condussero Herr Slossenn Boschen.
Questi parve ben disposto a cantare, perchè venne subito di sopra, e si accomodò innanzi
al pianoforte senza dire una parola.
— Ah, vi divertirà. Riderete — bisbigliarono i due giovani, traversando la sala, e
mettendosi modestamente dietro il professore.
Herr Slossenn Boschen si accompagnava da sè. Il preludio non faceva veramente pensare
a una canzonetta allegra. Era una strana, triste aria, che faceva arricciare la pelle; ma ci
mormorammo l’un l’altro che era il metodo tedesco, e ci preparammo a ridere.
Quanto a me, io non capivo il tedesco. L’avevo imparato a scuola, ma ne avevo
dimenticato tutte le parole due anni dopo, e da allora mi son sentito sempre molto meglio. Pure,
io non volevo che la gente indovinasse la mia ignoranza; così m’appigliai a ciò che io credetti
una buona idea. Fissai l’occhio sui due giovani studenti, e li imitai. Quando essi sorridevano, io
sorridevo; quando essi scoppiavano a, ridere, io scoppiavo a ridere; e anche di tanto in tanto
uscivo in una risatina da per me, come se avessi scoperto un tratto d’umorismo che agli altri era
sfuggito. E questo lo giudicai molto scaltro da parte mia.
M’accorsi, mentre la canzonetta continuava, che molti altri fissavano i due giovani,
seguendo il mio sguardo. Quegli altri sorridevano anch’essi quando i due giovani sorridevano, e
scoppiavano a ridere quando i due giovani scoppiavano a ridere; e siccome i due giovani
sorridevano e ridevano e schiattavano dalle risate quasi continuamente per tutta la canzone, si
andava ch’era una meraviglia.
E pure il tedesco non sembrava soddisfatto. In principio, quando noi cominciammo a
ridere, l’espressione del suo viso fu di intensa sorpresa, come se la risata fosse l’ultima cosa con
la quale sperava d’esser salutato. L’atto ci parve molto buffo, e quella sua maniera grave
formava metà del divertimento. Il minimo cenno da parte sua ch’egli sapeva d’esser comico
avrebbe rovinato completamente tutto. Siccome noi continuavamo a ridere, la sua sorpresa fu
seguita da un’aria di molestia e d’indignazione, ed egli scagliò a tutti in giro uno sguardo torvo
(tranne ai due giovani, che gli stavano di dietro e che non poteva vedere). Questo ci fece
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sbellicare dalle risa. Ci dicemmo tutti l’un l’altro che era da morire. Le parole sole ci avrebbero
fatto schiattar dal ridere; ma aggiunte a quella simulata serietà... oh, era troppo.
Nell’ultima strofa, egli si superò. Sfolgorò su noi uno sguardo di tanta concentrata ferocia
che, se non fossimo stati preavvertiti del metodo tedesco in fatto di canzonette allegre, ce ne
saremmo impauriti; ed emise un gemito e una nota così straziante in quella sinistra musica, che
se non avessimo saputo che era una canzonetta allegra, avremmo finito col piangere.
Finì fra un tremendo strepito di risate. Dichiarammo che quella era la cosa più allegra che
a questo mondo avessimo mai udita. Che stranezza, di fronte a roba come quella, che si fosse
radicata l’idea che i tedeschi non avessero sentimento di umorismo! E noi domandammo al
professore perchè non traducesse la canzone in inglese, perchè tutti potessero udirla e saper che
cosa volesse dire una canzonetta allegra.
Allora Herr Slossenn Boschen si levò, e divenne terribile. Imprecò contro di noi in
tedesco (che io credo sia a questo scopo una lingua efficacissima) e si mise a saltare, scotendo i
pugni, e ci ingiuriò con tutto l’inglese che sapeva. Egli disse che in tutta la vita non era stato
mai oltraggiato a quel modo.
Si apprese che la canzonetta non era per nulla affatto comica. Parlava d’una fanciulla che
abitava nelle montagne dell’Hartz, e che aveva dato la vita per salvare quella dell’innamorato:
questi, poi, aveva incontrato lo spirito di lei in aria; quindi, nell’ultima strofa, egli respingeva lo
spirito della fanciulla, e se ne andava con lo spirito d’un’altra. Non son certo dei particolari, ma
la cosa era molto triste, ed Herr Slossenn Boschen l’aveva cantata una volta alla presenza
dell’imperatore di Germania, e questi aveva singhiozzato come un bambino. Herr Boschen
diceva che era generalmente conosciuta come una delle più tragiche e patetiche composizioni
della lingua e della musica tedesche.
La nostra situazione divenne imbarazzante... molto imbarazzante. Non avevo visto mai
prima una brigata sciogliersi così tranquillamente, e con così poco fracasso. Nessuno disse
neppure buona sera all’altro. Filammo per le scale uno alla volta, in punta di piedi, tenendoci
dal lato dell’ombra. Chiedemmo al cameriere il cappello e il soprabito con un bisbiglio, e ci
aprimmo la porta da noi, infilandoci fuori, correndo fino alla cantonata, ed evitando il più che
fosse possibile tutti gli altri.
Da allora non mi sono mai più interessato alle canzonette tedesche.
Giungemmo alla chiusa di Sunbury alle tre e mezzo. Il fiume lì, prima di arrivare agli
sbarramenti, è veramente bello, e la vista delle acque di rigurgito è incantevole; ma non tentai di
remarvi.
Una volta mi ci provai. Remavo e domandai agli amici che stavano al timone se
credevano che si potesse fare; ed essi mi dissero di sì, che lo credevano... bastava remare con
vigore. Eravamo sotto la piccola passerella che sta sui due sbarramenti, e io m’incurvavo sui
remi, e picchiavo giù con tutta la forza.
Remavo splendidamente, con un magnifico slancio ritmico, sforzando nella fatica non
soltanto le braccia, ma anche le gambe e la schiena. I colpi erano rapidi e vigorosi, veramente di
magnifico stile. I miei due amici dissero che era un piacere guardarmi. Alla fine di cinque
minuti, credevo di esser chi sa quanto vicino alle porte della chiusa, e levai gli occhi. Eravamo
sotto la passerella, esattamente nel punto dove ci trovavamo quando avevo cominciato, e quei
due idioti si sganasciavano dalle risa. Io ero stato a lavorar come un matto per tener la barca
incollata sotto quel ponte. Ora lascio agli altri remare contro le forti correnti nelle acque di
rigurgito.
Vogammo fino a Walton, che, quale città rivierasca, è piuttosto grande. Come tutti i paesi
lungo il fiume, solo un angoletto si spinge fino sulla riva, così che dalla barca si potrebbe
immaginarla un villaggio d’una mezza dozzina di case in tutto. Windsor e Abingdon sono le
sole città fra Londra e Oxford delle quali si può veder qualche cosa dal fiume. Tutte le altre si
nascondono, e si affacciano semplicemente alla riva con una casa: le ringrazio tanto per la loro
bontà, giacchè lasciano le sponde del fiume ai boschi, ai campi e alle opere idrauliche.
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Anche Reading, benchè si sforzi di guastare, d’insudiciare e d’imbruttire quanto più può
del fiume, è abbastanza buona da nascondere la sua brutta faccia assai lontano.
Cesare, naturalmente, ebbe un posticino a Walton — un accampamento, un
trinceramento, o qualcosa di simile. Cesare risalì regolarmente il fiume, come anche la regina
Elisabetta. Dovunque si vada, non è possibile liberarsi da quella donna. Cromwell e Bradshaw
(non l’autore dell’orario ferroviario, ma il ministro di re Carlo), parimenti soggiornarono qui.
Dovevano formare proprio una bella compagnia.
V’è il bavaglio di ferro nella chiesa di Walton. Si usavano simili strumenti nei tempi
antichi per mettere un freno alla lingua delle donne. Ma ora, ci s’è rinunziato. Forse il ferro
diventava scarso, e null’altro sarebbe stato abbastanza forte.
Vi sono anche delle belle tombe nella chiesa, e io temevo di non esser capace di farle
omettere ad Harris; ma egli non ci pensò, e passammo. Al di sopra del ponte il fiume si vede
serpeggiare terribilmente, e questo lo rende così pittoresco; ma irrita chi deve remare o
trascinare la barca a rimorchio, e fa bisticciare il rematore col timoniere.
Sulla destra qui c’è il parco di Oatlands. È un punto famoso nella storia. Enrico VIII lo
rubò non so più a chi, e prese ad abitarlo. V’è una grotta nel parco che si può vedere a
pagamento, e che si crede sia meravigliosa; ma io non ci scopro gran che. La defunta duchessa
di York, che visse a Oatlands, era appassionata di cani e ne aveva un numero infinito. Essa fece
fare un cimitero apposito nel quale seppellire quelli che le morivano: e ve ne son sepolti una
cinquantina con una lapide ornata d’un epitaffio.
Bene, si può dire che i cani la meritino, quasi quanto i cristiani in generale.
A Corway Stakes — la prima curva oltre il ponte di Walton — fu combattuta la battaglia
fra Cesare e Cassiovelanno. Cassiovelanno aveva preparato il fiume per Cesare, facendovi una
piantagione di pali (ci aveva messo senza dubbio un cartello). Ma Cesare, nonostante ciò, lo
attraversò. Non si poteva cacciar Cesare dal fiume. È la specie di uomo che ci vorrebbe ora
sulle acque di rigurgito.
Halliford e Shepperton sono veramente graziosi dove toccano la riva; ma nè l’uno nè
l’altro hanno nulla di notevole. V’è una tomba, però, nel cimitero di Shepperton, con un
epitaffio in poesia, e io temevo forte che Harris volesse sbarcare e andare a trastullarvisi. Lo
vidi fissare uno sguardo di desiderio sul punto di sbarco, mentre si avvicinava; ma io mi
destreggiai in modo, con un abile movimento, da fargli cascare il berretto nell’acqua, e lui,
nell’eccitazione per ricuperarlo e l’indignazione per la mia sbadataggine, dimenticò tutto della
sua diletta tomba.
A Weybridge, la Wey (una piccola, graziosa corrente navigabile per le piccole barche fino
a Guildford, che io ho avuto sempre in mente di esplorare senza decidermi mai), il canale di
Bourne e quello di Basingstoke, entrano tutti completamente nel Tamigi. La chiusa è proprio di
fronte alla città, e la prima cosa che vedemmo, nel tratto innanzi alla chiusa, fu la giubba di
Giorgio su una delle porte. Guardando bene, ci parve che Giorgio fosse al di dentro.
Montmorency si mise ad abbaiare furiosamente, io mi misi a strillare, Harris a urlare:
Giorgio si mise ad agitare il cappello, e a urlare in risposta. Il custode della chiusa si precipitò
con una gaffa, credendo che qualcuno fosse caduto nella chiusa, e poi parve seccato trovando
che non era caduto nessuno.
Giorgio aveva in una mano uno strano pacchetto coperto di pelle lucida, rotondo e piatto a
un’estremità, e un lungo manico ritto nell’altra.
— Che è? — disse Harris. — Una padella?
— No — disse Giorgio, con uno strano, folle sguardo scintillante; — fanno furore in
questa stagione. Sul fiume tutti ne posseggono uno. È un banjo.
— Non sapevo che tu sonassi il banjo! — gridammo io e Harris in un punto solo.
— Sonare, non lo so sonare — rispose Giorgio; — ma è molto facile, m’han detto; e io ho
il libro con l’istruzione.
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CAPITOLO IX.
Giorgio vien presentato al lavoro. — I perversi istinti del cavo di rimorchio. — Ingrata condotta d’uno
schifo a due remi. — Rimorchiatori e rimorchiati. — Per gl’innamorati. — Strana sparizione
d’una donna. — Molta fretta e poca velocità. — L’esser rimorchiati dalle ragazze: divertente
esperimento. — La chiusa mancante del fiume stregato. — Musica. — Salvi.
Ora che lo avevamo, mettemmo Giorgio al lavoro. Naturalmente, egli non voleva
lavorare, non serve dirlo. Aveva lavorato tanto in città, ci disse. Harris, che è d’indole dura e
poco disposto alla pietà, disse:
— Ah, e per cambiare ora devi lavorare molto sul fiume; un diversivo fa bene a tutti.
Fuori dunque!
Giorgio non poteva in coscienza — neanche nella sua coscienza — obiettar nulla, benchè
dicesse che, forse, sarebbe stato meglio che lui fosse rimasto nella barca a preparare il tè,
mentre io e Harris avremmo atteso al rimorchio, perchè preparare il tè era fastidioso, e io e
Harris avevamo l’aria stanca. La sola nostra risposta, però, fu di consegnargli il cavo di
rimorchio, ed egli lo prese e passò sulla sponda.
V’è qualche cosa di strano e di misterioso nel cavo di rimorchio. L’arrotolate con molta
cura e con molta pazienza, come si piegherebbe un paio di calzoni nuovi, e cinque minuti dopo,
ripigliandolo, è un pauroso terribile intrico.
Io non intendo calunniare nessuno, ma credo fermamente che se si prende un cavo di
media grandezza, e si tira ben dritto a traverso un campo, e poi gli si voltano le spalle per trenta
secondi, si troverà, a guardarlo di nuovo, tutto in un mucchio in mezzo al campo, tutto attorto e
legato in nodi, coi due capi perduti, e un’immensa confusione: ci vorrà una buona mezz’ora, e
bisognerà sedersi sull’erba, per bestemmiare e distrigarlo.
Questa è la mia opinione sui cavi in generale. Naturalmente vi possono essere delle
onorevoli eccezioni, non dico di no. Vi possono essere cavi di rimorchio che fanno onore alla
loro professione — dei coscienziosi, rispettabili cavi di rimorchio — cavi di rimorchio che non
immaginano d’essere lavori a uncinetto da comporsi a coprispalliera nel momento che sono
abbandonati a sè stessi. Io dico che vi possono essere dei cavi così fatti; sinceramente m’auguro
che ci siano; ma io non ne ho mai conosciuti.
Il cavo di rimorchio l’avevo preso io stesso poco prima di arrivare alla chiusa. Ma l’avevo
lasciato toccare ad Harris, perchè Harris è uno sbadato. L’avevo arrotolato attentamente e
cautamente, legato nel mezzo, e piegato in due, e deposto pianamente nel fondo della barca.
Harris l’aveva sollevato scientificamente, consegnandolo nelle mani di Giorgio. Giorgio l’aveva
preso saldamente, tenendolo lontano da sè, e aveva cominciato delicatamente a svolgerlo come
se stesse togliendo la fasciatura a un neonato e, prima d’averne svolto una dozzina di metri, il
cavo aveva assunta, più che d’altro, la forma d’uno stuoino mal fatto.
È sempre lo stesso, accade sempre la stessa cosa in relazione col cavo. Chi sta sulla riva a
tentare di distrigarlo, pensa che la colpa sia di chi l’ha arrotolato, e chi ha il cavo di rimorchio,
quando pensa una cosa, la dice!
— Che ne volevi fare, una rete da pesca? Hai fatto un bel pasticcio! Non potevi
arrotolarlo a modo, bestia che non sei altro? — brontola di tanto in tanto, affaticandosi, e lo
mette di piatto sulla strada d’alzaia, e gli gira intorno per trovarne l’estremità.
D’altra parte, quello che l’ha arrotolato pensa che la cagione del danno sia tutta di chi ha
tentato di svolgerlo.
— Stava benissimo, quando tu l’hai preso! — esclama indignato. — Perchè non pensi a
quello che fai? Sempre le cose a casaccio. Saresti capace di annodare un palo.
E si sentono così adirati l’uno verso l’altro che s’impiccherebbero a vicenda col cavo.
Passano dieci minuti, e quello sulla riva emette un latrato e s’infuria, e balla sul cavo, e prova a
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stenderlo, impadronendosi del primo pezzo che gli capita in mano e tirando. Naturalmente,
l’intrico diventa più confuso che mai. Allora l’altro esce dalla barca e va ad aiutarlo, e l’uno
impaccia l’altro, l’uno impedisce l’altro. Entrambi afferrano lo stesso pezzo del cavo, e lo tirano
in direzione opposta, e si domandano meravigliati chi è che lo tiene. Alla fine lo scoprono, e poi
si voltano per veder che la barca se n’è andata da sè e corre dritta verso lo sbarramento.
Questo, per quanto io so, accadde veramente una volta. Si era lassù presso Boveney, una
mattina piuttosto ventosa. Si remava secondo corrente, e quando ci avvicinammo alla curva,
scorgemmo due persone sulla riva. Si guardavano con un’espressione di tanto disperata
infelicità, che non ne avevo visto mai una simile, e tenevano fra esse due un lungo cavo di
rimorchio. Era chiaro che qualche cosa era accaduto, e ci fermammo a chiedere che c’era.
— Abbiamo perduto la barca! — risposero in tono indignato. — Stavamo distrigando il
cavo, e quando ci siamo voltati, la barca non c’era più.
E sembravano feriti da ciò che evidentemente giudicavano un atto di bassezza e
d’ingratitudine da parte della barca.
Trovammo la fuggitiva un mezzo miglio più giù, trattenuta da un po’ di giunchi, e la
riportammo indietro ai due infelici. Scommetto che per una settimana almeno non diedero più
alla barca altra occasione di svignarsela.
Io non dimenticherò mai il quadro di quelle due persone che passeggiavano su e giù per la
riva col cavo in mano, cercando la barca.
Si assiste sul fiume a molti allegri incidenti relativi al rimorchio. Uno dei più comuni è lo
spettacolo di due rimorchiatori, che vanno innanzi allegramente, immersi in un’animata
discussione, mentre quello che sta nella barca, a centinaia di metri lontano, si spolmona a
gridare invano di fermare e a far dei gesti frenetici con un remo. È accaduto qualche guasto; si
sarà schiodato il timone, la gaffa sarà scivolata nell’acqua, a lui sarà caduto il cappello che se
ne va rapidamente alla deriva. Egli grida che i due si fermino, in principio con molta cortesia.
— Ehi! fermate un istante, per piacere! — grida allegramente. — M’è caduto il cappello
nell’acqua.
Poi: — Ehi! Tommaso... Riccardo! non sentite? — non più con la stessa affabilità.
Poi: — Ehi! Che il diavolo vi pigli, stupidi idioti! Ehi! fermate. Oh, voi...!
Dopo si mette a ballare, a saltare in giro, sgolandosi da diventar scarlatto in viso, e
maledicendo tutto ciò che conosce. E i monelli sulla sponda si fermano a deriderlo, e gli
lanciano dei sassi, perchè egli corre lontano, alla velocità di quattro miglia all’ora, e non può
balzare sulla sponda a rincorrerli.
Molti inconvenienti di questa specie si eviteranno se quelli che tirano il cavo,
rammenteranno che stanno rimorchiando, e, di tanto in tanto, daranno uno sguardo al compagno
che segue nella barca. È meglio che tiri il cavo una persona sola. Quando sono in due, si
mettono a chiacchierare e si dimenticano di ciò che fanno, e la stessa barca, offrendo se non una
lieve resistenza, non serve molto a rammentar loro il proprio dovere.
Quale esempio di come un paio di rimorchiatori possano dimenticare assolutamente il
loro lavoro, Giorgio ci raccontò, la sera che stavamo discutendo dell’argomento a cena, un fatto
molto curioso.
Lui e tre altri amici, egli ci disse, una sera conducevano a forza di remi una barca assai
carica da Maidenhead, e un po’ al di sopra della chiusa di Cookham videro un giovanotto e una
ragazza, che camminavano lungo l’alzaia, immersi in una conversazione certo molto animata e
importante. Avevano in mano tutti e due una gaffa, e attaccato alla gaffa v’era un cavo di
rimorchio, che li seguiva con l’estremità nell’acqua. Nessuna barca era vicina, nessuna barca
era in vista. Ci doveva essere stata in qualche momento una barca attaccata a quel cavo, questo
era certo; ma che fosse successo della barca, qual triste destino l’avesse raggiunta con quelli che
erano stati abbandonati dentro, era impossibile dire. Checchè fosse accaduto, però, nulla
turbava la signorina e il giovanotto, che tiravano il cavo. Avevano la gaffa, e avevano il cavo,
ed era tutto quello che credevano necessario al loro lavoro.
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Giorgio stava per gridare e riscuoterli, quando gli lampeggiò una magnifica idea, e
tacque. Prese un uncino invece e lo sporse, e v’infilò l’estremità del cavo; poi con gli amici fece
un cappio nel cavo, e lo infilò nell’albero. Allora mise con gli amici da parte i remi, e s’andò a
sedere a prua, con la pipa accesa.
E il giovanotto e la signorina rimorchiarono quei quattro idioti e una barca pesante fino a
Marlow.
Giorgio disse che non aveva mai visto tanta pensosa tristezza concentrata in un’occhiata,
come quando, alla chiusa, la giovane coppia capì che, per le ultime due miglia, aveva
rimorchiato una barca non sua. Giorgio comprese che se non fosse stato per riguardo alla dolce
fanciulla al suo fianco, il giovanotto si sarebbe abbandonato a delle violente escandescenze.
La ragazza fu la prima a riaversi dalla sorpresa, e allora congiunse le mani e disse,
follemente:
— Oh, Enrico, e la zia dov’è?
— Ritrovarono mai la vecchia signora? — chiese Harris.
Giorgio rispose di non saperlo.
Di un altro esempio della pericolosa mancanza di simpatia fra rimorchiatore e rimorchiati
fummo testimoni Giorgio e io, una volta, nei pressi di Walton. Fu dove la strada d’alzaia
discende pianamente nell’acqua, e noi stavamo accampati sulla riva opposta, osservando le cose
in generale. Venne a poco a poco in vista una barchetta, rimorchiata a un terribile passo, da un
enorme cavallo montato da un ragazzotto. Sparse per la barca, in atteggiamento di riposo e di
sogno, stavano cinque persone; ma quella al timone aveva un aspetto particolarmente
tranquillo.
— Mi piacerebbe che sbagliasse a tirare la funicella del timone — mormorò Giorgio,
mentre quelli passavano. E in quel preciso istante il timoniere sbagliò, e la barca urtò contro la
sponda con uno strepito che parve lo strappo di quarantamila pezze di tela. Due uomini, una
cesta e tre remi, lasciando immediatamente il battello da babordo, s’abbandonarono sulla
sponda, e un istante e mezzo dopo altri tre uomini sbarcavano da tribordo, e si abbandonavano
fra gaffe, vele, valige e bottiglie. L’ultimo uomo arrivò venti metri lontano, e poi apparve ritto
sulla testa.
Questo parve alleggerire la barca, che andò innanzi molto più facilmente, giacchè il
ragazzotto gridava a squarciagola, incitando il cavallo al galoppo. Le persone sedute si
guardavano a vicenda. Ci volle qualche secondo prima che capissero ciò che era accaduto; ma,
quando lo capirono, cominciarono a gridare rumorosamente al ragazzo di fermarsi. Questo,
però, troppo occupato col cavallo, non li sentì, e noi vedemmo tutti corrergli dietro, finchè la
distanza non ce li nascose.
Io non posso dire che la loro disgrazia mi dolesse. M’augurerei anzi che tutti gli sciocchi
che si fanno rimorchiare a questo modo — come è costume di molti — incontrassero sempre lo
stesso destino. Oltre al rischio che corrono essi personalmente, costituiscono una molestia e un
pericolo per tutte le altre barche che passano. Andando alla velocità che vanno, è impossibile
per loro dar via libera agli altri o per gli altri dar via libera a loro. Il loro cavo s’aggrappa al
vostro albero e vi rovescia, oppure acchiappa qualcuno nella barca, e lo getta nell’acqua, o gli
taglia la faccia. Il mezzo migliore è di star ritto al vostro posto, e di prepararvi a riceverli con
l’estremità inferiore dell’albero.
Di tutti i casi in relazione col rimorchio, il più eccitante è l’essere rimorchiato dalle
ragazze. È una sensazione che tutti si dovrebbero procurare.
Per rimorchiare ci vogliono sempre tre ragazze: due tengono il cavo, e l’altra corre
intorno intorno, e ride. Esse generalmente incominciano con l’impigliarsi nel cavo. Vi
s’impastoiano le gambe, e debbono sedersi sulla strada d’alzaia a distrigarsene, e poi se
l’attorcono intorno al collo, e quasi si strangolano. Finalmente possono allungarlo e tenerlo
disteso, e partono di corsa, tirando la barca a una velocità pericolosa. Dopo un centinaio di
passi, naturalmente non hanno più fiato, e a un tratto si fermano, e si seggono sull’erba ridendo,
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e la barca si ferma in mezzo alla corrente e si mette a girare, prima che sappiate che cosa sia
accaduto, o che possiate dar di piglio a un remo. Allora esse si levano in piedi, sorprese.
— Oh, guarda! — dicono. — È andata proprio nel mezzo.
Dopo tirano abbastanza bene per un pezzo, e poi a un tratto viene in mente a una di
appuntarsi la gonna, e si fermano perciò, e la barca corre alla sponda.
Voi saltate per scostare la barca, e gridate loro di non fermarsi.
— Sì. Che c’è? — rispondono.
— Non vi fermate — gridate.
— Che cosa?
— Non vi fermate... continuate... continuate!
— Corri, Emilia, a vedere che vogliono — dice una; ed Emilia corre e domanda che c’è.
— Che volete? — ella dice. — C’è nulla di male?
— No — rispondete — tutto bene; soltanto andate, sapete... non vi fermate.
— Perchè?
— Perchè non possiamo guidare, se state ferme. Dovete dare un po’ di forza alla barca.
— Dare che?
— Un po’ di forza... dovete far muovere la barca.
— Ah, bene, lo dirò alle mie compagne. Facciamo bene?
— Oh, sì, molto bene, davvero; soltanto non vi fermate.
— Non è affatto difficile. Credevo che fosse più difficile.
— Oh, no, è abbastanza semplice. Soltanto dovete continuare, ecco tutto.
— Capisco. Datemi lo scialle rosso ch’è sotto il cuscino.
Le trovate lo scialle e glielo date, e allora accorre un’altra che vuole anche lei lo scialle, e
prendono a caso anche quello; ma siccome Maria non ne ha bisogno, lo riportano indietro per
avere invece un pettine. Passano cinque minuti prima che esse s’incamminino di nuovo, e alla
prima voltata, veggono una mucca, e voi dovete uscire dalla barca per cacciarla fuori del
sentiero.
Non v’è mai un momento di noia nella barca quando le ragazze sono occupate al
rimorchio.
Dopo un po’, prese il cavo Giorgio, che ci rimorchiò in continuazione fino a Penton
Hook. Lì discutemmo l’importante questione dell’accampamento. Avevamo deciso di dormire a
bordo quella notte, e noi dovevamo o star lì o continuare ad andare fin oltre Staines. Ma ci
parve presto pensare di chiuderci lì allora, col sole ancora in cielo, e stabilimmo di spingerci
fino a Ramnymead, tre miglia e mezzo più oltre, una tranquilla, boscosa parte del fiume, dove
si resta ben riparati.
Tutti rimpiangemmo, dopo, di non esserci fermati a Penton Hook. Tre o quattro miglia
contro corrente è un’inezia la mattina presto, ma è una bella fatica alla fine della giornata.
Durante le ultime poche miglia non v’è alcun interesse nel panorama. Non si ciarla e non si
ride. Ogni mezzo miglio che si percorre fa l’effetto di due. Si può appena credere che si sia
arrivati soltanto dove si è, e si crede che la carta sbagli; e quando uno ha sudato per un tratto
che si è giudicato d’una diecina di miglia, e la chiusa non è ancora in vista, si comincia
seriamente a temere che qualcuno l’abbia rubata e se la sia portata via.
Ricordo una volta d’essermi sentito terribilmente sconvolto sul fiume (in senso figurato).
Ero con una signorina, mia cugina da parte di madre, e stavamo remando alla volta di Goring.
Avevamo fatto tardi, ed eravamo impazienti di rientrare — lei almeno era impaziente di
rientrare. Erano le sei e mezza passate quando raggiungemmo la chiusa di Benson, e il
crepuscolo s’avvicinava, e l’ansia di lei cresceva. Ella disse che doveva trovarsi a casa per l’ora
di cena. Dissi che anch’io sarei voluto arrivare a casa per la stessa ora; e trassi la carta che
avevo per vedere precisamente dove fossimo. Vidi che eravamo a un miglio e mezzo dalla
prossima chiusa — Wallingford — e a cinque da Wallington a Cleeve.
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— Oh, va benissimo — dissi. — Traverseremo la prossima chiusa alle sette, e dopo non
ve n’è che un’altra; — e, ripreso il mio posto, mi misi a vogare vigorosamente.
Passammo il ponte, e subito dopo le chiesi se vedesse la chiusa. Ella rispose di no, che
non vedeva alcuna chiusa. Io esclamai: — Ah! — e continuai a remare. Passarono altri cinque
minuti, e poi le dissi di guardare ancora.
— No — ella disse — non veggo alcun indizio di chiusa.
— Tu... tu sei certa di conoscere una chiusa quando la vedi? — chiesi con qualche
esitazione, non volendo offenderla.
La domanda la offese, però; ed ella mi disse che era meglio che guardassi io; così deposi i
remi, e diedi un’occhiata. Il fiume si stendeva dritto innanzi a noi nel crepuscolo, per circa un
miglio: non si vedeva neppure uno spettro di chiusa.
— E se... se avessimo smarrita la via? — chiese la mia compagna.
Io non vidi come potesse esser possibile una cosa simile; osservai, però, che forse
eravamo entrati chi sa come nella corrente dello sbarramento, e stavamo correndo verso le
cascate.
Questa idea non servì a confortar mia cugina, la quale cominciò a piangere, e previde che
ci saremmo annegati. Sarebbe stata una giusta punizione per lei che era venuta con me.
Pensai che la punizione sarebbe stata eccessiva, e sperai che tutto presto sarebbe finito.
Tentai di rassicurarla, e di trattar tutta la faccenda con leggerezza. Dissi che
evidentemente non remavo con quella rapidità che mi immaginavo; ma che ora avremmo presto
raggiunta la chiusa; e continuai a remare per un altro miglio.
Allora cominciai a diventare nervoso anch’io. Guardai di nuovo la carta. Ecco la chiusa di
Wallingford, chiaramente segnata, un miglio e mezzo sotto quella di Benson. Era una carta
accurata, e poi, ricordavo io stesso la chiusa per averla traversata due volte. Dove eravamo?
Che ci era accaduto? Cominciai a pensare che dovesse essere tutto un sogno, e che io realmente
giacessi a letto addormentato, e che fra qualche minuto mi sarei svegliato, per sentirmi dire
ch’erano le dieci passate.
Chiesi a mia cugina se non sognassimo, ed ella mi rispose che stava appunto per farmi la
stessa domanda; e allora ci domandammo se dormissimo tutti e due, e se mai, chi di noi
sognasse realmente, e chi fosse semplicemente un sogno: diventava una questione interessante.
Continuavo a remare, però, ma non si vedeva ancora nessuna chiusa, e il fiume diventava
sempre più fosco e misterioso sotto le imminenti ombre notturne; e tutto sembrava pauroso e
spettrale. Pensai agli spiriti, alle fate, ai fuochi fatui, e a quelle malvage fanciulle che seggono
la notte sugli scogli e attirano i naviganti nei vortici e nelle secche; e desiderai d’essere stato un
uomo più timoroso e pio; e in mezzo a queste riflessioni sentii sonare malamente da un
organetto le benedette note d’una canzone popolare allora in voga, e seppi che eravamo salvi.
Io non ammiro la musica dell’organetto, di regola; ma come ci sembrò bella allora —
molto, ma molto più bella della voce di Orfeo e del liuto d’Apollo, o d’altri della stessa specie
che potesse aver sonato. Una melodia celeste, nelle condizioni in cui ci trovavamo, ci avrebbe
maggiormente rattristati. Un’armonia commovente, correttamente eseguita, l’avremmo
interpretata come un monito spirituale, e avremmo rinunziato a ogni speranza. Ma le note di
quella canzone popolare, sonata spasmodicamente, e con variazioni involontarie, da un
organetto asmatico, era qualche cosa di singolarmente umano e rassicurante.
I dolci suoni continuavano ad avvicinarsi, e subito la barca da cui provenivano si fermò
accanto alla nostra.
Conteneva una brigata di «Richi» e di «Richette» provinciali, usciti per una passeggiata al
chiaro di luna. (La luna non c’era, ma non per colpa sua). Io non avevo visto mai persone più
care e simpatiche. Le salutai, e domandai se potessero indicarmi la via per la chiusa di
Wallingford; e spiegai che da due ore l’andavo cercando invano.
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— La chiusa di Wallingford! — rispose uno. — Dio vi benedica, signore, è da un anno
che l’hanno abolita. Non v’è più la chiusa di Wallingford ora. La chiusa ora è a Cleeve.
Guglielmo, hai sentito? Un signore che va cercando la chiusa di Wallingford.
Non avevo neppur pensato a una cosa simile. Avrei voluto abbracciarli tutti e benedirli;
ma la corrente era troppo forte appunto in quel momento, e così mi dovetti limitare
semplicemente a sonore, ma fredde parole di gratitudine.
Li ringraziammo cento e cento volte, e augurammo loro una bella passeggiata; e credo
d’averli invitati tutti a venire a passare una settimana con me. Mia cugina aggiunse che sua
madre li avrebbe visti tanto volentieri. E cantammo il coro dei soldati del «Fausto», e dopo tutto
arrivammo a casa in tempo per la cena.
CAPITOLO X.
La nostra prima notte. — Sotto la tela. — Si domanda aiuto. — Malignità del calderino; come vincerla.
— La cena. — Come sentirsi virtuosi. — Occorre una bella isola deserta, bene equipaggiata e
prosciugata, preferibilmente in vicinanza dell’Oceano Meridionale. — Cose buffe accadute al
padre di Giorgio. — Una notte irrequieta.
Harris e io cominciammo a pensare che alla chiusa di Bell fosse successa la stessa cosa.
Giorgio ci aveva tirati a rimorchio fino a Staines, e ci eravamo già allontanati di lì, e sembrava
che ci portassimo dietro cinquanta tonnellate, dopo aver viaggiato per quaranta miglia. Erano le
sette e mezzo quando ci fermammo, e tutti e tre entro la barca, remammo fino alla riva sinistra,
cercando un punto da ormeggiarci.
Avevamo prima l’intenzione d’arrivare all’Isola della Magna Carta, una graziosa parte del
fiume, dove esso serpeggia per una bella vallata verde, e d’accamparci in una delle molte
pittoresche rade che si trovano su quella sponda. Ma, a ogni modo, non avevamo tanto
desiderio del pittoresco come la mattina presto. Un tratto d’acqua fra un trasporto di carbone e
delle officine di gas quella sera ci avrebbe più che soddisfatti. Non avevamo bisogno di
paesaggio. Volevamo cenare e andare a letto. Però remammo fino a un punto che si chiama il
«Picnic Point» e ci fermammo in un grazioso angoletto sotto un olmo gigantesco, alle bene
espanse radici del quale legammo la barca.
Allora pensammo di prepararci da cena (avevamo rinunziato al tè, per risparmiar tempo),
ma Giorgio disse di no: era meglio, prima che si facesse buio, mentre si poteva vedere ciò che
si faceva, stendere la tela. E allora, fatto ciò che era necessario fare, potevamo sederci a
mangiare in pace.
Per mettere a posto quella tela ci volle molto più di quanto ciascuno di noi avesse mai
immaginato. La cosa sembrava così semplice in astratto. Si prendevano cinque archi di ferro,
come quelli, ma molto più grandi, del giuoco del croquet, si piantavano in giro alla barca, e su
di essi si stendeva la tela, che poi si legava in basso: si pensava che non ci occorressero neanche
una diecina di minuti. E si credeva di conceder troppo.
Prendemmo i ferri, e cominciammo per fissarli negl’incastri pronti a riceverli. Voi non
immaginate che questa sia un’operazione pericolosa; ma, ora che ci ripenso, mi meraviglio che
ci sia ancora qualcuno vivo a raccontarla. Non erano archi di ferro quelli, erano demoni. Prima
di tutto non volevano entrare negl’incastri, e noi dovemmo saltare su di essi, prenderli a calci,
martellarli con la gaffa; e dopo che furono incastrati, ci accorgemmo che avevamo scambiato
gl’incastri, forzando i ferri dove non sarebbero dovuti entrare, e dovemmo cominciare da capo.
Ma essi non volevano più uscire, e quando in due ci eravamo accaniti a lottare per cinque
minuti, un tratto balzavano improvvisamente, tentando di scagliarci nell’acqua e farci annegare.
Avevano una specie di cardini nel mezzo, e, quando non ci si badava, con essi ci addentavano
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nelle parti delicate del corpo; e, mentre stavamo lottando con un lato dell’arco, e ci sforzavamo
di persuaderlo a fare il suo dovere, l’altro lato ci assaltava codardamente, e ci colpiva in testa.
Finimmo poi con l’incastrarli; e quindi non c’era da far altro che disporre la copertura.
Giorgio la svolse e ne legò un capo alla prua della barca. Harris stava nel mezzo per prenderla
da Giorgio, e svolgerla fino a me, e io, per riceverla, mi tenevo presso la poppa. Ci volle
parecchio prima che giungesse a me. Giorgio fece la sua parte benissimo, ma era un’operazione
nuova per Harris, e allora avvenne il guaio.
Io non so dire come facesse, e neppur lui potè spiegarmelo; ma per chi sa mai quale
misterioso processo, egli riuscì, dopo dieci minuti di sforzo sovrumano, col trovarsi
completamente avvolto nella tela. Era così saldamente stretto, imprigionato e fasciato, che non
poteva più uscirne. Naturalmente faceva dei frenetici sforzi per la conquista della libertà — il
diritto di nascita di tutti gl’inglesi — e nei suoi sforzi (l’appresi dopo) stramazzò su Giorgio; e
allora Giorgio, imprecando ad Harris, cominciò a divincolarsi, per finir poi col trovarsi
impigliato e avviluppato anche lui.
In quel momento non m’ero accorto di nulla, anche perchè neppure io m’intendevo della
faccenda. M’avevano detto di stare dove mi trovavo, e d’aspettare che la tela arrivasse fino a
me; e Montmorency e io eravamo rimasti ad attendere, fedeli alla consegna. Potemmo scorgere
la tela violentemente sbattuta e agitata, con abbastanza evidenza; ma credevamo che questo
facesse parte dell’operazione, e non intervenimmo.
Udimmo anche delle espressioni molto soffocate uscir di sotto la tela, e indovinammo che
gli amici trovavano qualche difficoltà nel lavoro, ma concludemmo che dovevamo aspettare che
le cose si semplificassero un po’, prima di offrire la nostra cooperazione.
Attendemmo un poco, ma sembrava che la faccenda si complicasse sempre più, e
finalmente la testa di Giorgio apparve alla vista, contorcendosi sul fianco della barca e
gridando.
Diceva:
— Corri a dare una mano qui, brutto animale, e non startene come una mummia
imbalsamata, quando ci vedi tutti e due soffocati, bestia che non sei altro!
Io, che non ho mai resistito a un grido di soccorso, mi slanciai a liberarli, non prima però
che Harris apparisse in faccia quasi paonazzo.
Ci volle mezz’ora di fatica intensa perchè la tela fosse a posto, e poi sgombrammo il
ponte, e ci disponemmo a preparar la cena. A prua mettemmo a bollire il calderino del tè, e ci
recammo a poppa, fingendo di non badargli affatto, nell’atto che si preparava il resto.
È il solo mezzo sul fiume per far bollire il calderino. Se vede che aspettate che bolla e
siete impaziente, non si mette neanche a borbottare. Dovete allontanarvi, e cominciare a
mangiare, come se non speraste affatto il tè. Non dovete neppure voltarvi a guardare. Allora
tosto lo sentirete fervere e schizzare ansioso di ricevere il tè.
È un ottimo mezzo, inoltre, se avete fretta, mettervi a conversare con gli amici, dicendo
che del tè non avete bisogno, e che non lo volete. Vi avvicinate al calderino, in modo che possa
udirvi, e dite: — Io il tè non lo voglio; e tu, Giorgio? — al che Giorgio risponde: — Ah, no, il
tè non mi piace; piglieremo una limonata... il tè non si digerisce. — E a questo il calderino si
mette a bollire, e voi spegnete il fornello.
Adottammo questo tratto d’innocua malizia, e il risultato fu che, nel momento che tutto
era pronto, il tè aspettava. Allora accendemmo la lanterna, e ci accovacciammo a cena.
Avevamo bisogno di quella cena.
Per lo spazio di trentacinque minuti non si udì altro suono per tutta la lunghezza e la
larghezza della barca, che quello delle posate e dei piatti e il continuo macinio di quattro serie
di molari. Alla fine di trentacinque minuti, Harris disse: — Ah! — e cambiò di posto alla
gamba destra, che accavalciò sulla sinistra.
Cinque minuti dopo, Giorgio disse: — Ah! — anche lui, e gettò il suo piatto sulla riva; e
tre minuti dopo Montmorency diede il primo segno di soddisfazione da quando eravamo partiti,
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sdraiandosi a ciambella con le gambe stese; e poi io dissi: — Ah! — e ripiegai indietro la testa,
urtando contro uno degli archi; ma non ci badai. Non bestemmiai neppure.
Come uno si sente buono quando è sazio — come soddisfatto di sè stesso e del mondo!
Molti sanno di poter affermare che la coscienza limpida forma la contentezza e la felicità
dell’uomo; ma lo stomaco pieno ci riesce allo stesso modo, con più facilità e a più buon
mercato. Uno si sente così disposto al perdono e così generoso dopo un pasto sostanzioso e ben
digerito — pieno di tanta nobiltà e di tanto cuore!
È stranissimo questo dominio del nostro intelletto da parte degli organi della digestione.
Noi non possiamo lavorare, non possiamo pensare, se il nostro stomaco non vuole. È lui che ci
detta le passioni e le commozioni. Dopo le uova e il prosciutto, ci dice: — Lavorate! — Dopo
la bistecca e la birra, ci dice: — Dormite! — Dopo una tazza di tè (due cucchiaini per ogni
tazza, e non lasciarlo stare più di tre minuti), dice al cervello: — Ora lévati e mostra la tua
forza. Sii eloquente, profondo e tenero; guarda, con occhio limpido, nella natura e nella vita;
apri le candide ali del trepido pensiero, e librati, spirito divino, sul mondo turbinoso al disotto,
su per i lunghi sentieri delle stelle fiammeggianti fino alle porte dell’eternità.
Dopo le ciambelle calde, dice: — Sii ottuso e senza anima, come una bestia dei campi...
un animale senza cervello, con gli sguardi intontiti, senza un raggio di fantasia, di speranza, di
paura, di amore o di vita. E dopo l’acquavite, tracannata in sufficiente quantità, dice: — Ora su,
matto, sogghigna e barcolla, in modo che i tuoi simili possano ridere... Farnetica e barbuglia in
suoni insensati, e mostra che miserabile imbecille sia quel povero essere il cui spirito e la cui
volontà sono annegati, come micini l’uno accanto all’altro, in un paio di centimetri d’alcool. —
Noi siamo gl’infelici schiavi del nostro stomaco. Lasciate andare la moralità e la giustizia,
amici miei: vigilate accuratamente il vostro stomaco, e alimentatelo con giudizio. Allora la virtù
e la gioia vi regneranno in cuore senza alcuno sforzo da parte vostra, e sarete buoni cittadini,
mariti affettuosi e teneri padri... degli uomini nobili e pii.
Prima di cena, Harris, Giorgio e io eravamo litigiosi, mordenti e mal disposti; dopo cena,
sedevamo sorridendoci radiosamente e sorridendo perfino al cane. Ci amavamo l’un l’altro e
amavamo tutti. Harris, con un movimento brusco, pestò i calli di Giorgio. Prima di cena,
Giorgio avrebbe espresso dei desideri e degli auguri sul fato di Giorgio in questo mondo e
nell’altro che avrebbero fatto rabbrividire un uomo timorato. Ma allora disse semplicemente: —
Adagio, caro, il piede è padronale.
E Harris, invece di osservare, nel suo tono più irritato, come avrebbe fatto prima di cena,
che non era possibile muoversi, anche a dieci metri lontano da Giorgio, senza camminargli sui
piedi, implicando con ciò che Giorgio non doveva andare in una barca di dimensioni ordinarie
con piedi di quella fatta, se non voleva appenderli al di fuori, disse: — Oh, mi dispiace, caro;
spero di non averti fatto male. —
E Giorgio disse: — No, niente, non è colpa tua; — e Harris osservò che infatti, era sua.
Una delizia a sentirli.
Accendemmo tutti e tre la pipa, e seduti, guardando la calma notte, conversammo.
Giorgio domandò perchè non dovessimo trovarci sempre così, lontani dal mondo e dai
suoi peccati e dalle sue tentazioni, conducendo una vita sobria e tranquilla, dedita tutta al bene.
Io osservai che era proprio quello che avevo sempre desiderato per me; e noi discutemmo la
possibilità di andarcene, noi quattro, in qualche bell’isola deserta, a vivere nei boschi.
Harris disse che, per quanto ne sapeva, le isole deserte erano pericolose per la loro
umidità; ma non quando, osservò Giorgio, erano prosciugate a modo e bonificate.
E allora parlammo di bonifiche e di drenaggi, e questo fece venire in mente a Giorgio un
aneddoto molto allegro che era accaduto una volta a suo padre. Suo padre, egli raccontò,
viaggiava con un amico per il paese di Galles, e, una sera, essi sostarono in un alberghetto, dove
trovarono dei viaggiatori ai quali si unirono, passando allegramente la sera.
Si trattennero fino a tardi, e all’ora di andare a letto, essi (il padre di Giorgio a quel tempo
era assai giovane) erano abbastanza brilli. Presero la candela e si diressero di sopra. La candela
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urtò contro il muro quando entrarono nella camera, e si spense, ed essi dovettero spogliarsi e
andare a letto a tentoni. Ma invece di entrare in due letti separati, come credevano,
s’arrampicarono senza saperlo sullo stesso letto — il padre di Giorgio con la testa a capo, e
l’altro con la testa in fondo e coi piedi sul guanciale.
Vi fu silenzio per un momento, e poi il padre di Giorgio disse
— Giovanni!
— Che c’è, Tommaso? — rispose la voce di Giovanni dal punto opposto del letto.
— Sai, v’è un’altra persona nel mio letto — disse il padre di Giorgio; — i piedi son qui
sul mio guanciale.
— È strano, Tommaso — rispose l’altro; — ma mi pigli un accidente se anche nel mio
letto non c’è un altro.
— E che decisione prendi? — chiese il padre di Giorgio.
— Io gli dò una spinta, e lo caccio fuori — rispose Giovanni.
— Anch’io — disse il padre di Giorgio, coraggiosamente.
Vi fu una vera lotta; seguita da due sonori tonfi sul pavimento, e poi una voce dogliosa
disse:
— Ehi, Tommaso!
— Bene!
— Com’è andata?
Ecco, a dirti la verità, il mio compagno ha cacciato me invece.
— Ha fatto così anche il mio. Non credo che sia un albergo raccomandabile questo. E tu
che ne dici?
— Qual era il nome di questo albergo? — disse Harris.
— Il Cervo Bianco — disse Giorgio. — Perchè
— Ah, no, non è lo stesso — rispose Harris.
— Che intendi? — chiese Giorgio.
— È curioso — mormorò Harris — ma precisamente la stessa cosa capitò a mio padre
una volta in un alberghetto di campagna. Spesso egli raccontava questo fatto. Credevo che
potesse essere lo stesso albergo.
Noi ci mettemmo a letto alle dieci quella sera, e io pensavo di dover dormir bene, stanco
com’ero; ma non fu così. Di regola, mi spoglio, poso la testa sul guanciale, e poi qualcuno
picchia alla porta e grida che sono le otto e mezzo; ma quella sera ogni cosa era contro di me: la
novità di tutto, la durezza della barca, l’atteggiamento rattratto (stavo coi piedi sotto un sedile e
la testa su un altro); il suono dell’acqua che si frangeva contro la barca e il vento che stormiva
fra i rami degli alberi, mi facevano irrequieto e insonne.
Mi addormentai per qualche ora, e poi qualche parte della barca, che sembrava fosse
cresciuta durante la notte — perchè certo non c’era alla partenza e la mattina scomparve —
continuava a forarmi la spina dorsale. Dormii un po’ su quella incognita parte sognando d’aver
inghiottito una sterlina, e che mi stavano facendo un buco nella schiena col trapano, per tentar
di ricuperare la moneta. Mi parve una cosa poco gentile, e lo dissi a chi mi faceva l’operazione:
piuttosto sarei rimasto debitore della sterlina e l’avrei restituita alla fine del mese. Ma questa
promessa non fu trovata soddisfacente: era meglio averla subito, perchè non si accumulassero
gl’interessi. Ma dopo un po’ m’impazientii, ed espressi tutta la mia indignazione; ma infine il
trapano m’inflisse un tale straziante strappo che mi svegliai.
L’aria della barca era afosa, e la testa mi doleva; così pensai di uscir fuori alla fresca aria
notturna. Presi quegli abiti che potei trovare in giro — un po’ dei miei, e un po’ di quelli di
Harris — e strisciai di sotto la tela sulla sponda.
Era una magnifica notte. La luna era tramontata, lasciando la terra silenziosa sola con le
stelle. Sembrava come se nel silenzio e nel sopore, mentre noi suoi figliuoli dormivamo, esse
conversassero con lei, loro sorella — parlando di possenti misteri con voci troppo vaste e
profonde perchè le infantili orecchie umane potessero afferrarne il suono.
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Esse c’impongono riverenza, queste strane stelle, così fredde e così limpide. Noi siamo
come fanciulli, i cui piccoli piedi si sono smarriti nella penombra del tempio d’un dio ch’essi
sanno di dover adorare, ma non conoscono; e, in piedi dove la cupola echeggiante stende la
prospettiva della tenue luce, guardano in su, mezzo speranzosi, mezzo timorosi di vedervi
librata una terribile visione.
E pure la notte sembra così piena di consolazione e di forza. Nella sua augusta presenza, i
nostri piccoli dolori si dileguano, vergognosi. Il giorno è stato così pieno di affanni e di cure, i
nostri cuori sono stati così pieni di male e di cattivi pensieri, e il mondo ci è parso così crudele e
falso. Allora, la notte, come una grande, amorevole madre, soavemente ci pone la mano alla
fronte febbrile, e attira a sè la nostra faccia lacrimosa, sorridendoci; e benchè essa non parli,
sappiamo ciò che ci vuol dire, e mettiamo la nostra guancia accaldata contro il suo seno, e la
sofferenza è passata.
Talvolta, la nostra sofferenza è molto profonda e reale, e noi stiamo dinanzi a lei
silenziosi, perchè non abbiamo parole per esprimerla, ma soltanto un gemito. Il cuore della
notte è pieno di pietà per noi; essa non può lenire il nostro male; ci prende la mano nella sua, e
il piccolo mondo diventa assai piccolo e remoto al di sotto di noi, e, portati sulle sue buie ali,
passiamo per un momento innanzi a una presenza più augusta; e nella meravigliosa luce della
gran presenza, tutta la vita umana ci sta dinanzi come un libro, e noi sappiamo che la sofferenza
e il dolore non sono che gli angeli della divinità.
Solo quelli che hanno portato la corona della sofferenza possono reggere a quella luce
meravigliosa; ma essi, quando ne ritornano, non possono parlarne o narrare il mistero da loro
penetrato.
Una volta, in uno strano paese, cavalcavano dei pii cavalieri, e la loro strada s’addentrava
in una foresta, dove i rovi s’intricavano fitti lacerando la carne di quanti vi passavano. E le
foglie degli alberi che crescevano nella foresta erano oscurissime e folte tanto che non un
raggio di luce filtrava a traverso i rami ad attenuare la tenebra e la tristezza.
E, mentre essi andavano fra quell’oscura foresta, un cavaliere della schiera, perdendo di
vista i compagni, vagò lontano e non li raggiunse più; e questi, gravemente ambasciati, se
n’andarono senza di lui, piangendolo morto.
Ora, dopo ch’ebbero raggiunto il castello verso il quale, erano diretti, vi rimasero molti
giorni in allegria; e una notte, mentre sedevano lietamente intorno ai ceppi, accesi nella gran
sala, e bevevano una tazza fraterna, ecco il compagno smarrito presentarsi a salutarli. Aveva gli
abiti laceri, come un mendicante, e molte dolorose ferite aveva aperte nella dolce carne, ma
sulla faccia gli splendeva una gran luce di profonda letizia.
E lo interrogarono, domandandogli ciò che gli fosse accaduto; ed egli narrò come avesse
smarrito la via nella foresta oscura, e avesse vagato molti giorni e molte notti, finchè, lacero e
sanguinante, si era abbandonato in terra a morire.
Poi, quando era quasi presso a morte, ecco, nella trista oscurità, presentarglisi una solenne
donzella che l’aveva preso per mano e l’aveva condotto per difficili sentieri, sconosciuti a tutti,
finchè sul buio della foresta era albeggiata una luce di fronte alla quale la luce del giorno non
era che un lumicino a paragone del sole; e in quella stupenda luce, lo spossato cavaliere aveva
avuto come in sogno una visione, e così mirabile, così bella gli era parsa, che non aveva
pensato più alle sue ferite sanguinanti, ed era rimasto come un ammaliato la cui gioia è
profonda come il mare del quale nessuno può dire la profondità.
E la visione era svanita, e il cavaliere, inginocchiandosi in terra, ringraziò il buon santo
che gli aveva fatto smarrire la via nella profonda foresta, scoprendogli la visione nascosta.
E il nome della buia foresta era Dolore; ma della visione goduta dal buon cavaliere noi
non possiamo nè parlare nè narrare.
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CAPITOLO XI.
Come Giorgio, una volta, si alzò presto la mattina. — A Giorgio, Harris e Montmorency non piace lo
sguardo dell’acqua fredda. — Eroismo e determinazione da parte di Gerolamo. — Giorgio e la
camicia: storia con una morale. — Harris cuoco. — Retrospettiva storica, inserita specialmente
per uso delle scuole.
La mattina appresso mi svegliai alle sei, e trovai che anche Giorgio era sveglio. Ci
voltammo entrambi dall’altra parte, tentando di riaddormentarci, ma invano. Vi fosse stata
qualche ragione particolare per non doverci addormentare di nuovo, ma per levarci e vestirci
immediatamente, ci saremmo abbandonati al sonno nell’atto di guardare l’orologio, per dormire
saporitamente fino alle dieci. Siccome non v’era alcuna necessità di levarci per altre due ore
almeno, e il nostro alzarci a quell’ora sarebbe stato un’assoluta assurdità, fu solo per tenerci in
accordo con la naturale malignità delle cose in generale, che noi sentimmo entrambi che
rimanere a letto per altri cinque minuti sarebbe stato addirittura un supplizio.
Giorgio disse che la stessa specie di cose, ma in peggio, gli era accaduta circa diciotto
mesi prima, quando alloggiava da solo in casa di certa signora Gippings. Una sera, il suo
orologio andava male, e s’era fermato alle otto e un quarto, senza che egli lo sapesse, perchè, in
un modo o nell’altro, egli s’era dimenticato (un caso strano per lui) di caricarlo andando a letto
e, senza neppur guardarlo, l’aveva appeso accanto al guanciale.
Era d’inverno, nel periodo dei giorni più corti, e in una settimana di nebbia per giunta;
così il fatto che era molto oscuro, quando Giorgio si svegliò la mattina, non servì affatto a
guidarlo sul conto dell’ora. Egli stese la mano, e prese l’orologio. Erano le otto e un quarto.
— Angeli e ministri della grazia, aiutateci! — esclamò Giorgio. — E io che debbo essere
alla banca alle nove! Perchè nessuno m’ha chiamato? Vergogna! — E scagliò lontano
l’orologio, saltò dal letto, fece un bagno freddo, si lavò, si vestì, si fece la barba con l’acqua
fredda, perchè non vi era tempo d’aspettare la calda, e poi si precipitò a dare un’altra occhiata
all’orologio.
Se la scossa ricevuta nell’esser scagliato sul letto o chi sa che altro, avesse messo in moto
l’orologio, Giorgio non saprebbe dire; ma il fatto sta che dalle otto e un quarto l’orologio aveva
cominciato ad andare e in quel momento segnava le nove meno venti minuti.
Giorgio se lo cacciò nel taschino e si precipitò giù per le scale. Da basso, nel salotto, tutto
era buio e silenzioso: non v’era acceso il fuoco, non era pronta la colazione. Giorgio disse che
era una vergogna per la signora Gippings, e si propose di dirle il fatto suo quand’egli sarebbe
tornato a casa la sera. Poi si avventò al soprabito e al cappello, e, impugnando l’ombrello, si
diresse alla porta di strada. La porta era ancora perfettamente sbarrata. Giorgio imprecò alla
pigrizia della vecchia signora Gippings, e, pensando ch’era strano che ci fossero persone che
non si levavano a un’ora decente, tolse i catenacci, aperse la porta, e si mise a correre.
Corse per un quarto di miglio, e alla fine di quel tratto, cominciò a pensare ch’era strano e
curioso che vi fosse tanta poca gente in giro, e che nessuna bottega fosse ancora aperta. Certo,
era una mattina assai buia e nebbiosa, ma non perciò era logico che tutto il traffico fosse a un
tratto interrotto. Egli doveva andare a lavorare, e gli altri se ne rimanevano a crogiolarsi nel
calduccio del letto, perchè c’era buio e nebbia!
Finalmente egli giunse a Holborn. Non una persiana aperta! Non un omnibus in giro!
Passavano tre persone, una delle quali era una guardia; un carro colmo di cavoli e una vettura
tutta sconquassata. Giorgio cavò l’orologio e lo guardò: mancavano cinque minuti alle nove!
Egli si fermò e si contò le pulsazioni; si chinò e si tastò le gambe. Poi con l’orologio in mano si
diresse alla guardia, e gli chiese se sapeva che ora fosse.
— L’ora? — disse la guardia, squadrando Giorgio di su e di giù con evidente sospetto; —
se ascoltate, la sentirete sonare.
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Giorgio si mise ad ascoltare, e un orologio del quartiere gli fece immediatamente la
gentilezza di dirgliela.
— Ma se son soltanto le tre! — esclamò Giorgio in tono d’offesa.
— Bene, e quante vorreste che fossero? — domandò la guardia.
— Le nove — disse Giorgio, mostrando l’orologio.
— Sapete dove abitate? — disse severamente il guardiano dell’ordine pubblico.
Giorgio pensò e diede il suo indirizzo.
— Ah! sì, là? — rispose la guardia. — Bene, seguite il mio consiglio e andatevene
tranquillamente con tutto l’orologio; e non se ne parli più.
E Giorgio se ne andò a casa, meditando in cammino.
Sulle prime, entrando in casa, risolse di spogliarsi e di mettersi di nuovo a letto; ma
quando pensò che doveva rivestirsi di nuovo, risolse di non farne nulla, ma di sedersi e
addormentarsi nella poltrona.
Ma non potè pigliar sonno; in vita sua, non s’era mai sentito tanto sveglio. Così accese la
lampada, trasse la scacchiera e si mise a giocare a scacchi. Ma nemmeno il giuoco gli giovò: gli
parve a ogni modo noioso, e, rinunziando agli scacchi, si mise a leggere. Non riuscendo
neppure la lettura a interessarlo, si prese il soprabito e uscì a passeggio.
Che triste solitudine fuori! Tutte le guardie che incontrava lo guardavano gravemente
sospettose, e gli volgevano le lanterne addosso, seguendolo in giro. Questo finalmente ebbe
tanto effetto su di lui, che egli cominciò a sentirsi come se realmente avesse commesso
qualcosa, e a infilare i vicoletti e a nascondersi negli androni, quando sentiva avvicinarsi dei
passi cadenzati.
Questa sua condotta, naturalmente, svegliò maggiormente i sospetti della polizia che
cominciò a pedinarlo e a chiedergli che stesse facendo lì; e quand’egli rispondeva: — Nulla, —
che faceva semplicemente una passeggiata (eran le quattro antimeridiane) lo guardavano come
se non gli credessero, e due guardie travestite lo accompagnarono fino a casa per assicurarsi che
abitasse realmente dove aveva dichiarato. Lo videro aprire con la sua chiave, e poi si andarono
a piantar nel punto opposto a vigilar la casa.
Egli risolse, una volta dentro, di accendere il fuoco e di farsi da colazione, se non altro per
passare il tempo; ma pareva che non fosse capace di maneggiar nulla, dal secchio del carbone a
un cucchiaino, senza farsi scappar di mano l’oggetto o inciamparvi, e senza sollevare un tal
fracasso da fargli temere di svegliare la signora Gippings e farla correre, pensando che ci
fossero i ladri, ad aprire la finestra per chiamar aiuto; e allora le due guardie travestite si
sarebbero precipitate dentro ad ammanettarlo per condurlo in prigione.
A quell’ora Giorgio si sentiva in una condizione stranamente nervosa, e si immaginò il
processo, nell’atto in cui egli si sforzava di spiegare tutte le circostanze ai giurati; ma nessuno
gli credeva, e lo condannavano a venti anni di lavori forzati, e la madre gli moriva di
crepacuore. Così rinunziò a prepararsi da colazione, e si avviluppò nel soprabito, sedendosi
nella poltrona ad aspettare fino alle sette e mezzo che andasse da basso la signora Gippings.
Egli aggiunse che da quella mattina non s’era mai levato troppo presto: la lezione gli era
giovata.
Eravamo rimasti seduti, avviluppati nelle nostre coperte, mentre Giorgio m’aveva
raccontato questa veridica, istoria, e dopo che l’ebbe finita, io mi misi al lavoro con un remo per
svegliare Harris. Il terzo colpo fece effetto; ma Harris si voltò sull’altro lato, dicendo che si
sarebbe levato in un minuto e che si sarebbe subito infilati gli stivaletti. Ma tosto gli facemmo
sapere dov’era, con l’aiuto della gaffa, ed egli si levò immediatamente, mandando
Montmorency, che aveva dormito sul suo petto il sonno del giusto, ad agitarsi convulsamente
traverso la barca.
Poi levammo la tela, e tutti e quattro cacciammo la testa fuori della barca a guardar
l’acqua rabbrividendo. Il nostro proposito, la sera innanzi, era stato di levarci presto la mattina,
di gettar via le coperte e gli scialli, e, smontata la tela, di saltar nell’acqua con un grido gioioso
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per fare un lungo e delizioso esercizio di nuoto. Ma ora che la mattina era venuta, il nostro
proposito ci apparve meno attraente. L’acqua ci si mostrava squallida e gelida, e il vento
mattutino ci metteva dei brividi.
— Dunque, chi si tuffa prima? — disse finalmente Harris.
Non vi fu alcuna ressa per la precedenza. Giorgio decise, in ciò che lo concerneva, di
ritirarsi in un canto della barca e d’infilarsi le calze. Montmorency diede sfogo a un
involontario guaito, come se pensasse che la cosa gli faceva semplicemente orrore; e Harris
disse che sarebbe stato difficile risalir poi nella barca, e si ritrasse per occuparsi della scelta dei
calzoni.
Io non volevo rinunziare interamente a un tuffo, benchè non mi sorridesse. Pensavo che si
potessero incontrare delle buche, delle alghe. Intendevo d’aggiustar la faccenda con l’andare
sulla proda e gettarmi dell’acqua addosso, così mi presi un accappatoio e andai innanzi
strisciando su un ramo d’albero che si tuffava nell’acqua.
Faceva un gran freddo, e il vento tagliava come un coltello. Pensai, dopo tutto, di non
gettarmi l’acqua addosso. Sarei tornato nella barca a vestirmi; e, mentre mi voltavo, quello
stupido ramo cedette e io e l’accappatoio insieme cascammo giù con un terribile tonfo. Ero già
a metà corrente con quattro litri di Tamigi nello stomaco, prima che mi fossi reso ragione di ciò
che era accaduto.
— Per Giove! Gerolamo s’è tuffato — udii dire da Harris, come io risalivo sbuffando alla
superficie. — Non credevo che avrebbe avuto il coraggio di farlo. E tu?
— Tutto bene? — mi cantò Giorgio.
— Magnificamente — barbugliai. — Voi siete due poltronacci. È un piacere che non
avrei perduto per tutto l’oro del mondo. Perchè non provate anche voi? Non occorre che un po’
d’energia.
Ma non riuscii a persuaderli.
Accadde una cosa, piuttosto divertente mentre mi vestivo, quella mattina. Sentivo molto
freddo ritornando nella barca, e, nella fretta di mettermi la camicia, la feci cadere nell’acqua.
Diventai terribilmente furioso, anche perchè Giorgio s’era messo a ridere. Io non ci vedevo
nulla da ridere, e glielo dissi; ma egli si mise a ridere più forte. Non avevo visto mai nessuno
ridere tanto. Persi la pazienza finalmente, e gli feci capire che sorta d’irritante, stupido e
miserabile idiota egli fosse; ma questo lo fece sbellicare. E poi, appunto nel momento che io
ripescavo la camicia, m’accorsi che non era niente affatto la mia, ma quella di Giorgio, che
avevo scambiata per la mia. Allora mi lampeggiò la prima volta l’umorismo dell’incidente, e
cominciai io a ridere; e quanto più guardavo dalla camicia inzuppata a Giorgio, sbellicandomi,
tanto più ero divertito; e risi tanto e poi tanto, che la camicia mi scappò di mano nell’acqua
un’altra volta.
— E non corri a ripescarla? — disse Giorgio continuando a sbellicarsi.
Ridevo tanto che non potei rispondergli subito, ma infine, fra i miei scoppî di risa, riuscii
a balbettare:
— Non è la mia... è la tua!
Non avevo visto mai nessuno cambiar così immediatamente dal leggero al grave.
— Come! — egli strillò, saltando. — Stupido asino! Perchè non stai più attento a ciò che
fai? Perchè diavolo non vai a vestirti sulla riva? Tu non sei fatto per viaggiare in barca, no,
proprio... Dammi subito la gaffa.
Tentai di fargli capire quanto la cosa fosse divertente, ma non ci arrivò. Giorgio mostra
talvolta qualche ottusità nel comprendere uno scherzo.
Harris propose di farci delle uova strapazzate per colazione: le avrebbe cucinate lui.
Sembrava, da quel che ci disse, che fosse abilissimo a cucinar le uova strapazzate. Le faceva
nelle scampagnate e nei suoi viaggi sugli yachts. Anzi era diventato famoso. Quelli che avevano
assaggiato una volta le sue uova strapazzate non volevano, come raccogliemmo dalla sua
conversazione, mangiar altro dopo; ma languivano e morivano se non potevano più averle.
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Ci venne l’acquolina in bocca sentendolo parlar così, e gli affidammo la cucinetta, la
padella e tutte le uova che non s’erano rotte insudiciando tutto nel paniere, e lo pregammo di
cominciare.
Egli incontrò qualche difficoltà nel rompere le uova — o meglio non tanta difficoltà nel
romperle quanta esattamente nel farle entrare nella padella, dopo ch’erano rotte, nel tenersele
lontane dai calzoni e nel cercar che non gli si andassero a cacciare in una manica; ma
finalmente ne potè trasferire una mezza dozzina nella padella, e quindi s’accovacciò accanto
alla cucinetta, e le agitò in giro con una forchetta.
Era un lavoro pericoloso, a quanto io e Giorgio potemmo giudicare. Tutte le volte che
s’avvicinava alla padella, egli si scottava; e allora lasciava cadere ciò che aveva in mano e
danzava intorno al fornello, schioccando le dita e bestemmiando. Anzi, tutte le volte che io e
Giorgio ci voltavamo a guardare, si era certi di vederlo ballare, schioccare le dita e
bestemmiare. Pensammo in principio che eseguisse una parte delle necessarie disposizioni
culinarie.
Non sapevamo che fossero le uova strapazzate, e immaginammo che dovesse essere
qualche specie di piatto delle Pellirosse o delle Isole Sandwich, che avesse bisogno
d’incantagioni e di danze, per la giusta cottura. Montmorency andò a curiosare un momento col
naso, e il grasso schizzò e lo scottò, e anch’esso cominciò a ballare e a guaire. Era proprio una
delle più interessanti ed animate operazioni alle quali avessi mai assistito; e a Giorgio e a me
dolse molto che terminasse.
Il risultato non corrispose affatto al successo che Harris s’era ripromesso. C’era tanto
poco ad ogni modo da far vedere. Nella padella erano entrate sei uova, e non ne uscì che un
cucchiaino di roba bruciata e poco appetitosa.
Harris disse che la colpa era della padella, e che il piatto sarebbe riuscito molto migliore,
se avessimo avuto un tegame da pesce e una cucinetta a gas. Perciò deliberammo di non tentare
più quel piatto, senza aver sotto mano quegli utensili.
Il sole riscaldava un po’ più nell’ora che avevamo finito di far colazione, e il vento s’era
calmato, ed era la più bella mattina desiderabile. Poco c’era in vista da ricordarci il secolo
decimonono; e, guardando sulla riva nel sole mattutino, si poteva quasi immaginare che i secoli
fra noi e quella memorabile mattina di giugno del 1215 fossero stati messi in disparte, e che noi,
figli di proprietarî di terra inglese, vestiti di tela casalinga, col pugnale alla cintura, fossimo lì in
attesa per assistere alla scrittura di quella magnifica pagina di storia, il cui significato doveva
esser tradotto al popolo, circa quattrocento anni dopo, da un Oliviero Cromwell che l’aveva
profondamente studiata.
È una bella mattina d’estate — radiosa, carezzevole e calma. Ma per l’aria corre un
sussulto d’imminente commozione. Re Giovanni ha dormito a Duncroft Hall, e tutto il giorno
prima la piccola città di Staines ha echeggiato del tintinnio di uomini armati, del calpestio di
grandi cavalli sullo scabro selciato, delle grida dei condottieri, delle paurose bestemmie, e degli
acri motteggi di barbuti arceri, alabardieri e lanceri che si esprimono in istrane favelle.
Compagnie di cavalieri e di fanti gaiamente vestiti sono arrivate, infangate e coperte di
polvere. E tutta la sera le porte dei timidi cittadini hanno dovuto aprirsi rapidamente per lasciare
entrare rozzi gruppi di soldatesca, per i quali si deve trovare vitto e alloggio, il meglio che si
possa trovare; o guai alla casa e a quanti la occupano! Perchè la spada è giudice e giurì,
denunziatore ed esecutore, in questi tempi tumultuosi, e paga ciò che prende soltanto col
risparmiar quelli da cui prende, se così le piace.
Intorno al fuoco dell’accampamento, in piazza, si raccolgono le altre truppe dei baroni, e
mangiano e bevono a più non posso, e muggono canzoni d’orgia, e giuocano e litigano come la
sera s’avanza e s’approfondisce nella notte. Il chiarore del fuoco proietta strane ombre sui
mucchi delle armi e sulle rozze sagome delle persone. Gli abitanti della città s’avvicinano cauti
a guardare; e vigorose donzelle campagnuole, ridendo, passano innanzi alle bettole e scherzano
e motteggiano con i più arditi soldati, così dissimili dai bellimbusti del villaggio, i quali, ora,
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disprezzati se ne stanno in disparte, con un fatuo sorriso sulla larga faccia intenta. E dalla
campagna intorno si scorgono i fiochi lumi di accampamenti più lontani, giacchè qui giacciono
passati in rassegna i seguaci di qualche gran capitano, e là i mercenarî francesi del tristo
Giovanni s’appiattano come lupi lontano dalla città.
E così con le sentinelle in ogni strada e dei fuochi scintillanti su ogni altura all’ingiro, la
notte è trascorsa, e su questa bella vallata del Tamigi è spuntata la mattina del gran giorno che
deve influir tanto sul destino dei secoli ancora non nati.
Sempre da quell’alba grigia, nella parte più bassa delle due isole, appunto al di sopra del
punto dove noi ora ci troviamo, v’è stato un gran trambusto e la rumorosa attività di molti
operai. Il gran padiglione portato colà ieri sera è stato costruito, e i falegnami sono affaccendati
a inchiodare file di sedili, mentre gli apprendisti della città di Londra son lì pronti con stoffe di
vari colori e sete e tessuti d’oro e d’argento.
Ed ora, ecco! Giù per la strada che serpeggia lungo la sponda del fiume da Staines,
s’avanza verso di noi, ridendo e conversando in profondo tono gutturale, una mezza dozzina di
vecchi alabardieri — gente dei baroni, questi — e si fermano a un centinaio di passi a un di
presso da noi, sull’altra riva, e poggiati alla loro arma, aspettano.
E così, di ora in ora, s’avanzano sempre nuovi gruppi e bande di armati, coi caschi e le
corazze che riflettono i lunghi raggi del sole mattutino, finchè, quasi fin dove l’occhio arriva, la
strada sembra tempestata di scintillante acciaio e di corsieri caracollanti. E cavalieri vocianti
galoppano di gruppo in gruppo, e bandierine sventolano dolcemente alla tepida brezza, e di
tanto in tanto v’è un più largo movimento, giacchè le file si aprono dall’uno all’altro lato e
qualche gran barone sul suo gran cavallo di guerra, circondato da una guardia di cavalieri, passa
per andare ad occupare il suo posto alla testa dei suoi servi e vassalli.
E su per il declivio della collina di Cooper, precisamente di fronte, si son raccolti i villani
stupiti e gli abitanti della città, incuriositi, accorsi da Staines. Nessuno è certo di che si tratti, e
ciascuno ha una versione del grande evento che si deve vedere; e alcuni dicono che molto bene
verrà al popolo dall’opera di quel giorno; ma i vecchi scuotono il capo, perchè da tempo hanno
sentito le stesse cose.
E tutto il fiume giù fino a Staines è disseminato di piccole imbarcazioni, di barche, di
leggeri battelli da pesca — ora fuori di moda e usati dalla gente più povera. Sulle rapide, dove
poi starà la graziosa chiusa di Bell Weir, essi sono stati condotti a forza di braccia o rimorchiati
dai loro vigorosi rematori, e ora si affollano più ch’è possibile da presso alle grandi barche
coperte che son lì pronte per portare Re Giovanni dove la Carta fatale attende la sua firma.
È mezzogiorno, e noi e tutta la popolazione abbiamo aspettato pazientemente molte ore,
ed è corsa la voce che lo sdrucciolevole Giovanni è di nuovo sfuggito alla stretta dei Baroni, ed
è riparato lontano da Duncroft Hall, seguito dai suoi mercenarî, dove si occuperà d’altro che di
firmar carte per la libertà del suo popolo.
No! Questa volta è stretto in una morsa di ferro, e inutilmente ha cercato di dibattersi e
scivolare. Lontano, giù per la strada, s’è levata una nuvoletta di polvere, e s’avvicina
diventando sempre più grande, e il calpestio di molti zoccoli si fa più rumoroso, e dentro e fuori
dei folti gruppi degli uomini schierati, ecco apparire una splendida cavalcata di signori e
cavalieri di vari colori. E dinanzi e di dietro, e all’uno e all’altro fianco, ecco cavalcare le
guardie dei baroni e nel mezzo Re Giovanni.
Egli cavalca verso il luogo dove le barche sono in attesa, e i grandi baroni escono dalle
loro file per andargli incontro. Egli li saluta con un sorriso e piacevoli parole melate, come se
fosse venuto a qualche festa in suo onore. Ma come si leva per smontare, getta un’occhiata
frettolosa e sui proprî mercenarî francesi, schierati di dietro, e alle torve file degli uomini dei
baroni che lo circondano.
È troppo tardi? Un fiero colpo al cavaliere che gli sta a fianco senza sospetto, un grido
alle sue truppe francesi, una carica disperata contro le linee impreparate dinanzi a lui, e i baroni
ribelli potrebbero pentirsi del giorno in cui hanno osato traversare i suoi piani! Una mano più
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ardita avrebbe anche a questo punto sconvolto il giuoco. Ci fosse stato ivi un Riccardo! La
coppa della libertà sarebbe stata strappata dalle labbra dell’Inghilterra e infranta, e il sapore
della libertà rimasto ignoto ancora per un centinaio d’anni.
Ma il cuore di Re Giovanni vacilla innanzi alle gravi facce dei guerrieri inglesi, e il
braccio di Re Giovanni ricade sulle redini, ed egli smonta e va a prendere il suo posto a prua
della barca. E i baroni lo seguono, con la mano rivestita di ferro sull’elsa della spada, e si dà il
segnale della partenza.
Certamente le pesanti scialuppe pavesate lasciano la sponda di Runningmede. Lentamente
s’avanzano contro la rapida corrente, finchè, con un suono basso, urtano contro la sponda della
piccola isola che da quel giorno porterà il nome d’Isola della Magna Carta. E Re Giovanni è
salito sulla sponda, e noi aspettiamo in ansioso silenzio che un gran grido fenda l’aria, e che la
gran pietra angolare, nel tempio della libertà d’Inghilterra, sia stata, come ora sappiamo,
solidamente piantata.
CAPITOLO XII.
Enrico VIII e Anna Bolena. — Svantaggi di trovarsi nella stessa casa con una coppia d’innamorati. —
Tempi difficili per la nazione inglese. — Una notte di ricerche per il pittoresco. — Senza patria e
senza casa. — Harris si prepara a morire. — Si presenta un angelo. — Effetto su Harris della gioia
improvvisa. — Una cenetta. — La colazione. — Il caro prezzo della mostarda. — Una terribile
battaglia. — Maidenheat. — La vela. — Tre pescatori. — Noi siamo maledetti.
Stavo seduto sulla riva, evocando fra me e me questa scena, quando Giorgio osservò che,
se mai avessi finito di riposarmi, sarei potuto essere tanto gentile di andare ad aiutarlo a far
pulizia; e, così richiamato dai giorni del glorioso passato al prosaico presente, con tutte le sue
miserie e i suoi errori, scivolai giù nella barca e mi misi a sfregare la padella con un pezzo di
legno e un ciuffo d’erba, ripulendola infine con la camicia bagnata di Giorgio.
Andammo fino all’isola della Magna Carta, e demmo un’occhiata alla pietra che vi hanno
eretta, e sulla quale si dice che la gran carta sia stata firmata; ma se sia stata realmente firmata
lì, o, come alcuni dicono a Runningmede, sull’altra riva, non potrei assicurare. Per quel che
riguarda la mia opinione personale, io son inclinato a favorire la teoria popolare che designa
l’isola. Certo, se allora io fossi stato uno dei baroni, avrei vigorosamente sostenuto fra i miei
compagni l’opportunità di condurre un tipo così sornione come Re Giovanni sull’isola, dove
c’era minore probabilità di sorprese e d’inganni.
Vi sono le rovine d’un vecchio priorato nei terreni della casa di Ankerwyke, che è presso
il Picnic Point, e fu, si dice, in giro per i terreni di questo vecchio priorato che Enrico VIII
aspettava e s’incontrava con Anna Bolena. Egli anche soleva incontrarsi con lei al castello di
Hever in Kent, e anche in qualche luogo nei pressi di Saint Albans. Doveva essere difficile per
la popolazione d’Inghilterra in quei giorni trovare un punto in cui quegli spensierati giovani non
stessero tubando.
Vi siete mai trovati in una casa dove c’è una coppia in amore? È una cosa assai seccante.
Vi proponete di riposarvi un po’ nel salotto e vi andate. Mentre aprite la porta, udite un rumore
come di qualcuno che si sia improvvisamente ricordato di qualche cosa, e nell’istante che
entrate, Emilia si sporge dalla finestra, tutta intenta alla visione del punto opposto della strada, e
il vostro amico, Giovanni Edward, è all’altra estremità della stanza con tutta l’anima estasiata
nelle fotografie dei parenti della casa che lo ospita.
— Ah! — esclamate, fermandovi sulla soglia — credevo che qui non ci fosse nessuno.
— Ah! sì! — dice Emilia, freddamente, con un tono che implica che ella non vi crede.
Viaggiate un po’ per la stanza, e poi dite:
— È molto buio qui. Perchè non accendete il gas?
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Giovanni Edward risponde: — Ah! non ci avevo pensato; ed Emilia dice che al papà non
piace che si accenda il gas nel pomeriggio.
Voi partecipate ai due qualche notizia, esprimendo le vostre opinioni e i vostri giudizi
sulla questione irlandese; ma questo pare che non li interessi. La sola osservazione che fanno su
qualunque argomento è: — Ah! — Sì? — Già. — Possibile? — E dopo dieci minuti di simile
conversazione, voi filate verso la porta e ve la svignate, sorpreso di osservare che essa si muove
immediatamente dietro di voi e si chiude, senza che neppur l’abbiate sfiorata.
Mezz’ora dopo pensate d’andare nella serra a farvi una pipata. L’unica sedia del luogo è
occupata da Emilia, e Giovanni Edward, se il linguaggio degli abiti può dare qualche
affidamento, evidentemente s’è seduto per terra. Essi non parlano, ma vi dànno uno sguardo che
dice tutto ciò che si può dire in una comunanza civile; e voi vi ritraete immediatamente,
chiudendovi la porta alle spalle.
Ora temete di cacciare il naso in qualunque stanza della casa; e così, dopo aver percorso
su e giù le scale per un po’, andate a sedervi nella camera da letto che vi ospita. Dopo un certo
tempo, nella camera da letto non trovate alcun interesse, e vi mettete il cappello per andarvene
in giardino. V’incamminate per il viale, e passando innanzi al villino d’estate date un’occhiata
all’interno, ed ecco apparirvi, rannicchiati in un angolo, quei due giovani idioti. Anch’essi vi
veggono, e hanno evidentemente l’impressione che per un malvagio vostro proposito
particolare voi li andiate passo passo pedinando.
— Perchè non si tiene una stanza particolare per questa specie di roba? — mormorate fra
voi e voi; e vi precipitate di corsa verso il vestibolo per pigliarvi l’ombrello e svignarvela.
Dovè esser così quando quello sciocco ragazzo di Enrico VIII corteggiava la sua piccola
Anna. Le persone nel Buckinghamshire li sorprendevano involontariamente quando tubavano
intorno a Windsor e Vraysbury, ed esclamavano: — Ah, voi qui! — ed uno arrossiva e diceva:
— Son venuto a vedere una persona — e Anna diceva: — Ah, son così lieta di rivedervi. Non è
strano? Ho incontrato qui per via il signor Enrico VIII ed anche lui per la stessa strada, che
facevo io.
Allora i cittadini se ne andavano, dicendosi: — È meglio tenersi lontani da questi
vezzeggiamenti e sbaciucchiamenti. Rechiamoci a Kent.
E si recavano a Kent, dove la loro prima visione all’arrivo era quella di Enrico e di Anna
che si baloccavano intorno al castello di Hever.
— Maledizione! — dicevano. — Svigniamocela. Andiamo a Saint Albans... un leggiadro
luogo Saint Albans.
E quando arrivavano a Saint Albans, ecco ancora la maledetta coppia che si baciava sotto
le mura dell’Abbazia. Meglio sparire, in attesa della celebrazione del matrimonio.
Dal Picnic Point alla chiusa di Old Windsor il tratto del fiume è delizioso. Una strada
ombrosa, punteggiata qua e là da graziosi villini, come sulla riva fino al «Bells of Ouscley», un
albergo pittoresco, come la maggior parte degli alberghi di quel luogo, e un punto dove si può
bere della birra, squisitissima — così dice Harris; e in faccende di questa specie si può credere
alla parola di Harris. Old Windsor è un luogo famoso nel suo genere. Edoardo il Confessore vi
aveva un palazzo, e ivi il gran conte Godwin fu condannato dalla giustizia di quel tempo per
aver voluto la morte del fratello del re. Il conte Godwin ruppe un pezzo di pane e lo tenne in
mano.
— Se io son colpevole — disse il conte — che questo pane mi possa soffocare.
Si portò il pane in bocca, esso gli si fermò in gola e lo soffocò.
Dopo che si è oltrepassato Old Windsor, il fiume è poco interessante, e non si riprende
che in vista di Boveney. Giorgio e io rimorchiammo la barca fin oltre Home Park, che si stende
sulla riva destra da Albert a Victoria Bridge; e mentre passavamo Datchet, Giorgio mi domandò
se mi rammentassi della nostra prima escursione fluviale e di quando sbarcammo a Datchet alle
dieci di sera, per trovarvi alloggio.
Risposi che me ne rammentavo. Ci vorrà del tempo prima che me ne dimentichi.
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Fu il sabato prima delle vacanze di agosto. Eravamo stanchi e affamati, tutti e tre, e
quando arrivammo a Datchet prendemmo il paniere, le due valige, le coperte, i soprabiti e il
resto, e c’incamminammo in cerca d’un covile. Arrivammo innanzi a un graziosissimo
alberghetto, con climatidi e piante rampicanti sul portico; ma non v’erano piante di caprifoglio,
e per chi sa qual ragione, io m’ero messo in mente il caprifoglio, e dissi:
— Non entriamo qui! Andiamo più oltre a cercare un albergo ornato di caprifoglio.
Così andammo finchè non arrivammo a un altro albergo. Il secondo era bellissimo e
vantava anche il caprifoglio da un lato; ma ad Harris non piaceva l’aspetto d’un tale che se ne
stava appoggiato contro lo stipite della porta. Egli disse che non gli pareva un brav’uomo, e
aveva delle brutte scarpe. Così seguitammo ad andare. Percorremmo un buon tratto senza
incontrare altri alberghi, e allora ci rivolgemmo a un passante pregandolo di indicarcene
qualcuno.
Egli ci disse:
— Ma voi ve ne allontanate. Dovete voltare a destra e tornare indietro, e arriverete al
Cervo.
Rispondemmo:
— Oh, l’abbiamo visto, ma non ci piace... è senza caprifoglio.
— Bene, allora c’è Manon House — ci disse — proprio di fronte. Ci siete andati?
Harris rispose che non ci saremmo andati — non gli piaceva l’uomo che vi aveva visto:
aveva dei brutti capelli e delle brutte scarpe, anche.
— Certo, io non posso indicarvi altri alberghi — disse il nostro informatore; — perchè
quei due sono gli unici di qui.
— Gli unici! — esclamò Harris.
— Gli unici — rispose l’altro.
— Che diamine dobbiamo fare? — esclamò Harris.
Allora prese a parlare Giorgio, dicendo che Harris e io potevamo, se mai, farci fabbricare
un albergo a bella posta, e anche delle persone che ci fossero simpatiche. Per conto suo, egli
ritornava al Cervo.
Le menti più eccelse non raggiungono mai i loro ideali; e Harris e io sospirammo sulla
vacuità di tutti i desideri terreni, e seguimmo Giorgio.
Portammo la nostra roba al Cervo, e la deponemmo nel vestibolo.
Si presentò il proprietario dell’albergo e ci disse:
— Buona sera, signori.
— Ah, buona sera — disse Giorgio; — per piacere, abbiamo bisogno di tre letti.
— Mi dispiace, signore — disse il padrone; — ma temo di non poterveli dare.
— Ah, bene, non fa nulla — disse Giorgio; — basteranno due. In un letto dormiremo in
due, vero? — continuò, volgendosi ad Harris e a me.
Harris disse: — Oh sì. Egli pensava che Giorgio e io potessimo dormire comodamente in
un letto solo.
— Mi dispiace molto, signore — ripetè di nuovo il padrone; — ma non abbiamo un solo
letto vuoto in tutto l’albergo. Infatti stiamo mettendo due e anche tre persone in un letto solo.
Questo ci sconcertò un poco.
Ma Harris, che è un vecchio viaggiatore, fronteggiò il caso, e, ridendo allegramente,
disse:
— Bene, non si può farne a meno, e bisogna adattarsi. Ci metterete un pagliericcio nella
sala da bigliardo.
— Mi spiace molto, signore. Tre passeggeri dormono già sul piano del bigliardo, e due
nella sala del caffè. Non mi è possibile albergarvi, stasera.
Ripigliammo la nostra roba, e ci dirigemmo a Manon House. Era un bel posticino. Io dissi
che mi piaceva molto di più dell’altro albergo, e Harris disse di sì, che era bellissimo, che non
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era necessario guardare l’uomo dai capelli rossi; e che, poi, lui, povero diavolo, non ne aveva
colpa.
Harris parlava di quel buon diavolo con molta gentilezza e buon senso.
Il personale di Manon House non attese di sentirci parlare. La padrona dell’albergo ci
venne incontro sulla porta dicendoci che eravamo la quattordicesima compagnia, che essa
aveva dovuto rimandare nell’ultima mezz’ora. Quanto alle nostre discrete proposte riguardo alla
stalla, alla sala da bigliardo o alla carbonaia, essa le respinse ridendo: tutti questi cantucci erano
stati già da lungo tempo occupati.
Ma poteva almeno indicarci qualche posto nel villaggio dove si potesse trovare ricetto per
la notte?
Bene, se noi ci fossimo adattati, vi sarebbe stata, una piccola bettola — essa non ce la
raccomandava, però — distante mezzo miglio, giù sulla strada di Eton...
Non aspettammo altro; demmo di bel nuovo di mano al paniere, alle valige, ai soprabiti,
alle coperte, agl’involti e ai pacchetti, e via di corsa. La distanza parve che fosse più un miglio
che mezzo miglio; ma raggiungemmo la bettola finalmente, e ci precipitammo dentro trafelati.
Il personale della bettola si dimostrò villano. Si mise semplicemente a ridere. V’erano tre
letti soltanto in tutta la casa, e ci dormivano già sette signori scapoli e due coppie di sposi. Un
gentile barcaiolo, però, occupato nella saletta a bere la birra, opinò che avremmo potuto tentare
dal droghiere, proprio vicino al Cervo; e noi tornammo indietro.
Dal droghiere era pieno. Una vecchia incontrata nella bottega ci condusse gentilmente con
lei per un quarto di miglio da una donnetta amica sua, che talvolta affittava delle stanze a dei
signori.
La vecchia camminava molto lentamente, e ci vollero venti minuti per arrivare dalla sua
amica. Essa ci allietò il viaggio col descriverci, mentre si andava, i vari dolori che soffriva alla
schiena.
Le camere della sua signora amica erano occupate. Di là noi fummo mandati al numero
27. Il numero 27 era pieno e ci mandò al numero 32, e il 32 era pieno.
Allora ritornammo sulla strada maestra, e Harris si sedette sul paniere, dichiarando che
non sarebbe andato più oltre. Il punto era tranquillo, e gli sarebbe piaciuto di morir lì. Pregò
Giorgio e me di baciar la madre per lui e di dire a tutti i suoi parenti che perdonava loro e
moriva felice.
In quel momento passò un angelo in veste di ragazzino (non riesco a pensare a un più
efficace travestimento che un angelo potesse avere assunto) con un boccale di birra in una
mano, e nell’altra qualche cosa all’estremità d’una cordicella, con cui batteva ogni lastra di
pietra e che poi ritirava, producendo un suono che pareva un grido di sofferente.
Noi domandammo a quel celeste messaggero (come scoprimmo dopo che era) se sapesse
di qualche casa solitaria, con pochi e deboli inquilini (preferibilmente vecchie o signori
accidentati) che si potessero facilmente impaurire per cedere il loro letto quella notte a tre
forestieri disperati; o, se al contrario, ci potesse condurre in qualche porcile vuoto, in un canile
abbandonato, o tana della stessa specie. Egli non conosceva nessun luogo simile — almeno,
nessuno lì a mano; ma aggiunse che, se l’avessimo seguito, la mamma aveva una stanza in più,
dove poteva albergarci per la notte.
Gli cademmo al collo sotto il chiarore lunare benedicendolo, e avremmo tutti formato un
bellissimo quadro, se il ragazzo non fosse stato così soverchiato dalla nostra commozione che
non potè sostenerla e cadde in terra; facendoci precipitare su di lui. Harris era tanto inondato di
gioia che gli prese uno svenimento, e dovè abbrancarsi al boccale del ragazzo e vuotarlo a metà,
prima di ripigliare conoscenza, e poi si slanciò di corsa, lasciando che io e Giorgio
trascinassimo il bagaglio.
Era una casetta di quattro stanze quella del ragazzo, e quella santa donna di sua madre ci
diede del prosciutto caldo per cena e noi ce lo mangiammo tutto — cinque libbre — e una torta
di marmellata dopo, e due boccali di birra; e poi andammo a coricarci. V’erano due letti in una
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camera: l’uno di settanta centimetri di lunghezza, nel quale dormimmo io e Giorgio, legandoci
insieme con un lenzuolo; e l’altro, che era del ragazzino, e che Harris tenne tutto per sè,
vedemmo, la mattina, che gli scopriva in fondo sessanta centimetri di gambe nude. Giorgio e io
le usammo per sospendervi l’asciugamano mentre ci lavavamo.
Non saremmo stati così schifiltosi intorno all’albergo, la prossima volta che saremmo
arrivati a Datchet.
Per ritornare alla escursione odierna: non ci accadde nulla d’interessante, e noi
trascinammo bravamente la barca un po’ al di sotto dell’isola di Monkey, dove ci fermammo
per la colazione. Attaccammo il manzo freddo, e poi trovammo che ci eravamo dimenticati
della mostarda. Non credo che mai, prima o dopo, sentissi tanto come allora la mancanza della
mostarda. In generale, non mi curo nè tanto nè poco della mostarda, e di rado ne uso qualche
poco, ma in quel momento avrei dato un mondo per averla.
Non so quanti mondi possano esservi nell’universo, ma chiunque mi avesse dato un
cucchiaino di mostarda in quel preciso istante, avrebbe potuto averli tutti. A questo modo io mi
sento generoso quando voglio una cosa e non l’ho.
Anche Harris disse che avrebbe dato dei mondi per la mostarda. Chiunque ci si fosse
presentato allora con un vaso di mostarda avrebbe fatto un ottimo affare: avrebbe avuto dei
mondi a disposizione per tutto il resto della vita.
Ma, ahimè! avessimo avuto la mostarda, tanto io che Harris avremmo tentato di tirarci
indietro. Si fanno queste offerte stravaganti in momenti di eccitazione, ma, naturalmente,
riflettendoci, si comprende come siano assurdamente sproporzionate al valore dell’oggetto
richiesto. Una volta sentii dire da un tale, il quale faceva l’ascensione d’una montagna svizzera,
che avrebbe dato un mondo per un bicchiere di birra; ma quando poi arrivò a un bugigattolo
dove c’era la birra, fece un terribile baccano perchè gli chiesero cinque franchi per una
bottiglia. Disse che era un furto scandaloso, e s’affrettò a scriverne al «Times».
Quella mancanza di mostarda gettò un’ombra sulla barca. Mangiammo il manzo in
silenzio, e l’esistenza ci parve poco interessante, anzi vana. Pensammo ai felici giorni
dell’infanzia, e sospirammo. Ci rianimammo un poco, però, con la torta di mele, e, quando
Giorgio dal fondo del paniere trasse una scatola di ananassi, facendola rotolare in mezzo alla
barca, sentimmo che la vita, dopo tutto, era degna d’esser vissuta.
Tutti e tre andiamo matti per gli ananassi. Noi ne contemplammo l’immagine sulla
scatola; il pensiero del succo ci fece venir l’acquolina in bocca. Ci sorridemmo a vicenda, e
Harris impugnò subito il cucchiaio.
Allora cercammo il coltello con cui aprire la scatola, mettendo sossopra tutto il paniere.
Frugammo nelle valige, sollevammo le tavole del fondo della barca, ci mettemmo a scuotere
tutti gli oggetti sulla sponda. Chi ti dà il coltello!
Allora, Harris tentò di aprire la scatola con un temperino, e ne ruppe la lama e si tagliò
una mano; e Giorgio provò con un paio di forbici, e le forbici gli sfuggirono, e mancò poco non
gli cavassero un occhio. Mentre essi si medicavano, tentai di aprire un buco nella latta con
l’estremità aguzza della gaffa; ma la gaffa mi scivolò di mano e mi scagliò fra la barca e la
sponda in sessanta centimetri d’acqua fangosa, mentre la scatola si metteva a rotolare, illesa,
rompendo una tazza.
Allora c’infuriammo tutti. Portammo la scatola sulla riva, e Harris corse in un campo a
pigliare un grosso sasso aguzzo; e io ritornai nella barca, e ne riportai un albero, e Giorgio
teneva la scatola e Harris teneva la punta del sasso sul coperchio, e io levavo l’albero e lo
libravo in aria, raccogliendo tutte le mie forze per dare il colpo.
Fu il cappello di paglia che quel giorno salvò la vita a Giorgio. Egli conserva ancora quel
cappello (ciò che n’è rimasto), e le sere d’inverno, quando sono accese le pipe e gli amici
raccontan delle fandonie intorno ai pericoli superati, Giorgio lo spicca dalla parete e lo mostra
in giro, e l’eccitante racconto è di nuovo ripetuto, con nuove esagerazioni tutte le volte.
Harris se la cavò semplicemente con una contusione.
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Allora, presi io la scatola, e la martellai con l’albero, finchè non mi sentii stremato, e non
se la prese in mano Harris.
La picchiammo da farla diventar piatta; la picchiammo da farla diventar quadrata; la
picchiammo da farla assumere tutte le forme note in geometria — ma non riuscimmo ad aprirle
un buco. Allora la prese Giorgio, e la ridusse in una foggia così strana, così bizzarra, così
soprannaturale nella sua orribile laidezza, ch’egli se ne spaventò, e gettò via l’albero. Allora ci
sedemmo sull’erba tutti e tre intorno a guardarla.
S’era formata al di sopra una specie di grossa intaccatura che aveva l’aspetto d’un sorriso
beffardo. Questo ci inferocì, e Harris si precipitò sulla scatola, la raccattò e la scagliò in mezzo
al fiume, e mentre essa affondava, le scagliammo tutte le nostre maledizioni, e ritornammo
nella barca, per fuggir via da quel luogo e non fermarci che in vista di Maidenhead.
Maidenhead si dà troppe arie per esser simpatica. È il convegno degli eleganti che
frequentano il Tamigi e delle loro elegantissime compagne. È la città degli alberghi sontuosi,
frequentati specialmente dai giovani alla moda e dalle cantanti dei caffè-concerti. È la cucina
della strega, dalla quale escono quei demoni fluviali — che son le lance a vapore. Il duca del
«London Journal» ha sempre il suo «posticino» a Maidenhead; e l’eroina del romanzo in tre
volumi vi va a pranzo, quando s’inebbria col marito di qualche altra.
Noi traversammo rapidamente Maidenhead, e poi comodamente percorremmo quel
magnifico tratto che va oltre le chiuse di Boulter e Cooklam. I boschi di Clieveden portavano
ancora la loro squisita veste primaverile, e si levavano, dal margine dell’acqua, in una lunga
armonia di varie sfumature di incantevole verde. Nella sua ininterrotta leggiadria è questo,
forse, il più dolce tratto di tutto il fiume, e mal volentieri spingemmo pian piano la barca fuori
da quella profonda pace.
Ci fermammo sulle acque di rigurgito al di sotto di Cookham, e prendemmo il tè; e all’ora
che traversammo la chiusa era già sera. S’era levata una forte brezza — favorevole,
fortunatamente; perchè in generale sul fiume il vento spira sempre contrario. Vi soffia contro la
mattina, quando partite per il viaggio d’una giornata, e vi mettete a remare per una lunga
distanza, pensando che il viaggio di ritorno con la vela vi sarà facilissimo. Poi, dopo il tè, il
vento si volta, e dovete remare fino a casa con tutta la forza.
Se vi dimenticate di portarvi la vela, il vento spira, sempre favorevole in tutte e due le
direzioni. Ma già! questo mondo è un mondo di sofferenze, e l’uomo è nato per soffrire come le
scintille per volare in su.
Quella sera, però, era stato evidentemente commesso un errore, e il vento ci soffiava nella
schiena invece che nel viso. Noi, zitti zitti, rapidamente, prima che l’errore si scoprisse,
issammo la vela, e ci spargemmo per la barca in atteggiamento pensoso, mentre essa
cominciava a gonfiarsi, a tendersi, a garrire intorno all’albero, con la barca che volava.
Ero io al timone.
Non conosco più acuta sensazione del navigare a vela. Par quasi di volare. Le ali del
vento sembra che vi portino in su, non si sa dove. Voi non siete più il lento, faticoso, misero
essere d’argilla che striscia tortuosamente per terra; siete una parte della natura. Il vostro cuore
pulsa contro il suo petto. Le sue gloriose braccia vi cingono, sollevandovi fino al suo cuore. Il
vostro spirito forma un unico spirito col suo; le vostre membra son diventate leggerissime. Le
voci dell’aria vi cantano nell’orecchio. La terra sembra remota e piccina; e le nuvole, così
vicine alla vostra testa, sono sorelle a cui voi stendete le braccia.
Noi avevamo il fiume tutto per noi, salvo che, in distanza, potevamo vedere una zattera da
pesca, ormeggiata in mezzo alla corrente, e carica di tre pescatori; e noi sorvolavamo
sull’acqua, e passavamo accanto alle rive boscose, senza dire una parola.
Ero io al timone.
Come ci avvicinavamo, potemmo vedere che i tre uomini occupati a pescare avevano un
aspetto di solenne vecchiaia. Sedevano su tre sedie nella zattera, e vigilavano intenti le lenze. E
il tramonto rosso proiettava una mistica luce sull’acqua, tingeva di fuoco i boschi circostanti, e
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faceva una gloria d’oro alle masse di nuvole. Era un’ora di profondo incanto, d’estatica
speranza e di desiderio. La piccola vela s’allargava contro il firmamento di porpora, il
crepuscolo ci stava intorno, avvolgendo il mondo in ombre di arcobaleno; e dietro di noi
strisciava la notte.
Noi sembravamo cavalieri di qualche vecchia leggenda, veleggianti per qualche mistico
lago nel regno inesplorato del crepuscolo, verso la gran terra del tramonto.
Non andammo nel regno del crepuscolo: andammo a sbattere contro la zattera, dove quei
tre vecchi stavano a pescare. In principio non ci accorgemmo di ciò ch’era accaduto; perchè la
vela ce lo impedì, ma dal genere di linguaggio che si levò nell’aria della sera, comprendemmo
che eravamo arrivati in vicinanza d’esseri umani molto malcontenti e collerici.
Harris abbassò la vela, e allora scorgemmo ciò ch’era successo. Avevamo fatto
stramazzare quei tre vecchi signori dalle sedie in un mucchio confuso nel fondo della barca, e
ora cercavano di separarsi lentamente e stentatamente l’uno dall’altro, raccogliendo il pesce
dalle loro persone; e mentre si sforzavano di sollevarsi, ci maledivano — non con una
imprecazione comune e frettolosa, ma con maledizioni lunghe e comprensive, accuratamente
meditate, che abbracciavano tutta la nostra carriera, e si spingevan fin nel lontano futuro,
includendo tutta la nostra parentela, e coprendo tutto ciò che ci riguardava — maledizioni
buone e sostanziali.
Harris disse loro che ci dovevano ringraziare per aver goduto un po’ d’eccitazione, dopo
esser stati seduti lì a pescare tutto il giorno; e aggiunse anche che egli era scandalizzato e
addolorato di udire delle persone della loro età abbandonarsi a quel modo a un impeto di
collera.
Ma questo non giovò.
Giorgio, dopo, disse che avrebbe tenuto lui il timone. Non si poteva sperare che uno
spirito come il mio sapesse guidare le barche meglio che badasse alla barca un essere comune,
prima che allegramente finissimo col colare a picco; e prese lui il timone, e ci portò fino a
Marlow.
E a Marlow lasciammo la barca presso il ponte, e ci recammo per la notte alla Corona.
CAPITOLO XIII.
Marlow. L’Abbazia di Bisham. — I monaci di Medmenham. — Montmorency si propone d’ammazzare
un gatto. — Ma eventualmente decide di lasciarlo vivere. — Vergognosa condotta d’un foxterrier.
— La nostra partenza da Marlow. — Una processione solenne. — Le lance a vapore: utili
prescrizioni per molestarle e ostacolarle. — Rifiutiamo di bere il fiume. — Un cane tranquillo. —
Strana scomparsa di Harris e di un pasticcio.
Marlow è uno dei più bei centri fluviali che io mi conosca. È una cittadina attiva e vivace,
non molto pittoresca in complesso, ma con molti strani angoli e cantucci — con molti archi
ancora in piedi nel diruto ponte del tempo, sul quale la nostra fantasia ritorna ai giorni che il
maniero di Marlow aveva Saxon Algar per suo signore, prima che Guglielmo il Conquistatore
se ne impadronisse per darlo alla regina Matilde, prima che esso passasse ai conti di Warwick o
al saggio mondano lord Paget, il consigliere di quattro sovrani in fila.
V’è anche un’amena campagna nei dintorni, se, dopo aver vogato, vi piace fare una
passeggiata a piedi, mentre lo stesso fiume si presenta in quel punto nel suo migliore aspetto.
Giù fino a Cookham, oltre i boschi di Quarry e i prati, è un bellissimo tratto. I vecchi e bei
boschi di Quarry con gli angusti sentieri tortuosi, le piccole radure serpeggianti, come sembrano
finora profumati con le memorie dei radiosi giorni d’estate! Come le loro ombrose visioni
appaion colme di immagini sorridenti! Come dalle loro foglie bisbiglianti si levan le dolci voci
del tempo d’una volta!
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Da Marlow fino a Sonning la vista è sempre più bella. La magnifica vecchia Abbazia di
Bisham, le cui mura hanno risonato delle grida del Templari e che una volta fu la casa di Anna
di Cleaves e un’altra volta della regina Elisabetta, si osserva sulla riva destra precisamente a
mezzo miglio al di sopra del ponte di Marlow. L’Abbazia di Bisham è ricca di qualità
melodrammatiche. Essa contiene una camera da letto in tappezzeria e una stanza segreta
nascosta in alto nello spessore dei muri. Lo spirito di Lady Holy, che picchiò a morte il suo
piccino, ancora vi erra di notte, tentando di lavarsi le mani spettrali nello spettrale catino.
Ivi ora riposa Warwick, creatore di re, incurante ora di simili cose volgari quali i re della
terra e i reami della terra; e Salisbury, che rese dei buoni servizi in Poictiers. Prima che si arrivi
all’Abbazia, e sulla riva destra del fiume, è la chiesa di Bisham, e se vi son tombe degne d’esser
visitate son forse le tombe e i monumenti della chiesa di Bisham. Fu mentre vogava nella sua
barca sotto i faggi di Bisham, che Shelley, il quale allora abitava a Marlow (potete vederne
ancora la casa, in West Street), compose la «Rivolta dell’Islam».
Presso Harley Weir, un po’ più su, ho spesso pensato che io avrei potuto stabilirmici per
un mese senza aver tempo sufficiente di abbeverarmi di tutta la bellezza del panorama. Il
villaggio di Harley, a cinque minuti di cammino dalla chiesa, è uno dei punti più antichi del
fiume, giacchè data, a citare la strana fraseologia di quegli oscuri tempi, «dai giorni del re
Sebert e del re Offa». Vicinissimo allo sbarramento (andando in su) è il campo dei Danesi, dove
una volta si accamparono gl’invasori, durante la loro marcia nella contea di Gloucester; e un
po’ più oltre, annidata in una dolce curva del fiume, si vede ciò che rimane dell’Abbazia di
Medmenham.
I famosi monaci di Medmenham, o il «Circolo del fuoco dell’inferno» com’erano
chiamati, contavano tra le loro file il famoso Wilkes ed erano una confraternita il cui motto
sanava: «Fate ciò che vi piace». L’esortazione ancora rimane sul diruto ingresso dell’Abbazia.
Molti anni prima di questa equivoca abbazia, con la sua congregazione d’irriverenti
motteggiatori, c’era nello stesso punto un monastero di natura più severa, i cui monaci erano
d’un tipo alquanto diverso dai gozzovigliatori che dovevano abitarlo cinquecent’anni dopo.
I monaci cistercensi, la cui abbazia era eretta colà nel tredicesimo secolo, non portavano
panni, ma rozze tuniche e cappucci, e non mangiavano carne, nè pesce, nè uova. Dormivano
sulla paglia, e si levavano a mezzanotte a dir messa. Passavano i giorni nel lavoro, nella lettura
e nella preghiera; e su tutta la loro vita piombava un silenzio di morte, perchè nessuno parlava.
Una tetra confraternita, che passava una tetra vita in quel dolce luogo, che Dio ha creato
così dolce. Strano che le voci della natura d’intorno — il soave canto delle acque, il bisbiglio
dell’erba fluviale, la musica del vento sussurrante — non insegnassero loro un più esatto
significato della vita. Essi origliavano, per lunghi giorni, in silenzio, aspettando una voce del
cielo; e tutta la giornata e tutta la notte augusta parlavano in miriadi di suoni che essi non
intendevano.
Da Medmenham alla bella chiusa di Hambledon il fiume è pieno di tranquilla bellezza,
ma, dopo che esso passa per Greenlands, la poco interessante residenza fluviale del mio libraio
— un cheto modesto vecchietto, che si può spesso incontrare per queste contrade, durante i
mesi d’estate, remando in agile e vigoroso stile, o chiacchierando al passaggio lietamente con
qualche attempato custode di chiusa — fino all’altro lato di Henley, il paesaggio è sterile e
nudo.
Ci alzammo abbastanza presto a Marlow, il lunedì mattina, e ci bagnammo prima di
colazione; e al ritorno, Montmorenecy fece la figura dello stupido. Il solo argomento sul quale
io e Montmorency differiamo seriamente è dato dai gatti. A me piacciono i gatti; a
Montmoreney non piacciono.
Se io incontro un gatto, dico: — Micio, micio! — e mi curvo a carezzargli il collo, e il
gatto inalbera la coda in modo da farla apparire una specie di bastoncino di ferro fuso, inarca il
dorso, e si sfrega e asciuga il naso contro i miei calzoni; e tutto è gentilezza e pace. Se
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Montmorency incontra un gatto, tutta la strada lo sa; e in dieci secondi si profonde tanto brutto
linguaggio, che, amministrato con cura, potrebbe durare a un galantuomo per tutta la vita.
Io non biasimo il cane (mi contento, in generale, di scuotergli la testa o di gettargli dei
sassi) perchè so che è la sua natura. I foxterriers hanno in sè quattro volte in più della dose di
peccato originale degli altri cani, e ci vorranno anni e anni di paziente sforzo da parte di noi
cristiani per apportare qualche notevole riforma nella turbolenza delle loro indole.
Ricordo ch’ero un giorno nella galleria dei Magazzini di Haymarket, e che ero circondato
da cani in attesa del ritorno delle padrone, le quali facevano degli acquisti nell’interno. Vi erano
due cani da pastore, un mastino, un San Bernardo, un po’ di cani da riporto e di Terranova, un
levriero, un volpino, con molti peli intorno alla testa ma rognoso sulla schiena, un bulldog, un
po’ d’animali della dimensione dei topi, e una coppia di cuccioli dello Yorkshire.
Se ne stavano pazienti, buoni e pensosi. Sembrava che una pace solenne regnasse nella
galleria. Un’aria di calma e di rassegnazione... di soave tristezza pervadeva la sala.
Poi entrò una dolce signorina che conduceva un piccolo foxterrier molto mite all’aspetto.
Lo lasciò lì incatenato, fra il bulldog e il volpino. Esso se ne stette cheto e guardò in giro per un
minuto. Poi levò gli occhi al soffitto e parve, giudicando dall’espressione, che pensasse alla
madre. Quindi sbadigliò. Poi si mise a guardare in giro gli altri cani, tutti silenziosi, gravi e
dignitosi.
Guardò alla sua destra il bulldog, che dormiva tranquillo e senza sogni. Guardò il volpino,
eretto e fiero, a sinistra. Poi, senza una parola di avvertimento, senza l’ombra d’una
provocazione, morse il volpino alla gamba anteriore, e un latrato di dolore corse per la cheta
penombra della galleria.
Il risultato del suo primo esperimento gli sembrò molto soddisfacente, e risolse di
continuare e animare tutto quello che c’era in giro. Saltò sul volpino, e attaccò vigorosamente
un cane da pastore, e il cane da pastore si svegliò e immediatamente cominciò una feroce e
strepitosa mischia col volpino. Poi il foxterrier ritornò al suo posto, e acchiappò il bulldog per
un orecchio, tanto da trascinarlo con sè; ma il bulldog, una bestia stranamente imparziale, si
slanciò su tutto ciò che poteva raggiungere, compreso il portiere della sala; la qual cosa diede a
quel caro piccolo foxterrier l’occasione di godersi un’ininterrotta pugna sua speciale con un
cane dello Yorkshire, egualmente ben disposto.
Chiunque conosce la natura canina non ha bisogno d’essere avvertito che, a questo punto,
gli altri cani presenti combattevano tutti come se il loro cuore e la loro vita dipendessero dalla
mischia. I cani grossi combattevano l’un contro l’altro indifferentemente, e i piccoli
s’azzuffavano fra di loro, approfittando del tempo libero con l’addentare le gambe dei grossi.
Tutta la galleria era un perfetto pandemonio, e il fracasso sonava terribile. Una folla si era
raccolta fuori dell’Haymarket, domandandosi se fosse l’assemblea d’una congregazione; o, se
no, chi fosse stato ammazzato, e perchè. Corse gente con pali e funi, tentando di separare i cani,
e fu mandata a chiamare la polizia.
E in mezzo a quella rivolta ritornò la dolce signorina, che raccattò quell’angelo del suo
cane (il quale aveva conciato un cucciolo dello Yorkshire per un mese, e aveva in quel
momento l’espressione d’un agnello neonato) e se lo strinse nelle braccia, baciandolo e
domandandogli se non fosse morto, e che avessero fatto quei brutti cagnacci; ed esso si
rannicchiò nel seno di lei, guardandola fisso in viso con uno sguardo che sembrava dire:
«Quanto son lieto che sii venuta a togliermi da questo inferno».
Ella disse che il personale dei magazzini non aveva diritto di permettere che delle orribili
bestie come quegli altri cani fossero messi insieme con cani di persone rispettabili, e ch’ella era
fermamente decisa di far citare qualcuno.
Tale è la natura del foxterrier; e perciò io non biasimo Montmorency per la sua tendenza a
litigare coi gatti; ma non avrei voluto che quella mattina le avesse obbedito.
Eravamo, come ho detto, di ritorno da un bagno, e, a mezza via per il corso, un gatto
balzò fuori da una delle case di fronte, e cominciò a trotterellare nella via. Montmorency diede
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un latrato di gioia — il grido di un grave guerriero che vede il nemico caduto nelle sue mani —
la specie di grido che Cromwell avrebbe potuto cacciare quando gli Scozzesi scesero per la
collina — e si scagliò dietro la preda.
La sua vittima era un grosso gatto nero. Non avevo mai visto un gatto più grosso, nè un
gatto dall’aspetto meno rassicurante. Aveva perduto la coda, un orecchio, e una parte del naso.
Era una bestia lunga e dall’apparenza muscolosa; e aveva un’aria tranquilla e contenta.
Montmorency si scagliò dietro quel povero gatto alla velocità di venti miglia all’ora; ma il
gatto non si mise a correre — parve non gli fosse lampeggiata l’idea che la sua vita era in
pericolo. Trotterellò tranquillamente finchè l’eventuale assassino non si trovò a un metro da lui;
e poi si voltò e si sedette in mezzo alla strada, guardando Montmorency con una soave,
interrogativa espressione, che diceva:
— Sì! Avete bisogno di me?
Montmorency non si perse di coraggio; ma v’era qualcosa nello sguardo del gatto che
avrebbe potuto agghiacciare il cuore del cane più avventuroso. Esso si fermò improvvisamente,
e guardò a sua volta il gatto.
Nè l’uno nè l’altro parlò; ma la loro conversazione risultò abbastanza chiara.
Il gatto: — Posso far qualcosa per te?
Montmorency: — No... no, grazie.
Il gatto: — Parla pure, francamente, sai, se hai bisogno di qualche cosa.
Montmorency (ritraendosi): — Ah no... nulla... non vorrei disturbarti. Te... temo d’essere
incorso in un equivoco. Mi pareva di conoscerti. Mi duole d’averti disturbato.
Il gatto: — Buongiorno.
Allora il gatto si levò, e continuò il suo trotterello, e Montmorency, adattando la coda
accuratamente nella sua scanalatura, ritornò da noi, e assunse una poco importante posizione
nella retroguardia.
Ancor oggi, se si dice la parola «Gatti» a Montmorency, egli visibilmente si contrae e vi
dà uno sguardo avvilito, come per dire:
— Per piacere, non lo dite.
Facemmo le nostre compere dopo colazione, e rifornimmo la barca per tre giorni. Giorgio
disse che dovevamo comprare dei vegetali, e ch’era poco igienico non mangiare dei vegetali.
Erano abbastanza facili da cucinare, e ci avrebbe pensato lui; così comperammo dieci libbre di
patate, uno staio di piselli e un po’ di cavoli. Ci facemmo dare nell’albergo un pasticcio di
carne, un paio di torte d’uvaspina e un cosciotto di castrato; e ci provvedemmo di frutta,
formaggio, pane, burro, prosciutto, uova, e di quant’altro potemmo approvvigionarci in giro per
la città.
La nostra partenza da Marlow io la considero come uno dei nostri più grandi trionfi. Fu
dignitosa e solenne, senza avere in sè alcuna ostentazione. Avevamo insistito in tutte le
botteghe dove ci eravamo recati che la roba ci doveva essere mandata immediatamente. Non ci
saremmo contentati dei loro: — Sì, signore, la manderò subito; il ragazzo arriverà laggiù prima
di voi, signori — per poi stare a baloccarci sull’approdo e ritornare nel negozio a litigare. Noi
aspettammo che la roba fosse messa nel paniere, e conducemmo il garzone con noi.
Ci rivolgemmo a molte botteghe, adottando per ciascuna lo stesso principio; e la
conseguenza fu che, nell’ora che avevamo finito, era a nostra disposizione la più bella
collezione di ragazzi e di panieri che si potesse desiderare; e la nostra marcia finale in mezzo al
corso fino al fiume dev’esser stata il più solenne spettacolo al quale Marlow avesse mai
assistito da lungo tempo.
L’ordine della processione era il seguente:
Montmorency, che portava un bastone.
Due cani, dall’apparenza poco rassicurante, amici di Montmorency.
Giorgio, che portava i soprabiti e le coperte, e fumava una pipetta corta.
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Harris, che tentava di camminare con grazia disinvolta, mentre portava una grossa e
gonfia valigia in una mano e una bottiglia di succo di limone in un’altra.
Il garzone del fruttivendolo e il garzone del fornaio con panieri.
Il lustrascarpe dell’albergo, che portava una cesta.
Il ragazzo del pasticcere, con paniere.
Il ragazzo del droghiere, con paniere.
Un cane dal pelo lungo.
Il ragazzo del rivenditore di formaggio, con paniere.
Uno strano individuo, che portava una valigia.
Un amico del cuore dello strano individuo, con le mani in tasca, e una pipa di creta in
bocca.
Il ragazzo dell’ortolano, con paniere.
Io, che portavo tre cappelli e un paio di stivali, e che tentavo d’aver l’aria di non saperlo.
Sei ragazzini, e quattro cani vaganti.
Quando arrivammo all’approdo, il barcaiuolo ci disse:
— Ditemi un po’, signori; la vostra è una lancia a vapore o una barca coperta?
Come apprese che la nostra era una barca a due coppie di remi, parve sorpreso.
Avemmo molto da fare con le lance a vapore. Stava per cominciare la settimana di
Henley, e ne passavano in gran numero, alcune sole, altre portando a rimorchio delle barche. Io
odio le lance a vapore, e credo che ogni rematore le odii. Non vedo mai una lancia a vapore
senza sentire il desiderio di attirarle in una parte solitaria del fiume e di strangolarle, nel
silenzio e nella solitudine.
Nella lancia a vapore v’è una spocchiosa ostentazione che ha la virtù di destare ogni
pravo istinto della mia natura, e io rimpiango il buon tempo antico quando si poteva andare in
giro con un’ascia, con un arco e delle frecce senza tante cerimonie. L’espressione della faccia
dell’uomo, che, con le mani in tasca se ne sta accanto al timone fumando un sigaro, basta per sè
sola a scusare un impeto di rivolta, e l’imperioso fischio che v’intima di tirarvi da parte, son
certo che assicurerebbe un verdetto di «omicidio giustificato» da parte di qualsiasi giurì degli
abitanti delle sponde.
I conduttori delle lance a vapore solevano incomodarsi a fischiare per farci scansare. Se io
posso dirlo senza apparire immodesto, credo di poter onestamente affermare che la nostra sola
barchetta diede, durante quella settimana, più noie, molestie e fastidi alle lance a vapore che
s’incontravano, che tutte le altre imbarcazioni messe insieme.
— Viene una lancia a vapore! — gridava uno di noi, avvistando il nemico a distanza; e in
un istante tutto era pronto a riceverla. Io mi mettevo al timone, e Harris e Giorgio si sedevano
accanto a me, tutti e tre voltando le spalle alla lancia, e la barca fluttuava tranquillamente in
mezzo alla corrente.
La lancia continuava ad avanzare fischiando, e noi continuavamo come se nulla fosse. A
circa un centinaio di metri di distanza, essa cominciava a fischiar furiosa, e i passeggeri
correvano a chinarsi di lato vociando contro di noi, ma noi non li sentivamo nemmeno! Harris
ci raccontava un aneddoto di sua madre, e Giorgio e io non ne avremmo perduto sillaba per
tutto l’oro del mondo.
Allora la lancia dava un urlo finale, con un sibilo che quasi faceva scoppiare la caldaia; e
poi rovesciava le sue macchine, soffiava nuvole di vapore, oscillava in giro e si avvicinava alla
sponda: tutti a bordo si precipitavano a prua e urlavano contro di noi; e la gente sulla sponda si
fermava a gridarci contro; e tutte le altre barche di passaggio si fermavano a far coro, finchè
tutto il fiume, per miglia su e giù, era in uno stato di frenetica eccitazione. E allora Harris
s’interrompeva nella parte più interessante della sua narrazione, e levava lo sguardo dolcemente
sorpreso per dire a Giorgio:
— Ma, Giorgio, che Dio mi benedica, mi par ci sia una lancia a vapore.
E Giorgio rispondeva:
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— Già, mi sembrava d’aver udito qualcosa!
E allora noi diventavamo nervosi e confusi, e non sapevamo come scansarci, e la gente
nella lancia s’affollava intorno a darci delle istruzioni.
— Remate a destra... idiota! Indietro a sinistra. No, non voi... quell’altro. Lasciate stare il
timone... ora, tutti e due insieme. Non a quel modo... Dico a voi...
Allora calavano un canotto e ci venivano in aiuto, e dopo lo sforzo d’un quarto d’ora, ci
allontanavamo dalla loro via, in modo che potevano continuare la loro rotta; e noi li
ringraziavamo tanto, domandando loro di rimorchiarci, cosa che non ci fu concessa mai.
Un altro mezzo da noi scoperto per irritare il tipo aristocratico della lancia a vapore fu di
credere che fosse noleggiata per una scampagnata d’impiegati; e domandavamo se fosse del
personale dei Fratelli Cubit o di quello della ditta Bermondey, e se ci potessero favorire in
prestito una padella.
Le signore vecchie, non avvezze al traffico fluviale, hanno sempre una gran paura delle
lance a vapore. Ricordo una volta che andavo da Staines a Windsor — un tratto d’acqua
specialmente ricco di queste mostruosità meccaniche — con una compagnia della quale
facevano parte tre signore. Fu un’escursione eccitante. Alla prima e lontana apparizione d’una
lancia a vapore esse chiesero insistentemente di essere sbarcate, e si sedettero sulla riva finchè
quella non fu scomparsa. Dicevano ch’erano dolenti, ma per riguardo alle loro famiglie non
potevano esser temerarie.
Venimmo a mancare di acqua alla chiusa di Hambledon; così prendemmo la brocca, e
andammo a domandarne un po’ al guardiano della chiusa.
Giorgio fu il nostro oratore. Assunse un sorriso seducente e disse:
— Per piacere, ci potete dare un po’ di acqua?
— Certo — rispose quel vecchio galantuomo — Prendetevene quanta ne volete, e lasciate
il resto.
— Grazie tante — mormorò Giorgio, guardando in giro. — Dove... dove la tenete?
— Sempre nello stesso punto, ragazzo mio — rispose l’altro gravemente; — dietro di voi.
— Non la veggo — disse Giorgio, voltandosi.
— Che Dio vi benedica, dove avete gli occhi? — commentò l’altro, facendo voltare
Giorgio e indicando la corrente su e giù. — Se ne vede abbastanza, no?
— Ah! — esclamò Giorgio, comprendendo finalmente; — ma sapete bene che non
possiamo bere il fiume.
— Già, ma potete berne un po’ — rispose il vecchio. — È ciò che bevo io da quindici
anni.
Giorgio gli disse che, a giudicar dal suo aspetto, la marca non era abbastanza
raccomandata, e che lui l’acqua preferiva attingerla da una pompa.
Ne ottenemmo un po’ da una casetta più su. Anche quella, certo, era acqua di fiume; ma
siccome non lo sapevamo, ci sembrò buonissima. Ciò che l’occhio non vede, lo stomaco accetta
senza rivolta.
Una volta, durante quel viaggio, provammo a usare dell’acqua di fiume, ma poco
felicemente. Venivamo giù per la corrente, e ci eravamo fermati per farci il tè sulle acque di
rigurgito vicino a Windsor. La nostra brocca era vuota, e si trattava o di far senza del tè o di
attinger l’acqua del fiume. Harris fu d’opinione d’affrontare il rischio. Facendo bollir l’acqua,
non c’era pericolo di sorta. I vari germi velenosi presenti nell’acqua sarebbero stati uccisi
dall’ebullizione. Così riempimmo il calderino con l’acqua di rigurgito del Tamigi e lo
mettemmo sul fuoco, badando accuratamente che bollisse.
Avevamo fatto il tè, e ci stavamo appunto preparando a sorbirlo comodamente, quando
Giorgio, con la tazza innanzi alle labbra, si fermò esclamando:
— Che cosa c’è?
— Che cosa c’è? — domandammo Harris e io.
— Guardate! — disse Giorgio, guardando a occidente.
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Harris e io seguimmo il suo sguardo, e vedemmo venire all’ingiù, sulla pigra corrente, un
cane. Era uno dei più cheti e pacifici cani che avessi mai veduti. Non avevo mai incontrato un
cane che sembrasse più rassegnato di spirito... più tranquillo. Fluttuava languidamente voltato
sulla schiena, con le quattro gambe puntate rigidamente in aria. Era ciò che direi un cane col
corpo assai gonfio, col petto ben sviluppato. Veniva innanzi sereno, dignitoso e calmo, finchè
non arrivò di fronte alla barca, dove, fra i giunchi, si arrestò e si adagiò bellamente per la notte.
Giorgio disse che non voleva più il tè, e vuotò la sua tazza nell’acqua. Neanche Harris
aveva più sete, e fece la stessa cosa. Io avevo bevuto metà della mia, ma avrei voluto non averla
bevuta.
Domandai a Giorgio se pensasse che avrei potuto ammalarmi di tifo.
Rispose di no; che probabilmente non lo avrei preso: ma che, a ogni modo, fra una
quindicina, si sarebbe potuto sapere se l’avessi preso o no.
Ci spingemmo fin sulle acque di rigurgito di Wargrave. È una breve scorciatoia, che
conduce alla riva destra a circa mezzo miglio al di sopra della chiusa di Marsh, ed è degna
d’esser percorsa, giacchè è un leggiadro tratto di corrente ombrosa e fa risparmiare quasi mezzo
miglio di viaggio.
Naturalmente il suo ingresso è tempestato di pilastri e di catene, e circondato di cartelli
che minacciano ogni specie di tortura, di prigione e di morte a quanti osino remare su quelle
acque — mi stupisco che quei villani di proprietari rivieraschi non vantino dei titoli sull’aria del
fiume e non minaccino con quaranta scellini di multa chiunque la respiri — ma i pilastri e le
catene con un po’ d’abilità si evitano; e quanto ai cartelli, se ne possono, se si ha un po’ di
tempo a disposizione e non v’è nessuno in vista, prendere un paio o più e gettarli nel fiume.
A mezza via sull’acqua di rigurgito, noi approdammo per far colazione; e fu durante la
colazione che Giorgio e io fummo invasi da un grande spavento.
Anche Harris provò un grande spavento; ma non credo che il suo potesse esser così grave.
Se volete sapere, fu così: stavamo seduti in un prato, a circa dieci metri dall’orlo della
corrente, e ci eravamo appunto comodamente installati per mangiare. Harris aveva il pasticcio
di carne fra le ginocchia e lo stava scalcando, e Giorgio e io stavamo pronti coi piatti.
— Hai un cucchiaio lì? — disse Harris. — Ho bisogno d’un cucchiaio per pigliare il sugo.
La cesta era dietro di noi, e Giorgio e io ci voltammo per pigliarne uno. Ci vollero meno
di cinque secondi. Quando ci voltammo, Harris e il pasticcio erano spariti.
Era una vasta, aperta campagna. Non v’era un albero o tratto di siepe per un centinaio di
metri. Egli non poteva esser precipitato nel fiume, perchè eravamo noi sul margine del fiume, e
avrebbe dovuto passare sul nostro corpo per cadervi.
Giorgio e io guardammo in giro. Poi ci guardammo a vicenda.
— È stato rapito in cielo? — domandai.
— Non si sarebbe portato anche il pasticcio — disse Giorgio.
L’obiezione era abbastanza grave, e mettemmo da parte la teoria celeste.
— Immagino che la verità sarà questa — opinò Giorgio, discendendo al comune e al
pratico: — che ci sia stato un terremoto. — E poi aggiunse, con una punta di tristezza nella
voce: — Se almeno non fosse stato occupato a tagliare quel pasticcio!
Con un sospiro volgemmo ancora gli occhi verso il punto dove Harris e il pasticcio erano
stati l’ultima volta veduti sulla terra, e colà, mentre il sangue ci si agghiacciava nelle vene e ci
si rizzavano i capelli sul cranio, vedemmo la testa di Harris — e null’altro che la testa — sbucar
dritta fra l’erba alta, con la faccia scarlatta e dipinta della più viva indignazione.
Giorgio fu il primo a riaversi.
— Parla! — gridò — e dicci se sei vivo o morto... e dove hai tutto il resto del corpo.
— Non far lo stupido! — disse la testa di Harris. — Voi certo l’avete fatto apposta.
— Fatto che? — chiedemmo Giorgio e io.
— M’avete fatto seder qui... è uno stupido scherzo. Qua, pigliate il pasticcio.
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E fuor della terra, come ci sembrò, si levò il pasticcio — assai sudicio e inzaccherato; e
dietro di esso si arrampicò Harris bagnato, infangato e disfatto.
Egli s’era seduto, senza accorgersene, sul ciglio d’un fosso che la lunga erba nascondeva
alla vista, e, nel tirarsi indietro, v’era precipitato col pasticcio e tutto.
Disse che non aveva mai avuto una simile sorpresa in vita sua, sentendosi andar giù senza
saper minimamente ciò che gli accadesse. Aveva pensato sulle prime che fosse arrivata la fine
del mondo.
Harris crede ancor oggi che Giorgio e io avessimo preparato di lunga mano il tranello.
Così l’ingiusto sospetto segue anche i più irreprensibili; poichè, come dice il poeta: «Chi
sfuggirà alla calunnia?».
Chi, veramente?
CAPITOLO XIV.
Wargrave. — Figure di cera. — Sonning. — Il nostro stufato. — Montmorency è sarcastico. —
Battaglia fra Montmorency e il calderino del tè. — Gli studî sul banjo di Giorgio. —
Scoraggiamenti. — Difficoltà sulla via del dilettante di musica. La cornamusa. — Harris dopo
cena si sente triste. — Giorgio e io andiamo a passeggio. — Ritorniamo affamati e bagnati. — La
stranezza di Harris. — Harris e i cigni. — Harris ha una notte inquieta.
Si levò una brezza, dopo colazione, che ci portò gentilmente oltre Wargrave e Shiplake.
Avvolta dalla grave luce d’un pomeriggio estivo, Wargrave, annidata nell’incurvatura del
fiume, vi si presenta come un bel quadro antico, e vi rimane a lungo sulla retina della memoria.
L’albergo «Giorgio e il Drago» di Wargrave vanta un’insegna dipinta su un lato da Leslie
e sull’altro da Hodgson. Leslie ha figurato la battaglia; Hodgson ha immaginato la scena «Dopo
la battaglia», cioè Giorgio, che, compiuta la fatica, si gode la sua pinta di birra.
Day, l’autore di «Sandford, and Merton», visse e — maggior onore per il luogo — fu
ucciso a Wargrave. Nella chiesa v’è un monumento alla signora Sarah Hill che lasciò per
testamento trenta lire annue da esser divise a Pasqua fra due fanciulli e due fanciulle che
«hanno obbedito sempre ai loro genitori, e che a conoscenza pubblica non hanno mai
bestemmiato o detto menzogna, non hanno mai rubato o rotto delle finestre». Immaginate che si
possa rinunziar a tutto questo per un po’ più di sette lire all’anno! Proprio non mette conto.
Corre voce nella città che una volta, molti anni fa, apparve un ragazzo che non aveva
commesso nessuna di queste cose — o che, a ogni modo, non si sapeva le avesse mai
commesse, giacchè era questa la condizione richiesta — e che conquistò la gloriosa palma. Egli
fu messo in mostra per tre settimane nella gran sala del municipio, sotto una campana di vetro.
Nessuno sa da quel tempo che sia avvenuto del denaro. Si dice che, dopo, sia stato
assegnato sempre all’ultimo museo di cera.
Shiplake è un piccolo villaggio, ma è sulla collina, e non si scorge dal fiume. Tennyson si
sposò nella chiesa di Shiplake.
Il fiume fino a Sonning serpeggia fra molte isole, ed è molto placido, raccolto e solitario.
Poca gente e, nell’ora del crepuscolo, qualche coppia di rustici innamorati che passeggiano
lungo le rive. I bellimbusti e gli eleganti sono stati lasciati indietro a Henley, e il lugubre,
sudicio Reading non è ancora, raggiunto. È una parte del fiume nella quale si sogna dei giorni
passati, e le forme e le facce svanite, e le cose che possono esser state e che non sono li
confondono.
Arrivammo a Sonning, e andammo a fare una passeggiatina per il villaggio. È il più
incantevole cantuccio del Tamigi. Sembra più un villaggio da palcoscenico che una costruzione
di mattoni e di calce. Ogni cosa è soffocata dalle rose, e allora, nei primi giorni di giugno, esse
erano fiorite in aiuole di squisito splendore. Se vi fermate a Sonning, sostate al «Bull» dietro la
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chiesa. È un vero quadro d’un vecchio albergo di campagna, con un verde cortile quadrato,
dove, sui sedili sotto gli alberi, i vecchi si riuniscono la sera a bere la birra e a discutere della
politica paesana; con stanze, bizzarre camere e finestre ingraticciate, e delle scale malcomode e
dei corridoi tortuosi.
Vogammo intorno al dolce Sonning per un’ora a un di presso, e poi, essendosi fatto
troppo tardi per spingerci fin oltre Reading, decidemmo di ritornare a un’isola dello Shiplake, e
di fermarci colà per la notte. Arrivammo che era ancora presto, e Giorgio disse che, siccome
c’era gran tempo innanzi a noi, si aveva l’occasione di tentare la preparazione di una buona,
magnifica cena. Lui ci avrebbe mostrato di che cosa fosse capace in fatto di culinaria, e dichiarò
che con la verdura, i resti del manzo freddo e tutti i rimasugli c’era da improvvisare un
meraviglioso stufato irlandese.
L’idea era affascinante. Giorgio raccolse della legna e accese il fuoco, e io e Harris ci
mettemmo a mondare le patate. Non avrei mai pensato che la mondatura delle patate fosse
un’impresa tale. Il lavoro risultò la più gran cosa della sua specie, che avessimo mai affrontata.
Cominciammo allegramente, si potrebbe dire quasi leggermente, ma la nostra incuranza s’era
bella e dileguata nel momento che la prima patata fu finita. Quanto più la sbucciavamo, tanto
più buccia sembrava le rimanesse, e quando le fu tolta tutta la buccia e le furon tolti tutti gli
occhi, la patata non c’era più — almeno nulla che si potesse considerare quale una patata.
Venne Giorgio e le diede un’occhiata: essa era a un di presso della dimensione d’una noce
moscata. Egli disse:
— Così non va. Voi le sprecate. Dovete raschiarle.
Così le raschiammo; ma era più difficile che sbucciarle. Sono d’una forma così bizzarra le
patate — tutte bozze ed escrescenze e fossette. Lavorammo gaiamente per venticinque minuti, e
avevamo raschiate quattro patate. Poi cessammo, dicendo che ci sarebbe voluta tutta la sera per
raschiare noi stessi.
Non sapevo che una faccenda come la raschiatura delle patate potesse confondere una
persona. Sembrava difficile credere che dalla raschiatura in cui io e Harris ci eravamo tuffati,
mezzo soffocati, potessero essere uscite quattro sole patate. Questo mostra che cosa si possa
ottenere con l’economia e l’attenzione.
Giorgio disse ch’era assurdo aver solo quattro patate in uno stufato irlandese; così ne
lavammo un’altra mezza dozzina e le mettemmo nello stufato senza sbucciarle. Aggiungemmo
anche un cavolo e un paio di chili di piselli. Giorgio rimescolò il tutto, e poi, avendo osservato
che vi rimaneva tant’altro spazio, frugammo nelle due ceste, e ne cavammo quante ne potemmo
cavare, per aggiungerle allo stufato. V’era un mezzo pasticcio di maiale e un pezzo di
prosciutto cotto avanzato, e mettemmo anche quelli. Poi Giorgio trovò una mezza scatola di
salmone, e la vuotò nel recipiente.
Disse che quello era il vantaggio dello stufato irlandese: v’era da sbarazzarsi d’un
mucchio di roba. Io ripescai un paio d’uova che s’erano screpolate e le misi col resto. Giorgio
osservò che avrebbero corroborato il sugo.
Dimentico gli altri ingredienti, ma so che nulla andò sciupato. Ricordo che, verso la fine,
Montmorency, il quale aveva mostrato grande interesse a tutte le operazioni, filò via a un tratto,
con un’aria grave e pensosa, riapparendo, pochi minuti dopo, con un topo morto in bocca,
ch’egli evidentemente voleva presentare come proprio contributo al pasto, se con spirito
sarcastico, o con desiderio genuino di fare anche lui la sua parte, non saprei dire.
Discutemmo un po’ se il topo dovesse o no entrare nello stufato. Harris disse che sarebbe
andato ottimamente, mischiato con tutto il resto, e che ogni poco faceva; ma Giorgio resistette,
tenendo conto dei precedenti, giacchè non aveva mai saputo che i topi d’acqua entrassero nello
stufato irlandese, e, nel dubbio, era meglio appigliarsi al sicuro e non tentare esperimenti.
Harris disse:
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— Se non si tentano le cose nuove, come potete dirne la qualità? Sono gli uomini come
voi che ostacolano il progresso del mondo. Pensate all’uomo che per primo tentò la salsiccia
tedesca.
Fu un gran buon successo quello stufato irlandese. Non avevo mai tanto gustato un pasto.
Si sentiva qualcosa di così nuovo e piccante. Il palato si stanca delle vecchie cose comuni: e lì
c’era un piatto con una fragranza nuova, con un sapore come nient’altro su questa terra.
Ed era anche nutriente. Come Giorgio disse, v’era della sostanza nelle vivande. I piselli e
le patate sarebbero potuti essere un poco più teneri; ma avevamo tutti e tre dei buoni denti, e la
cosa non aveva alcuna importanza; e quanto al sugo, esso era un poema — un po’ troppo grave,
forse, per uno stomaco debole, ma sostanzioso.
Finimmo col tè e la torta di ciliege. Montmorency sostenne una battaglia col calderino,
durante il tempo del tè, e ne ebbe la peggio.
In tutta l’escursione, esso aveva mostrato una grande curiosità riguardo al calderino. Si
sedeva a guardarlo, mentre bolliva, con un’espressione perplessa, e provava a eccitarlo di tanto
in tanto digrignando i denti. Quando il recipiente cominciava a schizzare e a fumare,
Montmorency riteneva quei segni come una sfida, e voleva assaltarlo. Soltanto che in quel
momento stesso qualcuno si slanciava a portargli via la preda prima ch’esso potesse
raggiungerla.
Quella sera Montmorency risolse di anticipare. Al primo suono emesso dal calderino,
esso si levò, digrignando i denti e avanzando in atteggiamento minaccioso. Il calderino era
molto piccolo, ma era pieno di coraggio, e a un tratto gli sputò sul muso.
— Ah! sì? — digrignò Montmorency, mostrandogli i denti. — T’insegnerò io a trattare
così un cane onesto e rispettabile, o sudicio e miserabile briccone dal naso lungo. Avanti!
E si slanciò sul calderino, e lo prese per il becco.
Allora, a traverso la calma della sera, eruppe uno straziante latrato, e Montmorency lasciò
la barca e fece tre volte una passeggiata igienica intorno all’isola alla velocità di trentacinque
miglia all’ora, fermandosi di tanto in tanto a seppellire il naso in un po’ di fango freddo.
Da quel giorno Montmorency guardò il calderino con un misto di timore, di sospetto e di
odio. Tutte le volte che lo vedeva, digrignava i denti e si ritraeva a passo rapido, con la coda
abbassata; e nell’istante che lo guardava accovacciato sul fornello, subito filava fuori della
barca, e se n’andava a sedersi sulla sponda, aspettando che la faccenda del tè fosse finita.
Giorgio prese il banjo dopo cena, e voleva sonarlo, ma Harris protestò, dicendo che aveva
il mal di testa e non si sentiva forte abbastanza da resistere allo strumento. Giorgio pensava
invece che la musica potesse fargli bene: la musica spesso gli aveva lenito i nervi e fugato il
mal di testa; e strimpellò due o tre note, appunto per mostrare ad Harris la dolcezza del suono.
Harris osservò che si sarebbe tenuto piuttosto il mal di testa.
Fino a quel giorno Giorgio non aveva mai imparato a sonare il banjo. Aveva incontrato
troppo scoraggiamento da per tutto. Aveva tentato due o tre sere sul fiume di fare un po’ di
pratica, ma senza incontrare mai un cenno di approvazione. Le espressioni usate da Harris erano
tali da scoraggiare chiunque; e oltre a questo, Montmorency si sedeva a guaire forte durante
tutto l’esercizio. Non era dare a Giorgio l’occasione di formarsi.
— Perchè guaisce a quel modo quando io suono? — egli esclamava indignato, mentre
con una scarpa prendeva di mira Montmorency.
— Perchè suoni a quel modo quando lui guaisce? — ribatteva Harris, acchiappando la
scarpa. — Lascialo stare. Non può non guaire. Esso ha un orecchio musicale, e la tua musica lo
fa guaire.
Così Giorgio decise di rimandare lo studio del banjo al suo ritorno a casa. Ma neanche lì
ebbe fortuna. La signora Poppets soleva presentarsi a dire che le dispiaceva moltissimo —
quanto a lei andava matta per la musica — ma la signora di sopra era in istato interessante, e il
dottore temeva che quel suono potesse nuocere al bambino.
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Poi Giorgio tentò di portar fuori il banjo di notte e di esercitarsi nella piazzetta. Ma gli
abitanti in giro andarono a ricorrere alla polizia che una sera mandò una guardia ad arrestarlo.
La prova contro di lui era indiscutibile, ed egli dovè promettere che non avrebbe ricominciato
per sei mesi.
Dopo di ciò, la cosa parve lo disarmasse. Trascorsi i sei mesi, tentò debolmente un paio di
volte di ripigliare i suoi esercizî, ma v’era sempre da combattere contro la stessa freddezza —
contro la stessa mancanza di simpatia da parte del prossimo; e, dopo un po’ disperò
completamente, e fece mettere un annuncio sui giornali per una vendita dello strumento con suo
gran sacrificio «non servendo più al proprietario» e cominciò a imparare invece dei solitarî con
le carte.
Dev’essere scoraggiante imparare uno strumento musicale. Si penserebbe che la società,
per amor di sè stessa, dovesse fare il possibile per aiutare un uomo a conquistare l’arte di
suonare uno strumento musicale. Ma invece no.
Una volta conobbi un giovane, che studiava la cornamusa, e voi vi sorprenderete della
quantità di opposizione contro la quale dovette combattere. Ebbene, neppure dai membri della
propria famiglia ricevè ciò che si chiamerebbe un attivo incoraggiamento. Suo padre si dichiarò
ostilissimo fin dal principio e parlò spietatamente della cosa.
Il mio amico soleva levarsi presto la mattina per esercitarsi, ma dovè rinunziarvi per sua
sorella, che aveva delle disposizioni religiose, e diceva che le sembrava terribile dover
cominciare la giornata a quella maniera.
Così egli rimaneva in piedi la notte a sonare, dopo che la famiglia era andata a letto; ma
nemmeno questo giovò, perchè dava una cattiva riputazione alla casa. La gente, rincasando
tardi, si fermava di fuori ad ascoltare, e poi la mattina appresso metteva in giro la voce per tutta
la città che un orrendo omicidio era stato commesso nella notte in casa di Jefferson, e narrava
d’aver udito le grida della vittima, e le brutali bestemmie e le imprecazioni dell’assassino,
seguite dalle preghiere di pietà e dall’ultimo rantolo del cadavere.
Così si permise ch’egli si esercitasse di giorno, nella retrocucina, con tutte le porte chiuse;
ma, nonostante tutte le precauzioni, i brani meglio riusciti arrivavano fin nel salotto, e solevan
commuovere la madre quasi fino alle lagrime.
Ella diceva che le facevan venire in mente il suo povero padre (era stato inghiottito da un
pescecane, pover’uomo, mentre si bagnava sulla costa della Nuova Guinea... Donde le venisse
quell’associazione d’idee essa non si poteva spiegare).
Poi gli riservarono un posticino nel fondo del giardino, a circa un quarto di miglio
dall’abitazione, e gli facevan portar giù lo strumento, quando aveva bisogno di farlo lavorare; e
a volte qualche visitatore ignaro della faccenda, che dimenticavano di avvertire e mettere in
guardia, si trovava — facendo una passeggiatina, in giardino — improvvisamente a tiro della
cornamusa, senza esser preparato e senza sapere che fosse. Se era un uomo di nervi forti, se la
cavava con le convulsioni; ma se era una persona soltanto d’intelligenza media, ordinariamente
diventava matta.
V’è, bisogna confessarlo, qualche cosa di molto triste nei primi esercizî d’un dilettante di
cornamusa. L’ho sentito anch’io nell’atto che ascoltavo il mio giovane amico. La cornamusa è
uno strumento difficile. Bisogna aver raccolto il fiato che basti a tutta l’aria da sonare prima di
cominciare... almeno così mi pareva, guardando Jefferson.
Egli cominciava magnificamente con una specie di nota selvaggia, piena e trionfale, che
vi scoteva tutto. Ma si faceva sempre meno animoso, e l’ultima frase generalmente sveniva con
una sbavatura e un sibilo.
Si dev’essere in buona salute per sonare la cornamusa.
Il giovane Jefferson imparò a sonar soltanto un’aria sulla sua cornamusa; ma io non sentii
mai nessuna lagnanza sulla scarsezza del suo repertorio — nessuna mai. L’aria era «The
Campbells are coming. Hooray... Hooray». Così diceva lui: ma il padre sosteneva sempre che
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era «The Blue Bells of Scotlands». Nessuno sapeva ciò che fosse esattamente, ma tutti
s’accordavano nel credere che fosse un’aria scozzese.
Agli estranei erano permesse tre congetture, e molti congetturavano ogni volta un’aria
diversa.
Harris si mostrò poco trattabile dopo la cena — credo che l’avesse sconvolto lo stufato;
non era abituato ai trattamenti sontuosi — così Giorgio e io lo lasciammo nella barca, e
andammo a fare una passeggiata intorno a Henley. Egli disse che si sarebbe bevuto un sorso di
whisky e facendosi una pipata avrebbe preparato i giacigli per la notte. Noi, al ritorno,
dovevamo gridare, ed egli sarebbe accorso dall’isola a forza di remi a pigliarci.
— Non t’addormentare, caro — gli raccomandammo, andandocene.
— Niente paura, finchè ho sullo stomaco il nostro stufato — brontolò, mentre si ritirava
nell’isola.
Henley si preparava per le regate ed era piena di trambusto. Incontrammo per la città
parecchie persone di nostra conoscenza, e, nella loro piacevole compagnia, il tempo passò con
una certa rapidità, di modo che erano quasi le undici quando noi ci avviammo per la nostra
passeggiata di quattro miglia fino a casa — come chiamavamo in quei giorni la nostra piccola
imbarcazione.
Era una brutta notte, abbastanza fredda, e cadeva una pioggia sottile. Come noi
traversammo la campagna buia e silenziosa, conversando sottovoce e domandandoci se fossimo
o no sulla strada buona, pensavamo alla nostra comoda barca, con la sua viva luce che filtrava
per la tela distesa, con Harris, con Montmorency e con lo whisky, e desiderammo di esservici.
Evocammo il quadro di noi stessi al di dentro, stanchi e un po’ affamati, del fiume oscuro
e degli alberi informi, e, come una gigantesca lucciola al di sotto, la nostra cara vecchia barca,
così comoda, calda e allegra.
Ci vedevamo a cena, addentando un po’ di carne fredda e passandoci delle fette di pane;
udivamo il lieto tintinnio dei coltelli e delle forchette, le risate che riempivano tutto lo spazio e
traboccavano per l’apertura nelle tenebre. E affrettavamo il passo, perchè il quadro immaginario
diventasse reale.
Infilammo la strada d’alzaia, e questo ci fece felici, perchè eravamo stati un po’ incerti se
andassimo verso il fiume o ce ne allontanassimo, e quando si è stanchi e si desidera il letto,
incertezze simili vi angosciano. Oltrepassammo Shiplake mentre l’orologio sonava le dodici e
un quarto, e allora Giorgio disse pensoso:
— Tu ricordi per caso di quale isola si tratta?
— No — risposi, facendomi anch’io pensoso. — No. Quante ve ne sono?
— Quattro soltanto — rispose Giorgio. — Non vorrà dire, se è sveglio.
— E se non è sveglio? — io domandai; ma lasciammo da parte quest’ordine di pensieri.
Quando ci trovammo di rimpetto alla prima isola, ci mettemmo a gridare; ma non s’udì
alcuna risposta. Ce ne andammo verso la seconda, e gridammo anche lì, ma con lo stesso
risultato.
— Ah! adesso ricordo — disse Giorgio. — Era la terza.
E corremmo, speranzosi, verso la terza a gridare.
Ma nessuno ci rispose.
La cosa diventava grave. Era già passata la mezzanotte. Gli alberghi di Shiplake e di
Henley dovevano esser gremiti; e noi non potevamo ritornare per andare a picchiare a delle case
private e a domandare se ci fossero delle camere da affittare. Giorgio propose di tornare a
Henley ad assaltare un poliziotto per procurarci l’alloggio per la notte, in guardina. Ma poi si
ragionò: — E se la guardia rifiuta di condurci in gattabuia e ci risponde con solidi pugni?
Non potevamo passare tutta la notte ad assaltare guardie. E poi non volevamo esagerare e
beccarci sei mesi.
Disperatamente tentammo ciò che sembrava, nel buio, la quarta, isola; ma la fortuna non
ci fu più favorevole. La pioggia s’era fatta grave, ed evidentemente aveva intenzione di durare.
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Cominciammo a domandarci se non vi fossero più di quattro isole o se ci fossimo poi avvicinati
ad esse e non fossimo invece a un miglio di distanza dal punto dove bisognava che ci
trovassimo e addirittura in un’ignota parte del fiume: tutto appariva così strano e diverso nel
buio! E allora comprendemmo le sofferenze dei bambini smarriti nel bosco.
Appunto quando avevamo rinunziato a ogni speranza... sì, so che è sempre questo il
tempo in cui accade qualche cosa nei romanzi e nei racconti; ma non so che farci. Risolsi,
quando mi misi a scrivere questo libro, che mi sarei mantenuto rigorosamente veritiero in tutto;
e così farò, anche se dovessi servirmi a questo scopo di frasi comuni e assai trite.
Fu appunto quando avevamo rinunziato a ogni speranza... debbo proprio dir così.
Appunto quando avevamo rinunziato a ogni speranza, ebbi a un tratto la visione, un po’ al di
sotto di noi, d’una strana, bizzarra specie di barlume che s’agitava fra gli alberi della sponda
opposta. Per un istante pensai agli spiriti: era un lume così fioco e misterioso! Il momento
appresso mi lampeggiò l’idea che fosse la nostra barca, ed io emisi un tale grido a traverso il
fiume che parve la notte si scotesse nel suo letto.
Aspettammo senza fiato per un minuto, e poi — ah! la più divina musica delle tenebre! —
udimmo in risposta il latrato di Montmorency. Gridammo allora con voce abbastanza forte da
seppellire i sette Dormienti — non ho mai potuto capire perchè mai ci volesse a svegliarne sette
più baccano che per uno — e, dopo un tempo che ci parve un’ora, ma che in realtà credo fosse
di cinque minuti, vedemmo la barca illuminata strisciare lentamente sulla corrente nera e
udimmo l’assonnata voce di Harris domandarci dove fossimo.
V’era un’ingiustificabile stranezza nell’aspetto di Harris, qualcosa più della semplice
stanchezza ordinaria. Egli avvicinò la barca contro una parte della sponda dalla quale era
assolutamente impossibile discendere, e immediatamente se ne andò a dormire. Ci volle
un’immensa quantità di strilli e di ruggiti per svegliarlo di nuovo e fargli capire qualcosa; ma ci
riuscimmo finalmente, e c’installammo sicuramente a bordo.
Come osservammo, Harris aveva in viso una triste espressione. Ci fece l’impressione
d’un uomo a cui fosse successa una disgrazia. Gli domandammo se gli fosse accaduto qualche
cosa, ed egli ci rispose:
— I cigni!
Sembrava che ci fossimo ormeggiati presso un nido di cigni, e, tosto che io e Giorgio ce
n’eravamo andati, fosse ritornata la femmina a farvi del baccano. Harris l’aveva scacciata, ed
essa era corsa a chiamare il maschio. Harris raccontava che aveva sostenuto una vera battaglia
coi due cigni, ma che il suo coraggio e la sua abilità erano prevalsi, sbaragliandoli.
Mezz’ora dopo erano ritornati con altri diciotto cigni. Doveva essersi svolta una terribile
lotta, a quel che si poteva raccogliere dalla relazione di Harris. I cigni avevano tentato di
trascinar lui e Montmorency fuori dalla barca e di annegarli, ed egli s’era difeso come un eroe
per quattro ore, ammazzando il branco, che s’era tutto disperso a nuoto per andar a spirar
lontano.
— Quanti cigni dici che fossero? — chiese Giorgio.
— Trentadue — rispose Harris, assonnato.
— Se in questo momento hai detto ch’erano diciotto! — disse Giorgio.
— No, non è vero — grugnì Harris. — Ho detto dodici. Credi che io non sappia contare?
Non scoprimmo mai che cosa ci fosse di vero intorno a quei cigni. Interrogammo Harris
la mattina sull’argomento; ed egli ci disse: — Quali cigni? — e parve pensare che io e Giorgio
ce li fossimo sognati.
Che delizia ci sembrò trovarci al sicuro nella barca, dopo tutte le nostre fatiche e i nostri
timori! Cenammo con ottimo appetito, Giorgio e io, e ci sarebbe piaciuto farci un ponce dopo,
se avessimo trovato lo whisky, ma non ci fu verso. Domandammo ad Harris dove l’avesse
cacciato; ma parve non sapere che volesse dire «whisky» o di che cosa mai gli parlassimo.
Montmorency qualche cosa doveva sapere, ma non disse nulla.
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Io dormii bene quella notte, e avrei dormito meglio, se non fosse stato per Harris. Ho un
vago ricordo d’essermi svegliato almeno una dozzina di volte durante la notte, per colpa di
Harris che andava in giro nella barca con la lanterna, cercando i suoi panni. Mi parve che si
tormentasse tutta la notte per i panni.
Due volte scosse Giorgio e me, per veder se per caso non giacessimo sui suoi calzoni.
Giorgio la seconda volta diventò furioso.
— Per che diavolo hai bisogno dei calzoni durante la notte? — chiese indignato. —
Perchè non ti butti giù a dormire?
La seconda volta che io mi svegliai, lo trovai in ansia per le calze; e la mia ultima
nebbiosa rimembranza è di esser stato rotolato su un fianco, e di aver udito Harris mormorare
dove diamine mai avesse cacciato l’ombrello.
CAPITOLO XV.
Doveri casalinghi. — L’amore del lavoro. — Il vecchio lavoratore del fiume, ciò che fa e ciò che vi dice
che ha fatto. — Scetticismo della nuova generazione. — Ricordi delle prime vogate. — Con la
zattera. — Giorgio fa la cosa a modo. — Il vecchio barcaiolo, il suo metodo. — Così calmo, così
pieno di pace. — Il principiante. — Un triste caso. — Piaceri dell’amicizia. — La mia prima
esperienza della vela. — Possibile ragione della nostra salvezza.
Ci svegliammo tardi la mattina appresso, e, per desiderio di Harris, partecipammo a una
colazione molto sobria, senza «squisitezze» di sorta. Poi facemmo pulizia, e mettemmo ogni
cosa a posto (un lungo lavoro, che finì col darmi un’idea piuttosto chiara della questione che
spesso m’ero posta, come una donna, cioè, che non avesse altro in mano che una casa, riuscisse
a passare il tempo), e, verso le dieci, ci mettemmo in rotta per ciò che avevamo determinato
dovesse essere il viaggio d’una attiva giornata.
Stabilimmo di remare, come un diversivo dalla fatica del rimorchio; e Harris propose,
come la migliore disposizione, che io e Giorgio ci mettessimo ai remi e lui al timone. La
proposta non mi parve niente affatto saggia, e io dichiarai che Harris avrebbe mostrato una più
lodevole disposizione se avesse proposto di lavorare lui e Giorgio, e lasciar me riposare. A me
sembrava di far più di quanto avrei dovuto in ogni occorrenza, e cominciavo a risentirmene un
po’.
A me par sempre di prodigarmi più di quanto dovrei. Non che io abbia da ridire nulla
contro il lavoro, si badi: il lavoro mi piace e mi affascina, e me ne sto seduto a guardarlo per ore
e ore. Godo nell’averlo da presso, e l’idea di liberarmene mi fa male al cuore.
Il lavoro che si può darmi non sarà mai troppo; accumular lavoro è diventato in me quasi
una passione: il mio studio ne è pieno così, ora, che non v’è più un pollice di spazio per altro, e
dovrò tosto abbandonarne una parte.
E con quanto rispetto, anche, tratto il mio lavoro! Un po’ del lavoro che io ho presso di
me, l’ho da anni, e non si troverebbe su di esso neppure l’impronta d’un dito. Del mio lavoro
sono orgoglioso; di tanto in tanto lo prendo per spolverarlo. Nessuno che, al pari di me, lo tenga
in uno stato migliore di conservazione.
Ma, benchè io sia assetato di lavoro, desidero che le cose sian giuste, e non chieggo più di
quel che mi spetta.
Ma io me lo trovo senza volerlo — almeno, così sembra — e questo mi secca.
Giorgio crede che, in quanto a questo, non è necessario che io mi angosci. La mia natura
più che scrupolosa, egli dice, mi fa temere d’averne più di quanto me ne spetterebbe; ma che in
realtà non me ne tocchi nemmeno la metà. M’auguro, però, che lo dica soltanto per confortarmi.
Io ho sempre osservato che in una barca l’idea fissa d’ogni membro dell’equipaggio è
quella di far lui tutto. L’impressione di Harris era che lui solo avesse lavorato, ma Giorgio,
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d’altra parte, ne rideva, affermando che Harris non aveva fatto nient’altro che mangiare e
dormire, e che lui invece — e la sua persuasione era ferrea — aveva fatto tutto il lavoro di
qualche importanza. Aggiunse che non s’era mai trovato con un paio di poltroni quali Harris e
io.
Questo divertì Harris.
— È verosimile che il nostro Giorgio parli di lavoro? — si mise a ridere. — Se mezz’ora
sola di lavoro lo ammazzerebbe! Si è visto mai Giorgio lavorare? — aggiunse, volgendosi a me.
Convenni con Harris che non avevo mai veduto Giorgio lavorare — certamente mai da
quando eravamo partiti.
— Veramente, non so come tu possa dirlo, comunque — ribattè Giorgio — mi pigli un
accidente se tu non hai fatto altro che dormire! Hai mai veduto Harris pienamente sveglio,
tranne che all’ora dei pasti? — chiese Giorgio, volgendosi a me.
La verità mi spingeva a sostenere Giorgio. Harris, fin dal principio, s’era dimostrato poco
utile nella barca, quando si trattava di dare una mano.
— Per Belzebù, a ogni modo ho fatto più di quanto ha fatto Gerolamo — soggiunse
Harris.
— Sì, veramente non avresti potuto far meno — aggiunse Giorgio.
— Credo che Gerolamo pensi d’essere il passeggero — continuò Harris.
E questa era la loro gratitudine per aver io portato essi e la loro miserabile barca per tutto
il tratto da Kingston, per aver io sorvegliato e cercato tutto ciò che loro occorreva, e per averli
vegliati e serviti. Il mondo è fatto così.
Superammo la difficoltà del momento disponendo che Harris e Giorgio dovessero remare
fin oltre Reading e che io di lì avrei tratto a rimorchio la barca. Trarre una barca pesante contro
una forte corrente ha per me, ora, poche attrattive: a me piace far figurare i giovani.
Ho osservato che la maggior parte dei vecchi pratici del fiume si ritirano allo stesso
modo, tutte le volte che occorre molta forza di braccia. Alla maniera come si stende sui cuscini
in fondo alla barca e incoraggia gli altri rematori, raccontando aneddoti sulle meravigliose gesta
da lui compiute durante l’ultima stagione, si può riconoscere il vecchio pratico.
— Avete il coraggio di dire che vi sforzate molto! — egli dice parlando solennemente, fra
lente boccate di fumo, rivolgendosi ai due novizî, sudati, che si sono affaticati a remare contro
corrente nell’ultima ora e mezzo; — ma se Gianni Biffles, Giacomo e io, la stagione scorsa,
remammo da Marlow a Goring in un pomeriggio... senza fermarci una sola volta. Te ne ricordi,
Giacomo?
Giacomo, che s’è fatto un letto a prua con tutte le coperte e i soprabiti che ha potuto
raccogliere, e che nelle due ultime ore ha dormito profondamente, si sveglia in parte nel sentirsi
chiamato, e ricorda con precisione tutto, e ricorda anche che v’era una corrente particolarmente
forte quel giorno e un vento impetuoso.
— Credo che si trattasse di trentaquattro miglia — aggiunge il primo interlocutore,
prendendo un altro guanciale da mettersi sotto la testa.
— No... no, non esagerare, Tommaso — mormora Giacomo, disapprovandolo; — al
massimo trentatrè.
E Giacomo e Tommaso, affatto esausti da questo sforzo oratorio, si abbandonano al
sonno ancora una volta. E i due novellini ai remi si sentono assolutamente orgogliosi di portare
a spasso a forza di braccia dei meravigliosi rematori quali Giacomo e Tommaso, e si affannano
con più energia che mai.
Quando io ero giovane, solevo ascoltare i discorsi dei miei maggiori, e beverli, e
trangugiarli e digerirli parola per parola, e poi desiderarne altri; ma la nuova generazione par
che non abbia la fede dei vecchi tempi. Giorgio, Harris, e io, nella stagione scorsa, una volta
prendemmo con noi un novellino, e gli spacciammo le solite panzane delle meraviglie da noi
compiute vogando in su contro corrente.
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Gli snocciolammo tutte le fandonie normali — le fandonie rispettabili che hanno fatto sul
fiume il loro dovere per anni con ogni barcaiolo e con ogni dilettante — e ne aggiungemmo
sette interamente originali inventate da noi, compresa una storia d’una certa verosimiglianza,
basata, in qualche modo, su un episodio poco credibile, che era realmente accaduto alcuni anni
prima, in un grado alquanto diverso, ad amici nostri — una storia insomma che sarebbe stata
creduta anche da un bambino senza perciò farsi male.
E quel giovane le derise tutte, e ci domandò che ripetessimo immediatamente le nostre
gesta, scommettendo dieci contro uno che non ne saremmo stati capaci.
Ci mettemmo quella mattina a chiacchierare dei nostri esercizî fluviali, e a raccontar i
nostri primi sforzi nell’arte del remo. La mia prima memoria acquatica è di cinque piccoli
amici, dei quali ciascuno contribuì con sei soldi per noleggiare, sul lago di Regent’s Park, una
barchetta bizzarramente costruita, e per asciugarci poi nel casotto del custode del parco.
Dopo, avendo pigliato gusto all’acqua, mi diedi da fare con le zattere in varie mattonaie
suburbane — un esercizio più interessante e animato di quanto si possa immaginare,
specialmente quando uno si trova in mezzo allo stagno, e il proprietario dei materiali coi quali
la zattera è costruita appare all’improvviso sulla riva con un grosso bastone in mano.
La vostra prima impressione alla vista di quel galantuomo è di non sentirvi, comunque,
disposto alla compagnia e alla conversazione, e se potete farlo senza apparir scortese, cercate
tutti i modi di evitarlo; e il vostro oggetto, perciò, è di svignarvela dal lato opposto dello stagno,
e di andarvene a casa tranquillamente e rapidamente, fingendo di non vederlo. Egli, al contrario,
brama di prendervi per mano e di parlarvi.
Sembra ch’egli conosca vostro padre, e che conosca bene anche voi; ma questo non
v’attrae verso di lui. Egli dice che v’insegnerà lui a prender le sue tavole e a farne una zattera;
ma, giacchè sapete già abbastanza bene come si fa, l’offerta, benchè senza dubbio gentile,
sembra superflua da parte sua, e voi non avete intenzione di disturbarlo, accettandola.
La sua ansia d’incontrarvi, però, è a prova contro ogni vostra freddezza, e l’energia con
cui egli corre intorno allo stagno per trovarsi sul punto preciso del vostro approdo, è veramente
lusinghiera in sommo grado..
S’egli è d’una struttura atticciata e asmatica, potete facilmente sfuggire ai suoi approcci;
ma, se è del tipo giovanile dalle gambe lunghe, l’incontro è inevitabile. Il colloquio, però, è
estremamente breve, e la maggior parte della conversazione è sostenuta da lui, giacchè le vostre
osservazioni sono d’ordine esclamativo e monosillabico, e, appena, potete, ve la date a gambe.
Io dedicai circa tre mesi all’esercizio della zattera, e, avendo progredito quanto bastava in
questo ramo dell’arte, risolsi d’imparare a modo quella del remo, ed entrai in una delle società
di canottaggio del Lea.
A uscire sul fiume Lea, specialmente nel pomeriggio del sabato, tosto si diventa abile a
guidare la barca e rapido ad evitare gl’investimenti da parte dei rematori gaglioffi o gli scontri
da parte dei trasporti; e inoltre s’impara il più svelto e grazioso metodo di appiattarsi nel fondo
della barca in modo da non esser lanciato nel fiume al passaggio dei cavi di rimorchio.
Ma non si acquista lo stile. Non fu che quando arrivai sul Tamigi, che imparai lo stile. Il
mio stile nel remare è ora molto ammirato. La gente dice che è così bizzarro.
Giorgio non si avvicinò all’acqua che quando ebbe sedici anni. Allora egli e altri otto
signorini, a un di presso della stessa età, si recarono in corpo a Kew, un sabato, con l’idea di
noleggiarvi una barca, e di remare fino a Richmond e di ritornarne. Uno della brigata, un
giovane dai capelli folti, di nome Joskin, che aveva un paio di volte condotto un canotto sulla
Serpentine, aveva detto a tutti ch’era un gran divertimento andare in barca.
La marea saliva piuttosto rapida quand’essi raggiunsero l’approdo, e una rigida brezza
spirava sul fiume, ma questo non li turbò affatto, e si misero a scegliere la barca.
C’era un’imbarcazione da corsa a otto coppie di remi, tirata sull’approdo, e
s’incapricciarono di quella. Per piacere, dissero, volevano proprio quella.
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Il barcaiuolo era assente e c’era il suo ragazzo. Il ragazzo cercò di smorzare il loro ardire
per l’imbarcazione a otto remi, e mostrò loro due o tre barche del tipo di escursione per
famiglia, all’aspetto molto comode; ma non vollero neppure sentirne parlare: era quella a otto
coppie di remi la barca in cui avrebbero figurato meglio.
Così il ragazzo la varò, ed essi si cavarono le giacche e si prepararono a prendere il loro
posto. Il ragazzo consigliò a Giorgio, che anche in quei giorni era il più grasso di tutti gli altri
compagni, di occupare il sedile numero quattro. Giorgio disse che sarebbe stato lietissimo
d’essere il numero quattro e tosto andò a mettersi al posto di prima, sedendo con le spalle al
timone. Finalmente poterono farlo sedere dove gli toccava; e quindi si disposero gli altri.
Un ragazzo particolarmente nervoso fu nominato timoniere, e Joskin gli spiegò i principî
del timone. Joskin stesso faceva da prodiere e disse ai compagni ch’era una cosa abbastanza
semplice; tutti gli altri non dovevano fare che imitarlo.
Si dichiararono tutti pronti, e il ragazzo sull’approdo prese una gaffa e li staccò dalla riva.
Giorgio non sa descrivere in particolare ciò che avvenne. Egli ha il ricordo confuso di
avere, nell’istante immediato della partenza, ricevuto un violento colpo al fianco dalla pala del
remo numero cinque, mentre nello stesso tempo gli sembrò che il sedile gli sparisse per
incantesimo di sotto, e lo mandasse disteso sulle tavole. Osservò anche una curiosa circostanza:
che il numero due giaceva nello stesso momento sulla schiena nel fondo della barca, con le
gambe in aria, verosimilmente in un attacco di convulsioni.
Passarono sotto il ponte di Kew, di lato, alla velocità di otto miglia all’ora. Joskin era il
solo che remasse. Giorgio, ristabilendosi sul sedile, tentò di aiutarlo; ma, tuffando nell’acqua il
remo, questo, con sua indicibile sorpresa, scomparve sotto la barca, e mancò poco non lo
trascinasse con sè.
E allora il timoniere gettò nel fiume entrambe le funicelle del timone, e si mise a
piangere.
Giorgio non seppe mai come essi tornassero a riva; ma occorsero quaranta minuti precisi.
Una folla assistè al divertimento interessantissimo dal ponte di Kew, e tutti gridavano agli otto
ragazzi dei consigli diversi. Tre volte i ragazzi riuscirono a ritrarre la barca dall’arco e tre volte
la riportarono di nuovo sotto l’arco; e tutte le volte che il timoniere si vedeva sotto il ponte
rompeva in nuovi singhiozzi.
Giorgio disse che quel pomeriggio disperò assolutamente che un giorno avrebbe potuto
condurre una barca.
Harris è più novizio a remare nel mare che nel fiume, e dice che, come esercizio,
preferisce il mare. Io no. Ricordo l’estate scorsa di aver condotto un canotto al largo
d’Eastbourne: avevo negli anni passati remato molto in mare, e credevo sarei andato
magnificamente; ma trovai che avevo dimenticato interamente l’arte. Quando un remo arrivava
profondo sott’acqua, l’altro s’agitava violentemente in aria. Per toccar l’acqua con entrambi
contemporaneamente, dovevo stare in piedi. La passeggiata era affollata, di tutta l’inclita e di
tutto il colto pubblico, e io dovetti passar loro davanti, remando in quel modo ridicolo. Sbarcai
a mezza via sulla spiaggia, e m’assicurai i servizî d’un vecchio barcaiolo per tornare indietro.
Mi piace guardare un vecchio barcaiolo che rema, specialmente se è stato noleggiato a
ore. V’è nel suo metodo qualcosa di così bellamente calmo e riposante. Nulla della fretta
ansiosa, del veemente sforzo che diventa sempre più il tormento della vita del secolo
decimonono. Egli non si sforza mai d’oltrepassare tutte le altre barche. Se un’altra lo raggiunge
e gli passa davanti, egli non se ne cura; e in realtà tutte lo raggiungono e gli passano davanti —
tutte quelle che seguono la stessa rotta. Questo turberebbe e irriterebbe molti altri; la sublime
equanimità in simili cimenti del barcaiolo a nolo ci dà una magnifica lezione contro l’ambizione
e l’alterigia.
L’arte di condurre innanzi la barca coi remi non è molto difficile, ma ci vuole molta
pratica, prima che uno si senta a suo agio nell’atto di remare sfilando innanzi a delle ragazze. È
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il «tempo» che impaccia un novellino. «È strano — egli dice, quando la ventesima volta in
cinque minuti distriga i suoi remi dai vostri; — quando son solo vado invece benissimo».
È divertentissimo veder dei novizî tentar di remare rispettivamente a tempo. Il prodiere
trova impossibile andar di conserva col rematore di poppa, perchè il rematore di poppa rema in
un modo così strano. Ma di questo il rematore di poppa s’irrita, e spiega che negli ultimi dieci
minuti non ha fatto che cercare di adattare il proprio metodo alla limitata capacità del prodiere.
Il prodiere, a sua volta, si sente oltraggiato, e prega il rematore di poppa di non disturbarsi a
guardar quello che fa lui, ma di cercar di remare a modo.
— O debbo mettermi io a poppa — aggiunge, con l’impressione evidente che questo
accomoderebbe subito ogni cosa.
Sguazzano per un altro centinaio di metri sempre con poco successo, e poi tutto il segreto
del loro sconcerto balena al rematore di poppa con un lampo d’ispirazione:
— Vuoi sapere perchè? Tu hai presi i miei remi — esclama volgendosi al prodiere —
dàlli qua.
— Ah, ora capisco. Anch’io mi domandavo come mai io non mi trovavo con questi —
risponde il prodiere, irradiandosi, e facendo molto volentieri lo scambio. — Ora si andrà bene.
Ma neanche allora vanno bene. Il rematore di poppa deve quasi slogarsi le braccia per
raggiungere i suoi remi; mentre i remi del prodiere, a ogni ripresa, gli dànno un violento colpo
in petto. Allora si scambiano di nuovo gli strumenti, e vengono alla conclusione che il padrone
della barca ha loro dato due paia di remi di un’altra imbarcazione, e, riversando il loro comune
risentimento sul padrone, corroborano la loro amicizia e la loro simpatia.
Giorgio disse che spesso desiderava, come un diversivo, di condurre una zattera.
Condurre una zattera non è così facile come sembra. S’apprende subito come andare innanzi
remando e come maneggiarla, ma ci vuole una lunga pratica prima di poterlo fare con dignità e
senza buttarsi l’acqua in una manica.
Un giovane, che io conoscevo, ebbe una triste avventura la prima volta che andò a spasso
con una zattera. Era andato innanzi così bene ch’era diventato perfino temerario e camminava
su e giù per la zattera, adoperando il palo con una grazia disinvolta assolutamente affascinante a
vedere. Si spingeva fin sulla punta della zattera, piantava il palo, e poi correva fino all’altra
estremità, proprio come un vecchio pratico di zattere. Ah, era una cosa magnifica!
E la cosa avrebbe continuato a essere magnifica se egli disgraziatamente, mentre
guardava in giro a godersi il passaggio, non avesse fatto un passo più del necessario, uscendo
assolutamente fuori della zattera. Il palo era fissato saldamente nella mota, ed egli rimase
aggrappato al palo, mentre la zattera s’allontanava galleggiando. Un monello ch’era sulla riva,
immediatamente strillò a un compagno, che lo seguiva, di «correre a vedere una scimmia
aggrappata a un bastone».
Io non potei correre in suo aiuto, perchè disgrazia volle che non avessimo preso la
precauzione di portarci un secondo palo. Non potei far altro che rimanermene seduto a guardar
l’amico. La sua espressione nell’atto che il palo affondava lentamente con lui non la
dimenticherò mai più: era tanto pensosa.
Lo vidi andar giù pian piano nell’acqua, e lo vidi venirne fuori triste e grondante. Non
potei non ridere dinanzi a una figura così ridicola. Continuai a gorgogliare fra me e me, per
qualche tempo; ma poi a un tratto mi lampeggiò l’idea che, riflettendoci bene, io avevo poca
ragion di ridere. Eccomi lì solo in una zattera, senza il palo, andar disperatamente alla deriva,
forse verso uno sbarramento.
Cominciai a sentire una viva indignazione contro l’amico, che se n’era uscito e andato in
quella maniera. Avrebbe dovuto almeno lasciarmi il palo.
Mi trascinai così per circa un quarto di miglio, e poi arrivai in vista d’una zattera da pesca
ormeggiata in mezzo alla corrente e nella quale stavano due vecchi pescatori. Mi videro diretto
verso di loro e mi gridarono di virar di fianco.
— Non posso — risposi gridando.
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— Ma tu non lo tenti neppure — dissero di rimando.
Spiegai loro la cosa quando mi avvicinai, e allora mi acchiapparono e mi prestarono un
palo. Lo sbarramento era a cinquanta metri più giù. Son lieto che l’avessero costruito lì.
La prima volta che andai con una zattera fu in compagnia di tre altri amici, che dovevano
mostrarmi come si facesse. Siccome non potevamo recarci tutti e quattro alla stessa ora, dissi
che sarei andato io prima a pigliare la zattera, e vi avrei fatto un po’ di pratica, prima del loro
arrivo.
Quel pomeriggio non mi fu possibile noleggiare una zattera; erano state tutte date, e
allora, non avendo altro da fare, mi sedetti sulla riva, guardando il fiume e aspettando gli amici.
Non ero rimasto lì a lungo, quando la mia attenzione fu attratta da un giovane in una
zattera, il quale come notai con qualche sorpresa, portava una maglia e un berretto esattamente
simili ai miei. Era evidentemente novizio nell’arte di guidare una zattera, e le sue esercitazioni
erano molto interessanti. Non si sapeva mai dire ciò che sarebbe accaduto quando tuffava il
palo: certo non conosceva le proprie possibilità. Talvolta si slanciava contro corrente e talvolta
secondo corrente, e in qualche altro momento faceva un giro e si presentava dall’altro lato. E, a
ogni risultato delle sue manovre, egli pareva egualmente sorpreso a annoiato.
La gente intorno al fiume cominciò, dopo un po’, a concentrare tutta la sua attenzione in
lui, e a fare delle scommesse sul probabile risultato della prossima spinta.
Dopo qualche tempo, i miei amici arrivarono sulla sponda opposta, e si fermarono a
guardare anch’essi. Il giovane volgeva loro le spalle, ed essi vedevano soltanto la maglia e il
berretto. Da questo immediatamente saltarono alla conclusione che fossi io, il loro diletto
amico, che facesse mostra della propria abilità, e la loro gioia non ebbe limiti. Essi
cominciarono a beffeggiarlo spietatamente.
Sulle prime non avevo compreso il loro equivoco, e pensavo: «Come son scortesi a
comportarsi a quel modo, e con una persona, poi, assolutamente estranea!» Ma prima che
potessi chiamarli e rimproverarli, mi balenò la spiegazione della cosa, e mi ritrassi dietro un
albero.
Oh, com’essi si divertivano, mettendo in ridicolo quel giovane! Per cinque buoni minuti
continuarono a gridargli ogni sorta d’insolenze, a deriderlo, schernirlo, a tormentarlo. Peparono
delle vecchie facezie, ne crearono anche delle nuove, e gliele scagliarono. Buttarono tutti i
vecchi motteggi familiari del nostro circolo che dovevano arrivare al bersagliato perfettamente
indecifrabili. E poi, incapace di resistere più oltre a quel brutale fuoco di fila, quegli si voltò, e
poterono guardarlo in faccia.
Io fui lieto di osservare che ad essi era rimasto abbastanza decoro da assumere un aspetto
da scemi. Spiegarono al giovane che lo avevano scambiato per uno di loro conoscenza, dicendo
che speravano non li stimasse capaci d’insultare chiunque non fosse un loro amico personale.
Naturalmente l’averlo scambiato per un amico li scusò. Ricordo che Harris mi raccontò
un’avventura marina capitatagli a Boulogne. Stava nuotando nei pressi della spiaggia, quando si
sentì preso di dietro improvvisamente per il collo, e a forza tuffato sott’acqua. Egli lottò
violentemente, ma chi l’aveva abbrancato doveva essere un perfetto Ercole, e tutti gli sforzi di
Harris per sfuggirgli furono assolutamente vani. Aveva rinunziato a dar calci e aveva rivolto il
pensiero ad augusti oggetti, quando il suo catturatore lasciò la presa.
Harris si rimise in piedi, e si volse per vedere l’assalitore. L’assalitore gli stava accanto
ridendo cordialmente, ma nell’istante che scòrse la faccia di Harris, emersa dalle acque, diede
un balzo indietro e apparve assolutamente sconcertato.
— Veramente vi domando scusa — balbettò confusamente — ma vi avevo scambiato per
un mio amico.
Harris pensò d’esser stato fortunato a non essere scambiato per un parente; altrimenti
sarebbe stato annegato in quattro e quattr’otto.
Anche ad usar la vela occorre conoscenza e pratica — benchè da ragazzo non lo
immaginassi. Credevo che fosse una cosa naturale, come il giro giro tondo e gli altri giuochi
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infantili. Conoscevo un altro ragazzo che aveva la mia stessa opinione, e così, un giorno di
vento, ci venne in mente di darci a veleggiare. Stavamo a Yarmouth, e decidemmo di arrivare
fino a Yare. Noleggiammo una barca a vela a un cantiere presso il ponte, e salpammo.
— È una giornata un po’ brusca — ci disse il padrone, mentre si partiva — meglio far
terzuolo e mantenersi all’orza arrivando alla curva.
Rispondemmo che ce ne saremmo ricordati, e, lasciandolo con un allegro «Arrivederci»,
ci domandammo come far terzuolo e dove arrivare all’orza, e che bisognasse farne quando
l’avessimo.
Remammo finchè non perdemmo di vista la città, e poi con un vasto tratto d’acqua
dinanzi e il vento impetuoso di perfetta burrasca, comprendemmo ch’era tempo di cominciare le
operazioni.
Ettore — credo che si chiamasse così — continuò a remare, mentre io svolgevo la vela.
Sembrava un lavoro complicato, ma io lo compii tutto, e allora mi domandai quale fosse il di
sopra.
Per una specie d’istinto naturale, noi, s’intende, decidemmo eventualmente che la parte
inferiore fosse la superiore, e ci applicammo a fissarla al rovescio. Ma ci volle molto per issarla,
storta o dritta che fosse. L’impressione sullo spirito della vela era che noi stessimo giocando ai
funerali, e che io fossi il cadavere ed essa il sudario.
Quando trovò che non era così, mi colpì la testa col palo, e rifiutò di far nient’altro.
— Bagnala — disse Ettore — abbassala, e bagnala.
Disse che si usava bagnare le vele prima di issarle. Così io la bagnai; ma questo peggiorò
lo stato delle cose. Una vela asciutta, che vi s’aggrappa alle gambe e vi s’avvolge alla testa, non
è piacevole; ma quando la vela s’è impregnata d’acqua diventa irritante.
Finalmente tutti e due insieme riuscimmo a fissarla, ma esattamente sottosopra — un po’
lateralmente — e la legammo all’albero con la gomena tagliata per quello scopo.
Io riferisco semplicemente come un fatto che la barca non si rovesciò. Non so dare alcuna
ragione del perchè non si rovesciasse. Spesso, dopo, ci ho ripensato, ma non son mai riuscito a
trovare una spiegazione sufficiente del fenomeno.
Forse esso fu l’effetto della naturale contrarietà delle cose di questo mondo. Chi sa che la
barca non fosse giunta alla conclusione, giudicando da un’idea superficiale della nostra
condotta, che noi quella mattina avessimo l’intenzione di suicidarci e che quindi avesse
deliberato di deluderci. Questa è l’unica spiegazione che io possa offrire.
Con l’abbrancarci disperatamente al capo di banda riuscimmo a tenerci al di dentro della
barca, ma lo sforzo ci prostrò. Ettore disse che i pirati e gli altri marinai legavano il timone a
non so che, e ammainavano la vela principale, durante le raffiche tempestose, e che anche noi si
poteva tentar qualcosa di simile; ma io fui dell’avviso di lasciare che l’imbarcazione seguisse il
vento.
Siccome il mio consiglio era il più facile da seguire, finimmo con l’adottarlo, sforzandoci
di abbracciare il capo di banda e far andare a suo talento la barca.
La barca viaggiò contro corrente per circa un miglio a una velocità alla quale non sono
mai andato più veleggiando, e non vorrò mai andare una seconda volta. Poi, alla curva, sbandò
fino ad aver la vela sott’acqua. Quindi si raddrizzò per un miracolo e volò verso un lungo e
basso banco di soffice fango.
Il banco di fango ci salvò. La barca si scavò un varco fin nel mezzo e vi s’incuneò.
Trovando che eravamo ancora capaci di muoverci a nostra voglia, invece di essere sbattuti e
agitati come due piselli in una vescica, strisciammo innanzi e tagliammo la vela.
Ne avevamo abbastanza. Non volevamo esagerare il divertimento e averne più del
necessario. S’era veleggiato — e in complesso con grande interesse e animazione — e
pensammo che era tempo di metterci a remare, per un diversivo.
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Prendemmo i remi e tentammo di disincagliare la barca dal fango, e, nel tentativo,
rompemmo un remo. Allora procedemmo con molta cautela; ma era un maledetto paio di remi,
e il secondo si spezzò con maggiore facilità del primo, e ci lasciò disperati.
Il fango si stendeva per circa un centinaio di metri dinanzi a noi, e di dietro c’era l’acqua.
L’unica cosa da fare era sederci e aspettare che qualcuno ci passasse accanto.
Non era quella una giornata che attirasse gente sul fiume, e passarono tre ore prima che si
vedesse un’anima. Fu un vecchio pescatore che, con immensa difficoltà, finalmente ci salvò, e
noi fummo rimorchiati ignominiosamente fino al cantiere.
Fra il dar una mancia all’uomo che ci riportò sani e salvi, il pagare i remi rotti, e l’essere
stati a divertirci quell’ora e mezza, quella vela ci costò una somma non indifferente. Ma s’era
fatta un po’ d’esperienza, e l’esperienza, si dice, è sempre a buon mercato, a qualunque prezzo.
CAPITOLO XVI.
Reading. — Siamo rimorchiati da una lancia a vapore. — Irritante condotta dei canotti. — Come
inceppano la rotta delle lance a vapore. — Giorgio e Harris schivano di nuovo il lavoro. — Una
storia piuttosto comune. — Streatley e Goring.
Verso le undici arrivammo in vista di Reading, dove il fiume è sudicio e lugubre. I
dintorni di Reading non invitano a una sosta. La città è celebre e data dagli oscuri tempi di re
Ethelred, quando i Danesi ancoravano i loro vascelli nel Kennet, e partivano da Reading per
devastare tutta la campagna di Wessex; e qui Ethelred e il fratello Alfredo combatterono
sbaragliandoli, Ethelred pregando e Alfredo battagliando.
Sembra che, più tardi, Reading fosse considerata un comodo rifugio, quando non si stava
bene a Londra. In generale il Parlamento si precipitava a Reading tutte le volte che una peste
infieriva a Westminster; e nel 1625, il foro fece la stessa cosa e tutte le corti furono aperte a
Reading. Doveva esser comodo avere di tanto in tanto la peste a Londra e sbarazzarsi degli
avvocati e del Parlamento.
Durante la lotta parlamentare, Reading fu assediata dal conte di Essex, e, un quarto di
secolo più tardi, il principe d’Orange vi sbaragliò le truppe del re Giacomo.
Enrico I è sepolto a Reading, nell’abbazia dei benedettini, fondata da lui. Se ne veggono
ancora le rovine, e, nella stessa abbazia, il gran Giovanni di Gaunt sposò Lady Bianche.
Alla chiusa di Reading trovammo una lancia a vapore di alcuni amici miei, che ci
rimorchiarono fino a circa un miglio da Streatley. È delizioso essere rimorchiati da una lancia a
vapore. Lo preferisco al remare. La rotta sarebbe stata ancora più deliziosa, se non fosse stato
per un branco di miserabili barche che inceppavano continuamente il cammino della lancia. Per
evitar d’investirle, dovevamo ogni tanto star bene attenti e fermarci. È veramente seccantissima
la maniera come quelle barche a remi ostacolano la via d’una lancia sul fiume: si dovrebbe
pensare a far cessare questo sconcio.
E sono anche così maledettamente insolenti. Potete fischiare fino a far scoppiar la caldaia,
prima che si scomodino a tirarsi da parte. Se potessi fare a mio modo, ne investirei un paio di
tanto in tanto, se non altro per dar loro una lezione.
Il fiume diventa molto ameno un po’ al di sopra di Reading. La ferrovia lo guasta un po’
presso Tilehurst, ma da Mapledurkam fino a Streatley è bellissimo. Un po’ al di sopra della
chiusa di Mapledurkam si passa innanzi ad Hardwick House, dove Carlo I giocava a bocce. I
dintorni di Pangbourne, dove sorge lo strano albergo del Cigno, dev’essere così familiare ai
frequentatori delle mostre d’arte come ai suoi stessi abitanti.
La lancia dei miei amici ci lasciò precisamente al di sotto della grotta, e allora Harris
volle sostenere che fosse la mia volta di remare. Questo mi parve assai irragionevole. Era stato
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stabilito nella mattinata che io avrei condotto la barca fino a tre miglia al di sopra di Reading.
Bene, ci trovavamo dieci miglia al di sopra di Reading. Certo, ora era il loro turno.
Però, non mi riuscì di far vedere nè a Giorgio nè ad Harris la faccenda nella sua giusta
luce; e, per non discutere più, presi io i remi. Non avevo ancora remato per più d’un minuto a
un di presso, che Giorgio scòrse qualche cosa di nero galleggiante sull’acqua, e noi vogammo
verso quel punto. Giorgio si chinò, quando vi fummo da presso, e stese la mano. Poi si ritrasse
con un grido, e con la faccia bianca come un cencio.
Era il cadavere d’una donna. Galleggiava molto leggermente, e aveva dolce e calmo il
viso. Non era un bel viso: aveva l’aspetto di una precoce maturità, ed era troppo sottile ed
emaciato; ma pur tuttavia aveva un’impronta di gentilezza e di simpatia, anche nella sua aria
d’angustia e di miseria. Vi aleggiava ancora quello sguardo di pace e di riposo che spunta sui
visi degl’infermi, quando infine la sofferenza li ha abbandonati.
Fortunatamente per noi — non avevamo alcun desiderio d’aggirarci intorno agli uffici
giudiziarî — anche alcune persone sulla riva avevano veduto il corpo, e ad esse lo affidammo.
Scoprimmo dopo la storia della donna. Naturalmente era la vecchia, volgare tragedia. Ella
aveva amato, ed era stata ingannata... o s’era ingannata da sè. A ogni nodo, aveva peccato —
alcuni di noi fanno di tanto in tanto la stessa cosa — e la sua famiglia e i parenti, urtati e
indignati naturalmente, le avevano chiuso la porta in faccia.
Lasciata lottare sola nel mondo, con la macina della sua vergogna legata al collo, ella era
precipitata sempre più in basso. Per un po’ s’era sostenuta, lei e il bambino, con una quindicina
di lire la settimana datele da un duro servizio giornaliero, pagandone sette per il bambino e
tenendo insieme l’anima e il corpo col resto.
Otto lire la settimana non tengono bene aderenti l’anima e il corpo. Essi, quando fra loro
v’è un legame così leggero, tendono a separarsi, e un giorno, immagino, la sofferenza e la triste
monotonia d’ogni cosa le erano apparse più chiare innanzi agli occhi, e lo spettro del dileggio
l’aveva spaventata. Ella aveva fatto un ultimo appello ai parenti; ma la voce della sventurata
errabonda si spense contro il freddo muro della loro rispettabilità; e poi la donna era andata a
visitare il bambino: se l’era tenuto in braccio e, baciatolo, e come stanca e senza slancio, e
senza rivelar nessuna particolare commozione, l’aveva lasciato mettendogli in mano una
scatoletta di cioccolatini. Poi, con le ultime poche lire, aveva comprato un biglietto per il tratto
della ferrovia fino a Goring.
Sembrava che i più umani pensieri della sua vita si fossero concentrati intorno alle
contrade boscose e ai verdi prati lucenti di Goring; ma le donne prediligono stranamente il
pugnale che le trafigge, e forse, nel fiele si dovevan mischiare le radiose memorie di ore
dolcissime trascorse su quegli abissi profondi sui quali i grossi alberi incurvano i loro rami.
Ella aveva vagato tutto il giorno per i boschi in riva al fiume, e poi, al calar della sera e al
grigio crepuscolo, che spargeva la sua fosca veste sulle acque, ella stese le braccia alla corrente
silenziosa che aveva conosciuto la sua tristezza e la sua gioia. E il vecchio fiume l’aveva
raccolta nelle sue morbide braccia, fugandole ogni sofferenza.
Così la donna aveva peccato in ogni cosa — peccato vivendo e morendo. Dio l’aiuti! lei e
tutti gli altri peccatori, se ancora ce ne sono.
Goring, sulla riva sinistra, e Streatley, sulla destra, sono entrambi bei luoghi per
indugiarvi pochi giorni. I tratti fino a Pangbourne allettano per un’escursione a vela e sotto il
sole o per una vogata al chiaro di luna, e la campagna tutta intorno è piena di bellezza.
Avevamo determinato di spingerci fino a Wallingford quel giorno; ma, la dolce sorridente
faccia del fiume in quel punto ci persuase a sostare un po’; e così lasciammo la nostra barca
presso il ponte, ed entrammo in Streatley, e facemmo colazione al «Toro» con gran
soddisfazione di Montmorency.
Si dice che le colline dall’uno e l’altro lato della corrente una volta fossero congiunte e
formassero una barriera a traverso ciò che è ora il Tamigi, e che quindi il fiume finisse al di
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sopra di Goring in un vasto lago. Io non sono in condizione nè di contraddire nè di corroborare
questa affermazione. La riferisco semplicemente.
Streatley è molto antica, e risale, come molte città e molti villaggi sulla sponda del fiume,
ai tempi dei Britanni e dei Sassoni. Goring non è così leggiadro che vi si possa sostare come a
Streatley, quando si può scegliere; ma è abbastanza bello nel suo genere, e più vicino alla
ferrovia, nel caso vogliate svignarvela senza pagare il conto dell’albergo.
CAPITOLO XVII.
Giorno di bucato. — Pesca e pescatori. — Dell’arte di pescare. — Un coscienzioso pescatore alla
mosca. — Una storia peschereccia.
Ci fermammo due giorni a Streatley, e ci facemmo lavare gli abiti. Avevamo provato a
lavarceli da noi, nel fiume, sotto la direzione di Giorgio, ed era stato un fallimento. Anzi, più
d’un fallimento, perchè stavamo, dopo averci lavato gli abiti, peggio di prima. È vero che erano
stati sudici, sudicissimi prima che li avessimo lavati; ma si potevano portare. Dopo... bene, il
fiume fra Reading ed Henley era molto più pulito di quel che non fosse apparso prima. Tutto il
sudicio contenuto nel fiume fra Reading ed Henley lo raccogliemmo noi, durante l’operazione,
compenetrandolo nei nostri panni.
La lavandaia di Streatley dichiarò che doveva farci pagare il triplo del prezzo abituale,
perchè la sua fatica non era stata di lavare, ma piuttosto di fare una specie d’escavazione.
Pagammo il conto senza mormorare.
I dintorni di Streatley e Goring sono un gran centro di pesca. Vi abbondano lucci, lasche,
ghiozzi e anguille, e non c’è che da sedersi e da pescarli tutto il giorno.
Alcuni fanno così, ma non li acchiappano mai. Io non ho mai conosciuto nessuno che
abbia mai acchiappato nulla, giù nel Tamigi, tranne che non si trattasse di avanotti e di gatti
morti; ma questo, si capisce, non ha nulla a che fare con la pesca. La locale guida del pescatore
non dice una parola intorno alla cattura di qualche cosa. Dice che il punto è «una buona
stazione da pesca», e, da ciò che ho veduto del luogo, io sono assolutamente disposto a
corroborare questa affermazione.
Non v’è alcun punto al mondo dove si possa aver più da pescare o dove si possa star a
pescare per un più lungo periodo. Alcuni pescatori ci vanno e pescano per un giorno, e altri si
fermano a pescare per un mese. Si può fermarsi a pescare per un anno, se si vuole: sarà sempre
lo stesso.
La «guida del pescatore nel Tamigi» dice che qui si possono avere anche piccole lasche e
perche, ma in questo la «Guida del pescatore» ha torto. Piccole lasche e perche forse ce ne
sono. Anzi, so di certo che ce ne sono. Potete vederle a mucchi quando fate una passeggiatina
lungo la riva: corrono a mettersi a mezzo fuori dell’acqua con le bocche aperte per acchiappare
i biscotti sbriciolati. E, se fate un bagno, vi s’affollano intorno, e vi ostacolano e v’irritano. Ma
non si possono «avere» per un pezzo di verme sulla punta d’un amo, nè per nulla di simile —
oh, no!
Io so di non essere un buon pescatore. Una volta dedicai parecchia attenzione a questo
argomento; e avevo fatto, come credevo, qualche progresso; ma i vecchi pratici mi dissero che
non ci sarei mai riuscito, e mi consigliarono a rinunziarvi. Avrei imparato benissimo a gettar
l’amo, e sembrava che in questo avessi molta acutezza, e abbastanza pigrizia organica. Ma essi
erano sicuri che non sarei mai stato pescatore: non avevo l’immaginazione sufficiente.
Dissero che come poeta, narratore di avventure fantastiche, cronista, o qualsiasi altra cosa
di simile, sarei potuto arrivare a una posizione discreta, ma che a guadagnarmi una certa
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considerazione come pescatore del Tamigi mi ci sarebbe voluta più mobilità di fantasia e più
forza d’invenzione che non possedessi.
Certi han l’impressione che tutto ciò che occorra per formare un buon pescatore sia
l’abilità di dir bugie facilmente e senza arrossire; ma è un errore. La semplice ardita costruzione
non serve: anche i più novellini ne son capaci. È nel particolare minuto, nel tocco ornamentale
della probabilità, nell’aria generale di scrupolosa — quasi pedantesca — veracità, che si
conosce il buon pescatore.
Chiunque può venire a dire: — Ah, io ho acchiappato quindici dozzine di perche ieri sera;
— o: — Lunedì scorso ho pescato un carpio che pesava diciotto libbre e misurava novanta
centimetri dal muso alla coda.
Non v’è l’arte, l’abilità che ci vuole per questa sorta di cose. Questa è improntitudine,
nient’altro.
No; il pescatore compito abborre dal dire una bugia, a questo modo. Il suo metodo è per
sè stesso uno studio.
Egli si presenta tranquillamente col cappello in testa, s’impadronisce della poltrona più
comoda, accende la pipa, e comincia a emettere nuvole di fumo in silenzio. Lascia che i più
giovani si millantino per un po’, e poi, durante una calma momentanea, si cava di bocca la pipa,
e osserva, mentre ne scuote la cenere dal fornello:
— Bene, martedì sera ho fatto una presa, che è bene non dica a nessuno.
— Oh! perchè? — si chiede.
— Perchè penso che nessuno mi crederà, se lo dico — risponde il brav’uomo, calmo; e
senza neppure una sfumatura d’amarezza nel tono; si ricarica la pipa, e chiede al padrone del
locale di portargli uno di whisky, freddo.
V’è un po’ di silenzio, perchè nessuno si sente sufficientemente sicuro di sè da
contraddire il vecchio galantuomo. E così questi ha da continuare da sè, senza alcuno che ve lo
incoraggi.
— No — egli continua, pensoso. — Neanche io lo crederei, se qualcuno me lo
raccontasse, ma tuttavia è un fatto. Ero stato seduto lì tutto il pomeriggio e non avevo
acchiappato letteralmente nulla — tranne poche dozzine di perche e una ventina di piccole
lasche; e stavo appunto per andarmene scoraggiato, quando sento una stretta piuttosto forte alla
lenza. Credevo fosse un altro pesciolino, e stavo per tirarla. Accidempoli, se potevo più
muovere la canna! Ci volle mezz’ora — mezz’ora, signori — a tirar fuori quel pesce, e ogni
momento temevo che la lenza si dovesse rompere. L’ebbi finalmente, e che credete che fosse?
Uno storione, uno storione di quaranta libbre! preso con una lenza, signori! Sì, potete
sorprendervene — un altro di whisky, trattore, per piacere.
E poi continua col narrare la meraviglia dei presenti; e ciò che disse la moglie, quando
egli ritornò a casa; e ciò che ne aveva pensato Giovanni Buggles.
Una volta io chiesi al padrone d’un albergo sul fiume, se non gli facesse male, talvolta,
l’ascoltare i racconti che gli toccava sentire dai pescatori, ed egli mi disse:
— Ah, no; non più, signore. In principio mi acciaccavano un po’; ma, Dio vi benedica! io
e mia moglie ora li ascoltiamo tutto il giorno. Abbiamo finito con l’abituarci. Abbiamo finito
con l’abituarci.
Conobbi una volta un giovane, che era molto coscienzioso e che quando prese a pescare,
risolse di non esagerare mai più del venticinque per cento.
— Quando avrò acchiappato quaranta pesci — egli si disse — dirò alla gente che ne ho
acchiappato cinquanta, e così via. Ma non dirò più bugie di così, perchè dir bugie è peccato.
Ma il piano del venticinque per cento non si dimostrò affatto pratico. Egli non fu mai
capace di usarlo. Il maggior numero di pesci da lui acchiappato in un giorno non fu mai più di
tre, e non si può aggiungere il venticinque per cento al tre — almeno trattandosi di pesce.
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Così accrebbe la percentuale a trentatrè e un terzo; ma neppur così combinava quand’egli
aveva acchiappato due o tre capi; e allora, per semplificare, si propose di raddoppiare la
quantità.
Osservò questa disposizione per un paio di mesi, ma poi ne divenne malcontento.
Nessuno gli credeva quando assicurava che raddoppiava soltanto, e lui perciò non guadagnò
alcun credito di sorta, mentre la sua moderazione gli dava un grande svantaggio fra gli altri
pescatori. Quando aveva realmente acchiappato tre pesciolini, e diceva che ne aveva
acchiappato sei, si sentiva geloso di sentire un altro, che sapeva di certo ne aveva acchiappato
soltanto uno, andare in giro spacciando d’averne prese due dozzine.
Così fu costretto a ricorrere a un’altra decisione, alla quale si tenne poi religiosamente
sempre, e cioè di contare ciascun capo per dieci, e di fingerne dieci iniziali. Per esempio, se non
ne acchiappava nessuno, diceva d’averne acchiappati dieci — secondo il suo sistema, non si
poteva mai pescarne meno di dieci: questo era il principio al quale egli s’informava. Poi, se per
caso realmente ne acchiappava, uno, diceva, venti, mentre due pesci contavano per trenta, tre
per quaranta, e così via.
È un metodo semplice e ben congegnato, e recentemente s’è detto che sia adottato da tutta
la confraternita peschereccia in generale. Anzi, un paio d’anni fa, il comitato direttivo
dell’associazione fra i pescatori del Tamigi ne raccomandò l’adozione, ma alcuni dei membri
più anziani lo combatterono. L’avrebbero accettato, dissero, se il numero fosse stato
raddoppiato, e si fosse contato ogni pesce per venti.
Se mai avete una sera d’avanzo, sul fiume, vi consiglierei di entrare in una piccola
trattoria di qualche villaggio, e di pigliar posto fra gli avventori. Sarete quasi certi d’incontrarvi
un paio di pescatori alla lenza, occupati a centellinare il loro ponce, i quali vi racconteranno
abbastanza aneddoti pescherecci da darvi una indigestione per un mese.
Giorgio e io — io non so che ne fosse in quel momento di Harris: egli era uscito a farsi la
barba, subito dopo colazione, era ritornato e aveva passato quaranta buoni minuti a ingessarsi le
scarpe, e quindi non lo avevamo più veduto — Giorgio e io, perciò, e il cane, lasciati a noi
stessi, andammo la seconda sera a fare una passeggiata fino a Wellington, e, al ritorno,
entrammo in un piccolo alberghetto sul fiume per riposarci, e per altro.
Andammo a sederci nella saletta. C’era un vecchio che fumava una lunga pipa di creta, e
noi naturalmente cominciammo chiacchierare.
Egli ci disse ch’era stata una bella giornata quel giorno, e noi ch’era stata una bella
giornata il giorno prima, e poi ci dicemmo a vicenda che sarebbe stata una bella giornata il
giorno dopo, e Giorgio aggiunse che sembrava che il raccolto promettesse di venir su
magnificamente.
Dopo apparve, nell’uno o nell’altro modo, che noi eravamo forastieri e che ce ne
saremmo andati la mattina seguente.
Poi la conversazione ebbe una pausa, dusante la quale i nostri occhi si misero a vagare in
giro per la stanza, per posarsi finalmente su una vecchia, polverosa campana di vetro, fissata in
alto sul caminetto e contenente una trota. Quella trota quasi mi affascinò: era un pesce così
mostruoso! Veramente, alla prima occhiata mi parve che fosse un merluzzo.
— Ah! — disse il vecchio, seguendo la direzione del mio sguardo — bel pesce quello,
eh?
— Veramente straordinario — mormorai; e Giorgio chiese al vecchio quanto credeva che
pesasse quell’esemplare.
— Diciotto libbre e sei once — disse l’amico, levandosi e infilandosi il soprabito. — Sì
— continuò — fanno sedici anni il tre del mese prossimo, che io lo presi. L’acchiappai proprio
sotto il ponte con un avanotto. M’avevano detto che c’era nel fiume, e io dissi che l’avrei presa,
come infatti feci. Credo che ora non ne troverete più da queste parti pesci della stessa
dimensione. Buona sera, signori, buona sera.
E uscì, lasciandoci soli.
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Da quel momento non potemmo staccar gli occhi dal pesce. Era veramente molto bello. E
lo stavamo ancora guardando, quando il procaccia del luogo, che aveva appunto data una
capatina nell’albergo, venne alla porta della stanza con un boccale di birra in mano, e anch’egli
si mise a guardare il pesce.
— Una bellissima trota, questa — disse Giorgio, volgendogli la parola.
— Lo potete ben dire — rispose il procaccia; e, aggiunse, dopo un sorso di birra: — Forse
voi non c’eravate qui, signori, quando fu acchiappato quel pesce.
— No — gli rispondemmo. Siamo forastieri.
— Ah! — disse il procaccia — allora si capisce. Son quasi cinque anni che acchiappai
quella trota.
— Ah, allora foste voi ad acchiapparla? — io dissi.
— Sì, signore — rispose il vecchio con genialità. — L’acchiappai proprio sotto la chiusa,
per lo meno ciò che era la chiusa allora... un venerdì di pomeriggio; e la più strana cosa si è che
che l’acchiappai con una mosca. Io ero andato, Iddio vi benedica, a pescar lucci, non pensando
neppur per idea a una trota, e quando vidi quel colosso all’estremità della lenza, mi pigli un
accidente se non me ne sorpresi. Come vedete, pesava ventisei libbre. Buona sera, signori,
buona sera.
Cinque minuti dopo, entrò una terza persona, che descrisse com’essa avesse acchiappato
la trota una mattina di buon’ora, con un pesciolino; e quindi se n’andò, ed apparve un signore
attempato, d’aspetto abbastanza solenne, che si sedette accanto alla finestra.
Per un poco nessuno di noi parlò, ma finalmente Giorgio si volse al nuovo venuto e disse:
— Scusate, spero perdonerete la libertà che noi forastieri in questo paese, ci prendiamo:
ma il mio amico qui e io vi saremmo tanto obbligati se ci voleste dire quando acchiappaste
quella trota lì.
— Ma chi vi ha detto che acchiappai io quella trota? — domandò l’altro, sorpreso.
Rispondemmo che non ce l’aveva detto nessuno, ma, in un modo o nell’altro, sentivamo
istintivamente che l’aveva acchiappata lui.
— Bene, è strano... molto strano — rispose l’altro ridendo — perchè in realtà voi avete
ragione. L’acchiappai io. Ma andare a immaginare che voi l’avreste indovinato! Poveretto me, è
una cosa straordinaria!
E poi continuò, dicendo che gli era occorsa mezz’ora per tirarla a riva, e che gli s’era rotta
la canna. L’aveva pesata accuratamente a casa, e la bilancia aveva segnato trentaquattro libbre.
Se ne andò a sua volta, e, dopo che se ne fu andato, ci si presentò il padrone dell’albergo.
Gli narrammo le varie storie della sua trota, ed egli si divertì immensamente, e rise assai
cordialmente con noi.
— Va a pensare che Gerolamo Bates, Giovanni Muggles, il signor Jones e Guglielmino
Maunders vi dovessero raccontare che l’avevano acchiappata loro! Ah, ah, ah! Questa è buona!
— disse il brav’uomo, ridendo di cuore. — Sì, son proprio le persone che me l’avrebbero data
per esporla nella sala, se l’avessero acchiappata loro! Proprio! Ah, ah, ah!
E allora ci raccontò la vera storia del pesce. Sembrava che l’avesse acchiappato lui, molti
anni prima, quand’era ragazzo, non per qualsiasi sua abilità, ma per quell’ingiustificabile colpo
di fortuna che pare accompagni sempre lo scolaro che marina la scuola, e va a pescare in un
pomeriggio di sole, con un pezzo di corda legato all’estremità d’un ramo d’albero.
Egli disse che l’aver portato a casa quella trota gli aveva risparmiata una solenne
bastonatura, e che anche il maestro gli aveva detto che la trota valeva la regola del tre e tutta la
computisteria messe insieme.
L’albergatore a questo punto fu chiamato fuori della stanza, e Giorgio e io volgemmo lo
sguardo al pesce.
Era veramente una trota meravigliosa. Quanto più la guardavamo, tanto più ci appariva
stupefacente.
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Interessò tanto Giorgio ch’egli s’arrampicò sulla spalliera d’una sedia per osservarla
meglio.
E allora la sedia scivolò, e Giorgio s’abbrancò furiosamente alla campana di vetro della
trota per non cadere, ma la campana precipitò a terra con uno scroscio, e Giorgio con la sedia
sulla campana.
— Non hai rovinata la trota? — gridai sgomento, accorrendo.
— Spero di no — disse Giorgio, levandosi cauto, e guardando in giro.
Ma purtroppo sì. La trota giaceva in terra sparsa in mille frammenti... dico mille, ma forse
erano soltanto novecento. Non li contai.
Pensammo ch’era strano che una trota imbalsamata dovesse rompersi in pezzettini così.
E sarebbe stato strano, se la trota fosse stata imbalsamata, ma non lo era.
La trota era di gesso.
CALATOLO XVIII.
Le chiuse. — Giorgio e io siamo fotografati. — Wallingford. — Dorchester. — Una persona di famiglia.
— Un buon punto per annegarsi. — Un difficile tratto d’acqua. — Effetto deleterio dell’aria di
fiume.
Lasciammo Streatley la mattina appresso di buon’ora, e remammo fino a Culham, e
dormimmo nella barca sotto la tela, sulle acque di rigurgito.
Il fiume non offre molte attrattive fra Streatley e Wallingford. Da Cleve si ha una distanza
di sei miglia e mezzo senza una chiusa. Credo che sia il più lungo tratto ininterrotto dopo
Teddington, e l’Oxford Club lo usa per le sue gare.
Ma, per quanto possa piacere ai rematori, questa mancanza di chiuse è deplorata da chi
cerca semplicemente il piacere.
Io, per esempio, ho una passione per le chiuse, che rompono piacevolmente la monotonia
del ritmo del remo. A me piace star seduto nella barca e sollevarmi pian piano dalle fresche
profondità su in nuove contrade e visioni; o sprofondare, così per dire, fuori del mondo, e poi
attendere, mentre le oscure porte scricchiolano, e l’angusta striscia di luce fra di esse s’allarga,
che il bel fiume sorridente vi giaccia in pieno davanti; e allora spingete la vostra piccola barca
fuor della sua breve prigione un’altra volta sulle libere onde.
E poi le chiuse son pittoresche. Il vecchio custode atticciato e la moglie gioviale e la
figliuola dagli occhi lucenti son persone simpatiche con cui si scambia volentieri qualche
parola(1). Voi incontrate alle chiuse delle vecchie barche, e si fanno un po’ di ciarle. Il Tamigi
non sarebbe un paese incantato, se le sue chiuse non fossero disseminate di fiori.
A proposito di chiuse, mi rammento d’un incidente che quasi occorse a Giorgio e a me
una mattina d’estate ad Hampton Court.
Era una magnifica giornata, e la chiusa era affollata; e, come accade spesso sul fiume, un
fotografo speculatore faceva la fotografia di quanti stavamo sulle acque che si sollevavano.
In principio non compresi ciò che accadeva, e fui, perciò, straordinariamente sorpreso
nell’osservar che Giorgio si stirava in fretta i calzoni, si ravviava i capelli, e si metteva il
berretto sulle ventitrè, e poi, assumendo una espressione di affabilità mista a tristezza, pigliava
un atteggiamento grazioso, tentando di nascondere i piedi.
La mia prima idea fu ch’egli avesse improvvisamente scòrta qualche signorina di sua
conoscenza, e io guardai in giro per veder chi fosse. Tutti nella chiusa parevano essersi
(1) O piuttosto erano. Sembra che ora le autorità fluviali si siano costituite in società per l’impiego
degl’idioti. Molti dei nuovi custodi delle chiuse, specialmente nelle parti più frequentate del fiume, sono vecchi
irritabili e nervosi, assolutamente non adatti al loro posto.
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trasformati a un tratto in statue di legno. Stavano tutti in piedi o seduti negli atteggiamenti più
strani e curiosi che io avessi mai veduti su un ventaglio giapponese. Tutte le signorine
sorridevano. Ah, sembravano così dolci! E tutti gli uomini erano accigliati, con uno sguardo
severo e nobile.
E poi, finalmente, mi lampeggiò la verità, e mi domandai se avrei fatto in tempo. La
nostra era la prima barca, e pensai che sarebbe stata una scortesia da parte mia guastare il
gruppo.
Così volsi rapidamente il viso, e mi appoggiai a prua con grazia disinvolta sulla gaffa, in
un atteggiamento di agilità e di forza. Mi accomodai i capelli con un riccio sulla fronte e infusi
un’aria di tenera sensibilità nella mia espressione, mista con una sfumatura di cinismo, che,
m’han detto, mi sta molto bene.
Mentre stavamo in attesa del momento fatale, udii qualcuno di dietro gridare:
— Ehi, guardate il vostro naso.
Io non potevo voltarmi per veder chi fosse, e di chi fosse il naso che bisognava guardare.
Diedi uno sguardo furtivo al naso di Giorgio! Stava benissimo — a ogni modo, non v’era nulla
che si potesse cambiare. Mi sguerciai a guardare il mio, e anche sul mio non c’era nulla da dire.
— Guardate il vostro naso, asino — gridò di nuovo la stessa voce, più forte.
E poi un’altra voce gridò:
— Spingete in fuori quel naso, avete capito... voi due col cane?
Nè Giorgio nè io osammo voltarci. La mano del fotografo era sul coperchio
dell’obbiettivo, e la fotografia poteva esser presa in un istante. Dicevano a noi? Che c’entrava,
il nostro naso? Perchè doveva esser spinto in fuori?
Ma in quel momento tutta la chiusa cominciò a strillare, e una voce stentorea ci gridò di
dietro:
— Guardate la vostra, barca, signori... voi col berretto nero e col berretto rosso. Se non
fate presto, la fotografia prenderà i vostri due cadaveri.
Noi allora guardammo, e vedemmo che il naso della nostra barca (è chiamato naso la
punta esterna dell’imbarcazione) s’era insinuata sotto la struttura lignea della chiusa, mentre le
acque affluenti crescevano sollevandola. Un altro istante e saremmo stati rovesciati. Rapidi
come il lampo, prendemmo un remo ciascuno e con un vigoroso colpo contro il fianco della
chiusa liberammo la barca e cademmo dimenandoci sul dorso.
In quella fotografia io e Giorgio non venimmo bene. Naturalmente, come c’era da
aspettarsi, la nostra fortuna aveva voluto che il fotografo mettesse la sua macchina in moto nel
preciso momento in cui noi due giacevamo sul dorso con una selvaggia espressione di «Dove
mi trovo? Che è successo?» sul viso, e coi nostri quattro piedi che si divincolavano follemente
in aria.
Indubbiamente i nostri piedi erano in quella fotografia l’oggetto principale. Anzi, c’era
poco da vedere d’altro. Essi occupavano completamente il primo piano. Dietro si afferrava
qualche visione delle altre barche e di qualche tratto del panorama in giro; ma tutto l’altro e tutti
gli altri nella chiusa apparivano così assolutamente insignificanti e miseri in confronto dei
nostri piedi, che ciascuno dei presenti si sentì vergognoso di sè e si rifiutò di sottoscrivere per
una copia della fotografia.
Il proprietario di una lancia a vapore, che aveva ordinato sei copie, rescisse l’ordine
vedendo la negativa. Disse che le avrebbe prese, se qualcuno avesse potuto indicargli la sua
lancia, ma nessuno ci riuscì. Essa era in qualche parte dietro il piede destro di Giorgio.
Vi fu un gran rammarico per quella faccenda. Il fotografo opinò che noi dovevamo
acquistare una dozzina di copie per ciascuno, visto che la fotografia era per nove decimi la
nostra, ma noi rifiutammo. Rispondemmo che non avevamo alcuna obiezione a farci ritrarre in
piena lunghezza, ma che preferivamo essere presi in senso verticale.
Wallingford, che è a sei miglia al di sopra di Streatley, è una città antichissima ed è stata
un centro attivo nella creazione della storia inglese. Era una rozza città fatta di fango al tempo
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dei Britanni che se ne stettero ivi rannicchiati finchè non li snidarono i Romani, che sostituirono
le mura di terracotta con potenti fortificazioni, la cui traccia il tempo non è ancora riuscito a
spazzare, così bene quei muratori del vecchio inondo sapevano fabbricare.
Ma il tempo, sebbene abbia mantenuto le mura romane, tosto ridusse in polvere i Romani,
e nello stesso terreno, più tardi, combatterono i Sassoni selvaggi e i grossi Danesi, sinchè non
apparvero i Normanni.
La città fu recinta e fortificata fin al tempo della guerra parlamentare, in cui sostenne il
lungo e duro assedio di Fairfax. Cadde finalmente, e quindi le mura furono rase al suolo.
Da Wallingford fin su a Dorchester i dintorni del fiume diventano più collinosi, varî e
pittoreschi. Dorchester sorge a mezzo miglio dalle acque. Può esser raggiunta, a forza di remi
con un piccolo canotto, ma il miglior mezzo è di lasciare il fiume alla chiusa di Day, e fare una
passeggiatina a traverso i campi. Dorchester è un luogo deliziosamente tranquillo, annidato
nella calma, nel silenzio e nella sonnolenza.
Era, come Wallington, una città degli antichi Britanni; si chiamava allora Caer Doren, la
città delle acque. Più tardi i Romani vi formarono un gran campo, e le fortificazioni che lo
circondavano sembrano ora dei bassi, eguali poggetti. Nel giorni dei Sassoni fu la capitale del
Wessex. È città antichissima, e una volta era assai forte e grande. Ora si tien in disparte dal
mondo ansioso, e s’appisola e sogna.
Intorno a Clifton Hampden, un graziosissimo paesino, alla vecchia moda, tranquillo e
splendente di fiori, il panorama del fiume è d’una ricca bellezza. Se vi fermate la notte a
Clifton, non potete far di meglio che andare al «Barley Mow». Direi ch’esso è, senza eccezione,
l’albergo più all’antica e bizzarro che si possa avere sul fiume. I suoi bassi comignoli, il suo
tetto di paglia e le sue finestre ingraticciate gli dànno un aspetto da libro di fiaba, mentre
all’interno è sempre più in accordo coi tempi d’una volta.
Non sarebbe un ricetto adatto all’eroina di un romanzo moderno. L’eroina d’un romanzo
moderno è sempre «divinamente alta» e sempre «si erge in tutta la sua statura». Al «Barley
Mow» urterebbe con la testa contro il soffitto, tutte le volte che lo facesse.
Esso sarebbe un’abitazione non adatta ad un ubbriaco. Vi sono varie sorprese in fatto di
gradini inattesi per andar da basso in quella stanza e di sopra in quell’altra; e quanto ad andar
nella camera da letto e a trovare il letto nella camera sarebbero due imprese disperate per un
ubbriaco.
Ci levammo la mattina presto, perchè volevamo essere a Oxford nel pomeriggio. È
sorprendente come uno si possa levar presto quando ha dormito all’aperto. Se uno se ne sta
avvolto in una coperta sulle tavole di una barca, con una valigia per guanciale, non desidera di
starvi «altri cinque minuti ancora» come accade in un letto di piume. Finimmo la colazione, e ci
trovammo nella chiusa di Clifton alle otto e mezza.
Da Clifton a Culham le sponde del fiume sono piatte, monotone e senza attrattive, ma
dopo che si è sorpassata la chiusa di Culham — la più fredda e profonda chiusa del fiume — il
paesaggio diventa bello.
Ad Abingdon il fiume passa a traverso le vie. Abingdon è un tipico paese di campagna
d’ordine minore — quieto, eminentemente rispettabile, pulito e disperatamente noioso. Esso
s’inorgoglisce della sua antichità, ma è dubbio se possa paragonarsi per questo rispetto a
Wallingford e Dorchester. Vantava una volta una famosa abbazia, ma entro gli avanzi delle sue
sante mura ora si fabbrica la birra.
Nella chiesa di San Nicola, ad Abingdon, v’è un monumento a Giovanni Blackwall e alla
moglie Giovanna, i quali entrambi, dopo aver condotto una felice vita coniugale, morirono lo
stesso giorno, cioè il 21 agosto 1265; e nella chiesa di Sant’Elena è ricordato che W. Lee, il
quale morì nel 1639, «ebbe in vita sua discendenza dai suoi lombi di duecento meno tre». Se
fate il calcolo, troverete che la famiglia del signor W. Lee contava centonovantasette persone. Il
signor W. Lee — cinque volte sindaco di Abingdon — era un benefattore della sua
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generazione, ma m’auguro che non vi siano molti che gli somiglino in questo popolatissimo
secolo decimonono.
Da Abingdon a Nuneham Courtvey è uno splendido tratto. Il parco di Nuneham è degno
d’esser veduto. Si può visitare il martedì e il giovedì. La casa contiene una bella collezione di
quadri e di curiosità, e le piantagioni sono bellissime.
Lo stagno sotto Sandford, precisamente dietro la chiesa, è un punto adattissimo per
annegarsi. La corrente al di sotto della superficie è terribilmente impetuosa, e una volta che
l’avete raggiunta, siete bell’e spacciato. Un obelisco segna il luogo dove due persone
annegarono mentre si bagnavano; e i gradini dell’obelisco generalmente fanno da trampolino ai
giovani che ora desiderano di vedere se il punto sia veramente pericoloso.
La chiusa di Iffley e di Mill, a un miglio prima di Oxford, è un soggetto favorito dei
confratelli della tavolozza che amano il fiume. Ma a giudicar dai quadri, però, il modello al
naturale procura qualche delusione. Ho osservato che poche cose a questo mondo
corrispondono ai quadri che se ne fanno.
Traversammo la chiusa di Iffley verso le dodici e mezzo, e poi, dopo aver fatto un po’ di
pulizia alla barca e allestito tutto per lo sbarco, ci mettemmo a lavorare per l’ultimo miglio.
Il più difficile tratto del fiume che io mi conosca è quello fra Iffley e Oxford. Dovete
trovarvi su quel percorso acqueo per comprenderlo. Io ci son stato un buon numero di volte, ma
ancora non mi ci sono abituato. L’uomo che potesse remare dritto da Oxford a Iffley, dovrebbe
poter vivere comodamente, sotto un unico tetto, con la moglie, la suocera, la sorella maggiore e
la vecchia domestica che si trova in famiglia da quando egli era piccino.
Prima le onde vi spingono alla riva destra e poi alla sinistra; quindi vi portano nel mezzo,
vi fanno girare tre volte, e vi portano di nuovo contro corrente, per finir col tentare di
sfracellarvi contro una barca compagna.
Naturalmente, come conseguenza di tutto, durante quel miglio, traversammo la via a
molte altre barche, ed esse la nostra, e, naturalmente, come conseguenza di tutto, si
scambiarono molte ingiurie da una parte e dall’altra.
Non so perchè accada, ma tutti sono straordinariamente irritabili sul fiume. Piccoli
contrattempi, ai quali appena badereste sulla terra asciutta, vi fanno frenetici di rabbia quando
vi càpitano sul fiume. Quando Harris o Giorgio commettono un’asinità sulla terraferma, io
sorrido indulgente; ma quando si conducono da idioti sul fiume, io uso con loro delle
espressioni terrifiche. Quando un’altra barca m’impedisce il passaggio, io sento l’impulso di
pigliare un remo e di ammazzare tutta la gente che vi si trova.
Le persone di carattere più mite diventano assetate di sangue quando sono in una barca.
Una volta feci una passeggiata in barca con una signorina. Ella naturalmente era della più dolce
e più gentile indole immaginabile, ma sul fiume era terribile a udirsi.
— Maledizione a quell’uomo! — ella esclamava, quando qualche disgraziato rematore le
si trovava dinanzi. — Perchè non guarda dove va?
— Accidenti a questo stupido straccio! — diceva indignata, quando la vela non si issava a
modo. Ed ella l’afferrava, e la scoteva con la massima brutalità.
Pure, come ho già detto, sulla riva era abbastanza gentile e amabile.
L’aria del fiume ha un effetto deleterio sul carattere, e perciò avviene, credo, che i
conduttori delle barche talvolta si mostrino rudi a vicenda e usino espressioni, che, senza
dubbio, deplorano, in momenti più calmi.
CAPITOLO XIX.
Oxford. — L’idea del cielo di Montmorency. — La barca noleggiata; le sue bellezze e i suoi vantaggi.
— L’«Orgoglio del Tamigi». — Il tempo cambia. — Il fiume sotto diversi aspetti. — Una sera
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poco lieta. — Brame dell’irraggiungibile. — Si chiacchiera allegramente. — Giorgio suona il
banjo. — Una lugubre melodia. — Un altro giorno di pioggia. — Fuga. — Una cenetta e un
brindisi.
Passammo due bellissimi giorni a Oxford. V’è abbondanza di cani nella città di Oxford.
Montmorency sostenne undici battaglie il primo giorno, e quattordici il secondo, ed
evidentemente pensava d’essere in paradiso.
Fra la gente troppo organicamente debole, o troppo organicamente pigra, comunque sia,
da dilettarsi di lavorare contro corrente, è uso comune di noleggiare una barca a Oxford, e
remare seguendo la corrente. Per gli energici, però, il viaggio contro corrente, certo, è da
preferirsi. Non è utile andar sempre secondo corrente. V’è più soddisfazione nell’affrontarla e
combatterla, e andare innanzi a suo dispetto — almeno così sento io, quando Harris e Giorgio
s’affaticano a remare, e io me ne sto al timone.
A quelli che pensano di fare di Oxford il loro punto di partenza, io direi: prendete la
vostra barca — salvo, s’intende, se non potete prender quella di qualcun altro senza pericolo
d’esser scoperti. Le barche che, generalmente, son date a nolo sul Tamigi al di sopra di Marlow,
sono buonissime. Bravamente impermeabili, finchè son usate con cura, raramente si
smembrano o colano a picco. Hanno dei posti da sedere, e hanno tutto ciò che occorre — o
quasi tutto — da mettervi in grado di condurle coi remi e guidarle.
Ma non sono ornamentali. La barca che si prende a nolo sul fiume al di sopra di Marlow
non è la specie di barca nella quale potete fare lo spaccone e darvi delle arie. La barca presa a
nolo spegne ogni velleità di tal sorta in quelli che la occupano. Questo è il principale e — si può
dire — suo unico pregio.
Il noleggiatore della barca è modesto e discreto. A lui piace tenersi dalla parte dell’ombra,
sotto gli alberi, e viaggiar per lo più la mattina presto o la sera tardi, quando non c’è molta
gente sulla riva a guardarlo.
Quando l’uomo nella barca a nolo vede qualche conoscente, salta sulla sponda, e si
nasconde dietro un albero.
Io feci parte d’una compagnia che un’estate prese una barca a nolo, per un viaggio di
pochi giorni. Nessuno di noi aveva mai veduta una barca a nolo, e nessuno credette che fosse
quella quando la vedemmo.
Avevamo scritto per una barca a quattro coppie di remi; e quando arrivammo con le
valige al cantiere, e demmo i nostri nomi, il direttore ci disse:
— Ah sì; siete la compagnia che ha scritto per una barca a quattro coppie di remi.
Benissimo. Gianni, va a prendere l’«Orgoglio del Tamigi».
Il ragazzo corse, per riapparire cinque minuti dopo con un’antidiluviana cassa di legno,
che sembrava fosse stata recentemente dissepolta in qualche parte e scavata senza molta cura,
perchè qua e là pareva senza necessità danneggiata.
La mia prima idea, nel veder l’oggetto, fu che fosse qualche avanzo romano — avanzo di
non sapevo di che, forse d’un feretro.
I dintorni del corso superiore del Tamigi son ricchi di reliquie romane; e la mia ipotesi
appariva molto probabile; ma il nostro compagno più serio, che era un geologo, rise della mia
teoria sulla reliquia romana, e disse ch’era chiaro al più rozzo intelletto (nella qual categoria
sembrava d’essere dolente che coscienziosamente non potesse includere anche il mio) che
l’oggetto trovato dal ragazzo era il fossile d’una balena; e c’indicò vari segni che provavano
ch’esso aveva dovuto appartenere al periodo preglaciale.
A metter fine alla disputa, ci appellammo al ragazzo, avvertendolo di non aver paura, ma
di dire la semplice verità: — era il fossile d’una balena preadamitica, o un feretro di Roma
primitiva?
Il ragazzo disse che era l’«Orgoglio del Tamigi».
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In principio credemmo che questa fosse una risposta umoristica, da parte del ragazzo, e ci
fu uno che gli diede in premio quattro soldi per la sua prontezza di spirito; ma quando si ostinò
nell’insistere troppo a lungo, come ci parve, sullo scherzo, ce ne seccammo.
— Su, su, ragazzo! — disse il nostro capitano vivamente — non dirci delle sciocchezze.
Riporta a casa questa tina in cui fa il bucato tua madre, e portaci una barca.
Allora venne lo stesso fabbricante, e ci assicurò sulla sua parola, da uomo pratico, che
l’oggetto era veramente una barca — era, anzi, la barca, lo schifo a quattro coppie di remi,
scelto per condurci a spasso in giù per il fiume.
Noi brontolammo molto. Pensammo ch’egli avrebbe dovuto farla dipingere o calatafare
— metterle qualche cosa da distinguerla da un avanzo di naufragio; ma egli non sapeva vedervi
alcun difetto.
Parve anche offeso dalle nostre osservazioni. Disse che aveva scelto la barca migliore di
quante ne aveva, e credeva che ci saremmo mostrati più riconoscenti. L’«Orgoglio del Tamigi»
era in esercizio, appunto come si trovava in quel momento, e a quanto ne sapeva lui, da più di
quarant’anni, e nessuno se n’era lagnato mai, e non capiva perchè dovessimo cominciar noi.
Non discutemmo più.
Legammo insieme la così detta barca, con alcuni pezzi di corda, pigliammo un po’ di
carta da tappezzeria e la incollammo sui punti più frusti, dicemmo le nostre preghiere ed
entrammo a bordo.
Pagammo quarantacinque lire per il noleggio di quella reliquia per sei giorni e l’avremmo
potuta comprare a un di presso per cinque lire a qualunque vendita di materiale galeggiante
sulla costa.
Il tempo il terzo giorno cambiò... Ah! ma io parlo del viaggio di ora... e partimmo da
Oxford per il ritorno a casa sotto una pioggia fitta fitta.
Il fiume — col lampeggio del sole nelle sue onde danzanti, con la luce che colora d’oro i
tronchi dei faggi grigioverdi, e che, scintillando nei bui, freschi sentieri dei boschi, ammucchia
le ombre nei fossi, scaglia diamanti dalle ruote dei mulini, getta baci ai gigli, si trastulla con
l’acqua spumosa degli sbarramenti, inargenta i muri e i ponti coperti di musco, ravviva ogni
minuscolo casolare, fa dolce ogni viottolo e ogni prato, si impiglia nei giunchi, spia, ride da
ogni rigagnolo, e irradia lieta dalle molte vele lontane, riempiendo l’aria di gloria — il fiume è
una favolosa corrente d’oro.
Ma il fiume — freddo e annoiato, con le gocce di pioggia che cadono incessantemente
sulle sue acque accidiose e lente, con un singulto quale d’una donna che piange in silenzio in
qualche stanza buia, mentre i boschi, tutti oscuri e silenziosi, avvolti nelle loro nebbie di vapori,
stanno come spettri sulla riva: spettri silenziosi con occhi di rimprovero, come ombre di cattive
azioni, come ombre di amici negletti — il fiume è un’acqua frequentata dai fantasmi a traverso
la terra, dei vani rimpianti.
La luce del sole è il sangue vitale della natura. La madre terra ci guarda con occhi così
tristi e spenti, quando s’è dileguata la luce del sole. Allora ci fa malinconia l’essere con lei; par
che non ci riconosca e non si curi più di noi. È la vedova che ha perduto il marito che amava, e i
figliuoli le toccan la mano, e la guardan negli occhi, ma non hanno in risposta neppure un
sorriso.
Remammo tutto quel giorno sotto la pioggia, e fu una fatica melanconica. Facemmo le
viste, in principio, di divertirci un mondo. Dicemmo ch’era un diversivo, e che ci piaceva
vedere il fiume sotto tutti i suoi diversi aspetti. Non potevamo aspettarci d’aver sempre sole, nè
l’avremmo voluto. E poi la natura era bella anche quando piangeva.
Veramente, io e Harris ci mostrammo entusiasti per le prime poche ore. E intonammo una
canzone sulla vita dello zingaro e sulle sue delizie! — libero alla tempesta, al sole e ai venti! —
e sulla gioia che gli procura la pioggia e sul bene che gli arreca; e su come egli rida delle
persone che non sanno goderla.
Giorgio prese la cosa con maggiore sobrietà, e si rivolse all’ombrello.
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Issammo la copertura di tela prima della colazione, e la tenemmo tutto il pomeriggio,
lasciando un po’ di spazio a prua per remare e dare uno sguardo fuori. A questo modo
percorremmo nove miglia, e sostammo per la notte un po’ sotto la chiusa di Day.
Non posso onestamente dire che passassimo una serata allegra. La pioggia veniva giù con
calma ostinazione. Ogni oggetto nella barca era umido e appiccicaticcio. La cena non fu un
successo. Il pasticcio di vitello freddo, quando non si ha fame, può nauseare. Mi sarebbe
piaciuto un fritto di pesce e una costoletta; Harris parlò di sogliole con salsa bianca, e passò i
resti del pasticcio a Montmorency, che lo rifiutò e, offeso, a quanto parve, da quell’offerta, andò
a sedersi solo all’altra estremità della barca.
Giorgio ci pregò di non parlare di simili cose; a ogni modo s’era finito il manzo allesso
senza la mostarda.
Giocammo a carte dopo cena, a un soldo la partita. Giocammo per circa un’ora e mezzo, e
alla fine Giorgio aveva vinto otto soldi — egli è sempre fortunato alle carte — e Harris e io
avevamo perduto esattamente quattro soldi per ciascuno.
Pensammo di rinunziare al giuoco. Come Harris disse, esso desta delle riprovevoli
eccitazioni quando è spinto troppo lontano. Giorgio ci offrì di darci la rivincita; ma Harris e io
decidemmo di non lottar più oltre contro il fato.
Dopo ci preparammo un po’ di ponce, e ci sedemmo in giro a conversare. Giorgio ci narrò
d’un suo conoscente, ch’era venuto sul fiume due anni prima e che, per aver dormito in una
barca umida, s’era beccato una febbre reumatica. Nulla aveva potuto salvarlo, e dieci giorni
appresso era morto dopo una straziante agonia. Era giovanissimo, e doveva sposarsi a giorni.
Giorgio aggiunse ch’era una delle più tristi cose alle quali avesse mai assistito.
E questo fece venire in mente ad Harris un amico suo, che era stato volontario e che
aveva dormito sotto una tenda in una notte di pioggia ad Aldershot, «appunto in una notte come
questa», disse Harris; e s’era svegliato la mattina storpio por sempre. Harris aggiunse che ci
avrebbe presentati tutti e due all’amico quando saremmo ritornati in città: la sua vista ci
avrebbe fatto sanguinare il cuore.
Questo naturalmente ci condusse a qualche piacevole discorso intorno alla sciatica, alle
febbri, alla malaria, alle malattie polmonari e alle bronchiti, e Harris disse che sarebbe stato un
bel divertimento se qualcuno di noi si fosse ammalato seriamente durante la notte: non c’era
sottomano un dottore a cui ricorrere.
Sembrava aleggiasse un bisogno di qualche cosa d’allegro dopo questa conversazione, e
in un momento di debolezza io consigliai Giorgio a pigliare il banjo e a tentar di sonarci
qualche cosa di divertente.
Dirò che a Giorgio non occorrevano sollecitazioni. Non servì ch’egli aveva lasciato la
musica a casa, o altra ragione della stessa specie. Subito pescò lo strumento, e cominciò a
sonare «I due bellissimi occhioni neri».
Io avevo fino a quella sera considerato «I due bellissimi occhioni neri» come un’aria
piuttosto volgaruccia. La ricca vena di malinconia che Giorgio ne estrasse veramente mi
sorprese.
Il desiderio che spuntava in Harris e in me, come si levavan le meste battute, era di cader
l’uno al collo dell’altro e piangere; ma con un grande sforzo trattenemmo le lagrime e
ascoltammo la strana, dolente melodia in silenzio.
Quando giunse l’istante del coro, facemmo uno sforzo disperato per essere allegri. Ci
riempimmo il bicchiere e cantammo, Harris con una voce tremante di commozione, prima.
Giorgio e io, poi, di poche parole indietro.
«I due bellissimi occhioni neri
Oh che sorpresa!
Solo per dire che aveva torto.
I due bellissimi...»
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Lì c’interrompemmo. Fummo incapaci di sopportare nel nostro stato di depressione
l’ineffabile pathos dell’accompagnamento di Giorgio a quell’«I due bellissimi». Harris
singhiozzò come un bambino, e il cane ululò tanto che io credei che dovesse romperglisi
sicuramente il cuore o la mascella.
Giorgio voleva seguitare con l’altra strofa. Credeva che quando fosse andato più innanzi
nell’aria e avesse potuto darle un po’ più d’«abbandono» per così dire, nell’esecuzione, non
sarebbe parsa così triste. Il sentimento della maggioranza, però, si oppose all’esperimento.
Non essendovi quindi più altro da fare andammo a letto — ci spogliammo, cioè, e ci
agitammo in fondo alla barca per tre o quattro ore. Dopo riuscimmo ad avere un po’ di febbrile
sopore fin verso le cinque, ora in cui ci levammo e ci mettemmo a colazione.
Il secondo giorno fu esattamente come il primo. La pioggia continuava a cader fitta, e noi,
avvolti negl’impermeabili, sotto la copertura di tela, ci lasciavamo trascinare giù per la corrente.
Uno di noi — non so più chi, ma son tratto a credere d’essere stato io stesso — fece
qualche debole tentativo, durante la mattinata, di canticchiare la vecchia stupidità zingaresca del
sentirsi figli della natura e del godere i rovesci d’acqua; ma non ebbe effetto.
«Non m’importa della pioggia
che dal cielo si rovescia...»
era così penosamente evidente, e così espressivo dei sentimenti di ciascuno di noi, che non
sembrava necessario cantarlo.
Su un punto eravamo tutti d’accordo, e cioè, che, qualunque cosa avvenisse, avremmo
fatto il nostro dovere fino all’amara fine. Eravamo andati sul fiume per divertirci per una
quindicina di giorni, e intendevamo divertirci per una quindicina di giorni. E se questo ci avesse
ammazzati? Bene, sarebbe stata una cosa dolorosissima per i nostri amici e i nostri parenti, ma
non c’era altro da fare. Sentivamo che cederla al tempo in un clima come il nostro sarebbe stato
un precedente disastroso.
— Soltanto altri due giorni — disse Harris — e noi siamo giovani e forti. Ce la potremo
cavar bene, dopo tutto.
Verso le quattro cominciammo a discutere le disposizioni per la sera. Ci trovavamo un
po’ oltre Goring, e decidemmo di remare fino a Pangbourne, e di fermarci lì per la notte.
— Un’altra bella serata! — mormorò Giorgio.
Ci sedemmo a meditar sulla prospettiva. Dovevamo essere a Pangbourne per le cinque.
Avremmo finito di desinare, mettiamo, alle sei e mezzo. Dopo avremmo potuto camminare per
il villaggio nella piazza fino all’ora di andare a letto, o andarcene in un caffeucolo scarsamente
illuminato a leggere l’almanacco.
— Ebbene, l’Alhambra sarebbe quasi più vivace — disse Harris, avventurando la testa
per un momento fuori della copertura ed esaminando il cielo.
— Con una cenetta poi al...(2) — aggiunsi io, quasi inconsciamente.
— Sì, è quasi un peccato che ci siam messi in mente di rimanercene nella barca — rispose
Harris; e poi per un poco vi fu silenzio.
— Se non avessimo risoluto di procurarci la morte certa in questa maledetta cassa da
morto — osservò Giorgio, gettando un’occhiata d’immensa malevolenza alla barca —
metterebbe conto di ricordare che v’è un treno che parte da Pangbourne subito dopo le cinque, e
arriva a Londra proprio a tempo per mangiare una costoletta e poi andar nel luogo che hai
menzionato.
Nessuno rispose. Ci guardammo l’un l’altro, e a ciascuno sembrava di veder riflessi nel
viso degli altri due i tristi e colpevoli pensieri che l’occupavano. In silenzio, traemmo fuori e
aprimmo la valigia. Guardammo su per il fiume e giù per il fiume: non c’era anima viva.
(2) Una piccola trattoria fuori mano, nei dintorni di... che dà un desinaretto o una cenetta squisitissimi a
molto buon mercato, con un’eccellente bottiglia di Beaune, a quattro lire; e che io non sarò tanto idiota da
stamburare.
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Venti minuti più tardi, tre ombre, seguite da un cane dall’aspetto umiliato, si sarebbero
potute veder strisciare furtivamente dal ricetto di barche all’insegna del «Cigno» verso la
stazione della ferrovia, vestite nel seguente nè lindo nè brillante abbigliamento.
Scarpe di cuoio nero, sudice; costume di flanella da barca, sudicissimo; cappello di feltro
marrone, ammaccato; impermeabile, inzuppatissimo; ombrello.
Noi avevamo ingannato il barcaiuolo di Pangbourne. Non avevamo avuto il coraggio di
dirgli che si stava per fuggire dalla pioggia. Avevamo lasciato la barca, e quanto conteneva, in
sua custodia, con l’istruzione che doveva esser pronta per le nove della mattina dopo. Se — gli
dicemmo — se qualche circostanza imprevista avesse dovuto impedire il nostro ritorno, gli
avremmo scritto.
Raggiungemmo la stazione di Paddington alle sette, e ci dirigemmo subito in carrozza alla
trattoria che ho già descritta, dove godemmo, meno Montmorency, un leggero pasto, e
ordinammo una cena da esser pronta per le dieci e mezzo, e poi proseguimmo per Leicester
Square.
All’Alhambra ci attirammo l’attenzione di molti. Presentandoci allo sgabuzzino dei
biglietti, fummo burberamente invitati a voltare la cantonata e a passare per l’entrata di servizio,
mentre ci s’informava che avevamo fatto un ritardo di mezz’ora.
Convincemmo l’uomo, con qualche difficoltà, che non eravamo «I contorsionisti delle
Montagne dell’Imalaia di fama mondiale»; ed egli prese il denaro, e ci lasciò passare.
Dentro il teatro, il successo fu ancora maggiore. La nostra bella fisionomia abbronzata e il
nostro pittoresco abbigliamento furono seguiti in giro con uno sguardo d’ammirazione.
Eravamo la stella polare di tutti gli occhi.
Fu un momento d’orgoglio per noi tutti.
Ce n’andammo subito dopo il primo balletto, e ci dirigemmo al ristorante dove già ci
aspettava la cena.
Debbo confessare che quella cena ce la godemmo. Sembrava che per circa dieci giorni
non fossimo vissuti, più o meno, di nient’altro che di carne fredda, torte, pane e marmellata. Era
stata una dieta semplice e nutriente; ma non v’era stato mai nulla di stuzzicante, e l’odore del
Borgogna, e l’odore delle salse francesi, e la vista dei tovaglioli puliti e dei panini lunghi,
picchiarono come un graditissimo visitatore alla porta del nostro intimo io.
Noi continuammo per un po’ a inzepparci e a imbottarci in silenzio, finchè venne l’ora
che invece di seder ritti e impalati a maneggiar saldamente il coltello e la forchetta, ci
abbandonammo sulla sedia e lavorammo lenti e con comodo — l’ora che stendemmo le gambe
sotto la tavola, lasciammo incuranti cadere i tovagliuoli, sul pavimento, ed avemmo il tempo di
esaminare con occhio critico il soffitto fumoso, cosa che prima non avevamo fatta — l’ora che
posammo il bicchiere sulla tavola a tiro della mano, e ci sentimmo buoni, pensierosi e disposti
al perdono.
Allora Harris, ch’era seduto accanto alla finestra, tirò da parte la tenda e guardò al di
fuori.
La via scintillava nella pioggia, i fiochi fanali vacillavano a ogni raffica, l’acqua
scrosciava forte nelle pozzanghere e strepitava dalle grondaie nei torrentelli dei rigagnoli. Pochi
passanti inzuppati correvano, rannicchiandosi sotto gli ombrelli gocciolanti, le donne
sollevavano il lembo delle gonne.
— Bene — disse Harris, sporgendo la mano al bicchiere — abbiamo goduto delle belle
gite, e i miei cordiali ringraziamenti al vecchio padre Tamigi... ma credo che abbiamo fatto
bene a dargli il benservito a tempo. Ecco tre uomini felici fuori della barca!
E Montmorency, ritto sulle gambe di dietro, innanzi alla finestra, emise un breve latrato,
certo per unirsi al brindisi.
FINE
§><>> TRE UOMINI IN BARCA (Per non parlar del cane):File LIBRO PARLATO <<><§ =
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•Jerome, K. Jerome (ruolo: autore)
•Cecchini, Silvia (ruolo: Voce)
•Genesio, Ivan (ruolo: musicista)
brani: •Lista di esecuzione (formato M3U)
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JEROME K. JEROME
§>>> A P P U N T I di R O M A N Z O <<<§
Versione di SILVIO SPAVENTA FILIPPI
4
PREFAZIONE
5
LINEE SOMMARIE DI JEROME
Se si vuol trovare un antenato a Jerome Klapka Jerome (egli diceva di dover la sua fama
a quel Klapka, che lo aveva issato ben alto sulla famiglia numerosa dei Jerome) bisogna risalire
a Lorenzo Sterne. Non so se ci sia chi ricorda la storia del re di Boemia e dei suoi sette
castelli nel «Tristano Shandy». Ora che si ha in questa stessa collezione la bella traduzione di
Ada Salvatore si può leggerla in italiano. La storia del re di Boemia e dei suoi sette castelli dà
in qualche modo la chiave della maniera di Jerome, della maniera in senso largo, o, forse meglio,
dell’atteggiamento artistico di Jerome.
Lo zio Tobia, l’indimenticabile creazione di Sterne, s’accinge a raccontare al caporale
Trim la storia del re di Boemia e dei suoi sette castelli, e ogni volta che comincia, cioè per una
mezza dozzina di volte, è interrotto da una bella varietà d’incidenti, che originano una sequela
di gustosissime scene. Il lettore, che non può procedere nella storia del re di Boemia, prova
sempre una specie d’irritazione, ch’è subito attenuata e poi fugata e finalmente mutata in una
dolce soddisfazione dalla bellezza delle nuove visioni. Non ricordo più se il racconto finisca o
no; ma è lo stesso procedimento, tenuto conto delle debite variazioni, seguito da Jerome in tutti
i suoi volumi e in questo specialmente, che, se è meno ridanciano, è più pensoso e direi più profondamente
umano di quanti altri ne scrisse.
Volume episodico, nato da un certo disprezzo della letteratura commerciale e degli
scrittori a tanto la riga che formicolano, per i bisogni delle classi meno colte, più che altrove,
in Inghilterra, esso frange, come in un prisma, certe correnti speciali del pensiero e
dell’esperienza pratica comune e le esamina nei loro particolari più risibili, con quella osservazione
che, pur nella sua spietata esattezza, è ovattata d’uno strato di larga indulgenza.
Altrove Jerome è più umorista che comico: qui il riso affiora sempre in pelle in pelle
per esser poi raffrenato da un guizzo e da un rapido movimento convulso, ch’è di memore malinconia.
Basta leggere il capitolo d’introduzione, il dissiparsi di tutti quei sogni che un giorno
aleggiarono intorno alla fronte dei suoi amici e alla sua, il mutamento del tempo, che ha fatto
dei vari cuori speranzosi, congiunti in un solo proposito, una semplice lontana memoria quasi
senza senso più e significato, la contemplazione di quello strato di cenere lasciato dallo sfavillo
d’oro degli anni giovanili, per avere un’idea abbastanza precisa del tessuto del lavoro e della
sua connessione con i misteri fondamentali della vita.
La mano leggera di chi si compiace di bizzarie, di racconti buffi, di quadri sorprendentemente
burleschi tratti con felice intuito dallo svolgimento degli avvenimenti più semplici, di
inattese situazioni divertenti, narrate con la grave serietà del burlone nato, non manca mai; ma
è più sensibile in questo volume l’ansia tormentosa, che direi filosofica, di chi si affanna
sugl’insolubili problemi della vita, pur col sentimento dell’inutilità d’ogni sforzo.
Lo sbrigliato, svagato e spensierato narratore dei «Three men on the Bummel (Tre uomini
a zonzo)», dei «Three men in a boat (Tre uomini in una barca)», se non ha perduto
l’ilarità nativa, l’ha arginata in un canale di studiosa ricerca. Qualche traccia di questo nuovo
atteggiamento si può riscontrare nel «Diary of a pilgrimage (Diario di un pellegrinaggio)» ove
talvolta il Jerome giunge al tono d’una lirica contemplazione, vasta come una sinfonia.
Certo non c’è autore più amabile di lui, più gioioso e meglio diretto allo scopo che dovrebbero
avere quelli che scrivono letteratura amena, (più spesso piagnona): lo scopo di rasserenare.
Parecchi dicono che se hanno un affanno e vogliono dimenticarlo ricorrono a Jerome,
come quel parroco anglicano che si pigliava, dopo un mortorio, il «Pichwick» del Dickens. Un
filosofo scettico osserverebbe che chi si mette ad attingere conforto in un libro deve essere già
ben disposto a consolarsi. Sia pure. Ma sostenere quella disposizione, rafforzarla, sì che se ne
6
abbia l’effetto sperato, non è pregio di molti autori, e i pochi forse non si arrivano a contare
sulle dita delle mani e dei piedi.
E mercè, nel caso di Jerome, d’uno stile, dal lato formale, d’una scheletrica semplicità
(almeno nell’originale inglese); dal lato della concezione, d’un fondo non prezioso d’una comune
esperienza. Perchè egli sa scoprire e vedere il nuovo dove tutti son passati distratti, e
trarre la comicità più irrefrenabile da una situazione in cui nessuno saprebbe più scorgere un
elemento di riso, tanto è fossilizzala, tanto è incuneata negli schemi ordinari.
Facilità, semplicità, straordinaria finezza visiva nei particolari minuti della vita ordinaria:
queste e altre doti si fusero in lui in una singolare potenza artistica che lo fa unico nella
provincia del riso. Egli avrebbe trovato, senza sforzo, una comicità sbalorditiva in una semplice
operazione aritmetica. Vedere, per convincersene, l’idea che ci dà nel «Three men on the
Bummel» dell’orario ferroviario.
SILVIO SPAVENTA FILIPPI.
7
PROLOGO
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Molti anni fa — ero ancora molto piccino — abitavamo in una gran casa d’una strada
lunga, dritta e buia dell’estremità orientale di Londra. Di giorno era rumorosa e affollata: ma di
sera placida e solitaria. I fanali a gas, pochi e radi, avevano piuttosto il carattere di fari che di
lampioni, e la guardia col passo grave e pesante della sua lunga ronda, pareva che s’avvicinasse
sempre più o si dileguasse, tranne nei brevi momenti in cui si fermava a far stridere una finestra
o una porta, o a illuminare con la lanterna qualche vicolo buio che conduceva verso il fiume.
La casa aveva molti vantaggi, come diceva mio padre agli amici che si meravigliavano
della scelta d’una simile residenza, non ultimo quello che le trovava il mio tenero spirito infantile:
di dominare, con le finestre posteriori la vista d’un antico e assai popolato cimitero. Spesso
la notte, io mi levavo pian piano di letto, e arrampicandomi sull’alta cassa di quercia che stava
innanzi alla finestra, mi mettevo a guardare paurosamente in giù fra le vecchie, grige pietre
tombali, domandandomi se le ombre che vi s’annidavano non fossero spiriti — spiriti insudiciati
che avessero perduto il loro candore naturale stando esposti così a lungo al fumo di Londra,
come la neve, che, a volte, dopo qualche tempo, diventava nericcia.
Mi persuasi che fossero spiriti, e presi, infine, a considerarli con simpatia. Mi domandai
che pensassero vedendo cancellarsi i loro nomi sulle lapidi, se avessero memoria di sè stessi, se
desiderassero di vivere un’altra volta, o se fossero più felici in morte che in vita. Era questa
un’idea assai triste.
Una sera, mentre me ne stavo così a guardare, sentii una mano posarmisi sulla spalla.
Non ebbi paura, perchè era una dolce e tenera mano, che conoscevo assai bene, e appoggiai
contro di essa la guancia.
— Che fa fuor del letto questo brutto bambino di mamma? Debbo dargli le bòtte? — E
contro l’altra mia guancia era un’altra mano, e altri morbidi riccioli sfioravano i miei.
— Guardo gli spiriti, mamma, — risposi. — Ve ne sono tanti giù. — E poi aggiunsi,
meditabondo: — Chi sa che si prova a essere uno spirito?
Mia madre non disse nulla; ma mi prese in braccio e mi riportò a letto; poi, sedendosi
accanto a me, e tenendomi la mano nelle sue — che non erano molto più grandi delle mie —
cominciò a cantare con quella voce carezzevole e piana, che, in quel momento, mi faceva nascere
il desiderio d’essere un buon ragazzo — una canzone che ella mi ripeteva spesso; ma che
poi non ho più udita da nessuno e che non mi piacerebbe di udir più.
Ma mentre ella cantava, mi cadde qualcosa sulla mano, che mi fece levare a sedere sul
letto per guardarla negli occhi. Ella si mise a ridere, con una strana risatina smozzicata, mi parve,
e mi disse che non era niente, sollecitandomi a star cheto e ad addormentarmi. Mi rannicchiai
sotto le coltri di nuovo; e chiusi forte gli occhi, ma non potei indovinare che cosa l’avesse
fatta piangere.
Povera mamma, essa aveva l’idea, fondata su un’intima credenza più che
sull’osservazione, che tutti i bambini fossero degli angeli, e che quindi in un certo altro luogo,
per essi più adatto, ve ne fosse una gran ricerca, che faceva assai dura e difficile la loro conservazione
in questo mondo. E temo che la mia sciocca osservazione intorno agli spiriti avesse infuso
quella sera, e per altre in seguito una vaga paura in quel tenero cuore.
Dopo di ciò, per qualche tempo, levando il viso agli occhi di mia madre, li trovavo fissi
su di me. Mi guardavano più intenti, specialmente nelle ore dei pasti, e allora, mentre io continuavo
a masticare, il suo viso assumeva un’aria di soddisfazione e di sollievo.
Una volta, a desinare, udii che mormorava a mio padre (poichè i bambini non son così
sordi come immaginano i genitori): — Par che mangi di cuore.
— Di cuore! — rispose mio padre, con lo stesso tono basso e penetrante di voce. — Se
morrà di qualche cosa, sarà d’indigestione.
Così la mamma si fece meno ansiosa, e, nel volger del tempo, ebbe ragione di pensare
che gli angeli miei confratelli potevano acconsentire a far senza di me ancora per molto; e io,
9
mettendo da parte la natura infantile e le mie fantasie degli spiriti, divenni, col passar degli anni,
una persona adulta, che aveva cessato di credere agli spiriti e insieme a molte altre cose che
forse un uomo farebbe bene di credere.
Ma la memoria di quel cimitero grigio, e delle ombre che vi dimoravano, mi s’è presentata
vividissima l’altro giorno, perchè m’è parso come se fossi io stesso uno spirito, e vagassi
furtivo per tacite vie, dove una volta ero passato alacre e pieno di vita.
Frugando in un cassetto rimasto da lungo tempo chiuso, ne avevo tratto, per caso, un
grosso manoscritto polveroso, col titolo, sulla lacera copertina grigia: «Note d’un romanzo».
Esalava da quelle pagine accartocciate l’odore dei giorni morti; e, come lo tenni aperto sul tavolino,
la mia memoria ritornò a quelle sere d’estate — non tanto lontane, forse, se si tien conto
degli anni, ma lontane, lontanissime, se si misura il tempo col sentimento, — nelle quali quattro
amici, che non si sarebbero mai più trovati insieme, si raccoglievano a redigerle. A misura che
sfogliavo quelle pagine gualcite, la triste persuasione che io non fossi che uno spirito, si faceva
più forte. La scrittura era di mio pugno, ma le parole erano d’un estraneo, tanto che mi domandavo,
leggendo: «Pensai mai questo? Mi proposi questo? Risolsi veramente di far così? La vita,
allora, appar così agli occhi di un giovane?» e non sapevo se sorridere o sospirare.
Il manoscritto era una compilazione metà diario, metà taccuino. V’erano registrate molte
meditazioni, molte conversazioni, e da esse — scegliendo ciò che m’è parso adatto, aggiungendo,
modificando e accomodando — ho foggiato i capitoli che si troveranno qui appresso.
Sul mio diritto di poterlo fare, la mia coscienza, d’indole scrupolosissima, è perfettamente
tranquilla. Dei quattro autori associati, quello che chiamo MacShaughnassy ha rinunciato
a ogni suo diritto alle umane cose rifugiandosi alla profondità di due metri sotto il suolo del deserto
africano; mentre di colui che io ho designato col nome di Brown, non ho tratto che poco; e
quel poco posso dire d’averlo fatto mio in ragione dei pregi artistici con cui l’ho abbellito. Veramente,
nel prender così un po’ delle sue idee balzane e presentarle in forma leggibile, non gli
faccio una gentilezza... e non gli rendo bene per male? Poichè egli, sdrucciolando dalle alte vette
della giovinezza, non è precipitato, giù, di gradino in gradino, fino a diventar critico, e, perciò,
mio naturale nemico? Non mi chiama, forse, dalle colonne di un giornale di grandi pretese,
ma di poca diffusione, scrittore popolare? E il suo disprezzo per il popolo non si fonda principalmente
nel fatto che alcuni delle umili classi leggono i miei libri? Ma nei giorni che abitavamo
una soffitta insieme e andavamo alle prime rappresentazioni insieme, avevamo una grande
opinione reciproca della nostra capacità.
Di Jephson conservo una lettera datata da una stazione nel cuore dell’Australia: «Fanne
quel che vuoi, caro amico», dice la lettera, «purchè cerchi di non mischiarmi in codesta roba.
Grazie per il tuo rimpianto affettuoso, ma io non posso accettarlo. Io non fui mai adatto alla carriera
letteraria. E fui fortunato a scoprirlo in tempo. Certi poveri diavoli non lo scoprono. (Non
alludo a te, caro. Noi leggiamo tutta la tua roba, che ci piace moltissimo. Qui, sai, il tempo passa
molto lentamente, nell’inverno, e quasi tutto mi appaga. Questa vita mi si adatta meglio. Mi
piace di sentirmi un cavallo fra le gambe e il sole sulla pelle. E ci sono i piccoli che ci crescono
intorno, e i lavoratori da sorvegliare, e gli animali a cui badare. Forse la mia a te sembra una vita
troppo comune e troppo poco intellettuale, ma essa soddisfa la mia natura più di quanto potrebbe
fare l’attendere a scriver libri. Inoltre, per dir le cose come sono, mi par che ci siano
troppi autori. Il mondo è così affacendato a leggere e a scrivere, che non ha tempo di pensare.
Tu mi dirai, naturalmente, che i libri sono pensati; ma questa è soltanto un’espressione letteraria.
Vieni qui, caro, e statti, come io faccio talvolta per giorni e notti di seguito, solo col bestiame,
sulla vetta d’una collina, issato, per dir così, nel cielo profondo, e saprai che non sono pensati.
Ciò che una persona pensa — realmente pensa — s’immerge in essa e cresce in silenzio.
Quelli che si scrivono nei libri sono i pensieri che uno desidera si pensi che pensi».
Povero Jephson! egli prometteva tanto una volta. Ma aveva sempre delle strane idee.
J. K. J.
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CAPITOLO I.
Una sera che tornai a casa, dopo essermi trattenuto a lungo a fumar la pipa dall’amico
Jephson, e informai mia moglie che avevo in animo di scrivere un romanzo, ella si manifestò
lietissima del mio proposito. Disse che molte volte s’era domandata perchè non ci avessi mai
pensato. — Guarda — aggiunse — come son sciocchi tutti i romanzi d’oggi; son certa che tu
puoi scriverne uno. (Son sicuro che Etelberta intendeva di farmi un complimento; ma ha tale
incuranza nel suo modo d’esprimersi che, a volte, si rende perfettamente oscura).
Quando però le dissi che l’amico Jephson sarebbe stato mio collaboratore, ella esclamò
«Oh!» in tono di dubbio; e quando continuai col dirle che Selkirk Brown e MacShaughnassy,
avrebbero collaborato anch’essi, emise un altro «Oh!», in un tono che non aveva alcuna traccia
di dubbio, e che lasciava intendere chiaramente che il suo interesse nella cosa come un progetto
pratico, era interamente sfumato.
Credo che la circostanza che i miei tre collaboratori erano tutti celibi, diminuisse considerevolmente,
nel pensiero di Etelberta, le probabilità di riuscita. Contro gli scapoli, come classe,
essa ha dei forti pregiudizi. Un uomo che non ha abbastanza buon senso da desiderar di
ammogliarsi, o che avendolo, non ha abbastanza spirito da farlo, le dà a pensare o che l’uomo
sia debole d’intelligenza o che sia naturalmente depravato, e che l’una cosa o l’altra lo rendano
incapace di diventar mai un romanziere realmente utile.
Io tentai di farle comprendere i vantaggi speciali del nostro progetto.
— Vedi — le spiegai — nel romanzo del tipo comune, del tipo solito, non si riesce ad
avere che le idee d’una persona sola. Ora, in questo romanzo lavoreranno insieme quattro persone
capaci; e il pubblico sarà messo in grado di avere i pensieri e le opinioni di tutti e quattro,
al prezzo che di solito si sborsa per le opinioni d’un unico autore. Se il lettore inglese non è stupido,
s’affretterà a prenotare il libro, per non aver delusioni. Un’occasione simile non capita tutti
i giorni.
Etelberta convenne che la cosa era probabile.
— Inoltre — continuai, accalorandomi un po’ più, a misura che riflettevo meglio —
quest’opera sarà un vero magnifico affare anche sotto un altro aspetto. Noi non vi metteremo
semplicemente le nostre idee di tutti i giorni; ma comprimeremo nel romanzo il meglio dello
spirito e della saggezza di tutti noi quattro, se il libro sarà capace di contenerlo. E dopo non
scriveremo altri romanzi. Veramente, non potremo più, non avremo più nient’altro da scrivere.
Il lavoro sarà in qualche modo una liquidazione generale di tutti i nostri magazzini a sotto prezzo.
Metteremo nel romanzo tutto ciò che sappiamo.
Etelberta chiuse le labbra, e mormorò qualcosa; e poi osservò ad alta voce che si trattava
certo d’un volume unico.
Mi sentii offeso da quell’implicito sogghigno. E le ricordai che già esisteva una numerosa
classe di persone specialmente addestrate a non far altro che delle spiacevoli osservazioni
sugli autori e i loro lavori — una faccenda che, a quanto potevo giudicare, essi erano capaci di
compiere senza l’aiuto di dilettanti di sorta. E le accennai che un letterato s’aspettava, almeno
in casa propria, di trovare un’aria di maggiore simpatia.
Etelberta mi rispose che, naturalmente, io sapevo ciò che essa intendeva. Disse che non
si trattava di me, e che Jephson era, certo, abbastanza capace (Jephson è fidanzato); ma non
credeva alla necessità di ricorrere, per un libro, a mezzo quartiere. (Nessuno aveva detto che
occorreva mezzo quartiere. Etelberta parla con tanta inconsideratezza!) Ella considerava assurdo
che Brown e MacShaughnassy potessero imprendere qualcosa di utile. Che potevano sapere
due semplici scapoli intorno alla vita e alla natura umana? Per quanto riguardava MacShaughnassy
in particolare, ella credeva che se avessimo voluto trar da lui tutto quel che sapeva, tenendolo
stretto all’argomento, sarebbe bastata una pagina e anche meno.
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L’opinione di mia moglie intorno a MacShaughnassy era il risultato d’una reazione. La
prima volta ch’ella lo vide, lei e lui si trovarono meravigliosamente d’accordo; e quando ritornai,
dopo averlo accompagnato alla porta, nel salotto, le prime parole di lei furono: «Che uomo
prodigioso questo MacShaughnassy! Par che sappia tutto su tutto».
Parole che descrivono esattamente MacShaughnassy. Sembra ch’egli sappia una somma
formidabile di cose. Possiede più cognizioni di qualunque altro uomo che io abbia mai avuto la
fortuna d’incontrare. Talvolta le sue cognizioni sono esatte; ma parlando in generale, ispira poca
fiducia. Donde le attinga nessuno è stato mai capace d’indovinare.
Etelberta, quando noi mettemmo su casa, era giovanissima. Ricordo che il nostro primo
macellaio corse il rischio di perderla per sempre chiamandola «signorina», e dandole una comunicazione
da portare alla madre. Essa arrivò a casa in lagrime, e disse che forse non era adatta
ed esser la moglie di nessuno, ma non capiva perchè i bottegai dovevano trattarla a quel modo.
Naturalmente era un po’ inesperta nelle faccende domestiche, e comprendendolo molto bene,
si sentiva grata a chiunque le dava qualche utile schiarimento o qualche consiglio. Quando
si presentò MacShaughnassy, questi le parve una specie di signora Breton glorificata. Egli sapeva
tutto ciò ch’era necessario sapere in una casa, dal metodo scientifico di sbucciare una patata
alla cura delle convulsioni dei gatti, ed Etelberta gli si sedeva ai piedi, figuratamente parlando,
a far tesoro in una serata di tante cognizioni da rendere la casa inabitabile per un mese.
Egli le insegnò come si doveva accendere il fuoco, giacchè diceva lui, il metodo di preparare
di solito il fuoco in questo paese era contrario a tutte le leggi di natura; e le mostrò come
si faceva in Crimea Tartaria, o in qualche contrada simile, dove solo s’intende a modo la scienza
di preparare il fuoco. Le provò che immenso risparmio di tempo e di lavoro, per tacere del
combustibile, poteva esser raggiunto dall’adozione del sistema di Crimea Tartaria; e glielo insegnò
subito, e lei andò immediatamente da basso a spiegarlo alla fantesca.
Amenda, che allora faceva tutto in casa, era una giovane terribilmente stolida, e, per
qualche rispetto, una fantesca modello. Non discuteva mai. Pareva che non avesse mai, in nulla,
un’idea propria. Accettava le nostre senza commenti, e le eseguiva con tale precisione pedantesca
e tale evidente assenza d’ogni sentimento di responsabilità in quanto al risultato, da circondare
la nostra legislazione domestica d’una atmosfera assolutamente militare.
In quell’occasione ascoltò tranquilla e senza batter ciglio il metodo di MacShaughnassy
per la preparazione del fuoco, e dopo che Etelberta ebbe finito, disse semplicemente.
— Voi desiderate che faccia il fuoco a codesto modo?
— Sì, Amenda, se non ti dispiace. D’ora innanzi, il fuoco lo preparerai sempre così.
— Benissimo, signora, — rispose Amenda, con perfetta indifferenza, e per quella sera la
cosa finì lì.
La mattina appresso andando abbasso trovammo la tavola della colazione molto bene
apparecchiata, ma senza alcuna traccia di colazione. Aspettammo.
Passarono dieci minuti... passò un quarto d’ora... venti minuti. Poi Etelberta sonò il
campanello. E in risposta al campanello si presentò Amenda calma e rispettosa.
— Non sai, Amenda, che la colazione è per le otto e mezzo?
— Sì, signora.
— E sai che son quasi le nove?
— Sì, signora.
— Bene, e la colazione non è pronta.
— No, signora.
— E quando sarà pronta?
— Bene, signora, — rispose Amenda, in tono di geniale sincerità, — a dirvi la verità,
non credo che sarà mai pronta.
— Perchè? Il fuoco non s’accende?
— Per accendere, si accende benissimo.
— Perchè allora non hai preparato la colazione?
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— Perchè non hai neppure il tempo di voltarti, che il fuoco torna a spegnersi.
Amenda non dava mai volontariamente particolari. Rispondeva alla domanda che le si
faceva, e di botto s’arrestava. Una volta, prima che conoscessi i suoi modi, gridai a lei, da basso
domandandole se sapeva l’ora. «Sì, signore», mi rispose, e sparve nella retrocucina. Al termine
di trenta secondi all’incirca, gridai di nuovo: «T’ho chiesto dieci minuti fa, Amenda», le dissi in
tono di rimbrotto, di dirmi l’ora.
— Ah, sì? — gridò allegramente di rimando. — Vi domando scusa. Credevo che
m’aveste domandato se la sapevo... sono le quattro e mezzo.
Etelberta le chiese — per tornare al nostro fuoco — se avesse provato a riaccenderlo.
— Oh sì, signora, — rispose la ragazza, — ho provato quattro volte. — Poi aggiunse allegra:
— Se volete, signora, proverò di nuovo.
Amenda era la più premurosa fantesca di questo mondo.
Etelberta disse che sarebbe andata da basso ad accendere il fuoco lei, e ordinò ad Amenda
di seguirla per assistere all’operazione. Io mi sentivo interessato all’esperimento, e andai
anch’io da basso. Etelberta si rimboccò la camicetta e si mise al lavoro. Io e Amenda rimanemmo
in piedi a guardarla.
Alla fine di mezz’ora Etelberta si ritrasse dalla lotta, accalorata, sudicia e un po’ irritabile.
Il focolare conservava la stessa fredda e cinica espressione con la quale aveva salutato il nostro
ingresso.
Allora mi ci provai io. Onestamente feci del mio meglio. Ero impaziente e ansioso di
riuscire; primo, perchè avevo bisogno della colazione; secondo, perchè volevo essere in grado
di dire ch’ero stato capace di far l’operazione. A me sembrava che, per qualunque essere umano,
accendere un fuoco, preparato com’era quello, sarebbe stata un’impresa da narrare con
grande orgoglio. Accendere il fuoco anche in circostanze comuni non è un compito troppo facile;
ma farlo impacciato dalle norme di MacShaughnassy, comprendevo che sarebbe stato uno di
quei fatti sul quale la memoria ritorna con enorme compiacimento. La mia idea, una volta che ci
fossi riuscito, era di andare in giro a strombazzarlo per il vicinato.
Non ci riuscii, però. Accesi vari altri oggetti, includendo il tappeto e il gatto, che s’era
messo ad annusare in giro, ma la roba sul focolare sembrava tutta a prova di fuoco.
Etelberta e io ci sedemmo, lei in un canto, io nell’altro del malinconico focolare, e ci
guardammo a vicenda pensando a MacShaughnassy, finchè non si levò Amenda con uno di
quei suggerimenti pratici che buttava lì di tanto in tanto, lasciandoci liberi di accettarli o no.
— Forse, — ella disse, — sarà bene per oggi accendere il fuoco secondo il solito.
— Sì, Amenda, — disse Etelberta, levandosi. E poi aggiunse: — Credo che sarà bene,
se non ti dispiace, accenderlo alla vecchia maniera.
Un’altra volta MacShaugnassy ci insegnò a fare il caffè — secondo il metodo arabo.
L’Arabia dev’essere un paese molto sudicio se vi fanno spesso il caffè. MacShaughnassy sporcò
due casseruole, tre brocche, una tovaglia, una grattugia per la noce moscata, un tappeto, tre
tazze e sè stesso. Tutto questo, per fare due caffè. Non oso pensare che sarebbe stato se fosse
stato necessario farne una diecina.
E perchè poi il suo caffè non ci piacque, MacShaughnassy disse che noi avevamo il gusto
pervertito e guasto dal lungo uso d’un genere inferiore. Si bevve lui le due tazze, e dopo se
ne andò a casa in carrozza.
Ricordo che in quei giorni egli aveva una vecchia zia misteriosa, la quale abitava in un
lontano ritiro donde arrecava incalcolabili danni agli amici di lui. Ciò che lui non sapeva —
quell’una o due cose in cui non si sentiva forte — sua zia lo sapeva.
«No, egli diceva con un adorabile candore, — no, — questa è una cosa su cui io non
posso darvi dei consigli. Ma, — aggiungeva, — sapete che farò? Scriverò a mia zia, e domanderò
a lei». — E un paio di giorni dopo, Mac riappariva in casa mia col consiglio della zia; e se
eravate giovane e inesperto, o naturalmente sciocco, non c’era da meravigliarsi che lo seguiste.
Essa una volta, per mezzo di Mac, ci mandò la ricetta per lo sterminio degli scarafaggi.
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Noi abitavamo in una vecchia casa molto pittoresca; ma come la maggior parte delle
vecchie case pittoresche, i suoi pregi erano principalmente esterni. Vi erano molti buchi, fessure
e screpolature nella sua scricchiolante struttura. Delle rane che avevano smarrita la strada si
trovavano a un tratto nella nostra sala da pranzo, con la stessa sorpresa e lo stesso fastidio, senza
dubbio, che provavamo noi a vederle capitate là in mezzo. Una schiera numerosa di topi, appassionati
per la ginnastica, aveva adattato quel punto a loro palestra preferita; e la nostra cucina,
dopo le dieci, si trasformava in un circolo di scarafaggi. Venivano a traverso il pavimento e
a traverso i muri, e sgambettavano lieti e spensierati fino all’alba.
Contro i topi la domestica non aveva nulla da obiettare: si divertiva a guardarli, essa diceva;
ma non poteva soffrire gli scarafaggi. Perciò quando mia moglie le annunziò che la zia di
Mac le aveva mandato una ricetta infallibile per il loro sterminio, la sua soddisfazione non ebbe
limiti.
Noi comprammo gl’ingredienti, manipolammo la miscela e la spargemmo in giro. Gli
scarafaggi arrivavano e se la mangiavano. Se la finivano tutta, e parevano seccati che non ce ne
fosse più. Ma non morivano.
Narrammo la cosa a Mac, il quale sorrise, con un furbo sorriso, e disse espressivamente
abbassando la voce: — Lasciate che la mangino!
Pareva che con quella ricetta si componesse un veleno lento e insidioso, che non uccideva
istantaneamente gli scarafaggi, ma ne minava l’organismo. Giorno per giorno deperivano e
si struggevano, senza saper dire che avessero, finchè una mattina saremmo entrati nella cucina e
li avremmo trovati tutti morti stecchiti.
Così ci mettemmo a fabbricare altro veleno, e lo spargemmo in giro tutte le sere; e gli
scarafaggi di tutto il quartiere accorrevano a sciami. Ogni notte ne venivano in maggiore quantità,
conducendo con loro tutti gli amici e i parenti. Scarafaggi estranei — scarafaggi di altre
famiglie che non avevan alcun diritto su di noi — apprendevano la notizia, e si presentavano a
orde, cercando di derubare gli scarafaggi nostri. Alla fine d’una settimana avevamo attirato nella
nostra cucina quanti scarafaggi non erano storpi nel raggio di parecchie miglia.
Mac disse ch’era una magnifica cosa: avremmo spazzato il suburbio in un colpo solo.
Gli scarafaggi mangiavano già da dieci giorni il veleno, e la loro fine — egli disse — non poteva
tardare. Io fui lieto di apprenderlo, perchè cominciavo a trovar fastidiosa quella illimitata ospitalità.
Il veleno era caro ed essi erano insaziabili.
Ci recammo da basso in cucina a veder come andavano le cose. Mac giudicò che
s’andava assai bene e che i segni della dissoluzione erano evidenti. Per conto mio, dico soltanto
che non desidero di veder più una massa di scarafaggi di così florido aspetto.
Uno, è vero, morì quella sera stessa. Fu scoperto nell’atto di trafugare una troppo grande
quantità del nostro veleno, e tre o quattro compagni gli s’avventarono furiosi addosso e lo ammazzarono.
Ma, a quanto potei scoprire, fu l’unico al quale la ricetta di MacShaughnassy riuscì fatale.
Ma altri, diventarono per mezzo di quella ricetta tutti lucidi e ben pasciuti, e alcuni cominciavano
a mettere su delle arie. Ne diminuivamo il numero di tanto in tanto con l’aiuto delle solite
droghe. Ma se n’erano stabiliti in così gran copia in casa, attratti dal veleno di MacShaughnassy,
che sterminarli era un’impresa disperata.
Non ho udito più nulla della zia di MacShaughnassy. Forse qualcuno degli amici del
cuore di MacShaughnassy ne ha scoperto l’indirizzo ed è andato ad ammazzarla. Se mai, vorrei
mandargli un ringraziamento.
Cercai, non molto tempo fa, di curare MacShaughnassy dalla sua fatale passione per i
consigli, narrandogli una tristissima istoria raccontatami da un signore che incontrai in America,
in una vettura di strada ferrata. Viaggiavo da Buffalo a Nuova York, e, durante il giorno,
pensai che il viaggio mi sarebbe parso più interessante se avessi lasciato il treno ad Albany e
fatto il resto del percorso per acqua. Ma ignoravo le varie corse dei battelli, e non avevo con me
un orario. Cercai con l’occhio qualcuno a cui chiedere informazioni. Un signore attempato, dal14
lo sguardo dolce, stava accanto al finestrino occupato a leggere un libro, la cui copertina m’era
familiare. Lo stimai persona intelligente, e me le avvicinai.
— Scusatemi, se mi permetto d’interrompervi, — dissi, mettendomi a sedere di fronte;
— ma potreste darmi qualche informazione sui battelli per Albany e Nuova York?
— Bene, — mi rispose, levando il volto con un simpatico sorriso, — vi sono tre linee di
battelli in tutto. La linea di Heggarty che arriva fino a Catskill; i battelli di Poughkeepsic, che
partono un giorno sì e un giorno no; e quelli che si chiamano i battelli del canale.
— Ah! — dissi. — Ora quale mi consigliereste di...
Il signore saltò in piedi con un grido, e mi guardò con un fuoco negli occhi che era assolutamente
omicida.
— Furfante! — sibilò con un tono basso di furia concentrata. — Così la intendete? Vi
darò io il consiglio; e cavò di tasca una rivoltella.
Mi sentii ferito. Compresi anche che se il colloquio fosse stato prolungato, mi sarei sentito
più ferito ancora. Così lo lasciai senza una parola, e mi ritrassi nell’estremo angolo della
vettura, dove mi rannicchiai fra una signora assai massiccia e l’uscio.
Stavo ancora meditando sull’incidente, quando, levando gli occhi, vidi che l’amico si dirigeva
alla mia volta. Mi alzai e misi la mano sul pomo dell’uscio. Egli non mi doveva trovare
impreparato. Mi fece, però, un sorriso rassicurante, e mi porse la mano.
— Ho pensato, — disse, — d’essermi mostrato un po’ brusco. Vorrei spiegarmi, se me
lo permetteste. Credo che, dopo aver appresa la mia storia, mi comprenderete e mi perdonerete.
V’era nel suo aspetto qualche cosa che ispirava fiducia. Trovammo un angolo tranquillo
nella vettura fumatori. Io mi presi un bicchierino di liquore ed egli si fece portare una strana bevanda
di sua speciale invenzione. Poi accendemmo tutti e due il sigaro, e ci mettemmo a parlare.
— «Trent’anni fa, — mi disse, — ero giovane, con una sana fiducia in me e un vivo desiderio
di far del bene agli altri. Non m’immaginavo d’esser un genio; neppure mi consideravo
dotato di qualità eccezionali. Ma mi sembrava, e più meditavo sui fatti dei miei simili, uomini e
donne, e più me ne persuadevo, di posseder del buon senso, semplice e pratico, in grado abbastanza
notevole. Consapevole di ciò, scrissi un libriccino, che intitolai «Com’esser felice, ricco
e saggio», e lo feci stampare e pubblicare a mie spese. Il mio intento non era di far denaro, ma
di rendermi utile.
«Il libro non fece lo scalpore che avevo sperato. Se ne vendettero due o trecento copie, e
poi lo spaccio si arrestò.
«Confesso che sulle prime provai una delusione. Ma dopo un poco, ragionai che se il
pubblico non si curava dei miei consigli, chi ci rimetteva era lui e non io, e non ci pensai più
che tanto.
«Una mattina, circa un anno dopo, stavo seduto nel mio studiolo, quando la cameriera
entrò per dirmi che un signore da basso aveva un urgente desiderio di vedermi.
«Le dissi di farlo salire, e dopo poco egli mi si presentò.
«Era un uomo d’aspetto comune, ma aveva una fisionomia intelligente e aperta e delle
maniere rispettosissime. Gli feci cenno di accomodarsi. Si prese una sedia e si sedette sull’orlo.
— «Spero che scuserete la mia indiscrezione signore, — cominciò, parlando risoluto, e
facendo girare rapidamente il cappello fra le dita; — ma ho fatto più di duecento miglia per venirvi
a trovare.
«Io mi dissi lieto dell’occasione di conoscerlo, ed egli continuò: — Si dice, signore, che
voi siate l’autore di quel libriccino «Com’esser felice, ricco e saggio». — Enumerò i tre epiteti
lentamente, calcando amorevolmente il tono su ciascuno. Io ammisi il fatto.
— «Oh! è un libro meraviglioso, signore, — egli continuò. —. Io non sono uno di quelli
che hanno un cervello loro proprio... neanche a parlarne... ma ne so abbastanza da riconoscere
chi lo ha; e quando ho letto quel lavoro, mi son detto: Giosia Hackett (mi chiamo così, signore),
quando hai un dubbio, non star lì tanto a tormentarti la zucca, che ti dirà delle bestialità, ma va
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dal signore che ha scritto questo libriccino e domandagli consiglio. Egli ha il cuore gentile, come
tutti ti diranno, e te lo darà; e quando l’avrai avuto, corri dritto innanzi a tutto vapore, e non
starci a ripensare, perchè egli sa ciò che è bene per te, appunto come sa ciò che è bene per tutti.
Questo è ciò che ho detto, signore, e per questo mi vedete qui.
«Egli si fermò e si asciugò la fronte con un fazzoletto di cotone verde. Io lo pregai di
continuare.
«Sembrava che quel brav’uomo desiderasse di ammogliarsi, ma non sapesse risolversi
sulla persona. Aveva messo l’occhio, com’egli si espresse — su due ragazze, ed esse, aveva ragione
di credere, lo consideravano dal canto loro con la maggior simpatia possibile. La sua difficoltà
consisteva nel decidere quale delle due — giacchè entrambe erano due ottime ragazze —
sarebbe stata la moglie migliore. L’una, Giuliana, figliuola unica d’un capitano di mare, mi fu
da lui descritta come un’amabile ragazza; l’altra, Anna, come più attempata e più muliebre. Era
la maggiore d’una numerosa famiglia. Suo padre era un attivo commerciante di legname, molto
religioso e pio. Giosia mi domandava quale delle due io gli consigliassi di sposare.
«Ebbi un sentimento di compiacenza. Chi nella mia condizione non avrebbe provato un
sentimento di compiacenza? Quel Giosia Hackett era partito di lontano per venire ad ascoltare
la mia saggezza. Egli desiderava — anzi era ansioso — di affidare la felicità di tutta la sua vita
al mio discernimento. Io non avevo alcun dubbio che si conducesse da saggio. Avevo sempre
ritenuto che per la scelta d’una moglie necessitasse un giudizio calmo e ponderato, quale nessun
innamorato sarebbe stato capace forse di formulare. In un caso simile, non avrei esitato a dare
un consiglio al più saggio degli uomini. E rifiutarlo a quel povero diavolo, tutta semplicità, sarebbe
stato crudele.
«Egli mi mise nelle mani la fotografia di entrambe le ragazze. Annotai a tergo di ciascuna
quei particolari che mi avrebbero giovato nella valutazione dei loro meriti rispettivi al posto
designato, e promisi a Giosia di studiare diligentemente il problema, per poi scrivergli fra un
paio di giorni.
«La sua gratitudine fu commovente. — Non v’incomodate a scrivere, signore — egli mi
disse — segnate «Giulia» o «Anna» su un pezzo di carta, e mettetelo in una busta. Saprò che
intendete, e sposerò quella di cui m’indicherete il nome.
«Mi strinse la mano e se ne andò.
«Io meditai molto sulla scelta della moglie di Giosia. Desideravo farlo felice.
«Giuliana, certo, era molto leggiadra. Negli angoli della sua bocca s’appiattava uno spirito
di tale letizia da evocare il suono di squillanti risate. Se mi fossi condotto impulsivamente,
avrei cacciato Giuliana nelle braccia di Giosia.
«Ma pensai che a una moglie son necessarie più salde qualità che non l’allegria e la leggiadria.
Anna, benchè non tanto bella, evidentemente possedeva ed energia e buon senso —
qualità assolutamente indispensabili alla moglie d’un uomo senza beni di fortuna. Il padre di
Anna era pio, e faceva buoni affari, ed era, indubbiamente, economo e risparmiatore. Egli aveva
istillato in lei lezioni di economia e di virtù; e, col tempo, ella avrebbe potuto ereditare qualche
cosetta. Era la maggiore d’una numerosa famiglia, e certo aveva aiutato molto la madre. Doveva
quindi essere esperta di faccende domestiche, e intendersi d’educazione infantile.
«Il padre di Giuliana, d’altra parte, era un capitano di mare in ritiro. La gente di mare in
generale è molto sciolta di lingua. Egli probabilmente aveva l’abitudine di girare per casa bestemmiando
ed esprimendo opinioni, che non potevano non esercitare un effetto dannoso sulla
formazione del carattere d’una ragazza che cresceva. Giuliana era figlia unica. I figli unici di
solito non diventano bravi uomini e brave donne. Sono secondati nei loro capricci e troppo
spesso son lasciati fare a loro modo. La graziosa figliuola d’un lupo di mare in ritiro doveva
certo esser viziata.
«Dovevo anche tener presente che Giosia evidentemente era di carattere debole e fiacco,
che aveva bisogno d’una mano ferma e sicura. Ora v’era qualche cosa nell’occhio di Anna che
indicava specialmente un carattere energico.
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«Dopo due giorni avevo deciso. Scrissi «Anna» su un pezzo di carta e lo impostai.
«Al termine d’una quindicina ebbi una lettera da Giosia. Egli mi ringraziava per il consiglio,
ma aggiungeva, incidentalmente, ch’egli avrebbe desiderato che gli avessi indicato Giuliana.
Si dichiarò, però, sicuro della bontà del mio consiglio; e, dopo un po’ ebbi la partecipazione
del suo matrimonio con Anna.
«Quella partecipazione mi diede qualche turbamento. Cominciai a domandarmi se, dopo
tutto, avessi scelto la ragazza adatta. Se per ipotesi Anna non era quella che io pensavo che fosse!
Che cosa terribile per Giosia! Erano sufficienti i dati sui quali avevo formulato un giudizio?
Come sapevo che Anna non era stata una ragazza pigra e scontrosa, una spina continua nel
fianco della povera madre affaticata, e un tormento perpetuo per i fratellini e le sorelline? Come
sapevo che era stata bene educata? Suo padre poteva essere un magnifico vecchio ipocrita come
sono la maggior parte di quelli che si fan credere pii e timorati; ed essa poteva aver appreso da
lui soltanto l’ipocrisia.
«E inoltre, come sapevo che la lieta infantilità di Giuliana non si sarebbe svolta in una
dolce e allegra femminilità? Suo padre, nonostante ciò che sapevo contro la gente di mare ritirata,
poteva essere un modello di saggezza; con un buon gruzzoletto, chi sa, sicuramente investito
in qualche parte. E Giuliana era figlia unica. Quale ragione avevo per contrastare l’amore di
quella bella giovane creatura per Giosia?
«Presi la fotografia dal tavolino. Mi parve di scoprire uno sguardo di rimbrotto in quegli
occhioni. Vidi innanzi a me la scena nella piccola casa lontana, quando il primo annunzio del
matrimonio di Giosia era caduto come un sasso crudele nelle acque fino allora placide della vita
di Giuliana. La vidi che s’inginocchiava accanto alla poltrona di suo padre, canuto e abbronzato,
mentre questi le carezzava la chioma d’oro, e se la stringeva singhiozzante al petto. Il mio
rimorso mi divenne quasi insopportabile.
«Misi da parte la fotografia e presi quella di Anna — la prescelta. Sembrava che mi
guardasse con un sorriso di trionfo spietato, e cominciò a spuntare in me un sentimento di positiva
antipatia per lei.
«Lottai contro questo sentimento. Mi dissi che era un pregiudizio. Ma quanto più cercavo
di ragionare, tanto più forte diventava. E potrei dire che, come passavano i giorni, si mutava
da antipatia in disprezzo, da disprezzo in odio. E quella era la donna da me deliberatamente
scelta a compagna di tutta la vita per Giosia!
«Per settimane non ebbi più pace. Avevo paura di aprire tutte le lettere che mi arrivavano,
temendone una di Giosia. Sussultavo a ogni colpo alla porta, cercando in giro un nascondiglio.
Tutte le volte che leggevo nei giornali il titolo «Tragedia domestica», mi veniva il sudore
freddo. Mi aspettavo di leggere che Giosia e Anna si fossero ammazzati a vicenda, mandandomi
una maledizione.
«Ma come passava il tempo, e non mi giungeva notizia di sorta, i miei timori cominciarono
a mitigarsi, e io a credere di avere avuto il più fine intuito. Forse avevo fatto del bene a
Giosia e ad Anna, ed essi mi stavano benedicendo. Erano passati tre anni tranquillamente, e io
avevo cominciato a dimenticare l’esistenza degli Hackett.
«Poi Giosia Hackett si ripresentò. Tornavo a casa dalle mie faccende una sera, e lo trovai
nell’anticamera che m’aspettava. Sul momento stesso che lo vidi, compresi che i miei timori
erano riusasti molto al di sotto della realtà. Gli feci cenno di seguirmi nello studio, ove sedette
sull’identica sedia sulla quale s’era seduto tre anni prima. Era avvenuto in lui un notevole mutamento;
sembrava invecchiato e stanco, e i suoi modi avevano un’aria di disperata rassegnazione.
«Rimanemmo un po’ senza parlare, lui a far girare il cappello fra le dita come nel nostro
primo colloquio, io a fingere di mettere un po’ d’ordine nelle carte della mia scrivania. Finalmente,
con la convinzione che qualunque cosa sarebbe stata più tollerabile di quel silenzio, mi
volsi a lui.
«— Temo, Giosia, che le cose non vi si sian mostrate favorevoli? — dissi.
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«— No, signore, — mi rispose tranquillamente, — non posso dire che mi siano state
perfettamente favorevoli. Quella vostra Anna è riuscita un po’ troppo seccante e brontolona.
«Non v’era alcun tocco di recriminazione nel suo tono; egli non faceva che riferire un
fatto melanconico.
«— Ma per altri rispetti, essa vi si dimostra una buona moglie, — osservai ansioso. —
Naturalmente ha i suoi difetti. Chi non ne ha? Ma è energica. Via, dovete ammettere ch’è energica.
«Era mio interesse trovar delle buone qualità ad Anna; e quella fu l’unica cosa che mi
venne allora in mente.
«— Ah, sì, per energica è energica, — assentì. — Un po’ troppo per la nostra minuscola
casa, a volte penso. Vedete, — continuò, — è un po’ scontrosa di carattere, Anna; e poi a volte
sua madre è un po’ fastidiosa.
«— Sua madre! — esclamai, — ma che c’entra sua madre con voi?
«— C’entra, — rispose; — adesso abita con noi... da quando se n’andò il padre.
«— Il padre di Anna? È morto, allora?
«— Non morto, signore, — rispose. — Scappò circa un anno fa con una signorina che
insegnava nella scuola festiva e se n’andò coi mormoni. Fu una sorpresa per tutti.
«Io cacciai un gemito.
«— E la ditta, — domandai, — il commercio del legname, chi lo dirige?
«— Ah, quello, — rispose Giosia. — La ditta è stata venduta per pagare i debiti... almeno
per cercar di pagarli.
«Osservai che certo era stata una cosa terribile per la famiglia. Chi sa, la casa s’era disciolta
e s’erano tutti dispersi!...
«— No, signore, — rispose semplicemente. — Adesso abitano tutti con noi. Ma ecco,
— continuò, vedendo il mio sguardo, — questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con voi.
Immagino che anche voi abbiate i vostri fastidi e io non son venuto qui per seccarvi coi miei.
Sarebbe un triste compenso alla gentilezza che m’avete dimostrata.
«— Che n’è di Giuliana? — chiesi. Non sentivo il bisogno di interrogarlo più oltre sulle
sue faccende particolari.
«Un sorriso sciolse la rigida malinconia dei suoi lineamenti.
«— Ah! — disse, più allegro di quel che s’era mostrato fino allora; — si prova un sentimento
di dolcezza a pensare a lei, proprio. S’è maritata con un giovane amico mio, Sam Jessop.
Faccio una scappatina di tanto in tanto, quando Anna non m’è alle costole, e vado a farle
una visitina. Signore Iddio, dare un’occhiata alla sua casetta è come guardare per uno spiraglio
del paradiso. Sam molte volte mi mette in dispetto, per ciò. «Sei stato un bel testone, Giosia, un
bel testone», mi dice spesso. Siamo vecchi amici, con Sam, e così egli scherza volentieri con
me.
«Allora il sorriso gli si spense, e aggiunse con un sospiro:
«— Sì, quante volte ho pensato come sarei stato felice, se aveste cercato d’indicarmi
Giuliana.
«Io sentii di dover ritornare a qualunque costo ad Anna. Dissi:
«— Immagino che voi e vostra moglie viviate dove vivevate prima.
«— Sì, se si può dire vivere. Ma intanto come siamo, è una dura lotta.
« E mi disse che non sapeva proprio come se la sarebbe cavata, se non fosse stato l’aiuto
datogli dal padre di Giuliana. Il capitano s’era comportato come un angelo mandato dal cielo.
«— Io non dico che sia una persona capace come siete voi, — egli aggiunse. — Non un
uomo dal quale si andrebbe a domandar consiglio, come si verrebbe da voi, ma nonostante tutto,
è una brava persona. E questo mi rammenta, signore, — egli continuò, — la ragione perchè
ora son venuto. Voi direte un’arditezza da parte mia di chiedere... ma...
«Lo interruppi:
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«— Giosia, — dissi, — ammetto d’esser molto da biasimare per ciò che vi è capitato.
Voi mi chiedeste un consiglio, e io ve lo diedi. Non starò qui a discutere su chi di noi due fosse
più idiota. Il fatto sta ch’io ve lo diedi, e io non son tipo da non accettare le mie responsabilità.
Ciò che ragionevolmente vorrete chiedere, e io potrò accordarvi, vi darò.
«Egli si mostrò profondamente commosso.
«— Lo sapevo, signore, — esclamò. — Sapevo che non mi avreste respinto. L’ho detto
ad Anna. Le ho detto: «Andrò da quel signore e glielo domanderò. Andrò da lui e domanderò il
suo consiglio!
— «Il suo che cosa? — esclamai.
— «Il suo consiglio, — ripetè Giosia, a quanto parve sorpreso del mio tono, — su una
bazzecola, intorno alla quale non mi so decidere.
«Sulle prime pensai che tentasse di mostrarsi sarcastico, ma egli non se lo sognava neppure.
E rimase lì ad almanaccare come strapparmi un consiglio sul modo migliore d’investire
un migliaio di dollari che il padre di Giuliana gli aveva offerto di prestargli per la compera
d’una lavanderia o d’uno spaccio di liquori. Dei miei consigli non ne aveva avuti abbastanza; ne
voleva ancora, e mi svolse le ragioni perchè dovevo darglieli. La scelta d’una moglie era una
cosa assolutamente diversa, disse. Su quell’argomento forse aveva avuto torto a chiedere la mia
opinione. Ma un consiglio sul miglior commercio da intraprendere, certo un uomo d’affari poteva
darglielo. Aveva appunto riletto il mio libriccino, «come esser felice» eccetera, e se il signore
che lo aveva scritto non poteva decidere fra i rispettivi meriti d’una speciale lavanderia e
d’uno speciale spaccio di liquori, entrambi siti nella stessa città, bene, allora, non ci sarebbe stato
da concludere altro che in questo mondo la dottrina e la saggezza non hanno effettivamente
alcun valore pratico.
«Bene, sembrava una cosa semplice dare un consiglio a qualcuno. Certo, quanto a una
faccenda di quella specie, io, uomo d’affari di professione, dovevo essere in grado di formarmi
un concetto più esatto che non quella povera zucca di sempliciotto. Sarebbe stata una crudeltà
rifiutarsi di aiutarlo. Promisi di studiar la cosa, e di fargli sapere ciò che pensavo.
«Egli si levò, e mi strinse la mano. Disse che non si provava neppure a ringraziarmi: ogni
termine sarebbe stato inadeguato. Si asciugò in fretta una lagrima, e se n’andò.
«Studiai tanto sull’investimento di quel migliaio di dollari, che tutta la mia somma di
pensieri sarebbe stata sufficiente a mettere in movimento una banca. Non intendevo commettere
un secondo sproposito uso quello di Anna. Studiai le carte lasciatemi da Giosia, ma non tentai
di farmi un’opinione su di esse. Mi recai tranquillamente nella città di Giosia, per rendermi conto
personalmente di tutt’e due le ditte. Feci delle segrete minute inchieste nei due quartieri. Finsi
d’essere un giovane inesperto che aveva raggranellato un po’ di denaro, e cercai
d’accattivarmi la fiducia delle persone di servizio. Parlai con mezza città, col pretesto che stavo
scrivendo la storia commerciale della Nuova Inghilterra, e che mi occorreva qualche particolare
della carriera degli uomini d’affari, e invariabilmente terminavo le mie domande chiedendo
quale fosse in città il miglior spaccio di liquori e quale la lavanderia preferita. Mi trattenni una
quindicina di giorni nella città. La maggior parte del tempo libero lo passai nello spaccio di liquori.
Nei miei momenti d’ozio insudiciai la mia biancheria in modo da poterla mandare alla
lavanderia.
«Quanto al risultato delle mie investigazioni, scopersi che, sulla qualità e la bontà delle
due ditte, non c’era da fare l’ombra d’una differenza. Si trattava soltanto di sapere quale dei due
mestieri convenisse meglio all’Hackett.
«Meditai. Il conduttore d’uno spaccio di liquori è esposto a molte tentazioni. Un uomo
debole, continuamente in mezzo a compagnie di beoni, facilmente può finire col pigliarne il vizio.
Ora, Giosia era eccezionalmente debole. Si doveva anche tener presente che aveva una moglie
borbottona, e che tutta la famiglia di lei abitava con lui. Evidentemente, metter Giosia in un
luogo di facile accesso a una folla illimitata di alcoolici sarebbe stata una follia.
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«D’altra parte, in una lavanderia c’era un senso di maggiore mitezza. Il lavoro d’una lavanderia
ha bisogno di molte mani. I parenti di Anna potevano esservi impiegati, e vi si potevano
guadagnare il loro pane. Anna poteva spendere la sua energia nell’uso del ferro da stirare, e
Giosia poteva girare il mangano. L’idea evocava un piacevole quadro domestico. Raccomandai
la lavanderia.
«Il lunedì seguente, Giosia mi scrisse per dirmi d’averla comprata. Il martedi lessi nelle
notizie commerciali che una delle più notevoli caratteristiche di quel momento era l’incremento
meraviglioso in tutta la Nuova Inghilterra nel valore degli alberghi e degli spacci di liquori. Il
giovedì, nella lista dei fallimenti, m’incontrai nei nomi di non meno quattro proprietari di lavanderie;
e il giornale spiegava la cosa col fatto che l’industria delle lavanderie americane per
la forte concorrenza delle lavanderie cinesi, si reggeva a stento. Uscii e andai ad ubbriacarmi.
«La mia vita divenne una maledizione. Tutti i giorni non facevo che rammentarmi di
Giosia. Tutte le notti lo sognavo. Pensare, che non contento d’essere la cagione della sua infelicità
domestica, lo avevo poi privato dei mezzi di guadagnarsi la vita, rendendo inutile la generosità
di quel buon vecchio capitano di mare! Mi parve d’essere un demonio maligno, che si
fosse messo alle calcagna di quell’inesperto ma degno uomo, per fargli commettere degli spropositi.
«Passò il tempo, però; egli non mi scrisse, non seppi più alcuna notizia di lui, e finii col
non sentir più il peso che mi gravava sulla coscienza.
«Poi, dopo circa un lustro, egli si presentò di bel nuovo.
«Arrivò dietro di me mentre aprivo l’uscio, e mi mise sul braccio la mano tremante. Era
una sera buia, ma un fanale a gas mi mostrò il suo viso. Lo riconobbi nonostante le sue gote
rosse e il velo degli occhi infiammati. Lo afferrai ruvidamente per il braccio, e lo trascinai su
nel mio studio.
«— Sedetevi, — sibilai, — e prima, ditemi tutto.
«Egli si guardava intorno per sceglier la sua sedia preferita. Io comprendevo che se avessi
visto lui e quella sedia una terza volta insieme, avrei commesso qualche cosa di terribile
sulla sedia e su di lui. Gliela strappai di sotto, ed egli cadde a sedere pesantemente sul pavimento
e scoppiò in lagrime. Lo lasciai in terra, e di lì, con molti singulti, mi narrò la sua storia.
«La lavanderia era andata di male in peggio. Era stata costruita una nuova ferrovia, che
aveva alterato tutta la topografia della città. Le ditte e parte dei residenti s’erano gradatamente
trasportati a nord. Il punto dove era situato lo spaccio dei liquori — quello spaccio particolare
che io avevo rifiutato per la lavanderia — era diventato ora il centro commerciale della città.
Colui che lo aveva comprato invece di Giosia lo aveva venduto per un capitale ch’era una fortuna.
S’era scoperto che l’aerea a sud, quella dov’era messa la lavanderia, sorgeva su una palude
ed era in tristissime condizioni igieniche. Le massaie accorte si guardavano bene dal mandare
la biancheria in una contrada simile.
«Erano sopraggiunte altre sventure. Il piccino — il beniamino di Giosia, l’unica speranza
della sua vita — era caduto nella caldaia e s’era lessato. La madre di Anna era stata schiacciata
dal mangano, ed ora non era che una infelice storpia alla quale si doveva accudire giorno e
notte.
«Sotto queste disgrazie accumulate, Giosia aveva cercato una consolazione nei liquori,
ed era diventato un irredimibile ubbriacone. Egli sentiva tanto la sua degradazione, che pianse
disperatamente. Disse che in un luogo allegro come uno spaccio di liquori, egli sarebbe stato
forte e pieno di slancio, ma che nel continuo odore della biancheria bagnata e della lisciva c’era
qualcosa che minava la sua virilità.
«Gli domandai che cosa avesse detto il capitano a tutto questo. Egli scoppiò in un nuovo
pianto, e rispose che il capitano non era più. Questo, aggiunse, gli rammentava quel che n’era
derivato. Quel gran cuore del capitano gli aveva lasciato per testamento cinquemila dollari. Egli
aveva bisogno del mio consiglio sul loro investimento.
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«Il mio primo impulso fu di ammazzarlo senz’altro. E ora vorrei averlo fatto. Mi frenai,
però, e gli offersi la scelta fra l’essere gettato per la finestra o svignarsela per l’uscio senza aggiunger
sillaba.
«Egli rispose che era pronto ad andarsene per la finestra, purchè gli avessi detto se doveva
collocare il denaro nella Compagnia dei Nitrati della terra del Fuego o nella Banca Unione
del Pacifico. La vita per lui non aveva più alcun valore. Tutto ciò che desiderava era di sapere il
suo gruzzoletto messo al sicuro, a vantaggio dei suoi cari, prima di tirare l’ultimo fiato.
«Mi sollecitò di dirgli che ne pensassi dei Nitrati. Risposi che rifiutavo di dir sillaba alcuna
sull’argomento. Dalla mia risposta desunse che non avevo in gran concetto i Nitrati, e annunciò
il suo proposito, quindi, d’investire il denaro nella Banca Unione del Pacifico.
«— Fatelo pure, se vi talenta, — osservai.
«Egli si fermò, e apparve perplesso. Poi sorrise con scaltrezza, e disse che m’aveva
compreso. Ringraziandomi della mia gentilezza, disse che avrebbe portato tutto quel che possedeva,
fino all’ultimo dollaro, nella Compagnia dei Nitrati della terra del Fuego.
«Si levò (con difficoltà) per andarsene. Lo trattenni. Sapevo, con la stessa certezza con
cui la mattina appresso si sarebbe levato il sole, che qualunque banca io gli avessi consigliato, o
che egli persistesse a credere io gli avevo consigliato, sarebbe, presto o tardi, sicuramente fallita.
Mia nonna aveva tutto quel che possedeva nella Compagnia dei Nitrati della Terra del Fuego.
Non potevo vederla cadere in miseria nella sua vecchiaia. Quanto a Giosia, la cosa per lui
era indifferente: in qualunque caso avrebbe sempre perduto il denaro. Lo consigliai d’investirlo
nelle azioni della Banca dell’Unione del Pacifico. E lui così fece.
«La Banca dell’Unione del Pacifico si sostenne per diciotto mesi. Poi cominciò a vacillare.
Il mondo finanziario guardava sbalordito. Era stata sempre una delle banche più solide del
paese. La gente si chiedeva per qual ragione mai si fosse determinato quel disastro. Io lo sapevo,
ma tacqui.
«La Banca lottò valorosamente, ma la mano del destino era su di essa. Alla fine di altri
nove mesi venne il tonfo.
«(I Nitrati, è appena necessario dirlo, erano saliti nel frattempo vertiginosamente. Mia
nonna morì ricca d’un milione di dollari, che lasciò a un istituto di carità. Se avesse saputo che
ero stato io a salvarla dalla rovina, si sarebbe mostrata più grata).
«Pochi giorni dopo il fallimento della Banca, Giosia arrivò sulla mia soglia; e questa
volta conduceva con sè la famiglia, composta di sedici persone.
«Che dovevo fare? Avevo condotto quella gente di gradino in gradino fino all’orlo
dell’inedia. Avevo distrutto parimenti la loro felicità e tutte le loro speranze. Il meno che potessi
fare era di curare che essi non mancassero del pane quotidiano.
«Questo avvenne diciassette anni fa. Provvedo ancora alla prima necessità della loro vita;
e la mia coscienza si fa più tranquilla, vedendo ch’essi son contenti della loro sorte. Son ventidue
ora, e si ha speranza d’un altro per la primavera.
«Questa è la mia storia», — disse. — Forse comprenderete la ragione del mio contegno
nel momento che mi avete domandato consiglio. Il fatto sta che ora non dò più consigli di sorta
su nessuna materia».
Raccontai questa storia a MacShaughnassy. La disse molto istruttiva, e si propose di non
farsela uscir di mente. L’avrebbe narrata a certe persone ch’egli conosceva e alle quali, credeva,
sarebbe stata utilissima.
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CAPITOLO II.
Non posso onestamente dire che facessimo molti progressi nella nostra prima riunione.
Per colpa di Brown, il quale cominciò a narrarci la storiella d’un cane. Era la vecchia, vecchissima
storiella del cane che aveva l’abitudine di recarsi tutte le mattine nella bottega d’un fornaio
con due soldi in bocca, per ricevervi in cambio una pagnotta da due soldi. Un giorno il fornaio,
credendo che non si sarebbe accorto della differenza, tentò di truffare la povera bestia
dandole un panino da un soldo; ma il cane corse dritto fuori a chiamare una guardia. Brown aveva
sentito questa rancida storiella la prima volta in quel pomeriggio, e n’era tutto infervorato.
Per me è sempre un mistero il luogo dove Brown si sia trattenuto negli ultimi cento anni. Egli si
ferma in mezzo alla strada con un: «Oh, ti debbo raccontare una cosa magnifica!» Ed ecco che
comincia a spacciarti, con molto spirito e molto garbo, una delle migliori spiritosaggini note dal
tempo dell’arca di Noè, o qualche storiella che Romolo dovè raccontare originalmente a Remo.
Uno di questi giorni qualcuno gli racconterà la storia di Adamo ed Eva, e lui crederà di avere in
mano una trama nuova, e v’imbastirà su un romanzo.
Egli spaccia queste muffite anticaglie come reminiscenze sue personali, o, almeno, come
episodi della vita del suo secondo cugino. Vi sono certe strane e commoventi catastrofi che
son sempre capitate o osservate da chiunque ve le racconta. Io non ho ancora incontrato una
persona, che non abbia visto qualche passeggero sbalzato dall’imperiale d’un omnibus in un
carro d’immondizie. Mezza Londra dev’esser stata, una volta o l’altra, scagliata dalla vetta d’un
omnibus in un carro d’immondizie, per esserne pescata con una pala.
Poi v’è la storia di quella signora, al cui marito prende improvvisamente male in un albergo.
Ella corre da basso a preparare un empiastro di senapa per applicarglielo, e torna su, nella
massima fretta. In quell’eccitazione, però, infila un’altra stanza, e, scoprendo le coltri, lo applica
amorevolmente a un altro uomo. Ho udito narrare questa storiella tante volte che ora,
quando mi occorre di dormire in un albergo, mi metto a letto con una certa nervosità. Tutti
quelli che me l’hanno raccontata avevano dormito infallantemente nella camera attigua a quella
della vittima ed erano stati svegliati dagli urli dell’uomo al quale veniva applicato l’empiastro.
Così lui (quello che narra la storiella) è stato messo in grado di saperla.
Brown voleva farci credere che l’animale preistorico, sul quale ci aveva intrattenuto,
appartenesse a suo cognato, e si offese quando Jephson mormorò che era la ventottesima persona
che gli raccontava d’avere un cognato che possedeva quel cane — per tacere delle centoventisette
che lo avevano posseduto direttamente.
Dopo, tentammo di metterci a lavorare, — ma Brown per quella sera ci aveva squinternati.
È malvagio cominciare a raccontar storie di cani fra una compagnia di persone che peccano
della stessa colpa. Se uno dice la storia d’un cane, tutti gli altri sentono la necessità di dirne
una più grossa.
Corre l’aneddoto — non lo garantisco, ma mi fu narrato da un giudice — di un tale che
giaceva moribondo. Il pastore della parrocchia, un pio e brav’uomo, gli stava al capezzale, e
pensando di rallegrarlo, gli narrò la storia d’un cane. Dopo che il pastore ebbe finito, il malato
si levò a sedere sul letto e disse: «Ne so una migliore. Avevo un cane una volta, grosso, fulvo,
con le orecchie...».
Lo sforzo era stato troppo violento. Egli ricadde sui guanciali, e il dottore, visitandolo,
comprese che non avrebbe durato che altri pochi minuti.
Il buon vecchio pastore si levò, prese la mano del povero moribondo nelle sue, gliela
strinse: «C’incontreremo di nuovo», disse gentilmente.
22
Il malato si volse verso di lui con uno sguardo grato e consolato: «Son lieto di sentirvi
dir così», mormorò debolmente. — Rammentatemi di quel cane.» E spirò tranquillamente, con
un dolce sorriso sulle pallide labbra.
Brown, che aveva narrata la sua storia canina ed era soddisfatto, voleva che ci mettessimo
a pensare alla nostra eroina; ma noi altri, proprio in quel momento, non ci sentivamo pari al
nostro compito. Pensavamo a tutte le periodiche storie di cani udite narrare, domandandoci quale
sarebbe stata più facilmente creduta.
MacShaughnassy, particolarmente, stava diventando ogni momento più irrequieto e pensoso,
Brown concluse un lungo discorso, che nessuno aveva ascoltato, osservando con qualche
orgoglio: — Che volete di più? La trama non è stata mai usata altre volte, e i personaggi sono
assolutamente originali.
Allora MacShaughnassy non potè più resistere:
— A proposito di trame, — disse, avvicinando un po’ più la sedia al tavolino, — ora mi
ricordo. Vi ho raccontato mai di quel cane che avevamo quando stavamo a Norwood?
— Non si tratta di quel mastino? — chiese Jephson, ansioso.
— Sì, si tratta di quel mastino, — ammise MacShaughnassy, — ma credo di non averla
raccontata mai.
Sapevamo per esperienza che discutere quel particolare sarebbe stato prolungare la tortura,
e così lo lasciammo dire.
— Erano accaduti molti furti nel nostro vicinato, — egli cominciò, — e papà venne alla
conclusione che fosse ora di tenere un cane. Pensando che un mastino sarebbe stato adatto,
comprò l’esemplare d’aspetto più selvaggio e terribile che potè trovare.
«La mamma, vedendolo, ne rimase atterrita.
«— Non mi lascerai questa bestia sciolta per casa! — esclamò. — Ucciderà qualcuno.
Basta guardarla.
«— Voglio appunto che uccida qualcuno, — rispose mio padre; — voglio che uccida i
ladri.
«— Non mi piace di sentirti parlar così, Tommaso, — rispose la mamma, — non mi pare
neanche che sii tu. Noi abbiamo il diritto di proteggere la nostra proprietà; ma non quello di
togliere la vita a una creatura umana.
«— Le creature umane nessuno le tocca finchè non vengono nella nostra cucina, dove
non hanno nulla da fare, — ribattè papà, con qualche ostinazione. — Io metterò questo cane
nella retro-cucina, e se mai a un ladro salta il grillo di farsi vedere qua attorno... bene, ci penserà
lui!
«I due vecchi ebbero a bisticciarsi per circa un mese intorno al cane. Papà pensava che
la mamma fosse scioccamente sentimentale, e la mamma pensava che papà fosse crudele senza
necessità. Intanto il cane diventava d’aspetto sempre più feroce.
«Una notte mia madre svegliò mio padre con un: — Tommaso, un ladro da basso, ne
son certa. Ho udito distintamente aprirsi la porta della cucina.
«— Bene, allora ci penserà il cane, — mormorò mio padre, che non aveva udito nulla,
ed era assonnato.
«— Tommaso, — rispose mia madre, severa, — io non ho intenzione di star qui mentre
quella bestia selvaggia ammazza un nostro simile. Se non vuoi andar tu da basso, ci andrò io.
«— Che seccatura! — disse mio padre, preparandosi ad alzarsi. — Tu immagini sempre
di sentir dei rumori. Io credo che tutte le donne si corichino per... sedersi sul letto e star a sentire
i ladri. — Per farla contenta, però, si mise le calze e i calzoni, e andò da basso.
«Bene, mia madre aveva proprio ragione quella volta. C’era un ladro in casa. La finestra
della dispensa era aperta, e una candela ardeva nella cucina. Mio padre avanzò in punta di piedi,
e s’affacciò alla porta semiaperta. Il ladro occupava una sedia, mangiava del manzo freddo coi
sottaceti, e lì, accanto a lui, seduto sul pavimento e fissandolo in faccia con un sorriso
d’affezione che faceva gelare il sangue, quell’idiota di cane dimenava la coda.
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«Mio padre fu così stupito che dimenticò di star zitto, ed uscì in un’esclamazione che
non si potrebbe ripetere fra persone per bene.
«Il ladro, sentendola, fece un balzo, e se la svignò per la finestra; e il cane parve seccato
che mio padre avesse fatto fuggire il ladro.
«La mattina dopo riportammo il cane all’allevatore che ce lo aveva venduto.
«— Perchè credete che io avessi bisogno d’un cane? — chiese mio padre, cercando di
mantenersi calmo.
«— Bene, — rispose l’allevatore, — non mi domandaste un buon cane per la casa?
«— Sì, — rispose papà, — ma vi domandai forse di darmi l’amico d’un ladro? Non vi
dissi di darmi un cane che facesse lega con un ladro appena entrato in casa, e gli facesse compagnia
mentre cenava. — E mio padre raccontò gl’incidenti della notte innanzi.
«L’allevatore convenne che la protesta era ragionevole. — Vi dirò perchè, signore, —
disse. — È stato il mio garzone ad ammaestrarlo, e si vede che quell’idiota gli ha insegnato più
ad acchiappare i topi che i ladri. Lasciatelo con me una settimana, signore, e sarà ammaestrato a
dovere.
«Così fu fatto e alla fine del termine l’allevatore ce lo riportò.
«— È diverso, ora, signore, — egli ci disse. — Non direi che ora sia un cane intellettuale,
ma l’idea giusta l’ha capita.
«Mio padre credè saggio fare un esperimento. Fu noleggiato per uno scellino un uomo
che doveva entrare per la finestra della cucina mentre l’allevatore teneva il cane a catena. Il cane
rimase perfettamente tranquillo finchè l’uomo non si trovò nell’interno. Poi gli s’avventò
contro selvaggiamente, e se la catena non fosse stata robusta, quel povero diavolo avrebbe guadagnato
lo scellino a troppo caro prezzo.
«Papà fu soddisfatto di potere andare a letto in pace; e lo sgomento della mamma per
l’incolumità dei ladri del luogo aumentò in proporzione.
«Passarono dei mesi senza che accadesse nulla, e poi un altro ladro prese di mira casa
nostra. Questa volta non c’era dubbio che il cane facesse il suo dovere. Il trambusto da basso
era tremendo. La casa era scossa da tonfi di corpi che cadevano.
«Mio padre diede di piano alla rivoltella e si precipitò di corsa da basso. Io lo seguii. La
cucina era tutta una confusione. Tavole e sedie erano rovesciate, e sul pavimento c’era un uomo
che invocava rantolando aiuto. Il cane gli stava addosso soffocandolo.
«Papà puntò la rivoltella all’orecchio dell’uomo, mentre io, con uno sforzo sovrumano,
trascinavo lontano il nostro salvatore, e lo incatenavo all’acquaio, dopo aver acceso il gas.
«Allora vedemmo che l’uomo sul pavimento era una guardia.
«— Santo cielo! — esclamò mio padre, lasciando cadere la rivoltella, — come ti trovi
qui?
«— Come mi trovo qui? — ribattè l’uomo, sedendosi e parlando in tono di amara, ma
naturale, indignazione. — Mi trovo qui per il mio dovere. Veggo un ladro entrare per la finestra,
e io lo seguo e me gl’infilo dietro.
«— L’avete acchiappato? — chiese mio padre.
«— Acchiappato! — strillò la guardia. — Come potevo acchiapparlo se quel maledetto
cane m’ha preso alla gola, mentre il ladro se la svignava per la porta?
«Il giorno dopo il cane fu messo in vendita. La mamma, che aveva cominciato a volergli
bene, perchè si lasciava tirar la coda dal mio fratellino, voleva tenerlo. L’errore non era colpa
dell’animale — essa disse. — Due uomini erano entrati in casa nello stesso tempo. Il cane non
poteva pigliarli tutti e due. Aveva fatto quel che poteva, scagliandosi su uno. Era stata una disgrazia
che avesse scelto proprio la guardia. Ma era una cosa che poteva accadere a qualunque
cane.
«Mio padre, però, aveva concepito qualche pregiudizio contro quella povera bestia, e
quella stessa settimana inserì un annuncio in un giornale, raccomandandola come un buon acquisto
per qualsiasi individuo intraprendente della classe dei delinquenti».
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Dopo che MacShaughnassy ebbe detta la sua, venne la volta di Jephson, che ci narrò la
patetica storia di un disgraziato volpino che un giorno fu investito da un veicolo nella Strand e
s’ebbe una gamba rotta. Uno studente di medicina, che si trovava a passare in quel momento, lo
riconobbe e lo portò all’Ospedale di Charing Cross, dove gli fu messa a posto la gamba e dove
fu tenuto finchè non fu completamente risanato e mandato via.
Il povero animale aveva compreso perfettamente ciò che gli era stato fatto, e s’era mostrato
l’infermo più grato che fosse stato mai ricoverato nell’Ospedale. Tutti i sanitari s’erano
mostrati dolenti quando se n’era andato.
Una mattina, un paio di settimane dopo, il chirurgo capo dell’Ospedale, stando alla finestra,
vide il cane dirigersi a quella volta. Come s’avvicinò un po’ più, il medico gli scorse un
soldone in bocca. Un carretto di rivendugliolo stava accanto al marciapiede, e, per un momento,
il cane esitò. Ma la sua natura più intima e più nobile prese il sopravvento, e, fattosi presso la
cancellata dell’Ospedale, e levandosi sulle gambe di dietro, fece cadere il soldone nella cassetta
delle oblazioni.
MacShaughnassy fu molto commosso da questo racconto, che mostrava, disse, un bel
tratto nel carattere del cane. L’animale era un povero essere proscritto ed errabondo, che forse
fino a quel momento non aveva mai posseduto due soldi, e non ne avrebbe mai posseduti altri.
Quei due soldi del cane gli parevano un dono molto più grande della più ricca e generosa oblazione
che il più possente benefattore avesse mai sottoscritto.
Gli altri ora erano molto impazienti di mettersi a lavorare al romanzo; ma a me non
sembrava affatto giusto. Anch’io avevo un paio di storielle di cani.
Qualche anno prima avevo conosciuto un terrier nero e caffè che alloggiava nella stessa
casa con me. Non apparteneva a nessuno degl’inquilini. Aveva licenziato il padrone (se, veramente,
s’era mai permesso di possederne uno, il che è dubbio, se si tien conto del suo carattere
assolutamente indipendente) ed era rimasto interamente in balia di sè stesso. Aveva fatto del
vestibolo il suo dormitorio, e faceva i suoi pasti con gli altri inquilini — tutte le volte che essi
avevano qualcosa da mangiare.
Alle cinque godeva uno spuntino molto mattiniero col piccolo Hollis, garzone d’un
meccanico, il quale si levava alle quattro e mezzo e si faceva il caffè, per trovarsi all’officina
alle sei. Alle otto e mezzo poi faceva una colazione più sostanziosa col signor Blair, al primo
piano, e talvolta aiutava Jack Gadbut, che si alzava tardi, a spacciare un piatto di rognone soffritto.
Da quell’istante fin verso le cinque, in cui io bevevo una tazza di tè con una costoletta, il
cane spariva regolarmente. Dove se n’andasse e che facesse in quelle ore nessuno seppe mai.
Gadbut giurava d’averlo incontrato due volte mentre usciva dall’ufficio d’un banchiere
di Threadneedle Street, e, per quanto potesse apparire in principio improbabile, la cosa parve
avere qualche colore di verità, per la gran passione che il cane aveva di possedere e ammucchiare
monete di rame.
La sua brama di ricchezza era variamente notevole. Esso era un cane attempato, con un
gran sentimento della propria dignità; pure, alla promessa d’un soldo, io lo vedevo girare dietro
la propria coda da non sapere più dove finiva lui e dove cominciava la coda.
Soleva far dei giuochi, e passare da una stanza all’altra, la sera ad eseguirli, e dopo aver
esaurito il suo programma, si piantava ritto sulle gambe e aspettava. Tutti solevano secondarlo,
e lui, nel corso d’un anno, doveva aver raccolto delle sterline.
Una volta, proprio al di fuori della nostra porta, lo vidi in una folla osservare un barboncino,
che faceva dei giuochi al suono d’una ghironda. Il barboncino si piantava sulla testa, e
poi, con le gambe posteriori in aria, faceva un giro sulle gambe di dietro. La gente rideva divertita,
e dopo che il barboncino si presentava col piattello di legno in bocca, dava generosamente
l’obolo.
Il nostro cane si mise immediatamente a studiare. Dopo tre giorni poteva piantarsi sulla
testa e fare un giro sulle gambe anteriori, e la prima sera raccolse dodici soldi. Dovè essere
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un’impresa molto ardua, all’età sua, tutto reumatizzato com’era. Ma credo che si sarebbe venduto
al diavolo per l’offerta immediata di qualche quattrino.
Esso sapeva il valore del denaro. Se gli mostravate un soldone in una mano e un ventino
nell’altra, addentava il ventino, e poi si sentiva spaccare il cuore perchè non poteva avere anche
il soldone. Si sarebbe potuto lasciarlo sicuramente in una stanza con una coscia di castrato; ma
non sarebbe stato prudente lasciarlo presso un borsellino.
Di tanto in tanto spendeva un po’, ma non spesso. Era appassionatissimo delle paste
dolci, e talvolta, quando la settimana era stata redditizia, arrivava fino a concedersene un paio.
Ma gli dispiaceva pagare, e si sforzava sempre con molta energia, e spesso gli riusciva, di andarsene
con la pasta e insieme col soldone. Il suo piano di operazione era semplice. Entrava nella
pasticceria col soldone in bocca messo bene in mostra e con una mite, dolce espressione negli
occhi. Prendendo posto accanto alle paste, il più che possibile da presso, vi piantava sopra affettuosamente
gli occhi, e cominciava a mugolare. Il pasticciere, credendo d’avere a fare con un
cane onesto, gliene gettava una.
Per addentar la pasta, il cane era obbligato, naturalmente, a lasciar cadere la moneta di
due soldi; e allora cominciava una lotta fra lui e il pasticciere per il possesso del denaro.
L’uomo tentava di raccoglierlo; il cane si piantava su le zampe e digrignava terribilmente i denti.
Se poteva ingoiare la pasta prima che finisse la lotta, addentava la moneta e se la dava a
gambe. So che a volte tornava a casa ingozzato di paste, col soldone originale ancora in bocca.
E in tutto il vicinato divenne così nota la sua attività truffaldina, che, dopo un poco, la
maggioranza dei pasticcieri e dei fornai, rifiutarono assolutamente di servirlo. Soltanto quelli
eccezionalmente agili e forti tentavano di aver da fare con lui.
Allora esso andò a far spesa altrove, in contrade dove la sua fama non era ancora arrivata?
E sceglieva delle botteghe condotte da donne paurose e da vecchi pieni di acciacchi.
Si dice che l’amore del danaro sia la radice d’ogni male. Sembrava che in lui avesse
cancellato ogni ombra di principio. Gli tolse infine la vita, e avvenne così. Aveva eseguito una
sera dei giuochi nella stanza di Gadbut, dov’eravamo raccolti fra amici a fumare e a conversare;
e il piccolo Hollis, essendo in vena di generosità, gli aveva gettato, come in principio ritenne,
un ventino. Il cane lo addentò e si rifugiò sotto il canapè. Era un tratto strano per il cane e lo
commentammo. Improvvisamente Hollis ebbe un sospetto, e cavò di tasca il denaro e cominciò
a contare.
— Per Giove, — esclamò — ho dato al cane una monetina d’oro... qui, Tiny!
Ma Tiny continuò a starsene sotto il canapè, e nessun invito verbale riuscì a smuoverlo.
Così adottammo un mezzo più persuasivo, e lo tirammo fuori per la collottola.
Fu tratto fuori a un pollice per volta, chè digrignava paurosamente i denti, tenendosi
stretta la monetina di Hollis. Tentammo in principio con le buone. Gli offrimmo un ventino in
baratto; lui assunse un’aria offesa, ed evidentemente considerò la proposta come equivalente a
una patente d’imbecillità. Arrivammo a una lira, a uno scudo... ma ci parve soltanto seccato dalla
nostra ostinazione.
— Credo, Hollis, che non vedrai mai più quelle dieci lire, — disse Gadbut, ridendo. Tutti
quanti noi, consideravamo la faccenda come un magnifico scherzo; ma il piccolo Hollis era
molto seccato, e, prendendo il cane dalle mani di Gadbut, fece il tentativo di tirargli la moneta
di bocca.
Tiny, fedele al principio a lungo professato, di non dividersi mai da ciò che poteva conservare,
resistè con disperata energia, finchè, sentendo che il suo piccolo guadagno si allontanava
pianamente, ma sicuramente da lui, fece un ultimo disperato sforzo e inghiottì la moneta. Ma
questa gli si fermò in gola, ed esso cominciò a soffocare.
Allora noi ci facemmo vivamente ansiosi per il cane. Era una bestia divertente, e ci avrebbe
addolorato perderla. Hollis si precipitò nella sua stanza a pigliare un lungo paio di pinzette.
Noi tenemmo il piccolo infelice, mentre Hollis tentava di togliergli la causa della sua sofferenza.
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Ma il povero Tiny non comprese le nostre intenzioni. Credeva ancora che noi cercassimo
di privarlo dell’acquisto di quella sera, e resistè violentemente. I suoi sforzi fissarono più
saldamente la moneta, e nonostante ogni nostro tentativo, spirò — altra vittima, fra tante, della
triste follia per l’oro.
Una volta intorno alle ricchezze feci un sogno curiosissimo, che mi fece una grande impressione.
Mi sembrava che io e un amico — un curiosissimo amico — abitassimo insieme in
una strana vecchia casa. Credo che, salvo noi due, nessun altro abitasse nella stessa casa. Un
giorno, aggirandomi per quegli strani e sconnessi appartamenti, scopersi l’uscio segreto d’una
stanza nascosta, e nella stessa stanza molti scrigni fasciati di ferro. Sollevando i pesanti coperchi,
vidi che tutti gli scrigni erano colmi d’oro.
Quando ebbi visto ciò, uscii pian piano e chiusi l’uscio segreto, coprendolo poi con la
logora tenda ch’era davanti. M’allontanai per l’oscuro corridoio, voltandomi timorosamente.
E l’amico che io avevo amato mi venne incontro, e noi camminammo insieme, tenendoci
per mano. Ma io lo odiavo.
E tutta la giornata io me ne stetti accanto a lui, o lo seguii inosservato, per tema ch’egli,
chi sa, non apprendesse il segreto di quell’uscio; e la notte io stavo con gli occhi aperti a sorvegliarlo.
Ma una notte m’addormentai, e, quando, apersi gli occhi non lo vidi più vicino a me.
Corsi rapidamente su per l’angusta scala e lungo il corridoio silenzioso. La tenda è tirata da parte,
e l’uscio nascosto è aperto, e nella stanza l’amico che io amavo è inginocchiato innanzi a
uno scrigno aperto, e lo scintillio dell’oro mi ferisce gli occhi.
Egli mi volta la schiena, e io avanzo pian piano, trattenendo il respiro. Ho un coltello in
mano con una forte lama ricurva; e appena son presso all’amico, lo uccido lì inginocchiato.
Il suo corpo cade contro l’uscio, che si chiude con un tonfo. Tento di aprirlo, ma non
posso. Batto le mani contro i chiodi di ferro, e mi metto a gridare e il morto mi guarda con un
orribile ghigno. La luce filtra per lo spazio sotto la porta massiccia, e scompare, e ritorna e
scompare di nuovo, e io rosicchio i coperchi degli scrigni ferrati, perchè la follia della fame mi
sale al cervello.
Poi mi sveglio, e trovo che realmente ho fame, e mi rammento che la sera innanzi per il
mal di testa non ho mangiato. Così indosso qualche indumento, e corro in cucina a mangiar un
boccone.
Si dice che i sogni siano momentanee conglomerazioni di pensieri, che si concentrano
intorno all’incidente che ci sveglia, e questo, come è provato da molti fatti scientifici, talvolta è
vero. V’è un sogno, che, con molte leggere variazioni, mi si presenta continuamente. Molte e
molte volte mi sembra d’essere a un tratto chiamato a rappresentare una parte importante in
qualche lavoro del Lyceum. Che il povero Irving debba invariabilmente esser la vittima di questo
sogno mi sembra ingiusto; ma veramente la colpa è interamente sua. È lui che mi persuade e
mi sollecita. Quanto a me, io preferirei di rimanermene tranquillamente a letto, e glielo dico.
Ma egli insiste per farmi levar subito e correre a teatro. Gli spiego che non so affatto l’arte di
rappresentare. Per lui questo è un particolare poco importante e me lo dice: «Meglio, meglio».
Discutiamo un po’, ma la faccenda diventa personale, e io per fargli piacere acconsento, benchè
a malincuore. In generale rappresento il personaggio in camicia da notte, sebbene una volta per
Banco indossassi il pigiama; e non ricordo mai una sillaba di ciò che dovrei dire. Come arrivo
fino alla fine non so. Irving viene dopo a farmi le sue congratulazioni, non so se per lo splendore
della mia rappresentazione o se per la fortuna che ho d’andarmene dal palcoscenico senza essermi
preso un mattone nella schiena.
Tutte le volte che sogno questo incidente mi sveglio invariabilmente per trovare che le
coltri sono sul pavimento e io sono assiderato; ed è quell’assideramento, immagino, che mi fa
vagare per il palcoscenico del Lyceum in nient’altro che in camicia da notte. Ma però non comprendo
perchè io debba trovarmi sempre nel Lyceum.
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Un altro sogno che io immagino d’aver sognato più di una volta, — o, se mai, ho sognato
d’aver già sognato, il che talvolta accade — è di camminare in un’amplissima e lunghissima
strada dell’estremità orientale di Londra. È strano trovar là una strada simile. Passano e ripassano
su e giù omnibus e tram ed è tutta una folla di banchi e carretti a mano, accanto ai quali gridano
dei rivenditori dai berretti sudici, ma sull’uno e sull’altro lato c’è un lembo di foresta tropicale.
La strada, infatti, riunisce i vantaggi di Kew e Whitechapel.
Qualcuno è con me, ma io non posso vederlo, e noi camminiamo a traverso la foresta
aprendoci il varco fra l’intrico delle liane che ci s’allacciano ai piedi, e di tanto in tanto, fra i
tronchi giganteschi degli alberi, godiamo la vista della strada affollata.
All’estremità di questa strada si presenta un gomito angusto, e quando ci arrivo ho paura,
benchè non sappia di che. Esso conduce a una casa dove abitai una volta bambino, e ora mi
aspetta colà qualcuno che ha qualcosa da dirmi.
Mi volto per fuggire. Passa un omnibus di Blackwall, e tento di raggiungerlo. Ma i cavalli
diventano scheletri e s’allontanano a galoppo, e i piedi mi diventano di piombo, e l’ombra
che è con me e che io non posso vedere, mi afferra per il braccio e mi trascina indietro.
Mi trascina fin nella casa, e la porta si chiude con un tonfo alle nostre spalle, echeggiando
lungamente a traverso le stanze deserte. Riconosco le stanze: ho pianto e riso in esse lungo
tempo fa. Nulla vi è mutato. Le sedie stanno al loro posto, vuote. Il lavoro a maglia di mia madre
giace sul tappeto, dove il micino, ricordo, l’aveva trascinato, molti e molti anni fa.
Io salgo in soffitta nella mia cameretta. Il mio letticciolo sta nell’angolo, e i pezzi di
mattone e i sassolini coi quali giocavo (ero sempre un ragazzo disordinato) sono ammuchiati
sul pavimento. Entra un vecchio — un vecchio curvo e rugoso — con una lampada alta sulla
testa, e io lo guardo nel viso, che è il mio stesso viso. Ed entra un altro, che ha anche lui il mio
stesso viso. Poi altri e altri, finchè la stanza e la scala e tutta la casa silenziosa si gremiscono di
visi. Alcuni giovani, altri vecchi, alcuni belli che mi sorridono, e molti altri repugnanti che mi
guardano biechi. E tutti quanti sono il mio stesso viso, ma neppur due si rassomigliano.
Non so perchè l’immagine di me stesso debba inpaurirmi tanto, ma io mi precipito fuor
della casa atterrito, e i visi mi seguono; e corro sempre più veloce, pur sapendo che non me ne
libererò mai.
Generalmente si è sempre l’eroe dei propri sogni, ma talvolta ho sognato un sogno tutto
in terza persona — un sogno i cui incidenti non erano in altra relazione con me, che quella di
spettatore inosservato e indiferente. Ho meditato spesso intorno a un sogno di questa specie,
domandandomi se non si potesse cavarne un romanzo; ma forse l’argomento sarebbe stato troppo
doloroso.
Sogno di vedere un viso di donna tra una folla. È un viso perverso, ma pure improntato
d’una strana bellezza. La luce vacillante dei fanali lo illumina, mostrando la maraviglia della
sua perversa bellezza. Poi i fanali si spengono.
Veggo quindi quel viso in un luogo molto lontano, ed è anche più bello di prima, perchè
la perversità s’è dileguata. Un altro viso lo scruta, un viso puro e lucente. I due visi s’incontrano
e si baciano, e, come le labbra di lui toccano le labbra della donna, il sangue le sale alle guance
e alla fronte. Veggo di nuovo i due visi. Ma non so dire dove si trovino o quanto tempo sia passato.
Quello dell’uomo si è fatto un po’ più vecchio; ma quello della donna è ancora giovane e
bello, e quando gli occhi di lei si posano su quello dell’uomo, appare nel viso femminile uno
splendore ch’è come una gloria angelica. Ma a volte la donna è sola, e poi veggo lo sguardo
perverso riapparire.
Poi veggo più chiaramente. Veggo la stanza nella quale i due abitano. Un vecchio pianoforte
è confinato in un angolo, e accanto c’è un tavolino sul quale, intorno a un calamaio, giace
sparso un mucchio di carte che s’è rovesciato. Una sedia vuota aspetta innanzi alla tavola. La
donna siede nel vano della finestra aperta.
Giù lontano sale il rumore confuso d’una grande città; i cui deboli barlumi entrano nella
stanza buia. L’odore delle strade arriva alle nari della donna.
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Di tanto in tanto ella guarda verso la porta e ascolta; poi si volta alla finestra aperta. E
osservo che ogni volta che guarda verso la porta la perversità del viso si dilegua; ma quando si
volge alla finestra si fa più cupa e torva.
A un tratto ella sobbalza e v’è un terrore nei suoi occhi che nel sogno mi spaventa, e le
veggo delle grosse gocce di sudore in fronte. Poi, pian piano, quel viso muta e io riveggo la
pensosa creatura della notte. Ella si avvolge in un vecchio mantello, ed esce silenziosa. Odo i
suoi passi allontanarsi giù per le scale. Diventano sempre più feltrati. Sento una porta che si apre.
Il brusio delle strade si precipita nella casa, e i passi della donna sono a un tratto soverchiati.
Il tempo precipita attraverso il mio sogno. Cambiano scene, prendon forma e si cancellano;
tutto è vago e indefinito, finchè, fuor della penombra, ecco profilarsi una lunga via deserta.
La luce disegna dei cerchi scintillanti sul marciapiede umido. Una figura in vesti sfarzose
passa tenendosi stretta al muro. Non posso vederla perchè mi volge le spalle. Un’altra figura
emerge dall’ombra. La guardo in viso, ed è lo stesso viso che gli occhi della donna fissarono e
adorarono lungo tempo fa, all’inizio del mio sogno. Ma la bellezza e la purezza sono scomparse,
ed è vecchio e perverso, come quello della donna l’ultima volta che lo vidi. La figura in vesti
sfarzose continua a muoversi pian piano. La seconda figura la segue e la raggiunge. Si fermano
e si parlano. La via è molto buia dove si sono incontrate, e la figura nelle vesti sfarzose
mi volta ancora le spalle. Si mettono a camminare insieme, e arrivan sotto una lampada sfavillante
sospesa innanzi a una bettola, e lì la donna si volge, e veggo che è la donna del mio sogno.
E lei e l’uomo si guardano negli occhi ancora una volta.
In un altro sogno ricordo che un angelo (o un diavolo, non so bene) si presenta a un uomo
e gli dice che finchè non amerà nessun essere umano, finchè non si lascerà prendere da impulsi
di tenerezza per la moglie o per il figlio, per conoscenti o parenti, per stranieri o per amici,
egli riuscirà a prosperare negli affari, che andranno a gonfie vele, e diventerà sempre più ricco,
più grande e più potente. Ma se mai lascerà che gli entri nel cuore un gentile pensiero per un essere
vivente, capitomboleranno e sprofonderanno in quel momento tutti i suoi progetti e tutti i
suoi disegni, e da quell’ora il suo nome sarà disprezzato dagli uomini e poi dimenticato.
E l’uomo, ch’è ambizioso, e al quale le più dolci cose di questo mondo son la ricchezza,
la fama e la potenza, fa tesoro di quelle parole. Una donna lo ama e muore assetata di un suo
amorevole sguardo: passi di bambini gli risonano intorno e si dileguano, i vecchi visi scompaiono
e dei nuovi vanno e vengono.
Ma non mai un tocco affettuoso della sua mano si posa su un essere vivente; non mai le
sue labbra pronunziano una parola affettuosa; non mai un pensiero affettuoso gli sgorga dal
cuore. E in tutte le sue imprese la fortuna lo asseconda.
Gli anni passano, e finalmente non c’è che un’unica cosa ch’egli abbia occasione di temere;
il piccolo malinconico viso d’una bambina. La bambina lo ama, come lo amava la donna
lungo tempo fa, e lo segue con uno sguardo supplice e ansioso. Ma egli digrigna i denti e le volta
le spalle.
Il visino si fa sottile, e un giorno si corre da lui mentre se ne sta innanzi alla tastiera delle
sue molteplici imprese, a dirgli che la bambina è moribonda. Egli va e si mette ritto accanto
al letto, e gli occhi della bambina si aprono e si volgono verso di lui, e mentre egli s’avvicina, le
braccia della bambina gli si stendono incontro supplicandolo in silenzio. Ma il viso dell’uomo
non cambia mai, e le piccole braccia ricadono inerti sulla coperta scomposta, e gli occhi malinconici
diventano fermi, e una donna si avvicina pianamente a chiuderli, poi l’uomo se ne torna
ai suoi progetti e ai suoi disegni.
Ma, la notte, che il gran palazzo è silenzioso, egli torna furtivamente nella camera dove
la bambina ancora giace, e solleva il lenzuolo candido.
— Morta.... morta, — egli mormora. Poi si piglia in braccio il cadaverino, e se lo tiene
stretto al petto, e ne bacia le labbra gelide, le guance gelide e le manine gelide e rigide.
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E a questo punto la mia storia diventa impossibile, perchè sogno che la fanciulla morta
giaccia sempre sotto il lenzuolo in quella camera tranquilla, e che il visino non muti mai e che
le membra non si corrompano.
Rimango perplesso per un istante; ma poi non mi meraviglio più; perchè quando la fata
del sogno ci narra delle fiabe, noi non siamo che bambini seduti in giro con gli occhi aperti,
bambini che credono a tutto, anche se si domanda come mai accadano simili cose.
Ogni notte, nell’ora che tutti nel palazzo dormono, si apre senza rumore la porta di quella
camera, e l’uomo entra chiudendosela alle spalle. Ogni notte solleva il lenzuolo candido, e si
prende il cadaverino in braccio; e nelle ore buie passeggia lentamente su e giù, tenendoselo
stretto contro il petto, baciandolo e vagheggiandolo, come una madre il bimbo assonnato.
Quando il primo raggio di luce filtra nella camera, egli riadagia sul letto la bambina
morta, la ricopre col lenzuolo e va via.
E riesce a prosperare in tutte le sue cose, e ogni giorno diventa più ricco, più grande e
più potente.
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CAPITOLO III.
La nostra eroina ci diede molto da fare. Brown voleva che fosse brutta. La principale
ambizione di Brown è d’essere originale, e il suo metodo di ottenere l’originale è di prendere il
normale e rovesciarlo. Se a Brown fosse dato un pianeta per farvi ciò che gli piacesse, egli
chiamerebbe giorno la notte ed estate l’inverno. Farebbe camminare gli uomini e le donne a testa
in giù e con le gambe in aria e si dovrebbero stringere la mano coi piedi, gli alberi crescerebbero
con le radici in su, e il gallo farebbe tutte le uova, mentre le galline starebbero appollaiate
sullo steccato a fare chicchirichì. Poi egli ritornerebbe indietro a dire: «Vedete che mondo
originale ho creato, tutto farina del mio sacco».
V’è molta altra gente, oltre a Brown, con la stessa precisa idea dell’originalità.
Conosco una bambina, discendente di una lunga schiatta di uomini politici. L’istinto ereditario
è così fortemente sviluppato in lei, che ella è quasi incapace di pensare da sè. Infatti,
copia in ogni cosa la sorella maggiore, che ha preso più della madre. Se la sorella ha due porzioni
di budino per cena, anche lei si piglia due porzioni di budino. Se la sorella non ha fame e
non vuole assolutamente cenare, anche lei va a letto senza cena.
Questa mancanza di carattere nella bambina turba la madre, che non è ammiratrice delle
virtù politiche, e una sera che s’era messa la bambina in grembo le parlò seriamente.
— Prova a pensare da te, — le disse. — Non far sempre, come una sciocca, ciò che vedi
fare a Jessie. Di tanto in tanto abbi un’idea tua. Sii un po’ originale.
La bambina promise che avrebbe provato e andò a letto pensosa.
La mattina dopo, a colazione, furono messi, l’uno accanto all’altro, in tavola, un piatto
di salmone e un piatto di rognone. Ora alla bambina piaceva il salmone tanto da andarne matta,
mentre sentiva addirittura disgusto per il rognone. Era l’unica cosa sulla quale aveva
un’opinione decisa.
— Per te un po’ di rognone o di salmone, Jessie? — domandò la madre, volgendosi
prima alla figliuola maggiore.
Jessie esitò un momento, mentre la sorella la guardava ansiosa.
— Un po’ di salmone, mamma, — rispose Jessie finalmente, e la sorella minore si volse
da parte per nascondere le lagrime.
— Anche tu, naturalmente, vuoi il salmone, Trixy? disse la madre, che non aveva osservato
nulla. — No, grazie, mamma, — disse la piccola eroina, soffocando un singhiozzo e parlando
in tono asciutto e tremebondo, — mi darai un po’ di rognone.
— Ma io credevo che non ti piacesse il rognone, — esclamò la madre sorpresa.
— Sì, mamma, molto non mi piace.
— E ti piace tanto il salmone.
— Sì, mamma.
— Bene, allora, perchè non lo vuoi?
— Perchè lo vuole Jessie, e tu m’hai detto d’essere originale; — e a questo punto la poverina,
riflettendo al prezzo che l’originalità stava per costarle, scoppiò in lagrime.
Noi altri tre rifiutammo di sacrificarci sull’altare dell’originalità di Brown. Decidemmo
di contentarci della solita bella fanciulla.
— Buona o cattiva? — domandò Brown.
— Cattiva, — rispose energicamente MacShaughnassy. — Tu che ne dici, Jephson?
— Bene, — rispose Jephson, togliendosi la pipa di bocca e parlando con quel tono melanconico
di voce che non varia mai, sia che dica una barzelletta intorno a un matrimonio, sia
che racconti un aneddoto intorno a un funerale, — non tutta cattiva. Cattiva con buoni istinti, e
coi buoni istinti ben controllati.
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— Chi sa perchè, — mormorò MacShaughnassy, meditabondo, — i cattivi istinti sono
molto più interessanti dei buoni.
— Non credo che sia molto difficile saperne la ragione, — rispose Jephson. — Intorno
ai cattivi istinti c’è maggior incertezza, ed essi si tengono più all’erta. C’è la stessa differenza
che passa fra il cavalcare un cavallo da nolo ben sedato e tranquillo e un vivace puledro con idee
sue. Sull’uno si viaggia comodamente, sull’altro si fa un po’ più d’esercizio. Se si comincia
con una donna perfettamente buona come eroina, si racconta tutto il romanzo nel primo capitolo.
Tutti sanno com’ella si comporterà in tutte le eventuali situazioni in cui si potrà metterla. In
ogni occasione farà la stessa cosa... cioè la cosa giusta. Con un’eroina cattiva, d’altra parte, non
si sa mai ciò che accadrà. Delle cinquanta vie innanzi a lei, può infilare la buona, o può prenderne
una delle quarantanove cattive, e si aspetta con curiosità il sèguito.
— Ma certo vi sono molte buone eroine interessanti, — osservai io.
— Talvolta... quando fanno qualche cosa di male, — rispose Jephson. — Un’eroina costantemente
irreprensibile deve dare lo stesso senso d’irritazione di Socrate a Santippe, o del
ragazzo modello di una scuola a tutti gli altri. Si prenda, per esempio, il tipo d’eroina del romanzo
del secolo decimottavo. L’eroina non incontrava l’innamorato che per dirgli che non poteva
esser sua, e generalmente piangeva a dirotto durante il colloquio. Non dimenticava mai di
diventar pallida alla vista del sangue, nè di svenire nelle braccia dell’innamorato nei momenti
meno opportuni. Era risoluta a non maritarsi mai senza il consenso del padre, ed era parimenti
risoluta di non sposare che quel particolar giovane, che, ella sapeva, non avrebbe mai acconsentito
a sposarla. Era una fanciulla eccellente, e quasi dello stesso interesse d’un uomo celebre in
casa.
— Ah, — osservai, — ma tu ora non parli della brava donna. Tu parli dell’idea che si fa
qualche sciocco d’una brava donna.
— Lo ammetto, — rispose Jephson. — Nè, veramente, son preparato a dir che cosa
s’intenda per una brava donna. Considero l’argomento troppo profondo e troppo complesso,
perchè un essere umano sia capace di darne un giudizio. Ma io ora parlo delle donne che rispondevano
all’idea comune della bontà femminile nel tempo che quei libri erano scritti. Si deve
tener presente che la bontà non è una quantità conosciuta. Essa varia in ogni tempo e in ogni
luogo, e la responsabilità della sua variabilità va addossata agli sciocchi di cui tu parli, — aggiunse
rivolgendosi a me. — In Giappone sarebbe una buona ragazza quella che venderebbe
l’onore per dare qualche agio ai suoi vecchi genitori. In certe isole ospitali della zona torrida, la
buona donna arriva a eccessi che noi stimeremmo addirittura superflui, per onorare gli ospiti del
marito. Fra gli ebrei antichi, Giaele fu ritenuta una brava donna per aver ammazzato un uomo
addormentato, e Sara non corse il pericolo di scader nella stima del suo piccolo mondo quando
condusse Agar ad Abramo. Nell’Inghilterra del secolo decimottavo, una soprannaturale ottusità
e la stupidità, in un grado che doveva esser molto difficile raggiungere, erano ritenute virtù
femminili — veramente sono ancora tali — e gli autori, che sono i più servili seguaci
dell’opinione pubblica, foggiavano le loro puppattole secondo quel modello. Oggi l’andare visitando
le stamberghe è la virtù più applaudita, e così tutte le nostre migliori eroine vanno visitando
stamberghe e son «buone coi poveri».
— Come son utili i poveri! — osservò MacShaughnassy, alquanto improvvisamente, allungando
i piedi sulla cappa del camino, e spostando indietro la sedia a un angolo che concentrò
la nostra attenzione su di essa con speranzoso interesse. — Io non credo che noi imbrattacarte ci
faremo mai un concetto preciso di quel che dobbiamo ai poveri. Noi abbiamo bisogno di dimostrare
che la fanciulla, oltre che buona, è bella. Che facciamo? Le mettiamo al braccio un paniere
pieno di polli e di bottiglie di vino, un grazioso cappellino di paglia in testa e la mandiamo in
giro fra i poveri. Come proviamo che il nostro apparente briccone di eroe in fondo è veramente
un giovane generoso? Bene, con lo spiegare che è buono con i poveri. Ed essi sono utili nella
vita reale quanto nel mondo dei libri. Chi è che consola il mercante quando l’attore, guadagnando
ottanta sterline la settimana, non può pagare i debiti? Leggendo nelle cronache teatrali i
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magnifici resoconti dell’invariabile generosità di quel brav’uomo verso i poveri. Che cosa calma
la piccola, ma irritante voce della coscienza, quando abbiamo compiuto qualche bella, magnifica
azione truffaldina? La nobile risoluzione di dare il dieci per cento del guadagno netto ai
poveri. Che fa un uomo, quando s’accorge di diventar vecchio, e sente ch’è tempo di pensare
seriamente ad assicurarsi una buona posizione nel mondo di là? Diventa improvvisamente buono
coi poveri. Se non ci fosse il povero con cui mostrarsi buono, che cosa potrebbe fare? È un
gran conforto pensare che con noi ci saran sempre i poveri. Essi sono la scala con cui si arriva
in cielo.
MacShaughnassy tacque per alcuni istanti, fumando vigorosamente e quasi selvaggiamente
la pipa, e allora Brown disse:
— Io posso raccontarvi uno strano fatto, che calza esattamente all’argomento. Un mio
cugino portava l’amministrazione d’una ricca famiglia provinciale, e fra le case che aveva in lista
c’era una bella palazzina che da molti anni era rimasta sfitta. Egli aveva sempre disperato di
poterla mai vendere, quando una vecchia sontuosamente vestita si presentò un giorno al suo ufficio
a chiedergli delle informazioni appunto su quella casa. Ella disse di averla vista per caso
viaggiando da quelle parti l’autunno precedente, e d’esser stata attratta dalla sua bellezza e dalla
sua aria pittoresca. Aggiunse che stava cercando un angolo tranquillo dove poter stabilirsi e
passare in calma il resto dei suoi giorni, e credeva che quel luogo fosse proprio quello che andava
cercando. Mio cugino, incantato dalla prospettiva di vender la casa, subito condusse la signora
in carrozza al podere, che era circa otto miglia distante, e le fece fare una visita di tutta la
proprietà. Mio cugino si mostrò eloquente nell’enumerazione dei vantaggi del sito. Si diffuse
sulla sua tranquillità e la sua solitudine, la sua vicinanza, ma non una stretta vicinanza, alla
chiesa, e sulla comoda distanza dal villaggio. Tutto pareva dovesse condurre a una conclusione
soddisfacente. La signora si mostrava entusiasta del luogo e dei dintorni e incantata della casa e
del podere; e inoltre trovava che il prezzo era moderato.
«— E ora, signor Brown, — disse mentre si trattenevano nella portineria, — per piacere,
ditemi che classe di poveri avete qui intorno.
«— Che classe di poveri? — rispose mio cugino; — qui non ci sono poveri.
«— Non ci sono poveri, — esclamò la vecchia. — Non ci sono poveri nel villaggio o in
qualche parte vicina?.
«— Nel raggio di cinque miglia dal podere non troverete un povero neanche a pagarlo
un occhio, — rispose mio cugino con orgoglio. — Vedete, mia cara signora, questo è un paese
scarsamente popolato e molto prospero, specialmente in questa contrada. Non v’è una famiglia
che non sia, relativamente parlando, agiata.
«— Me ne dispiace tanto, — disse la signora in tono di delusione. — Se non fosse per
questo, mi sarebbe piaciuto immensamente stabilirmi qui.
«— Ma certo, signora, — esclamò mio cugino al quale una richiesta per la presenza di
povera gente tornava assolutamente strana, — non intenderete dire che avete bisogno di poveri!
La mancanza di poveri qui intorno è stata da noi considerata sempre come la principale attrattiva
di questa proprietà, che non ha nulla che possa offendere la vista o ferire la sensibilità del
cuore più tenero, che qui si stabilisse.
«— Mio caro signor Brown, — rispose la signora, — con voi voglio esser assolutamente
sincera. — Sto diventando vecchia, e la mia vita passata, non è stata, forse, tutta ben spesa. È
mio desiderio di riparare... alle... alle follie della mia gioventù con una pia vecchiaia, e perciò è
essenziale ch’io sia circondata da un certo numero di poveri meritevoli. Io avevo sperato di trovare,
in questa vostra bella campagna, la solita proporzione di povertà e di miseria di tutte le altre,
e avrei comprato la casa senza esitazione. Ma ora, come veggo, debbo cercare altrove.
«Mio cugino era perplesso e triste:
«— In città v’è molta gente povera, — egli disse — e ci son delle povertà veramente
pietose, che voi potreste sollevare. Non vi trovereste difficoltà di sorta, ne son sicuro.
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«— Grazie, — rispose la signora; — ma io veramente non potrei recarmi così lontano,
fino in città! I poveri dovrebbero essere dove io potessi arrivare facilmente in carrozza; se no,
non saprei che farmene.
«Mio cugino si tormentò di nuovo il cervello. Egli non intendeva lasciarsi sfuggire di
mano la buona occasione. Finalmente un lampo gli traversò il cervello.
«— Vi dirò ciò che potreste fare, — aggiunse — V’è un pezzo di terra incolta all’altra
estremità del villaggio, dal quale non si riesce a cavar nulla, perchè è di natura paludosa. Se non
vi dispiacesse, vi fabbricheremmo un po’ di casette a poco prezzo... costruendole alla meglio
risponderebbero un po’ più allo scopo... e faremmo venire un po’ di povera gente ad abitarle, a
bella posta per voi.
«La signora meditò un po’ su questa idea, che le parve ingegnosa.
«— Vedete, — continuò mio cugino, approfittando della buona disposizione di lei, —
adottando questo metodo sareste in grado di scegliervi da voi i vostri poveri. Troveremmo dei
poveri a modo, pieni di gratitudine, che non vi dispiacerebbero.
«Finì che la signora accettò l’offerta di mio cugino e gli diede una lista dei poveri che
avrebbe preferiti. Essa scelse una vecchia da molto inferma (preferibilmente di confessione anglicana),
un vecchio paralitico; una fanciulla cieca, alla quale si dovessero fare delle letture pie;
un tristo ateo, che bramasse di convertirsi; due storpi; un padre di famiglia ubbriacona che acconsentisse
ad ascoltare dei discorsi seri; un vecchio antipatico, col quale occorresse molta pazienza;
due grosse famiglie e quattro coppie comuni assortite.
«Mio cugino incontrò qualche difficoltà a trovare il padre di famiglia ubbriacone. La
maggior parte dei padri di famiglia ubbriaconi, con i quali egli parlò, avevano una profonda avversione
a sentir discorsi di qualunque genere. Dopo una lunga ricerca, però, scoperse un mite
vecchietto, che, dopo aver sentito la spiegazione dei desideri e delle caritatevoli intenzioni della
signora, si propose di acquistare le qualità del posto che gli si offriva, con l’ubbriacarsi almeno
una volta la settimana. Disse di non potersi impegnare per più d’una volta in principio, giacchè
gli era necessario vincere la forte naturale avversione che sentiva per ogni specie di bevanda alcoolica.
In seguito con l’abitudine si sarebbe condotto meglio.
«Anche per il vecchio antipatico, mio cugino incontrò delle difficoltà. Era difficile trovare
il grado esatto della antipatia. Alcuni erano tanto antipatici. Egli finì con lo scegliere un
vecchio cocchiere di opinioni avanzatissime, che insistè per un contratto di tre anni.
«Il progetto potè essere eseguito in tutti i particolari, e finora, come mi dice mio cugino,
va a meraviglia. Il padre di famiglia ubbriaco ha vinto interamente la sua avversione per i liquori
forti. Da tre settimane è continuamente in preda all’ubbriachezza, e da parechio tempo ha
cominciato a picchiare la moglie. Il cocchiere antipatico è coscienziosissimo nel rappresentare
la sua parte, ed è diventato la vera maledizione di tutto il villaggio. Gli altri occupano il loro
posto rispettivo e si conducono bene, la signora li visita tutti ogni pomeriggio, ed è molto caritatevole.
La chiamano la signora Provvidenza, e tutti la benedicono».
Com’ebbe finito di parlare, Brown si levò e si versò un bichiere di whisky e acqua, con
l’aria soddisfatta d’un buon uomo che s’accinge a compensare qualcuno per una buona azione;
e MacShaughnassy si mise a parlar lui:
— Anch’io so un fatto che si riferisce allo stesso argomento, — disse. — Accadde in un
piccolo villaggio del Yorkshire — un luogo tranquillo e rispettabile, i cui abitanti trovavano la
vita un po’ monotona. Un giorno, però, arrivò un nuovo curato, e le cose si animarono alquanto.
Egli era un bel giovane, e, avendo un grosso appannaggio proprio, fu considerato come un magnifico
partito. Tutte le nubili del luogo cominciarono a mostrarsi folli per lui. Ma sembrava
che le ordinarie blandizie femminili non avessero su di lui alcun effetto. Egli era un giovane di
carattere serio, e una volta, durante una discussione accademica sull’argomento, fu udito dire
che non sarebbe stato mai attratto dalla semplice bellezza e dal semplice fascino delle qualità
corporee. Ciò che lo attraeva, disse, era la bontà d’una donna, la sua castità e la sua affabilità
con i poveri.
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«Questo fece sì che tutte le gonnelle si mettessero a pensare. Esse compresero che nello
studiare i figurini di moda e nell’assumere degli atteggiamenti sentimentali o espressivi avevano
battuto una falsa strada. La carta che dovevano giocare erano i poveri.
«Ma a questo punto si levò una difficoltà seria. V’era un unico povero in tutta la parrocchia,
un vecchio stizzoso che abitava in una stamberga dietro la chiesa, e quindici donne desiderose
di marito (undici ragazze, tre zitellone e una vedova) volevano esser buone con lui.
«La signorina Simmonds, una delle zitellone, si impadronì prima di quell’unico povero,
e cominciò a nutrirlo due volte al giorno a forza di ottimi brodi; e poi la vedova cominciò a portargli
vino di porto e ostriche. Negli ultimi giorni della settimana le altre della compagnia
piombarono su di lui a ingozzarlo di gelatina e polli.
«Il vecchio non ci si raccapezzava. Egli era abituato a ricevere in elemosina un sacchetto
di carbone di tanto in tanto, accompagnato da un lungo sermone sulle sue colpe e una bottiglia
di caffè di cicoria. La cateratta di doni aperta improvvisamente per lui dalla provvidenza lo lasciava
perplesso. Non disse nulla, però, ma continuò ad accettare quanto gli si dava. Alla fine
d’un mese era diventato così grasso che non poteva più entrare in casa per la porticina posteriore.
«La gara fra il branco delle zitelle si fece ogni giorno più acuta e finalmente il vecchio
cominciò a darsi delle arie, e a metter le concorrenti a dure prove. Si faceva spazzare la casa da
loro e cucinare, e quand’era stanco di vedersele attorno, le cacciava a lavorar nell’orto.
«Esse mormoravano molto, e una volta nacque l’idea perfino d’uno sciopero; ma che
potevano fare? Per miglia all’ingiro era quello l’unico povero, ed esse lo sapevano. Egli aveva
il monopolio, e, come tutti i possessori di monopoli, abusava della sua posizione.
«Le mandava lontano per delle commissioni, le mandava a comprare il tabacco da pipa a
loro spese. Una volta spedì la signorina Simmonds con un boccale a comprargli la birra per cena.
In principio ella rifiutò indignata, ma l’altro le disse che se si dava quell’aria d’importanza,
poteva andarsene e non tornare più. Se non voleva scomodarsi lei, si sarebbero scomodate molto
volentieri tante altre. E lei, che lo sapeva, chinò la testa e uscì.
«Esse avevano l’abitudine di leggergli dei buoni libri con tendenze morali. Ma ora egli
mise sprezzante il piede su quella roba. Disse che alla sua età non aveva bisogno di quella robetta
da scuola festiva. Voleva qualche cosa di piccante. E si fece leggere dei romanzi francesi e
dei racconti di mare con frasi realistiche. E non dovevano saltar nulla; se no, avrebbe indovinato
perchè.
«Disse che gli piaceva la musica, e alcune si quotarono e gli comprarono un armonium,
con l’idea di cantargli gl’inni e di sonargli delle melodie classiche; ma egli non era dello stesso
parere. La sua idea era: «La biondina strizzò l’occhio» e «Sul tuo cuor m’addormentai», con coro
e sgonnellamenti. E questi furon gl’inni che gli furono cantati.
«Dove sarebbe giunta la sua tirannia, è difficile dire. Ma accadde un fatto che determinò
la caduta improvvisa d’ogni suo potere. Fu il subitaneo ed inatteso matrimonio del curato con
una bell’attrice comica, che aveva recitato recentemente in una città vicina. Il curato rinunziò
alla cura, perchè alla fidanzata non piaceva diventar la moglie d’un ministro ecclesiastico, non
volendo abbassarsi a visitare i poveri della parrocchia.
«Col matrimonio del curato finì la breve carriera di prosperità del vecchio povero. Esse
lo spedirono all’ospizio di mendicità, dove lo misero a spaccar pietre».
Alla fine di questo racconto MacShaughnassy tolse i piedi dalla cappa del camino, e si
mise a lavorare per sgranchirsi le gambe; e Jephson prese lui a raccontare.
Ma nessuno di noi si sentiva disposto a ridere delle storie di Jephson, perchè trattavano
non della bontà dei ricchi per i poveri, una virtù che dà rapidi e alti profitti, ma della bontà dei
poveri per i poveri, che trova un investimento meno lucroso e che è assolutamente diversa.
Per i poveri — io non intendo i poveri di mestiere, ma quelli che si vergognano della loro
sorte e che si sforzano di vincerla — si è costretti a sentire un sincero rispetto. Bisogna onorarli
come si onora un soldato ferito.
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Nella battaglia perpetua fra l’umanità e la natura, i poveri si trovano sempre
all’avanguardia. Essi muoiono nei fossati e noi marciamo sui loro corpi con le bandiere che
sventolano e i tamburi che rullano.
Uno non può pensare ai poveri senza il penoso sentimento che dovrebbe vergognarsi di
vivere al sicuro e fra gli agi, lasciando che su di essi si rovescino tutti i colpi più duri. Come se
uno se ne stesse accovacciato nella tenda, mentre i compagni combattono e muoiono sulla fronte
di battaglia.
Essi vi sanguinano e cadono in silenzio. La natura, con la sua terribile clava, la sopravvivenza
del più adatto, e la civiltà con le sue crudeli parole «offerta e domanda» li respingono.
Essi cedono il terreno pollice per pollice, combattendo fino all’ultimo. Ma in maniera triste e
silenziosa, che non è sufficientemente pittoresca per essere eroica.
Ricordo d’aver visto un vecchio bulldog, un sabato sera, disteso sulla soglia d’una botteguccia
nel New Cut. Se ne stava quieto e sembrava un po’ assonnato; e, poichè aveva
l’aspetto feroce, nessuno lo disturbava. La gente entrava e passava su di lui, e di tanto in tanto,
per caso lo urtava: esso respirava un po’ più forte e più rapido.
Finalmente un passante, sentendosi qualche cosa d’umido fra i piedi, si chinò, e
s’accorse di guazzare in una pozza di sangue; e guardando per vedere donde essa veniva, scoprì
che un rivolo denso e scuro scorreva dal gradino sul quale il cane era disteso. Allora si chinò
per esaminare il cane, e il cane aperse gli occhi assonnati e lo guardò con un digrignamento che
poteva esser di piacere, o d’irritazione per esser stato disturbato e spirò.
Un crocchio si raccolse, e il cane morto fu voltato sull’altro fianco, e si vide un’orrenda
ferita nell’inguine, donde stillava il sangue, e altra roba. Il padrone della bottega disse che
l’animale era stato lì per un’ora circa.
Io so che i poveri muoiono nella stessa maniera triste e silenziosa — non i poveri che
conoscete, voi, cara, signora Provvidenza, delicatamente calzata di guanti, e voi, eccellentissimo
signor Simone Fatebene; non i poveri che vanno in processione con le bambine e le cassette
delle oblazioni; non i poveri che gridano intorno alle vostre cucine economiche e cantando inni
nelle vostre pie assemblee; ma i poveri che non si sa che son poveri finchè non lo narra
l’inchiesta del commissario — i poveri silenziosi e orgogliosi che si svegliano ogni mattina per
lottare con la morte fino a sera, e che, quando finalmente ne son soverchiati, e stramazzano sul
pavimento fradicio della miserabile topaia, non muoiono che con i denti stretti, in un ultimo
impulso di resistenza.
C’era un ragazzo che io venni a conoscere quando abitavo all’estremità orientale di
Londra. Egli non era per nulla affatto un bravo ragazzo. Non era lindo e per bene come tutti i
buoni ragazzi delle riviste religiose. Vidi una volta un marinaio fermarlo per via e rimproverarlo
per certe sue frasi e certe espressioni poco delicate.
Lui, la madre e un fratellino — un bambino infermo di circa cinque mesi — abitavano
in un sotterraneo della cantonata di Three Colt Street. Io non so esattamente che ne fosse del
padre. Son tratto a credere che il padre fosse stato «convertito» e andasse in giro in una campagna
di predicazione. Il ragazzo guadagnava sette lire e mezza la settimana come fattorino, e la
madre cuciva calzoni per i soldati, e nei giorni che si sentiva forte e in vena, spesso ne cuciva
tanti da guadagnare una lira e anche più. Disgraziatamente v’erano giorni in cui le quattro pareti
nude giravano l’una dietro l’altra, e la candela sembrava una debole favilla, un gran tratto lontana;
e naturalmente la frequenza di simili giorni faceva sì che le entrate familiari settimanali si
tenessero molto basse.
Una notte le pareti si misero a girare molto più rapide, fino a dileguarsi nella danza, e la
candela si slanciò per il soffitto diventando una stella; e la donna apprese che era ora di smettere
il cucito.
— Jim, — essa disse; parlava con un filo di voce, e il ragazzo dovè chinarsi per sentirla;
— se tu frughi in mezzo al materasso troverai un paio di sterline. Le misi in serbo molto tempo
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fa. Mi pagheranno la sepoltura. E... Jim, abbi cura del piccino. Non lasciarlo andare nell’ospizio
della parrocchia.
Jim promise.
— Di’: «Dio m’aiuti», Jim.
— Dio m’aiuti, mamma.
E la donna, dopo aver messo a sesto le faccende di questo mondo, si sentì preparata
all’ultimo colpo mortale.
Jim mantenne il giuramento. Trovò il denaro e seppellì la madre; e poi, mettendo tutta la
sua proprietà domestica su una carriola, si trasferì in un’abitazione più a buon mercato — nella
metà d’una vecchia casupola, per la quale pagava due scellini la settimana.
Per diciotto mesi rimasero ad abitarvi lui e il piccino. Egli lasciava il piccino ogni mattina
in un asilo di lattanti, e tutte le sere, di ritorno dal lavoro, andava a prenderselo. Per questo
pagava otto soldi al giorno, e la somministrazione del latte non poteva essere molta. Come facesse
a mantenersi lui e a mantenere più che a metà il bambino con le rimanenti due lire e mezza
non saprei dire. So soltanto che egli lo faceva, e che non un’anima mai lo aiutò, o seppe mai
che un aiuto fosse necessario. Egli accudiva il piccino, spesso tenendolo in braccio e passeggiando
nella stanza per ore e ore, lo lavava, talvolta, e lo portava a prendere un po’ d’aria ogni
domenica.
Nonostante tutte queste cure, il povero piccino, alla fine del tempo summenzionato «se
ne andò» per usare le parole di Jim.
Il commissario fu molto severo con Jim. «Se tu ti fossi rivolto dove ti dovevi rivolgere»,
gli disse, «la vita di questo bambino sarebbe stata salvata». (Parve che pensasse che sarebbe stato
meglio che la vita del bambino fosse stata salvata. Le strane idee dei commissari!) «Perchè
non ti sei rivolto alla congregazione di carità?».
«Perchè non avevo bisogno di nessuno, — rispose con alterezza Jim; — avevo promesso
a mia madre di non mandarlo all’ospizio. Essa non voleva.
Il fatto avvenne, fortunatamente, durante la stagione morta, e i giornali della sera se ne
ocuparono e fecero un gran baccano. Jim, ricordo, diventò una specie d’eroe. Delle persone di
buon cuore scrissero sollecitando che qualcuno — il padrone di casa, o il governo, o qualche
altro della stessa specie — facesse qualcosa per loro. E tutti dissero male della congregazione
locale. Credo che qualche cosa di buono sarebbe potuto avvenire a Jim, se l’eccitazione fosse
durata un po’ più a lungo. Disgraziatamente, però, nel momento di maggior calore, scoppiò un
caso di divorzio, e Jim ne rimase interamente travolto.
Raccontai questa mia storia, dopo che Jephson ebbe detta la sua, e, finito che ebbi, ci
accorgemmo che era quasi l’una. Così, naturalmente, era troppo tardi per continuare quella sera
a lavorare al romanzo.
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CAPITOLO IV.
La riunione successiva la tenemmo nel battello, sul fiume ove io passavo la villeggiatura.
In principio Brown s’era opposto addirittura alla mia intenzione di far la mia villeggiatura su
quel battello. Nessuno di noi, diceva, doveva lasciar la città mentre il romanzo era ancora sul
tavolino.
MacShaughnassy, al contrario, era d’opinione che avremmo lavorato meglio ora in battello.
Per esempio, lui non si sentiva mai tanto disposto a scrivere un’opera veramente grande
che quando era sdraiato in una amaca, fra le foglie stormenti, col profondo cielo azzurro al di
sopra e un bicchiere di vino fresco a portata di mano. In mancanza dell’amaca, trovava che una
poltrona sul ponte del battello era un grande incentivo alla fatica mentale. Per il vantaggio del
romanzo, mi raccomandò fortemente di portar con me almeno una comoda poltrona e molti limoni.
Anch’io non vedevo ragione perchè non si potesse pensare su un battello allo stesso
modo che dovunque, e quindi fu stabilito che io sarei andato a insediarmi laggiù e che gli altri
m’avrebbero visitato di tanto in tanto, per attendere insieme al lavoro.
Il battello da passarvi la villeggiatura era stato un’idea di Etelberta(1). Avevamo passato
un giorno, l’estate prima, su uno che apparteneva a un amico mio, ed ella ne era rimasta incantata.
Tutto era di proporzioni così graziosamente minuscole! Si stava in una graziosa salettina,
si dormiva in una cuccetta piccola piccola; e si cucinava il modesto piccolo desinaretto a un
fornello nella cucina più diminutiva che si fosse mai potuta immaginare. «Ah, come dev’esser
bello abitare in un battello!», disse Etelberta, estasiata, «dev’esser come vivere in una casetta da
bambola!»
Etelberta era giovanissima, — ridicolmente giovane, come mi sembra d’aver già detto
— nei giorni dei quali scrivo, e l’amore delle bambole, delle sontuose vesti che portano le bambole
e delle case a molte finestre ma scomodamente arredate che abitano le bambole — o che si
suppone abitino, perchè in generale preferiscono star sedute sul tetto con le gambe penzoloni
sulla porta d’ingresso, in un atteggiamento che m’è parso sempre alquanto sconveniente, benchè
io non sia un’autorità in fatto di etichetta bambolesca — l’amore delle bambole, dico, non
l’aveva ancora, credo, interamente abbandonata. Anzi, son poi certo che ella non lo conservi
ancora? Non ricordo, parecchi anni dopo, di averla vista affacciarsi in una certa stanza, le cui
pareti erano coperte di un lavoro artistico capace di far ammattire una persona d’istinti estetici,
e ivi sedersi sul pavimento, innanzi a una casetta di mattoni rossi, composta d’una cucina e di
due camerette, e con le mani tremanti di gioia schierare tre veri piattini di stagno sulla credenza?
E non la vidi picchiare il martello d’ottone sul portone d’ingresso, fino a staccarnelo, e io
non mi dovetti sedere accanto a lei sul pavimento per avvitarlo di nuovo al suo posto?
Forse, però, non è saggio da parte mia ricordare questa roba, portandola così in prova
contro di lei; perchè non può essa, a sua volta, ridere di me? Non l’aiutai anch’io
nell’arredamento di quella bellissima casa? Rammento, che non eravamo d’accordo per il tappeto
nel salotto. Etelberta lo voleva di velluto azzurro carico, ma io ero certo, considerando bene
la carta da parato, che qualche sfumatura di terracotta si sarebbe accordata meglio. Ella, infine,
fu dello stesso mio parere, e tagliammo un tappeto dalla copertura d’una vecchia cassa. Faceva
naturalmente un bello effetto, dando un tono deliziosamente caldo alla stanza. Il tappeto
azzurro lo stendemmo in cucina. Questa io la giudicai una stravaganza; ma Etelberta disse che
sulle fantesche un buon tappeto faceva sempre una grande impressione, e che nelle piccole cose,
quando si poteva, giovava assecondarle.
(1) Nell’originale “Elisabetta” [nota per l’edizione elettronica Manuzio].
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La camera nuziale aveva un gran letto e una piccola culla; ma non si capiva dove sarebbe
andata a dormire la fantesca. L’architetto se n’era assolutamente dimenticato. La casa offriva
anche degli inconvenienti comuni alle residenze di quel tipo, cioè di non avere scala, di modo
che per muoversi da una stanza all’altra era necessario aprirsi un varco a traverso il soffitto, o
altrimenti uscire e rientrare a traverso una finestra; e l’uno o l’altro metodo doveva essere faticoso,
a servirsene spesso.
A parte questi difetti, però, la casa era una di quelle che qualsiasi agente di bambole sarebbe
stato giustificato nel descrivere come una «desiderabilissima residenza di famiglia»; ed
era stata arredata con una prodigalità che rasentava positivamente l’ostentazione. Nella camera
da letto v’era un portacatino, e sul portacatino una brocca e nella brocca dell’acqua vera. Ma
tutto questo era nulla ancora. Io ho visto delle semplici, ordinarie, case di bambole borghesi in
cui si potevano trovare portacatini, brocche e bacili e acqua vera... e perfino sapone. Ma nella
sontuosa abitazione di cui parlo v’era un asciugamano vero, così che uno non solo poteva lavarsi,
ma poi asciugarsi, e questa è una sensazione che, come sanno tutte le bambole, può esser goduta
soltanto nelle residenze di gran lusso.
Poi, nel salottino, v’era una pendola, che faceva tic tac fino al punto in cui si continuava
a scuoterla (sembrava che non si stancasse mai); un quadro e un pianoforte, inoltre, e un vaso di
fiori che si rovesciava nel momento che stendevate la mano per toccarlo, appunto come un vero
vaso di fiori. Oh, vi posso dire che in quella stanza v’era dello stile!
Ma la gloria della casa era la cucina, che conteneva tutti gli oggetti che il cuore poteva
desiderare: tegami con coperchi che si aprivano e si lavavano, un ferro da stirare e un matterello,
un servizio da tavola per tre occupava mezza stanza, e il rimanente spazio era occupato dalla
cucina economica — una cucina economica vera. Pensate, o voi proprietari di case da bambole,
una cucina economica in cui si potevano ardere dei veri pezzi di carbone e nella quale potevate
allessare dei veri pezzi di patate per desinare... tranne quando i genitori vi dicevano di non farlo,
perchè era pericoloso, e vi toglievano il focolare, e spegnevano il fuoco; cosa che finisce con
l’impacciare una cuoca.
Io non avevo mai vista una cosa più completa in tutti i suoi particolari. Nulla era stato
omesso, neanche la famiglia, la quale se ne stava distesa sulla schiena, appunto fuori l’ingresso,
orgogliosa ma calma, in attesa d’entrare in possesso dell’immobile. Ma era una famiglia rumorosa.
Consisteva di quattro persone: babbo, mamma e piccino e la ragazza a giornata; appunto
la famiglia di un principiante.
Era anche una famiglia ben vestita — non soltanto con magnifici abiti da ammirarsi esteriormente
e da coprire una vergognosa condizione di cose al di sotto, come accade spesso,
ohimè! nella società delle bambole, ma con tutti gli oggetti necessari e adatti a una gentildonna
e a una signora, giù giù fino agl’indumenti che non potrei menzionare. E tutta questa roba, se lo
volete sapere, poteva essere slacciata e tolta. Ho conosciuto delle bambole — bambole abbastanza
signorili, a guardarle — che erano contente d’andare in giro con le vesti incollate, e, in
alcuni casi, fissate con chiodettini, un’abitudine che io ritengo non abbastanza valutata e pulita.
Ma la famiglia di cui parlo poteva essere spogliata in cinque minuti, e non era necessario ricorrere
all’acqua calda o allo scalpello.
Non che fosse consigliabile da un punto di vista artistico che qualcuno della famiglia
dovesse essere spogliato. Non c’era in essa alcuna persona in grado di figurare nel suo stato naturale.
In tutti e tre v’era una mancanza di fierezza e di sodezza, e sarebbe stato difficile distinguere
il piccino dal babbo, o la fantesca dalla padrona, e così sarebbero potute nascere delle
complicazioni domestiche.
Quando tutto fu pronto per il loro ricevimento li stabilimmo nella loro residenza. Mettemmo
tanto del piccino a letto quanto la culla ne potè contenere, e mettemmo il babbo e la
mamma a sedere comodamente sul pavimento del salotto, donde si fissavano pensosamente a
traverso il tavolino. (Dovevano sedere sul pavimento perchè le sedie non erano abbastanza
grandi). La fantesca la relegammo in cucina, dove si appoggiava contro la credenza, in un at39
teggiamento che faceva pensare avesse bevuto parecchi bicchierini, e intanto abbracciava la
scopa, che le avevamo data, con ebbra affezione. Allora sollevammo con molta cura la casa e la
trasportammo in un’altra stanza, e con la destrezza di esperti prestidigitatori la posammo a pie’
d’un lettino al quale una personcina assurdamente minuscola aveva appeso una calza assurdamente
minuscola.
Per tornare alla nostra propria casetta da bambola, Etelberta e io, discutendo
sull’argomento nel nostro viaggio di ritorno in treno, decidemmo di prendere, nell’anno seguente,
un battello per villeggiarvi, anche più piccolo, possibilmente, di quello che avevamo appunto
veduto. Doveva avere delle cortine artistiche di mussolina e una bandiera, e i fiori in giro dovevano
essere rose selvatiche e nontiscordardimè. Io avrei voluto lavorare tutta la mattina sul letto,
con una copertura al di sopra per tener lontano il sole, mentre Etelberta avrebbe mondato le
rose e fatte le tartine per il tè; e la sera ci saremmo seduti in coperta, io e Etelberta a sonar la
chitarra (ella avrebbe cominciato subito a impararla) o tutti e due ad ascoltar cheti cheti gli usignoli.
Poichè, quando si è molto, molto giovani, si sogna che l’estate sia tutta giorni fulgidi di
sole e notti di luna piena, che il vento soffi sempre dolcemente dall’ovest e che le rose allignino
da per tutto. Ma quando si va più innanzi negli anni, si diventa stanchi di aspettare che il grigio
del cielo si rompa. Così si chiude la porta e si entra in casa a rannicchiarsi accanto al fuoco,
domandandosi perchè il vento soffi sempre dall’est, e si rinunzia a tentar di allevar le rose.
Conoscevo una bambina che si mise per mesi a risparmiare tanto denaro da comprarsi
un vestito nuovo col quale andare a una mostra di fiori. Ma il giorno della mostra dei fiori pioveva,
ed ella vi andò con la vecchia veste. E tutti i giorni di festa per molto tempo furono sempre
piovosi, e la bambina temè che non le si sarebbe più data l’occasione d’indossare il suo grazioso
vestito bianco. Finalmente venne la mattina d’un giorno di festa fulgido e radioso, e allora
la bambina si mise a batter le mani, e corse su a prender la veste nuova (la quale era stata per
tanto tempo la veste nuova da diventare la più vecchia di quelle ch’ella possedeva) dalla cassa
dove stava accuratamente piegata fra la lavanda e il timo, e la prese, sorridendo al pensiero della
graziosa figura che in quella avrebbe fatta.
Ma quando se la mise, trovò che la veste era troppo stretta per lei, ch’era cresciuta troppo.
Così dopo tanto aspettare dovè indossare una veste vecchia.
Si sa che a questo mondo le cose vanno così. C’erano una volta un giovane e una ragazza
che si volevano tanto bene. Ma entrambi erano poveri, e convennero d’aspettare d’aver abbastanza
denaro da vivere comodamente, per sposarsi ed esser felici. A lui occorse molto tempo
per questo, perchè il far denaro è cosa assai lenta, ed egli voleva, giacchè ci si trovava, farne
abbastanza da viver veramente felice. Per fortuna ci riuscì, e ritornò in patria ricco.
Allora i due s’incontrarono di nuovo nella saletta poveramente arredata dove si erano
divisi. Ma non si sedettero più l’uno accanto all’altra come in passato. Poichè era passato tanto
tempo che lei era diventata una vecchia zitellona e si sentiva irritata con lui perchè le aveva insudiciato
il tappeto con le scarpe fangose. E lui aveva lavorato tanto per far denaro ch’era diventato
duro e freddo, appunto come il denaro, e invano tentò di cercare qualche cosa di affettuoso
da dirle.
Così se ne stettero un poco, l’uno da un canto, l’altra dall’altro del caminetto, domandandosi
perchè avessero versato tante lagrime cocenti il giorno che s’erano baciati dicendosi
addio. Poi si dissero di nuovo addio, e furono contenti.
V’è un altro racconto quasi con la stessa morale che appresi a scuola da un libro di testo.
Se ricordo esattamente, diceva press’a poco così:
C’era una volta un grillo saggio e una formica sciocca. Per tutta la bella estate il grillo si
trastullò e scherzò, sgambettando con gli amici entro e fuori i raggi di sole, desinando sontuosamente
ogni giorno con foglie e gocce di rugiada, non pensando mai al domani, e cantando
sempre la sua lieta, sottile canzone.
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Ma venne l’inverno crudele, e il grillo, guardando in giro, vide che i suoi amici, i fiori,
giacevano morti, e seppe quindi che la sua breve esistenza s’avvicinava alla fine.
Allora si sentì contento d’esser stato tanto felice e di non aver sciupato la vita. «È stata
molto breve», si disse, «ma è stata lieta, e credo d’averne fatto il miglior uso possibile. Ho bevuto
lo splendor del sole, ho danzato nell’aria tepida e morbida, mi son trastullato tante volte
nell’erba ondeggiante, ho gustato il succo delle dolci foglie verdi. Ho fatto ciò che ho potuto.
Ho aperto le mie ali, ho cantato la mia canzone. Ora voglio ringraziare Dio per i radiosi giorni
passati, e morire».
Così dicendo, strisciò sotto una fulva foglia, e incontrò il suo destino nel modo che dovrebbero
fare tutti i grilli a modo; e un uccellino di passaggio lo raccolse teneramente nel becco
e lo seppellì.
Ora quando vide ciò, la sciocca formica si sentì tutta gonfia di vanità farisaica. «Come
debbo esser lieta», ella disse «d’esser industriosa e prudente, e di non rassomigliare a quel povero
grillo. Mentre lui saltellava di fiore in fiore, divertendosi, io lavoravo continuamente,
provvedendomi per l’inverno. Ora lui è morto, ed io m’accingo a chiudermi nella mia tepida casa
e a godermi tutte le belle cose che mi son messe da parte».
Ma mentre parlava così, arrivò il giardiniere con la vanga, e livellò il poggetto dov’essa
dimorava, e la lasciò morta fra le rovine.
Allora lo stesso gentile uccellino che aveva sepolto il grillo, andò a raccogliere anche lei
e seppellì anche lei, e dopo compose e cantò una canzone con questo ritornello: «Se possiamo,
cogliamo le rose». Era una molto bella e saggia canzone, e un uomo che viveva in quei giorni,
che aveva appreso dagli uccelli il loro linguaggio, perchè era quasi uno dei loro, fortunatamente
la sentì e la scrisse, così che tutti possono leggerla anche oggi.
Disgraziatamente per noi, la sorte è una dura governante che non ha alcuna simpatia per
il nostro desiderio di bocciuoli di rose. «Non ti fermare a coglier fiori ora, mio caro»; essa grida
col suo acuto, stridulo tono, mentre ti afferra per il braccio e ci trae indietro nella strada; «oggi
non abbiamo tempo. Torneremo di nuovo domani, e allora li raccoglierai».
E noi dobbiamo seguirla, sentendo, se siamo fanciulli intelligenti, che c’è la probabilità
che domani non si tornerà più, e che, se mai si tornerà, le rose saranno appassite.
La sorte non volle che noi avessimo un battello quell’estate — che fu un’estate particolarmente
bella — ma ci promise che, se fossimo stati buoni e avessimo risparmiato un po’ del
nostro denaro, avremmo avuto una casa-battello l’anno appresso. Etelberta e io, fanciulli semplici
e inesperti come eravamo, ci accontentammo della promessa e avemmo fede che sarebbe
stata mantenuta.
Giunti a casa, informammo Amenda del nostro progetto. Nel momento che la fantesca
aprì la porta, Etelberta v’irruppe domandando:
— Tu, Amenda, sai nuotare?
— No, signora, — rispose Amenda, per nulla affatto curiosa del perchè della domanda.
— Conoscevo una ragazza che sapeva nuotare, ma annegò,
— Allora, ti devi affrettare a imparare, — continuò Etelberta, — perchè per poter andare
a spasso col tuo innamorato, dovrai andare a nuoto. Noi non abiteremo più in una casa. Dovremo
abitare in un battello nel mezzo del Tamigi.
L’oggetto principale di Etelberta in quel periodo era di sbalordire Amenda, e la sua
principale delusione di non riuscirci mai. Aveva sperato grandi cose da questo annuncio, ma la
ragazza rimase indifferente.
— Ah, dovete imparare a nuotare, signora, — ella rispose, e si mise a parlar d’altro.
Credo che il risultato sarebbe stato il medesimo, se le avessimo detto che dovevamo andare
ad abitare in un pallone.
Io non so come fosse, ma Amenda nei suoi modi era sempre più rispettosa. Pure, mostrava
come il desiderio di far sentire a Etelberta e a me che eravamo due ragazzi che giocavano
agli adulti e agli sposi e che essa ci assecondava.
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Amenda stette con noi quasi cinque anni — finchè il lattaio, che aveva risparmiato tanto
da comperare un pascolo proprio, non diventò un buon partito — ma il suo atteggiamento verso
di noi non mutò mai. Anche quando diventammo veramente dei coniugi importanti, i capi d’una
famiglia, era evidente ch’ella pensava che ci eravamo spinti d’un passo più oltre nel giuoco, e
che giocavamo ad esser padre e madre.
Con qualche sottile metodo essa si sforzava d’infondere questa idea anche alla bambina.
Sembrava che la bambina non prendesse mai sul serio noi padre e madre. Giocava con noi e si
univa con noi nella oziosa conversazione; ma quando si veniva agli affari gravi della vita, come
il bagno o il cibo, preferiva Amenda.
Etelberta tentò di condurla nella carrozzina una mattina, ma la bambina non volle saperne
neppure per un momento.
— Su, la cocca di mamma, — spiegò carezzevolmente Etelberta. — La cocca di mamma
esce con la mamma stamattina.
— Oh, no, la cocca non vuole, — rispose la bambina, coi fatti, se non con le parole. —
La cocca non vuole ribaltare o essere investita.
Povera Etelberta! Non dimenticherò mai il suo dispiacere. Era la mancanza di fiducia
che la feriva.
Ma queste sono reminiscenze d’altri giorni, che non hanno alcuna relazione con quelli di
cui scrivo — o di cui dovrei scrivere; e vagare da una cosa all’altra è, in uno scrittore di racconti,
una grave colpa, e un costume che si deve condannare. Perciò io chiuderò gli occhi a tutte le
altre memorie, e mi sforzerò di veder soltanto quel piccolo battello bianco e verde accanto
all’imbarcatoio, che doveva essere la scena della nostra futura collaborazione.
I battelli allora non erano fabbricati sulla scala dei piroscafi del Mississipì, ma quel battello
era molto piccolo, anche per quell’età primitiva. L’uomo che ce lo noleggiò ce lo descrisse
d’una «grande solidità». L’uomo a cui, alla fine del primo mese, tentammo di subaffitarlo, lo
caratterizzò come «un ridicolo guscio di noce». Nelle nostre lettere contrastammo questa definizione,
ma in cuor nostro la trovammo vera.
In principio però, le sue dimensioni — o, piuttosto, la sua mancanza di dimensioni — ne
costituivano il pregio principale agli occhi di Etelberta. Il fatto che se scendevi sbadatamente
dal letto eri sicuro di sbattere la testa contro il soffitto e che era addirittura impossibile per chiunque
d’infilarsi i calzoni tranne che nel salone, era da lei ritenuto un divertimento magnifico.
Ma il fatto che lei doveva prendersi lo specchio e andar di sopra ad acconciarsi i capelli
era considerata una circostanza meno divertente.
Amenda accettò la nuova situazione con la sua solita indifferenza filosofica. Informata
che era la sua camera da letto quella da lei scambiata per un armadio, ella notò che v’era un
gran vantaggio, cioè che non si poteva cascare dal letto, non essendoci spazio da cascarvi; e,
come le fu mostrata la cucina, osservò che le piaceva per due ragioni: l’una che poteva sedersi
nel mezzo e raggiungere ogni oggetto senza alzarsi; l’altra che nessuno altro, essendoci lei, sarebbe
potuto mai entrarvi.
— Comprendi, Amenda, — spiegò Etelberta, a mo’ di scusa, — noi realmente vivremo
al di fuori.
— Sì, signora, — rispose Amenda, — e direi che sarebbe il miglior posto per viverci.
Se soltanto avessimo potuto vivere un po’ più all’aperto, la vita sarebbe stata abbastanza
piacevole; ma il tempo ci rese impossibile, sei giorni su sette, di far altro che guardare fuori dalla
finestra e sentirci contenti di aver un tetto sul nostro capo.
Io ho conosciuto delle estati piovose prima e dopo. Ho appreso da molte amare esperienze
il pericolo e la sciocchezza di lasciare il rifugio di Londra in qualunque periodo dal primo
di maggio al trentuno di ottobre. Infatti, la campagna è sempre associata nel mio spirito a
memorie di lunghi, noiosi giorni passati sotto la pioggia spietata e di tristi sere passate nei vestiti
d’altre persone. Ma non ho mai conosciuto, e prego il cielo notte e giorno, di non conoscere
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mai più, una estate come quella passata, sebbene nessuno se l’aspettasse, su quel maledetto battello.
La mattina solevamo essere svegliati dalla pioggia che s’apriva un varco per la finestra e
ci bagnava il letto; e noi dovevamo alzarci ad asciugare il salone. Dopo la colazione, io tentavo
di lavorare, ma il picchiettio della grandine sul tetto direttamente sul mio capo mi fugava ogni
idea dal cervello, e dopo aver sciupato inutilmente un paio d’ore, gettavo la penna e andavo in
cerca d’Etelberta. Ci mettevamo l’impermeabile, prendevamo gli ombrelli per fare una remata.
A mezzogiorno ritornavamo, ci cambiavamo gli abiti, e ci sedevamo a desinare.
Nel pomeriggio generalmente il temporale si rinforzava un po’, e noi eravamo costretti
ad affaccendarci con asciugamani e tovaglie, cercando d’impedire all’acqua d’entrare nelle
stanze e d’impaludarci. Durante l’ora del tè, il salone era di solito illuminato da lampi biforcati.
Le sere le passavamo a vuotare il battello dell’acqua e dopo a turno andavamo in cucina a scaldarci.
Alle otto si cenava, e da quel momento fino all’ora di andare a letto, ce ne stavamo avvolti
nelle coperte ad ascoltare il rombo del tuono, l’urlo del vento e la furia delle onde e a domandarci
se il battello avrebbe resistito durante la notte.
Degli amici venivano laggiù a passare la giornata con noi — degli amici posati, facilmente
stizzosi, ai quali piacevano il caldo e i comodi; persone, in generale, che, anche nelle
condizioni più favorevoli, non smaniavano per le scampagnate; ma che erano state persuase, dai
nostri sciocchi discorsi, che una giornata sul fiume sarebbe loro parsa come una dimora di tre
giorni in paradiso.
Gli amici arrivavano fradici dalla pioggia e noi li chiudevamo in diverse scatole, e lì lasciavamo
che si spogliassero e si cambiassero con i cenci di Etelberta o miei. Ma Etelberta e io,
in quei giorni, eravamo magri; e così essi, quasi tutti d’una certa età e grassi, insaccati nei nostri
abiti, non si sentivano nè a loro agio nè facevano bella figura.
Dopo la loro comparsa, li accompagnavamo nel salone e tentavamo d’intrattenerli narrando
tutte le grandi cose che avremmo fatto con essi, se il tempo fosse stato bello. Ma le loro
risposte erano brusche, e talvolta stizzose, e dopo un po’, la conversazione languiva, e ci mettevamo
a leggere i giornali della settimana prima e a tossire.
Il momento che i loro abiti erano asciutti (noi vivevamo in una perpetua atmosfera di abiti
fumanti), gli amici insistevano per andarsene, il che mi sembrava scortese, dopo tutto quello
che avevamo fatto per essi, e si spogliavano e vestivano ancora una volta e si avviavano alle loro
case, inzuppandosi di nuovo prima che ci arrivassero.
In generale ricevevamo una lettera pochi giorni dopo, scritta da qualche parente, nella
quale ci s’informava che lo stato di salute degli infermi, data la natura della malattia, si presentava
abbastanza soddisfacente, e che ci avrebbero mandato la partecipazione mortuaria per il
funerale, nel caso d’una ricaduta.
La nostra principale ricreazione, la nostra unica consolazione, durante le lunghe settimane
della nostra prigionia, era di guardare dalle finestre il passaggio di quelli che facevano
delle gite di piacere nei piccoli battelli aperti, e di pensare alla terribile giornata da essi sofferta,
o, secondo il caso, che avrebbero sofferta.
Nelle ore antimeridiane si dirigevano contro corrente — giovani con le loro fidanzate,
nipoti che portavano a spasso le loro ricche zie; coppie di mariti e mogli (ma non sempre appaiati
secondo il registro parrocchiale); eleganti ragazze coi cugini; tipi d’aspetto energico con
cani; compagnie silenziose di classi agiate; compagnie rumorose di classi operaie; gruppi di
famiglie litigiose — passavano battelli dietro battelli, pieni colmi d’escursionisti già bagnati ma
ancora speranzosi e che s’additavano l’un l’altro zone di cielo azzurro.
La sera se ne tornavano grondanti e tristi, dicendosi l’un l’altro delle cose spiacevoli.
Una coppia, un’unica coppia, delle centinaia che passavano sotto il nostro occhio, ritornò
dal cimento con il viso radioso. Lui remava forte e cantava, con un fazzoletto legato intorno
alla testa per tener fermo il cappello, e lei rideva a lui, mentre tentava di tenere su l’ombrello
con una mano e reggeva il timone con l’altra.
43
Non vi sono che due spiegazioni per giustificare l’allegria sul fiume sotto la pioggia.
L’una delle due non l’accettai, perchè era poco caritatevole e improbabile. L’altra faceva onore
alla razza umana, e adottandola mi tolsi il berretto a quella coppia grondante e allegra. I due risposero
agitando la mano, e io li seguii con l’occhio finchè non scomparvero nella nebbia.
Son tratto a pensare che quei due giovani, se ancora vivono, siano felici. Forse la fortuna
s’è mostrata loro favorevole o no; ma nell’uno o nell’altro caso, debbo credere che siano più felici
della maggior parte.
Di quando in quando, l’uragano quotidiano infuriava in così fatto modo da distruggere il
proprio proposito con l’esaurirsi prematuramente. In quelle rare occasioni, noi solevamo sederci
sul ponte, e godere l’insolito lusso dell’aria fresca.
Ricordo bene quelle poche sere piacevoli: il fiume, luminoso della luce sommersa, le rive
buie dove s’appiattava la notte, il cielo agitato dalla tempesta, ingioiellato qua e là di stelle.
Era delizioso riposarsi per qualche ora dal ticchettio noioso della pioggia, e ascoltare i
salti dei pesci, i leni vortici sollevati da qualche topo d’acqua, che nuotava di soppiatto fra i
giunchi, l’irriquieto cinguettio dei pochi uccelli ancora vigili.
Un vecchio rallo abitava accanto a noi, e il modo come soleva disturbare tutti gli altri
uccelli e impedir loro di addormentarsi era vergognoso. Amenda, ch’era allevata in città, lo
scambiò in principio per una di quelle sveglie a buon mercato, diventate così comuni, e si domandò
chi la caricasse e perchè continuassero a caricarla tutta la notte, e, sopra tutto perchè non
la oliassero.
Il rallo cominciava con una profana esecuzione al momento del crepuscolo, appunto
quando ogni uccello per bene si stava preparando ad appollaiarsi per la notte. Una famiglia di
tordi aveva il nido a pochi passi di là e quindi s’infuriava terribilmente contro di lui.
— Ecco quello stupido che ricomincia, — diceva la madre tordo; — perchè non bercia
di giorno se ha bisogno di sfogarsi? (Parlava naturalmente con dei garriti, ma io son certo che la
mia sia una traduzione esatta).
Dopo un po’, i giovani tordi si svegliavano e cominciavano a pigolare, e allora la madre
diventava più furiosa che mai.
— Non puoi dirgli qualche cosa? — gridava indignata al marito. — Come credi che i
piccini possano addormentarsi, poverini, con quella odiosa cagnara che continua tutta la sera?
Sarebbe lo stesso che abitare in una segheria.
Così incitato, il maschio metteva la testa fuori dal nido, e gridava in una certa maniera di
nervosa protesta:
— Dite voi, lì, mi fareste la finezza di stare un po’ quieto? Mia moglie dice che non può
addormentare i piccini. Non è educazione, sapete, parola d’onore!
— Tu sta zitto, — rispondeva seccato il rallo; — e se farai star zitta tua moglie, avrai
abbastanza da pensare. — E ripigliava peggio di prima.
Allora una madre merlo, un poco più oltre, si univa al litigio.
— Le chiacchiere non servono; gli ci vorrebbero delle legnate. E se io fossi maschio,
gliele darei. (Questa osservazione veniva fatta in tono di secco dispregio, e pareva si riferisse a
qualche discussione antecedente).
— Hai ragione, signora, — rispondeva la signora Tordo. Questo è ciò che io dico a mio
marito (con un’inflessione saliente, in modo che tutte le femmine della riva potessero udire), —
ma lui non si muove, cara mia... e non si moverebbe neanche se i figli stessero per morire dal
sonno.
— Ah, mia cara, — cinguettava in risposta la signora del merlo — tuo marito non è il
solo... son tutti simili. — E poi, con un tono più di rassegnazione che di collera: — Ma non è
colpa loro. Se non si ha lo spirito di uccello, non è possibile inventarselo.
Aguzzavo l’udito a questo punto per sentire se il merlo fosse scosso da questi rimproveri,
ma l’unico suono che io potessi mai scoprire, proveniente da lui, era quello di chi russa con
una certa esagerazione.
44
A quel punto tutto il campo era sveglio, a esprimere delle opinioni sul rallo che avrebbero
ferito una natura meno indurita.
— Che vuoi scommettere, Beccuccio? — cinguettava qualche reattino in mezzo a quel
bailamme, — che quel signorino è persuaso che canti?
— Non è colpa sua, — rispondeva Beccuccio, con finta simpatia. — Qualcuno ha messo
qualche soldo nel buco, e lui non può fermarsi.
Irritato dalle risate che questo commento suscitava fra i giovani uccelli, il rallo continuava
a irritar sempre più gli altri, e per raggiungere meglio lo scopo, cominciava a dare la sua
meravigliosa imitazione d’una sega rugginosa sotto una lima d’acciaio.
Ma allora una vecchia cornacchia con la quale non si scherzava, gridava irritata:
— Finiscila, ora. Se vengo giù, ti caverò gli occhi da quella stupida testa.
E allora per un quarto d’ora c’era silenzio, e poi tutto ricominciava da capo.
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CAPITOLO V.
Brown e MacShaughnassy vennero giù insieme il pomeriggio di sabato; e, appena si furono
asciugati e rifocillati con una tazza di tè, ci mettemmo al lavoro.
Jephson aveva scritto che fin tardi la sera non avrebbe potuto raggiungerci, e Brown
propose di occuparci della trama, in assenza di Jephson.
— Che ciascuno di noi, — egli disse, — schizzi una trama. Dopo le paragoniamo e scegliamo
la migliore.
E questo ci mettemmo a fare. Ho dimenticato quali fossero le trame; ma ricordo che dopo
il loro esame e il loro confronto ciascuno scelse la propria, e s’indignò in siffatto modo
dell’amara censura alla quale era stato assoggettato dagli altri due, che finì con lo strappare il
foglio su cui l’aveva schizzata; e la mezz’ora che seguì, la passammo a fumare in silenzio.
Quando io ero giovane desideravo di sapere l’opinione degli altri su di me e su tutti i
miei lavori; ora, il mio principale studio è di evitare d’udirla. In quei giorni, se qualcuno
m’avesse detto che in un giornale c’era una mezza linea che s’occupava di me, avrei traversato
a piedi tutta Londra per procurarmelo. Ora quando veggo una colonna intitolata al mio nome
piego il giornale in fretta e lo butto lontano, frenando la mia naturale curiosità di leggerlo, dicendomi:
«Perchè leggerlo? Non farai che guastarti la digestione».
Nella mia giovinezza possedevo un amico. Altri mi sono diventati amici dopo — amici
carissimi e preziosi — ma nessuno è stato per me ciò che era lui. Perchè egli fu il mio primo
amico, e noi abitavamo in un mondo ch’era molto più grande di questo — più pieno di gioia e
d’ambascia; e in quel mondo noi amavamo e odiavamo più profondamente che non amiamo e
non odiamo quello più piccolo in cui son venuto a dimorare di poi.
Anche lui aveva la smania del giovane d’esser criticato, e noi facevamo del nostro meglio
per farci piacere a vicenda. Non sapevano allora che ciò che intendevamo, quando domandavamo
la «critica», era l’incoraggiamento. Credevamo d’esser forti — si crede così all’inizio
della battaglia — e che potessimo sopportare d’udir la verità.
Quindi ciascuno indicava all’altro i suoi errori, e questo compito ci teneva entrambi così
affaccendati che non avevamo mai tempo di dirci a vicenda una parola di lode. Son convinto
che ciascuno di noi aveva una grande opinione della capacità dell’altro; ma le nostre teste erano
piene di sciocche idee. Ci dicevamo: «Vi son molti che loderanno una persona; ma sarà solo
l’amico a dirle la verità». Così dicevamo: «Nessuno vede i propri difetti, ma quando gli sono
indicati da un altro, egli prova un sentimento di gratitudine e si studia di emendarli».
Ma come venimmo a conoscere meglio il mondo, apprendemmo la fallacia di queste idee.
Era troppo tardi, però, e il male era già fatto.
Quando uno di noi aveva scritto qualche cosa, la leggeva all’altro, e dopo diceva: «Ora
dimmi che ne pensi... francamente e da amico».
Diceva così, ma i suoi pensieri, sebbene non li sapesse, erano:
«Dimmi che va benissimo, amico, anche se non lo pensi. Il mondo è molto crudele con
quelli che non l’hanno ancora conquistato, e benchè noi abbiamo il viso allegro, il nostro giovane
cuore è solcato da rughe. Spesso diventiamo stanchi e scoraggiati. Non è così, amico?
Nessuno ha fede in noi, e nelle nostre ore buie, dubitiamo di noi stessi. Tu sei mio compagno.
Tu sai che cosa ho messo di me in questa roba che per gli altri sarà un’oziosa lettura di
mezz’ora. Dimmi ch’è buona, amico mio. Ti prego, infondi in me un po’ di coraggio».
Ma l’altro, pieno della smania della critica, che nel nostro mondo civile è il surrogato
della crudeltà, rispondeva più con la sincerità che con l’amicizia. Allora quegli che aveva scritto
diventava rosso dalla collera, e delle sdegnose parole venivano pronunciate.
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Una sera, egli mi lesse una commedia. V’era del buono, ma v’erano anche dei difetti (ve
ne sono in alcune commedie); e a quelli m’abbrancai, divertendomici un mondo. Se fossi stato
un critico di professione, non avrei potuto trattare peggio il lavoro.
Non appena ebbi finito, egli si levò, e, prendendo il manoscritto dal tavolino, ne fece
due pezzi e lo gettò nel fuoco — bisogna ricordare che l’autore era giovanissimo — e poi, levandosi
di fronte a me con la faccia pallida, mi disse, senza che ne fosse pregato, la sua opinione
su di me e sull’arte mia. E dopo questo duplice avvenimento, è forse inutile dire che ci separammo
bollenti di collera.
Per parecchi anni non lo vidi più. Le strade della vita sono molto affollate e se quelli che
si tengono per mano, si staccano, vengono spinti assai lontano l’uno dall’altro. Quando lo incontrai
una volta, assai tempo dopo, — fu per semplice caso.
Avevo lasciato i Whitchall Rooms, dopo un banchetto pubblico, e, lieto della fresca aria
notturna, me n’andavo pian piano a casa per l’Embankement. Un uomo, che si trascinava stanco
sotto gli alberi, si fermò mentre gli arrivavo da presso.
— Per piacere, signore, avreste un fiammifero? — egli disse. La voce di quello sconosciuto
mi sonò strana.
Accesi un fiammifero, e, riparandolo con le mani, glielo presentai. A quel fioco barlume,
sobbalzai indietro, e feci cadere il fiammifero:
— Enrico!
Egli rispose con una breve, secca risata.
— Non t’avevo riconosciuto, — disse; — se no, non t’avrei fermato.
— Come mai così, caro? — domandai, mettendogli la mano sulla spalla. Aveva la giacca
unta, e ne ritrassi subito la mano, tentando di asciugarmela di soppiatto col fazzoletto.
— Ah, è una storia lunga, — egli rispose indifferente, — e troppo comune, perchè metta
conto di raccontarla. Alcuni salgono, sai bene. Gli altri discendono. Sento che tu vai su abbastanza
bene.
— Forse, — risposi. — Mi sono arrampicato per qualche metro su un albero insaponato,
e tento di rimanere dove sono arrivato. Ma è di te che voglio sapere. Non posso far qualcosa per
te?
In quel momento passavamo sotto un fanale. Egli mi guardò fisso negli occhi, e la luce
gli cadde viva e cruda sul viso.
— Ti sembro uno per cui si possa far qualcosa? — disse.
Camminammo silenziosi l’uno accanto all’altro, mentre io cercavo delle parole che potessero
aver presa su di lui.
— Non è necessario che t’affanni per me, — egli continuò, dopo un poco. — Io me la
passo abbastanza bene. Al punto dove son io, la vita si piglia abbastanza facilmente, e non si
hanno delusioni.
— Perchè tu hai ceduto, come se tu fossi un debole e un vile? — scoppiai iroso. — Tu
avevi dell’ingegno. Avresti vinto, se avessi avuto la comune perseveranza.
— Forse, — rispose, con lo stesso tono d’indifferenza. — Credo che io non avessi la
fermezza. Credo che se qualcuno avesse creduto in me, m’avrebbe giovato. Ma nessuno ci credeva
e io persi la fiducia in me stesso. E quando uno perde la fiducia in se stesso, si considera
un pallone senza gas.
Ascoltavo le sue parole indignato e attonito.
— Nessuno credeva in te! — ripetè. — Ebbene, tu sai che io credevo in te. Io...
Mi arrestai, rammentandomi la nostra sincera, reciproca critica.
— Tu? — egli rispose tranquillamente. — Non te lo sentii mai dire. Buona sera.
Durante la nostra passeggiata eravamo arrivati in vicinanza del Savoy, ed egli sparì per
una delle buie cantonate lì intorno.
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Gli corsi dietro, chiamandolo, ma benchè, per un po’, innanzi a me, udissi il suono dei
passi, questi furono subito coperti dal rumore di altri passi, e quando raggiunsi la piazzetta dove
sta la cappella, avevo di lui perduto ogni traccia.
Una guardia era ferma presso la cancellata della chiesa, e ad essa chiesi delle informazioni.
— Che sorta di persona era? — domandò la guardia.
— Un tipo alto, magro, molto mal vestito... si potrebbe scambiare per un vagabondo.
— Ah, ve ne sono molti della stessa specie che vivono in questa città, — rispose la
guardia. — Temo che avrete qualche difficoltà a rintracciarlo.
Mi domandai, mentre continuavo ad andare — e da un pezzo me lo domandavo — se
l’Arte, anche con l’A maiuscola, fosse proprio degna delle sofferenze che s’infliggono in suo
nome — se lei e noi stessimo meglio con tutti i disprezzi e i sogghigni, l’invidia e l’odio esercitati
in suo nome.
Jephson arrivò alle nove circa con la zattera del traghetto. Fummo informati
dell’avvenimento, giacchè andammo a sbattere col capo contro le pareti del salone.
L’uno o l’altro batteva sempre la testa contro qualche cosa, quando arrivava la zattera.
Essa era una macchina pesante e ingombrante, e il ragazzo che la conduceva non era un buon
navalestro. Egli ammetteva sinceramente di non esser un buon navalestro, e questo gli faceva
onore: ma non tentava nulla per migliorarsi, e questo gli faceva torto. Il suo metodo era di disporre
la zattera prima di muoversi in linea col punto verso il quale desiderava di procedere, e
poi di spingere vigorosamente, senza mai guardar di dietro, finchè qualcosa a un tratto non lo
arrestava. Questo qualcosa era a volte la sponda, a volte un’altra imbarcazione, all’occasione un
piroscafo, da sei a dodici volte maggiore della nostra dimora rivierasca. È un fatto che torna a
grande onore di chi aveva fabbricato la casa-battello, se questa non riusciva a sfondarsi.
Un giorno egli s’abbattè su di noi con un formidabile tonfo. Amenda camminava in quel
momento nel corridoio, e il risultato fu ch’ella s’ebbe prima un violento colpo alla tempia sinistra
e poi alla destra.
Amenda s’era avvezzata a pigliarsi una bòtta come una cosa naturalissima e a considerarla,
da parte del ragazzo, come un avviso ch’egli era arrivato; ma quel duplice colpo la seccò:
tanta ostentazione era fuor di posto da parte d’un semplice ragazzo. Quindi ella corse verso di
lui in uno stato di grande indignazione.
— Che ti credi di essere? — ella esclamò, saldando i conti col ragazzo con l’assestargli
prima uno schiaffo da un lato e un altro dall’altro: — Una torpedine! Perchè sei venuto, poi?
Che desideri?
— Non voglio nulla, — spiegò il ragazzo, sfregandosi il viso. — Ho portato un signore.
— Un signore? — disse Amenda, guardando in giro, ma senza veder nessuno. — Qual
signore?
— Un grosso signore con un cappello di paglia, — rispose il ragazzo, guardando selvaggiamente
intorno.
— Bene, dov’è? — chiese Amenda.
— Non so, — rispose il ragazzo, in tono di paura; — era lì, che fumava, in fondo alla
zattera.
Appunto in quel momento una testa apparve sull’acqua e un nuotatore esausto, ma furioso,
fu visto divincolarsi fra la casa-battello e la sponda.
— Ah, eccolo! — esclamò il ragazzo gioioso, evidentemente molto sollevato da quella
soddisfacente soluzione del mistero; — dev’esser caduto dalla zattera.
— Hai ragione, ragazzo mio, proprio così, ed ecco quel che ti meriti per averlo fatto cadere.
— Così dicendo il mio grondante amico, che s’era già arrampicato sul ponte, si sporse in
fuori, e seguendo l’eccellente esempio di Amenda, espresse anche lui i proprii sentimenti sulla
testa del ragazzo.
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In tutta la faccenda c’era una consolante riflessione da fare, quella che il ragazzo aveva
ricevuto il compenso adeguato ai servizi da lui prestati. M’ero spesso sentito spinto a dargliene
uno anch’io. Credo ch’egli fosse, senza eccezione, il ragazzo più tonto e più stupido che io
m’avessi mai incontrato; e questo è dir poco.
Sua madre aveva stabilito che per quattro lire la settimana «egli ci avrebbe fatto qualche
servizietto» un paio d’ore tutte le mattine.
Quelle furono le precise parole della madre, e io le ripetei ad Amenda, quando le presentai
il ragazzo:
— Questo è Giacomino, Amenda, — le dissi; — la mattina si presenterà qui alle sette, e
ci porterà il latte e la corrispondenza, e da quel momento fino alle nove ti aiuterà a fare qualche
servizietto.
E Amenda prese possesso di lui.
— Direi, signore, dalla sua aria, che per lui sarà un diversivo, — ella notò.
Dopo, tutte le volte che si sentiva un fracasso più grosso del solito o qualche tonfo che
ci faceva agghiacciare il sangue, saltava in piedi, e gridava: «Che diavolo accade?», Amenda
rispondeva: «Niente, è Giacomino che fa qualche servizietto».
Egli faceva cadere tutto ciò che sollevava; rovesciava tutto ciò che toccava; atterrava, se
non era inchiodato, tutto ciò che avvicinava. Non per negligenza, ma per un dono che sembrava
naturale. Io son convinto che in vita sua non avesse portato un carico di qualche cosa in qualche
parte, un canestro, una cesta, un secchio, che non se lo facesse scappar di mano prima che arrivasse
a destinazione. Uno dei suoi uffici era d’innaffiare i fiori sul tetto. Fortunatamente per i
fiori quell’estate la natura pensò ad abbeverarli con tanta larghezza da soddisfare pienamente
gli esseri più assetati di questo mondo; altrimenti tutte le piante sul nostro battello sarebbero
morte di arsura. Da lui non ebbero mai una goccia d’acqua. Egli s’accingeva sempre a portar
loro l’acqua, ma fino alla loro sede non ci arrivò mai. In generale rovesciava il secchio prima di
toccare il battello, e questo era ancora il meglio che potesse accadere, perchè allora l’acqua se
ne tornava semplicemente nel fiume, e non faceva male a nessuno. Talvolta, però, egli riusciva
ad approdare, e allora non si sapeva se l’avrebbe rovesciata sul ponte o nel corridoio. Di tanto
in tanto, arrivava, prima che il fatto avvenisse, a mezza via sulla scaletta. Due volte raggiunse
quasi l’ultimo scalino; due volte quasi raggiunse il tetto; e una volta arrivò addirittura sul tetto.
Non si saprà mai ciò che avvenne in quella memorabile occasione. Lo stesso ragazzo, quando
fu rimesso in piedi, non potè spiegar nulla. S’immaginò che avesse perduto la testa con
l’orgoglio dell’impresa compiuta, e avesse tentato di far degli atti che nè il suo allenamento anteriore
nè la sua capacità naturale lo mettevano in grado di tentare. Comunque, rimane il fatto
che la massa principale dell’acqua cadde giù per il camino della cucina, e che il ragazzo e il
secchio vuoto arrivarono insieme sul ponte prima d’aver pensato mai d’avviarvisi.
Quando non poteva trovar null’altro da danneggiare, cercava per conto suo di colare a
picco. Non era mai sicuro di passare incolume dalla zattera al battello. Più spesso che non
s’immagini, s’impigliava col piede nella catena o nel palo della zattera, e cadeva lungo disteso
sul petto.
Amenda voleva condolersi con lui: «Tua madre si dovrebbe vergognare», le sentii dire
una mattina; — non avrebbe dovuto insegnarti a camminare. Per te ci vorrebbe una carrozzina
da bambino.
Egli era un ragazzo volenteroso; ma la sua stupidità era soprannaturale. Nel cielo
quell’anno si vedeva una cometa, e tutti ne parlavano. Un giorno egli mi disse:
— È vero, signore, che viene una cometa? — Ne parlava, come se si trattasse d’un circo
equestre.
— Viene? — risposi; — è venuta. Non l’hai vista?
— No, signore.
— Ah, bene, cercala stasera. È degna d’esser veduta.
— Sì, signore, mi piacerebbe di vederla. È vero che ha la coda, signore?
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— Sì, una bellissima coda.
— Sì, dicono che ha la coda. Voi, signore, dove andate a vederla?
— Dove vado? Non c’è bisogno d’andare in nessuna parte. Vedila nell’orto stasera alle
dieci.
Egli mi ringraziò, e, inciampando su un sacco di patate, arrivò prima con la testa nella
sua zattera e partì.
La mattina appresso gli domandai se avesse veduto la cometa.
— No, signore, non ho potuto vederla in nessuna parte.
— Hai guardato bene?
— Sì, signore, ho guardato tanto tempo.
— E come diamine hai fatto a non vederla! — esclamai. — Ieri sera la notte era abbastanza
chiara. Dove hai guardato?
— Nell’orto, signore. Dove mi dicesti.
— In giro per il giardino? — interuppe Amenda, che per caso era presente; — sotto i cespugli
d’uvaspina?
— Sì... da per tutto.
Aveva fatto proprio così: aveva preso la lanterna della stalla e s’era messo a girare per il
giardino.
Ma un giorno, tre settimane dopo, superò se stesso. In quel periodo MacShaughnassy si
tratteneva con noi, e il venerdì sera ci preparò un’insalata secondo una ricetta fornitagli dalla
zia. La mattina del sabato naturalmente ci sentimmo tutti molto male. Tutti sempre si sentono
male se hanno mangiato qualche pietanza preparata da MacShaughnassy. Alcuni tentano di
spiegare il fatto col parlare leggermente di causa e d’effetto. MacShaughnassy sostiene che sia
una pura coincidenza.
— Come sapete, — egli dice, — che non vi sareste sentiti male, se non l’aveste mangiata?
È evidente che stamane non vi sentite bene, e me ne dispiace tanto tanto; ma, nonostante tutto
ciò non potete dire, che se non aveste mangiato un po’ di quella roba, non vi sentireste molto
peggio. Forse sareste morti. Probabilmente, questa roba vi ha salvata la vita. — E per il resto
della giornata se ne sta verso di voi con l’atteggiamento di chi vi ha estratti dalla tomba.
Il momento che arrivò Giacomino mi precipitai su di lui.
— Giacomino, — dissi — tu devi correre immediatamente dal farmacista. Non ti fermare
neppure un momento. Digli che ti dia qualche cosa per la colica... l’effetto d’un avvelenamento
vegetale. Dev’essere qualche cosa di molto energico e sufficiente per quattro. Non dimenticare...
qualche cosa che arresti gli effetti d’un avvelenamento vegetale. Fa presto, o se no
potrebbe essere troppo tardi.
La mia eccitazione si comunicò al ragazzo. Egli ritornò a precipizio sulla zattera, e la
spinse vigorosamente via.
Passò mezz’ora, ma Giacomino non si vide di ritorno. Nessuno si sentiva sufficientemente
in forza da corrergli dietro. Non avevamo che quella sufficiente ad aspettare e a imprecar
fiocamente contro di lui. Alla fine d’un’ora ci sentimmo tutti molto meglio. Alla fine d’un’ora e
mezzo eravamo lieti che Giacomino non fosse tornato quando sarebbe dovuto tornare, e soltanto
curiosissimi di sapere che fosse divenuto di lui.
La sera, passeggiando per il villaggio, lo vedemmo seduto sulla soglia della sua casetta,
tutto avvolto in un gran scialle. Aveva l’aspetto abbattuto e sofferente.
— Ebbene, Giacomino, — gli dissi, — che hai? Perchè non sei tornato stamattina?
— Non ho potuto, signore, — rispose Giacomino — mi son sentito subito così male. La
mamma ha voluto che mi mettessi a letto.
— Stamane avevi una così bella cera, — io dissi; — in che modo ti sei sentito male?
— Con quello che m’ha dato il farmacista, signore; m’è parso di morire.
Un lampo mi traversò la mente.
— Che hai detto quando sei arrivato nella farmacia? — domandai.
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— Quello che m’avevate detto, signore; che doveva darmi qualche cosa contro gli effetti
d’un avvelenamento vegetale. E che fosse forte e abbastanza per quattro.
— E il farmacista?
— Il farmacista m’ha detto ch’era una vostra sciocchezza, e ch’era meglio che intanto
avessi incominciato con la dose per uno; e poi domandò se avevo mangiato un’altra volta le
mele acerbe.
— E tu?
— Sì, signore, che ne avevo mangiato un po’, e lui m’ha detto che mi stava bene, e che
sperava mi sarebbe servito da lezione? E poi ha messo qualche cosa che fischiava in un bicchiere,
e me l’ha dato da bere.
— E tu l’hai bevuto?
— Sì, signore.
— E non hai neppure pensato, Giacomino, che tu non avevi nulla... che tu stavi benone,
e che noi avevi bisogno di medicine?
— No, signore.
— Nessuna scintilla di pensiero di qualunque specie, Giacomino, in relazione con la
faccenda, ti s’è accesa in mente dal principio alla fine?
— No, signore.
Le persone che non hanno mai incontrato Giacomino non credono a questo fatto. Essi
sostengono che le premesse sono in contrasto con le leggi note che governano la natura umana,
che i particolari non corrispondono affatto alla media delle probabilità. Le persone, che hanno
veduto Giacomino e che hanno conversato con lui, accettano la cosa con candida fede.
L’avvento di Jephson — che il lettore, confido, non ha dimenticato — ci allietò considerevolmente.
Jephson era sempre speranzoso, quando gli altri erano abbattuti. Non ch’egli si
sforzasse alla maniera di Mark Tapley di apparir più allegro quando era più depresso; ma certo
le piccole disavventure e contrarietà veramente lo divertivano e lo ispiravano. Molti possono
ricordare i loro dispiaceri con un sentimento di compiacenza; Jephson possedeva una filosofia
più robusta che lo metteva in grado di goder dei propri durante il loro sviluppo. Egli arrivava
inzuppato fino alla pelle, ed era assolutamente radioso all’idea di essere venuto fin laggiù con
quel tempaccio a farci una visita nel battello.
Sotto la sua calorosa influenza, le linee irrigidite del nostro viso s’allentarono, e all’ora
della cena c’infischiavamo del tempo, come dovrebbero fare tutti gl’inglesi e le inglesi che vogliono
godersi la vita.
Più tardi, come scoraggiata dalla nostra indifferenza, la pioggia cessò, e noi portammo
le poltrone sul ponte, e ci occupammo a guardare l’accensione dei lampi, che durò un bel pezzo.
Poi, naturalmente, la conversazione si diresse verso un malinconico canale, e cominciammo a
narrar dei fatti sul lato oscuro e misterioso della vita.
Alcuni sono degni d’esser ricordati, e altri no. Mi fece una grande impressione il racconto
che ci narrò Jephson.
Io avevo raccontato un mio caso alquanto curioso. Un giorno avevo incontrato nello
Strand un tale che conoscevo benissimo, ma che non avevo visto da anni. Eravamo andati insieme
fino a Charing Cross, e lì ci eravamo stretta la mano separandoci. Il giorno dopo parlai di
quell’incontro a un amico comune, e allora appresi, per la prima volta, che quel tale sei mesi
prima era morto.
L’illazione più naturale era che io avessi scambiato una persona per un’altra; un errore
che, non avendo io una buona memoria per le fisionomie, m’avviene spesso di commettere. Lo
strano della faccenda era questo: che io avevo conversato con la persona, credendo di parlare
con quell’altro, morto, e fosse caso o no, le sue risposte non erano mai state tali che m’avessero
avvertito minimamente del mio errore.
Avevo appena finito, che Jephson, che mi aveva ascoltato molto attentamente, mi domandò
se credessi allo spiritismo in tutta la sua estensione.
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— Questa è una domanda piuttosto vaga, — risposi. — Che intendi con «lo spiritismo in
tutta la sua estensione?»
— Intendo se tu credi che gli spiriti dei morti non solo abbiano la potenza di rivisitare la
terra a loro piacere, ma se, quando son qui, abbiano il potere dell’azione o di eccitare l’azione.
Lascia che io faccia un caso ben definito. Un mio amico spiritista, un brav’uomo per nulla affatto
fantastico, mi disse una volta che un tavolino per mezzo del quale lo spirito d’un amico aveva
avuto l’abitudine di comunicare con lui, si diresse lentamente verso di lui, a traverso la stanza,
per impulso proprio, una sera ch’egli se ne stava solo, e lo incollò contro il muro. Ora può
qualcuno di voi credere o no a questo?
— Ci crederei, — s’assunse di rispondere per tutti Brown; — ma prima desiderei
d’essere presentato all’amico che t’ha narrato il fatto. Parlando in generale, — egli continuò, —
mi sembra che la differenza fra ciò che noi chiamiamo il naturale e il soprannaturale consista
semplicemente nella frequenza o la rarità dell’avvenimento. Riguardo ai fenomeni che noi siamo
costretti ad ammettere, credo che sia illogico non credere a quelli che non siamo in grado di
confutare.
— Per parte mia, — osservò MacShaughnassy, — io posso più facilmente credere alla
capacità degli spiriti di dare gli strani trattenimenti che son loro attribuiti che non al loro desiderio
di farlo.
— Tu intendi, — aggiunse Jephson, — che non ti rendi ragione perchè uno spirito, non
costretto come noi siamo dalle esigenze sociali, debba avere il capriccio di passare le sue sere a
conversare faticosamente e infantilmente, in una stanza gremita di persone la maggior parte assolutamente
poco interessanti.
— È ciò precisamente che io non posso capire, — convenne MacShaughnassy.
— Io no, — disse Jephson. — Ma io pensavo a qualcosa di assolutamente diverso. Se
per ipotesi un uomo morisse col suo più caro desiderio inesaudito, credete che il suo spirito potrebbe
avere la capacità di ritornar in terra a terminare il lavoro interrotto?
— Bene, — rispose MacShaughnassy, — se si ammette la possibilità che gli spiriti conservino
un interesse anche minimo alle faccende di questo mondo, certo è più ragionevole immaginarli
occupati nel compito che tu dici, che crederli affaccendati nell’esecuzione di semplici
giuochi da salotto. Ma tu a che cosa miri?
— A questo, — rispose Jephson, sedendosi a cavalcioni della sedia, e poggiando le
braccia alla spalliera. — Stamane all’ospedale m’è stato raccontato un fatto da un vecchio dottore
francese. I particolari son pochi e semplici, e tutto quel che se ne sa si può leggere nei registri
della polizia francese di sessantadue anni fa.
«La parte più importante del caso, però, è quella che non è conosciuta e che non sarà
mai conosciuta.
«La storia comincia con un gran torto fatto da un uomo a un altro. Che torto fosse, io
non so. Son tratto a credere, però, che si riferisse a una donna. Credo che perchè egli aveva sofferto
un torto odiasse l’altro con un odio tale, ch’è difficile arda, nel cuore d’un uomo, se non è
alimentato dalla memoria dell’alito di una donna.
«A ogni modo questo non è che una congettura, e il particolare è di poca importanza.
L’autore del torto, fuggì, e l’altro lo inseguì. La loro diventò una corsa accanita, col vantaggio
del primo di un giorno di precedenza. La pista era il mondo intero, e il traguardo la vita
dell’autore del torto.
«I viaggiatori in quei giorni erano pochi e distanziati, e questo faceva sì che la traccia si
potesse più facilmente seguire. Il primo, non sapendo mai a che distanza l’altro lo inseguisse, si
riposava per qualche poco. II secondo, sapendo perfettamente di quanto l’altro lo precedesse,
non si fermava mai, e così ogni giorno l’uomo che era spronato dall’odio s’avvicinava all’altro
ch’era spronato dalla paura.
«In una città la risposta alla domanda sempre eguale era:
« — Alle sette di ieri sera, signore.
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« — Alle sette... ah! Diciotto ore! Presto, datemi qualche cosa da mangiare, mentre si attaccano
i cavalli.
«Nella città seguente il calcolo era di sedici ore.
«Passando innanzi a un villino solitario, il signore si affacciò allo sportello:
«— Da quanto tempo è passata una carrozza che portava un signore alto e biondo?
«—. Questa mattina, signore.
«— Grazie. Avanti! E cento franchi per ciascuno se passate il varco prima dell’alba.
«— E quanto per i cavalli morti, signore?
«— Il doppio del loro valore da vivi.
«Un giorno l’uomo che era spronato dalla paura levò gli occhi e si vide dinanzi la porta
aperta d’una cattedrale, ed entratovi, s’inginocchiò a pregare. Pregò a lungo e fervorosamente,
perchè gli uomini in gravi angustie si apprappano avidamente alle festuche della fede. Pregò
che gli potesse esser perdonato il suo peccato, e, cosa ancora più importante, che gli potessero
essere risparmiate le conseguenze del suo peccato ed esser liberato dal nemico; e a distanza di
pochi passi da lui era inginocchiato il nemico, occupato anche lui a pregare.
«Ma la preghiera del secondo uomo, giacchè era semplicemente un rendimento di grazie,
fu breve; di modo che quando il primo levò gli occhi, vide la faccia del nemico fissa su di
lui, oltre la fila di sedie, improntata da un beffardo sorriso.
«Egli non tentò di levarsi, ma rimase inginocchiato, affascinato dallo sguardo di trionfo
che splendeva negli occhi dell’altro. E l’altro spostò a una a una le sedie ad alta spalliera, e si
diresse pian piano verso di lui.
Allora, appunto come l’uomo che aveva sofferto il torto, stette ritto accanto a quello che
glielo aveva fatto, pieno della soddisfazione d’esser sul punto di vendicarsi, ma ecco rombare
dal campanile della cattedrale un improvviso fragore di campane e l’uomo sul punto di vendicarsi
abbattersi all’indietro morto, il cuore improvvisamente infranto, ancora con quel suo sorriso
beffardo intorno alle labbra.
«E così rimase a giacere.
«E allora l’uomo che aveva consumato il torto si levò in piedi e si diresse all’uscita, lodando
Iddio.
«Che divenisse del cadavere dell’altro non si sa. Era il corpo d’uno straniero morto improvvisamente
nella cattedrale. Non c’era nessuno che potesse identificarlo, nessuno che lo reclamasse.
«Passarono degli anni, e il superstite nella tragedia diventò un degno e utile cittadino e
uno scienziato di fama.
«Nel suo laboratorio v’erano molti oggetti necessari alle ricerche, e bene in vista, ritto in
un angolo, uno scheletro umano. Uno scheletro vecchio e cadente, che un bel giorno crollò e si
sparse a terra in frantumi.
«Così fu necessario comprarne un altro.
«Lo scienziato visitò un trafficante che conosceva bene — un vecchietto dalla faccia incartapecorita,
che teneva una sudicia botteguccia, nella quale non si vendeva mai nulla, entro
l’ombra delle torri di Notre Dame.
«Il vecchietto dalla faccia incartapecorita aveva appunto ciò di cui quel signore aveva
bisogno — uno «studio» assai bello e proporzionato, che doveva essere trasportato e installato
quello stesso pomeriggio nel laboratorio del signore.
«Il trafficante mantenne la parola. Quando il signore entrò quella sera nel suo laboratorio,
l’oggetto era a posto.
«Il signore si adagiò nel suo seggiolone ad alta spalliera e provò a raccogliersi. Ma i
pensieri del signore divagavano e si sbandavano sempre in un’unica direzione.
«Il signore aprì un grosso volume e cominciò a leggere. Lesse d’un uomo che aveva
commesso un torto verso un altro che lo inseguiva. Trovandosi a leggere un tal fatto, chiuse iroso
il libro, e andò a mettersi accanto alla finestra e a guardare al di fuori. Si vide dinanzi la na53
vata d’una gran cattedrale inondata dal sole, e sulle lastre del pavimento steso un morto con un
sorriso beffardo sulle labbra.
«Dandosi dello sciocco, si volse da parte con una risata. Ma la risata gli durò poco, perchè
gli parve che ridesse anche un altro nella stanza. Diventato immediatamente muto, coi piedi
come inchiodati al pavimento, stette un po’ a origliare, poi si volse con gli occhi atterriti
all’angolo donde gli sembrava che il suono fosse partito. Ma il candido oggetto fissato
nell’angolo non faceva che sogghignare.
«Il signore si asciugò la fronte inumidita dal sudore e le mani, e pian piano se ne andò.
«Per due giorni non entrò più nella stanza. Il terzo giorno, dicendosi che i suoi timori erano
quelli d’una ragazza isterica, aperse la porta ed entrò. Per farsi forza, prese in mano il lume,
e direttosi nell’angolo dove era ritto lo scheletro, prese ad esaminarlo. Una serie di ossa
comprate per trecento franchi. Era forse un bambino che aveva paura dei folletti?
«Egli tenne il lume di fronte alla testa sogghignante dello scheletro. La fiamma del lume
vacillava come mossa da un debole respiro.
«Lo scienziato si spiegò la cosa dicendosi che le pareti erano vecchie e screpolate, e che
il vento poteva insinuarsi da per tutto. Si ripetè questa spiegazione traversando la stanza, ma
camminando all’indietro e con gli occhi fissi all’oggetto. Quando raggiunse la scrivania, si sedette
e s’afferrò ai braccioli del seggiolone, sino ad averne bianche le dita.
«Tentò di lavorare, ma le orbite vuote di quella testa sogghignante pareva lo attirassero a
sè. Si levò, e combattè l’impulso di fuggire via gridando. Guardandosi paurosamente in giro, gli
sguardi si posarono su un paravento alto accanto alla porta. Lo trasse innanzi e lo mise fra sè e
l’oggetto, in modo da non vederlo, e che l’oggetto non potesse veder lui. Poi si sedè di nuovo a
lavorare. Per un po’ si sforzò di guardare il libro che aveva dinanzi, ma infine, incapace di dominarsi
più oltre, lasciò che gli sguardi seguissero la loro volontà.
«Forse fu un’allucinazione. Forse, il paravento era stato messo in modo da favorire
quell’illusione. Ma ciò ch’egli vide fu una mano ossuta che si sporgeva sull’orlo del paravento;
e con un grido, stramazzò sul pavimento svenuto.
«Accorse la gente ch’era in casa a sollevarlo, a portarlo via e a metterlo a letto.
Quand’egli si riebbe, la prima sua domanda fu dove era stato trovato lo scheletro — dov’era
quando erano entrati nella stanza. Quando gli dissero che lo avevano visto ritto dov’era stato
sempre, e andarono, per le sue smanie e le sue sollecitazioni, nella stanza a guardare di nuovo,
tentarono al ritorno di nascondere un sorriso. Egli ascoltò quelli che gli parlavano di esaurimento
e della necessità di riposarsi, e fece ciò che gli fu imposto di fare per curarsi.
«Così per molti mesi la porta del laboratorio rimase chiusa. Poi sopraggiunse una fredda
sera d’autunno in cui lo scienziato l’aprì di nuovo, e se la chiuse alle spalle.
«Accese il lume, e si raccolse intorno libri e strumenti, e si sedette nel seggiolone a lavorare.
Ma l’antica paura lo riprese.
«Pur questa volta egli intendeva padroneggiarsi. Si sentiva più forte di nervi e col cervello
più lucido: avrebbe vinto la sua paura irragionevole. Andò fino alla porta e si chiuse dentro;
poi gettò all’altra estremità della stanza la chiave, facendola tintinnare fra i vasi e le bottiglie
che v’erano ammucchiati.
«Più tardi la sua padrona di casa, picchiò, prima d’andarsene a letto, e gli augurò la buona
sera, come faceva sempre. Nessuno le rispose, e con una certa trepidazione, la donna picchiò
più forte e gli disse di nuovo buona sera; e infine le fu risposto buona sera.
«In quel momento ella non stette a pensarci molto, ma dopo ricordò che la voce che le
aveva risposto era stata stranamente stridula e meccanica. Tentando di descriverla, la rassomigliò
a una voce che faceva pensare a una statua.
«La mattina appresso la porta dello scienziato rimase ancora chiusa. Non era cosa insolita
per lui lavorare tutta la notte e fin tardi alla mattina. Così nessuno se ne sorprese. Quando,
però, fu sera ed egli non si presentava, le persone di servizio si raccolsero fuori dell’uscio a
mormorare, ricordando ciò ch’era già una volta accaduto.
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«Si misero in ascolto, ma non udirono alcun rumore. Scossero la porta gridando, poi vi
picchiarono coi pugni. Ma di dentro non veniva rumore alcuno.
«Le persone di servizio, in grand’ansia, decisero di sfondare la porta, che dopo un po’ di
colpi cedette, e le lasciò entrare.
«Lo scienziato stava seduto irrigidito contro la spalliera del seggiolone. Si pensò sulle
prime che fosse morto nel sonno, ma quando s’avvicinarono un po’ più gli videro intorno al
collo delle livide impronte di dita ossute, e negli occhi un terrore che simile non s’era mai visto
in occhi umani».
Brown fu il primo a rompere il silenzio che seguì. Egli mi domandò se avessi un po’
d’acquavite nella credenza. Sentiva bisogno di qualche goccia d’acquavite prima d’andare a letto.
Uno dei principali pregi dei racconti delle storie di Jephson è di farvi sentire il bisogno di
qualche goccia d’acquavite.
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CAPITOLO VI.
— I gatti, — osservò Jephson, un pomeriggio che, seduti sulla zattera, discutevamo la
trama del nostro romanzo, — i gatti sono animali verso i quali io ho il massimo rispetto. I gatti
e i nonconformisti mi sembrano i soli esseri in questo mondo che abbiano una coscienza pratica
e attiva. Guardate il gatto nell’atto di commettere qualche cosa di male e di vietato — se mai
esso ve ne dà l’occasione: osservate con quanta ansia cerca di non farsi scorgere; e con quanta
prontezza, se è scoperto, finge che non aveva cercato di commettere nulla di male — che non ci
aveva neppure pensato — che in realtà era sul punto di far qualche altra cosa, assolutamente diversa.
Si potrebbe quasi credere ch’essi abbiano un’anima.
«Questa mattina appunto stavo osservando sul battello quel tuo gatto fulvo. Esso strisciava
lungo il tetto, dietro le cassette dei fiori, nell’atto che si avvicinava furtivamente al piccolo
tordo che s’era appollaiato su un fascio di gomene. L’assassinio gli scintillava nell’occhio,
e in tutti i muscoli vibratili del corpo s’appiattava la brama del sangue. Mentre si rannicchiava
per spiccare il salto, il destino, favorendo per una volta il debole, volse verso di me l’attenzione
del gatto, il quale, s’accorse così della mia presenza. La mia presenza ebbe su di lui l’effetto
d’una visione celeste su un delinquente biblico. In un istante il gatto fu un essere assolutamente
diverso. La malvagia bestia, che andava in giro tentando di distruggerne un’altra innocente, era
svanita. Era rimasto al suo posto una specie d’angelo peloso dalla lunga coda, che fissava il cielo
con un’espressione per un terzo d’innocenza e due terzi d’ammirazione delle bellezze della
natura. Che cosa mai facesse lì, domandavo? Bene, non vedevo dunque? Si trastullava con un
pezzettino di terra. Certo io non ero così bravo da immaginare che desiderasse d’uccidere quel
caro uccellino... Dio lo benedica!
«Poi, osservate un vecchio gatto che rientra furtivo in casa la mattina presto, dopo una
notte passata su un tetto malfamato. Vi potete figurare una creatura vivente più ansiosa di non
farsi notare? — Ahimè! — par che dica a sè stesso. — non immaginavo neppure che fosse così
tardi. Come passa il tempo quando si è in buona compagnia! Spero che non incontrerò nessuno
che mi conosca... è una seccatura che ci sia già tanta luce.
«In distanza vede una guardia e si arresta a un tratto al riparo d’un’ombra. — Ora, che
cosa fa lì, — si dice, — accanto alla mia porta? Io non posso entrare mentre se ne sta lì presso.
Certo mi vedrà e mi riconoscerà... Proprio la persona capace di parlare con la servitù.
«Il gatto si nasconde dietro un pilastro ad attendere, facendo di tanto in tanto capolino.
La guardia, però, sembra abbia eletto il suo domicilio in quel punto particolare, e il gatto si stizzisce
e s’arrovella.
«— Che ha quello stupido? — mormora indignato; — è morto? Perchè non si muove?
Idiota!
Appunto in quel momento si sente un grido lontano di «latte», e il gatto sobbalza con
gran sgomento. — Gran Dio, sentite! Bene, tutti lo sapranno prima che io entri. Non c’è nulla
da fare. Debbo pure entrare.
«Si guarda in giro, ed esita. — Non ci baderei più che tanto, se non fossi così sudicio, —
pensa, — la gente è sempre così disposta a pensar male.
«— Ah, bene, — aggiunge, facendosi animo, — non è possibile far diversamente. Debbo
confidare nella Provvidenza che altre volte m’ha aiutato. Avanti!
«Assume un aspetto di dolce mestizia, e trotterella con un passo serio e grave. È evidente
che desidera far credere che sia stato fuori tutta la notte per dei lavori relativi
all’Associazione di vigilanza e che rincasi rattristato profondamente da ciò che gli è toccato di
vedere.
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«S’insinua, inosservato, per la finestra ed ha appunto il tempo di darsi una rapida lisciatina
prima che s’oda il passo della cuoca discender le scale. Quando la cuoca entra in cucina,
esso è arrotolato a ciambella sul tappeto, immerso in un sonno profondo. L’apertura delle imposte
lo sveglia. Si leva e si fa innanzi, sbadigliando e stirandosi.
«— Ahimè, è già mattina, allora? — dice ancora assonnato. — Perbacco, ho dormito
così bene, cuoca; e ho fatto dei sogni così belli intorno alla povera mamma!
«I gatti! Li chiami gatti tu? Essi, tranne che nel numero delle gambe, sono in tutto e per
tutto cristiani».
— Sì, certo, — risposi, — son degli animali meravigliosamente scaltri, che non soltanto
per i loro istinti morali e religiosi, sono così strettamente legati all’uomo. La mirabile abilità
con cui curano la propria conservazione è degna della stessa razza umana. Alcuni amici miei
avevano un grosso gatto nero, del quale conservano ancora la metà! Lo avevano allevato da
piccino, e, alla loro maniera casalinga e senza smancerie, gli volevano bene. Ma nulla, però,
s’avvicinava alla passione da una parte e l’altra.
«Un giorno una gatta di Chinchilla andò ad abitare nel vicinato, sotto la tutela d’una
vecchia zitellona e i due gatti s’incontrarono sul muro d’un giardino.
«— Che specie di alloggio hai? — gli chiese la gatta di Chinchilla.
«— Oh, non c’è male.
«— Buona gente?
«— Sì, abbastanza buona... pensando che si tratta di uomini.
«— Piuttosto ben disposta? Ti trattano bene, hanno cura di te?
«— Sì... oh sì, non posso dirne male.
«— E in quanto a vitto?
«— La solita roba, sai bene, ossa e rimasugli, e un pezzo del pane del cane, di quando in
quando, tanto per cambiare.
«— Ossa e pane del cane! Intendi dire che tu mangi le ossa?
«— Sì, quando posso averle. Che male c’è?
«— Ombra dell’Iside egiziana, le ossa e il pane del cane! Non hai mai del pollo novello,
o qualche sardina, o qualche costoletta d’agnello?
«— Pollo! sardine! Che dici? Che sono le sardine?
«— Che sono le sardine? O povero ragazzo mio (la gatta diceva sempre, agli amici un
po’ più vecchi di lei, «ragazzo mio»), codesti tuoi padroni ti trattano in maniera proprio vergognosa.
Su, siediti, e dimmi tutto. Che ti dànno per dormire?
«— Il pavimento.
«— Me lo immaginavo. E da bere, latte scremato e acqua, immagino?
«— Sì, il latte è un po’ magro.
«— Me lo immaginavo. Tu, caro, devi lasciar subito codesta gente.
«— Ma dove debbo andare?
«— Dovunque.
«— Ma chi mi prenderà?
«— Chiunque, se saprai fare. Quante volte credi che io abbia cambiato di padrone? Sette
volte!... e ogni volta mi son trovata meglio. Lo sai dove son nata io? In un porcile. Eravamo in
tre: la mamma, io e un fratellino. La mamma ci lasciava tutte le sere, e quasi sempre ritornava
all’alba. Una mattina non ritornò. Aspettammo e aspettammo, ma passò tutta la giornata e non
tornò, e diventammo sempre più affamati, e ci acquattammo, l’uno a fianco dell’altro, a miagolare
pietosamente. La sera, spiando per un buco nella porta la vedemmo venire a traverso il
campo. Strisciava penosamente, rasentando il suolo. La chiamammo e ci rispose con un basso
«cru», ma non affrettò la sua andatura. Poi entrò e si distese sul fianco, e noi accorremmo, perchè
eravamo quasi morenti di fame. Ci aggrappammo al suo petto, e lei ci leccò a lungo da capo
a piedi. Io me le addormentai sul petto, e la notte mi svegliai agghiacciato. M’avvicinai un po’
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più a lei, ma la sentii ancora più intirizzita. Essa era tutta umida e viscida, con della roba oscura
che le stillava dal fianco. A quel tempo non sapevo che fosse, ma l’ho imparato poi.
«Allora potevo avere appena quattro settimane, e da quel giorno dovetti badare da me ai
casi miei: avviene così a questo mondo, caro. Per un po’ io e mio fratello continuammo a rimanere
nel porcile. Fu una dura vita in principio: due piccini che lottavano per sostenersi; ma ce la
cavammo. Alla fine di circa tre mesi, vagando fuor di casa più lontano del solito, giunsi innanzi
a una casetta solitaria nei campi. Mi parve tepida e comoda a guardarla da fuori, ed entrai: io ho
avuto sempre la fortuna di non mancar di coraggio. Dei bambini, che si trastullavano intorno al
fuoco, mi videro e mi fecero molta festa. Era una sensazione nuova per me, e io rimasi colà. A
quel tempo la casetta mi parve un palazzo.
«Avrei continuato a pensare allo stesso modo, se una mattina, avvicinatomi al villaggio,
non mi fosse capitato di vedere una stanza in fondo a una bottega. Sul pavimento c’era un tappeto,
e un altro innanzi al caminetto. Non m’ero mai immaginato che ci fosse tanto lusso in
questo mondo. Risolsi di stabilirmi là dentro e così feci».
— «E in che modo? — chiese il gatto nero, nel quale la curiosità era aumentata.
— «Col semplice procedimento di entrare e di sedermici. Mio caro ragazzo, la sfrontatezza
è l’«Apriti, Sesamo», per tutte le porte. Il gatto che lavora, stenta la vita; il gatto che ha
cervello, è preso a calci e fatto ruzzolare giù per le scale come uno sciocco; e il gatto che è virtuoso
viene annegato come un furfante; ma quello che ha della sfrontatezza dorme su un cuscino
di velluto, e mangia panna e carne. Io entrai e andai difilato a sfregarmi contro le gambe del
vecchio che se ne stava lì seduto. Lui e sua moglie rimasero assolutamente incantati della mia
familiarità, e mi adottarono con entusiasmo. Girando per i campi la sera solevo spesso udire i
ragazzi della casetta chiamarmi. Passarono settimane prima che rinunziassero a cercarmi. Uno,
il più piccolo, una sera singhiozzava penosamente credendo che io fossi morto. Erano dei fanciulli
molto affezionati.
«Alloggiai con i miei amici bottegai quasi un anno, e da essi passai a delle persone nuove
arrivate recentemente nel vicinato: avevano una cuoca veramente brava. Avevo creduto che
sarei stata bene con quella gente; ma disgraziatamente facevano vita di società, e dovetti rinunziare
alla sontuosa casa e alla cuoca, e scegliermi un’abitazione più modesta, nauseata com’ero
di quella turbinosa esistenza.
«Quindi mi cercai un nuovo rifugio. V’era un vecchio e strano tipo d’uomo che abitava
non molto lontano. La gente diceva ch’era ricco, ma nessuno gli voleva bene. Egli era diverso
da tanti altri. Meditai ben bene la cosa per un paio di giorni, e poi decisi di provarlo. Solitario
com’era, egli poteva aver piacere della mia compagnia, e se no, me ne sarei andata.
«Non m’ero ingannata. Non fui mai più vezzeggiata di quanto fossi da «Orso», come i
ragazzi del villaggio lo chiamavano. La mia padrona attuale è, Dio sa, abbastanza sciocca con
me; ma essa ha altri legami; mentre Orso non aveva altri a cui voler bene, neanche sè stesso.
Egli potè sulle prime appena credere agli occhi propri quando gli saltai sulle ginocchia e mi
sfregai contro la sua brutta faccia. — Bene, micino, — disse, — sai che sei il primo essere di
questo mondo che sia mai venuto da me di sua spontanea volontà? — Aveva qualche lagrima
nei suoi rossi occhietti, mentre diceva così.
«Rimasi due anni con l’Orso, e fui veramente felice. Poi egli cadde malato, e arrivò in
casa della gente estranea che mi trascurò. All’Orso piaceva che io salissi e mi allungassi sul suo
letto, dove poteva carezzarmi con la mano lunga e sottile e in principio solevo compiacerlo. Ma
un malato, come puoi immaginarti, non è una piacevole compagnia, e la camera d’un malato
non è molto sana; così, tutto considerato, capii ch’era arrivato il tempo di muovermi di nuovo.
«Ebbi qualche difficoltà nello svignarmela. L’Orso domandava sempre di me, e tentarono
di tenermi con lui, chè pareva si sentisse meglio tenendomi da presso. Finalmente, però, riuscii
ad allontanarmi, e una volta fuori la porta, misi tanta distanza fra me e la casa da esser sicura
di non esser ripresa, perchè sapevo che l’Orso finchè sarebbe stato in vita non avrebbe mai
cessato di sperare di riavermi.
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«Non sapevo dove andare. Mi erano aperte due o tre case; ma nessuna mi parve adatta.
In una, dove mi fermai per un giorno, appunto per vedere se mi conveniva, c’era un cane; e in
un’altra, che sarebbe stata ottima, c’era un piccino. Comunque vada, non ti fermar in una casa
dove si tiene un piccino. Se un ragazzo ti tira la coda o ti lega un sacchetto di carta intorno alla
testa, puoi difenderti e nessuno ti biasima. — Ti sta bene, — dicono al marmocchio che urla, —
non devi tormentare quel poverino. — Ma se tu ti ribelli a farti afferrar per la gola da un bimbo
e a farti cavare un occhio con un cucchiaio di legno, ti dicono una bestia dispettosa, e
t’inseguono per il giardino. Se la gente bada ai bambini, non bada a me, questa è la mia norma.
«Dopo aver saggiato tre o quattro famiglie, finalmente mi stabilii da un banchiere. Offerte
più vantaggiose sotto il rispetto mondano m’erano aperte. Sarei potuto andare in una locanda,
dove il vitto era semplicemente illimitato, e dove la porta posteriore rimaneva aperta tutta
la notte. Ma dal banchiere (ch’era anche un fabbriciere, e aveva la moglie, la quale, tranne
che alle spiritosaggini del vescovo, non sorrideva mai a nulla), v’era una solida aria di rispettabilità
che, comprendevo, si sarebbe adattata mirabilmente alla mia indole. Ragazzo mio, ti capiterà
d’incontrare dei cinici che sogghigneranno della rispettabilità: non li ascoltare. La rispettabilità
si ricompensa da sè — e con una ricompensa molto pratica e reale. Non ti dà forse dei
bocconi squisiti e un soffice letto, ma ti offre qualche cosa di meglio e di più durevole. Ti rafforza
con la coscienza che vivi la retta vita, che stai facendo la retta cosa, che, fin dove la sagacia
di questo mondo può stabilirlo, tu ti dirigi al punto giusto, al contrario degli altri. Non lasciar
che nessuno mai ti spinga contro la rispettabilità. È la cosa più soddisfacente di questo
mondo — e forse la più a buon mercato.
«Stetti quasi tre anni con quella famiglia, e mi dispiacque molto di doverla lasciare. Non
me ne sarei mai andato, se avessi potuto; ma un giorno successe qualche cosa alla banca che costrinse
improvvisamente il banchiere a partire per la Spagna, e, dopo di ciò, la casa divenne una
residenza tutt’altro che piacevole. Delle persone chiassose e poco amabili picchiavano continuamente
alla porta e si mettevano a imprecare nel corridoio, e di notte si scagliavano mattoni
contro le finestre.
«A quel tempo ero in uno stato di salute molto delicato, e i miei nervi non potevano resistere.
Dissi addio alla città, e dirigendomi fra i campi, m’accasai con una famiglia di benestanti.
«Erano molto ricchi, ma li avrei preferiti più casalinghi. Io sono d’indole affezionata, e
mi piace che quanti mi stanno intorno mi vogliano bene, Erano, in una certa loro distante maniera,
abbastanza buoni con me, ma così, senza badarvi, e io mi stancai di sciupar delle attenzioni
con gente che nè le apprezzava nè le ricambiava.
«Di lì mi trasferii presso la famiglia d’un mercante di patate in ritiro. Socialmente parlando
significava decadere, ma in quanto a comodità significava salire. Si trattava, a quel che
mi parve, d’un’ottima famiglia, che mi voleva un gran bene. Dico «parve», perchè il seguito
provò che non era vero. Sei mesi dopo il mio insediamento, la famiglia se ne andò e mi abbandonò.
Nessuno m’invitò ad accompagnarla; nessuno si curò delle condizioni in cui venivo lasciata.
Evidentemente la mia sorte era per loro indifferente. Non m’era ancora capitato
d’incontrarmi in un così egoistico sconoscimento dei diritti dell’amicizia. E questo scosse la
mia fede — non mai molto robusta — nella natura umana. Risolsi che, per l’avvenire, nessuno
avrebbe l’occasione di produrre in me una delusione. Ho scelto la mia padrona attuale dietro le
raccomandazioni d’un caro amico mio, vissuto già con lei. Mi disse ch’era un’eccellente provveditrice.
La sola ragione perchè lui l’aveva abbandonata era questa: che lei voleva ch’egli rientrasse
tutte le sere alle dieci, ora che gl’impediva ogni movimento. A me non importava molto
— e realmente io non faccio gran conto delle assemblee notturne che sono in voga fra noi. Vi
sono sempre troppi gatti per potersi sinceramente divertire, e una volta o l’altra, vi s’infiltra
sempre qualche elemento turbolento. Mi offersi alla signora, e lei mi accettò contenta. Ma non
le ho mai voluto bene, e non gliene vorrò mai. È una vecchia sciocca che mi secca. Lei, però,
m’è devota, e, se non trovo qualche cosa di straordinariamente attraente, rimarrò con lei.
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«Questa, mio caro, finora la storia della mia vita. Te l’ho narrata per dimostrarti come
sia facile essere ospitato. Scegli una casa, e miagola pietosamente alla porta posteriore. Appena
si apre, corri dentro e sfregati contro la prima gamba che incontri. Sfregati forte, e leva gli
sguardi fiducioso. Nulla conquista gli uomini, ho osservato, con più rapidità della fiducia. Essi
non ne trovano molto ed è sempre la benvenuta quando la incontrano. Sii sempre fiducioso.
Nello stesso tempo sii sempre pronto a ogni emergenza. Se hai ancora qualche dubbio nel ricevimento
che ti si farà, prova a bagnarti un poco. Perchè la gente debba preferire un gatto bagnato
a uno asciutto non son riuscito ancora a capire; ma che un gatto bagnato sia assolutamente
certo di essere accolto e carezzato, mentre quello asciutto ha la probabilità di vedersi volger
contro la pompa del giardino, è un fatto incontestabile. Così, prova a mangiare, se ti riesce e ti
viene offerto un pezzo di pane stantio. La razza umana è sempre commossa fin nelle più profonde
latebre alla vista d’un gatto che mangia un pezzo di pane raffermo.
«Il gatto nero, amico mio, profittò della saggezza della Chinchilla. Una coppia di coniugi
senza gatti era venuta ad abitare alla porta accanto. Esso determinò di adottarli dopo una prova.
Per conseguenza, il primo giorno di pioggia, uscì subito dopo colazione e rimase per quattro
ore in un prato. La sera, bagnato fino alle ossa, e sentendosi abbastanza affamato, si presentò
miagolando all’uscio dei nuovi vicini. Una fantesca apri, ed esso si precipitò sotto la gonna di
lei e le si sfregò ben bene contro le gambe. Lei si mise a gridare, e a quell’allarme accorsero i
padroni.
«— È un gatto smarrito, signora, — disse la ragazza.
« Caccialo, — disse il padrone.
«— Oh no, no, — disse la padrona.
« Oh poverino, è tutto bagnato, — disse la cameriera.
«— Forse ha fame, — disse la cuoca.
«— Prova a dargli un pezzo di pane raffermo, — sogghignò il padrone, che scriveva per
i giornali e credeva di saper tutto.
«Venne offerta al gatto una crosta stantia, ed esso lo mangiò con avidità, e poi si sfregò
grato contro i calzoni chiari dell’uomo, che si sentì confuso per sè e per i suoi calzoni.
«— Oh bene, lasciatelo che rimanga qui, se gli accomoda, — disse.
«Così il gatto, bene accolto e vezzeggiato, rimase.
«Intanto la famiglia da esso lasciata lo andava cercando per tutti i cantucci. Prima
s’erano curati molto di lui; ma ora che non l’avevano più, erano inconsolabili. Nella sua assenza
dovettero riconoscere che il gatto era stata l’unica cosa che aveva fatto della loro abitazione una
casa. Ombre di sospetto s’addensavano intorno a quella scomparsa, la quale, sulle prime, fu ritenuta
un mistero, poi cominciò ad assumere l’apparenza d’un delitto. La moglie accusò apertamente
il marito di non aver mai avuto simpatia per l’animale, e alluse con una certa insistenza
al fatto che fra lui e il giardiniere potevano dare una relazione abbastanza veridica dei suoi ultimi
momenti: una insinuazione che il marito ripudiò con un calore che non fece che rafforzare
il sospetto così formulato.
«Il cane fu esaminato minutamente. Fortunatamente per lui, da due giorni non aveva attaccato
alcuna mischia. Se gli fosse stata scoperta addosso qualche recente traccia di sangue, le
conseguenze sarebbero state assai gravi.
«La persona che soffrì di più, però, fu il più piccino della famiglia, che, tre settimane
prima, aveva vestito il gatto con gli abiti della bambola, portandolo in giro nel giardino in una
carrozzina. Egli s’era dimenticato addirittura del fatto, ma la giustizia, sebbene tardiva, era sulle
sue tracce. Il misfatto fu improvvisamente rammentato nello stesso momento che l’inutile doglia
per la perdita della diletta bestia era al colmo, così che schiaffeggiare il colpevole e mandarlo
immediatamente a letto parve in quel momento addirittura un sollievo.
«Al termine d’una quindicina di giorni, il gatto, accorgendosi, dopo tutto, di non aver
migliorato, ritornò. La famiglia, ne fu così sorpresa che sulle prime non sapeva se fosse lui in
carne e ossa o uno spettro apparso là a consolarla. Dopo averlo visto mangiare una libbra di bi60
stecca cruda, decisero ch’era lui in carne e ossa, e lo raccattarono dal pavimento, stringendoselo
al seno. Per una settimana gli diedero da mangiare a crepapancia e lo trattarono con molto riguardo.
Poi, raffreddatasi l’eccitazione dei primi giorni, egli si vide ricacciato nella stessa condizione
di prima, e, seccato, si trasferì alla porta accanto.
«Le persone della porta accanto avevano sentito anch’esse la sua mancanza, e salutarono
il suo ritorno con una stravagante effervescenza di gioia. Questo diede al gatto l’idea di sfruttare
le due famiglie, alternando fra l’una e l’altra la sua dimora. E così fece. Passava una quindicina
di giorni dall’una, e poi si presentava dall’altra, e viveva come un pascià. Il suo ritorno era
sempre salutato con entusiasmo, e si ricorreva a tutti i mezzi per indurlo a fermarsi. I suoi piccoli
capricci erano accuratamente studiati, e c’erano sempre pronti i suoi cibi preferiti.
«Ma finalmente trapelò la destinazione delle sue scappate, e allora scoppiò un litigio fra
le due famiglie, divise da una siepe. Il mio amico accusava il giornalista di aver adescato il gatto.
Il giornalista ribatteva che la povera bestia s’era presentata al suo uscio bagnata e affamata, e
aggiunse che lui si sarebbe vergognato di tener un animale semplicemente per maltrattarlo. E i
due litigano in media per il gatto almeno due volte la settimana. Probabilmente un giorno o
l’altro verranno alle mani».
Jephson parve molto sorpreso da questo racconto, e rimase pensoso e silenzioso. Gli
chiesi se volesse sentir altra roba, e siccome non fece alcuna opposizione attiva, continuai.
(Forse dormiva; a questo non pensai in quel momento).
Gli narrai della gatta di mia nonna, che, dopo aver vissuto una vita irreprensibile per oltre
undici anni, e aver allevato una prole di nientemeno che sessantasei capi, per non dir di quelli
che morirono nell’infanzia e nella tina dell’acqua piovana, si diede nella vecchiaia al bere, e
fu schiacciata, in istato di ebbrietà (oh giustizia del caso) dal furgone d’un birraio. Io ho letto,
negli opuscoli di propaganda contro l’alcool, che nessun animale suol mai toccare una goccia di
alcool. Il mio consiglio è questo: se desiderate che gli animali si conservino rispettabili, non date
loro l’occasione di arrivarci. Io conoscevo un cavallo... ma niente paura, noi parliamo della
gatta di mia nonna.
Un fusto di birra che colava fu cagione della sua rovina. Si soleva mettervi un piattino al
di sotto per raccoglierne lo sgocciolio. Un giorno la gatta, entrando assetata, e non trovando altro
da bere, lambì un po’ di birra, le piacque, e ne lambì un po’ più, s’allontanò per una
mezz’ora e ritornò a sorbirsi tutto il contenuto del piattino. Poi vi si sedette accanto, e aspettò
che si riempisse di nuovo.
Da quel giorno fino all’ora della sua morte, non credo che la gatta fosse mai una volta
completamente sobria. I suoi giorni trascorrevano in un ebbro stupore innanzi al fuoco della cucina.
Le notti le passava accanto alla birra in cantina.
Mia nonna, urtata e ambasciata oltre misura, rinunziò al fusto di legno, e adottò le bottiglie.
La gatta, condannata così all’astinenza forzata, vagò un giorno e mezzo per casa afflitta e
smarrita. Poi scomparve, e ritornò alle undici, piena come una botte.
Dove fosse andata, e come avesse fatto a procurarsi la birra, non riuscimmo a scoprire;
ma lo stesso programma fu ripetuto ogni giorno. Qualche volta durante la mattina essa riusciva
a eludere la nostra vigilanza e scappava; e la sera tardi tornava a casa barcollando a traverso i
campi, in una condizione che, per non insudiciar la penna, non tenterò di descrivere.
Fu una sera di sabato che incontrò la triste fine alla quale ho accennato. Forse doveva
essere molto ubbriaca, perchè il carrettiere ci disse che, per il buio e perchè i cavalli erano molto
stanchi, egli andava assolutamente a passo di lumaca.
Credo che mia nonna si sentisse piuttosto sollevata che altro. Una volta aveva voluto
molto bene alla gatta, ma la sua condotta recente le aveva intepidito ogni affetto. Noi bambini
seppellimmo la bestia nel giardino sotto il gelso; ma la nonna non volle che vi mettessimo una
lapide, e neppure che vi elevassimo un tumulo. Così quell’animale beone ebbe una fossa inonorata.
61
Raccontai a Jephson anche d’un’altra gatta posseduta una volta dalla nostra famiglia.
Essa era l’essere più materno che io m’avessi mai conosciuto. Non si sentiva felice se non aveva
una famiglia. E in realtà mi ricordo di non averla vista mai senza famiglia. Non badava molto
al genere. Se non poteva avere piccini propri, si contentava di cagnolini e di topi. Non cercava
altro che di poter leccare e allattare qualche cosa. Credo che avrebbe allattato dei pulcini, se
le fossero stati affidati.
Tutto il suo cervello doveva esser pieno di maternità, perchè non aveva abbastanza discernimento.
Essa non sapeva mai veder la differenza fra la prole propria e le altre. Tutto ciò
ch’era giovane, veniva da lei scambiato per un micino. Una volta cacciammo nella sua progenie
un cagnolino rimasto orfano. Non dimenticherò mai lo stupore da cui fu assalita la prima volta
che lo sentì abbaiare. Lo picchiò sul muso da una parte e l’altra, e poi si mise a guardarlo con
un’espressione di dolore sdegnato che era realmente commovente.
— «Bell’onore che fai a tua madre, — sembrava gli dicesse, — bella consolazione che
dai alla mia vecchiaia con tutto codesto chiasso? E guarda codeste orecchie che ti cascano dalla
faccia! Non so dov’abbi imparato simili maniere!».
Lui era un bravo cagnolino. Si provò a miagolare, e a lavarsi il muso con la zampa, a tenere
la coda ferma; ma gli atti non corrispondevano alla volontà. Io non so che cosa fosse più
triste; se il suo sforzo per diventare un gattino a modo, o la disperazione della madrigna di non
riuscire a educarlo.
In seguito le demmo ad allevare un piccolo scoiattolo. A quel tempo essa allattava una
famiglia propria, ma lo adottò con entusiasmo, immaginando che fosse un altro micino, benchè
non riuscisse a indovinare come mai non lo avesse già veduto. E lo scoiattolo divenne il suo
beniamino. Le piaceva il colore, e per la coda sentiva un vivissimo orgoglio materno. Ciò che la
turbava era il fatto che lo scoiattolo se la metteva sulla testa. Provava a tenerla abbassata con la
zampa, e la leccava per delle mezz’ore di seguito, per ravviarla a modo. Ma nel momento che la
lasciava andare, ecco la coda sollevarsi ancora. Io sentivo quella povera madre miagolare desolata
per questo fatto.
Un giorno venne a visitarla una gatta del vicinato, e l’oggetto della conversazione fu evidentemente
lo scoiattolo.
— Il colore è bello, — disse l’amica, guardando con occhio critico il supposto micino,
che s’era levato sulle anche e si pettinava i baffi, e lodando la sola cosa veramente bella che si
potesse lodare.
— Un bellissimo colore, — esclamò orgogliosa la nostra gatta.
— Ma le gambe non mi piacciono molto, — notò l’amica.
— Sì, — rispose pensosa la madre, — hai ragione. Le gambe sono il suo punto debole.
Non posso dire che anche a me piacciano molto.
— Forse poi si accomoderanno, — suggerì gentilmente l’amica.
— Lo spero, — rispose la madre, riacquistando l’allegria momentaneamente perduta. —
Oh, sì, si accomoderanno col tempo. E poi guarda la coda. Ora, onestamente, hai visto mai un
micino con una coda più bella?
— Sì, è una buona coda, — assentì l’altra, — ma perchè gliela tieni sulla testa?
— Non so, — rispose la nostra gatta. — Va da quella parte. Non arrivo a comprenderlo.
Immagino che col tempo si raddrizzerà.
— Sarà un bel guaio, se non si raddrizza, — disse l’amica.
— Oh, ma son certa che si raddrizzerà, — rispose la nostra gatta. — Debbo leccarla un
po’ più. È una coda che, tu lo comprendi bene, ha bisogno d’esser leccata molto.
E per ore quel pomeriggio, dopo che l’amica se n’era andata, attese a ravviare e a lisciare
la coda ribelle; e finalmente, quando ritrasse la zampa e lasciò andare la coda, ecco che questa
si rizzò di nuovo come una molla d’acciaio, destando in lei sentimenti che soltanto le madri
sono in grado di comprendere.
62
— Che cosa ho fatto, — sembrava dire, — che cosa ho fatto perchè mi colpisca questa
disgrazia?
Jephson si svegliò al termine di questo aneddoto e si aderse.
— Sembra che i tuoi amici e tu abbiate posseduto dei gatti assai simpatici.
— Sì, — risposi, — in quanto a gatti la mia famiglia è stata molto fortunata.
— Strano, — osservò Jephson. — Soltanto una volta mi capitò d’incontrare una persona
che di tanto in tanto mi diceva intorno ai gatti cose più meravigliose di quelle che mi vai dicendo
tu.
— Ah, — esclamai, non senza, forse, una punta di gelosia nella voce. — E chi era?
— Un marinaio, — rispose Jephson. — Lo incontrai su un tram di Hampstead, e discutemmo
il soggetto della sagacia negli animali.
« — Sì, signore, — mi disse, — le scimmie sono furbe. Ho incontrato delle scimmie che
avrebbero potuto dar dei punti a un paio di capitani miei superiori; e gli elefanti sono molto intelligenti,
se si crede a quello che se ne racconta. Ne ho sentite tante intorno agli elefanti. E anche
i cani, non dico di no, hanno naturalmente la testa molto bene avvitata. Ma ciò che voglio
dire è che in fatto di logica tagliente e serrata, bisogna guardare i gatti. Vedete, signore, il cane
ha una grande opinione dell’uomo: nel concetto d’un cane non v’è nulla di superiore all’uomo,
ed esso si sforza di farlo sapere a tutti. Ed è naturale che noi diciamo il cane l’animale più intelligente.
Il gatto, invece, ha delle idee diverse intorno al genere umano. Non dice molto, ma può
dire tanto da farvi desiderare di sapere il resto. Noi tiriamo la conseguenza che il gatto non abbia
intelligenza. Ed ecco dove noi lasciamo il nostro pregiudizio prender la mano al nostro giudizio.
In una faccenda di semplice buon senso, non v’è gatto che non possa andar sottovento al
cane e girargli intorno. Non avete mai visto un cane all’estremità d’una catena tentar
d’ammazzare un gatto che si lava tranquillamente il muso a un centimetro di distanza da lui?
Certo che l’avrete visto. Bene, chi è lo stupido fra i due? Il gatto sa che le catene d’acciaio non
hanno l’uso di allungarsi. Il cane, che voi credete, dovrebbe saperne molto di più, pensa che
s’allunghino a forza di abbaiare.
«E inoltre vi infuriaste mai la notte per un miagolio di gatti, e saltaste mai dal letto ad
aprir la finestra per scacciarli, con le grida? Si mossero mai d’un pollice perciò, benchè urlaste
da svegliare i morti, e agitaste le braccia come un attore in un dramma? Neppur per sogno! Essi
si voltarono e si misero a guardarci, ecco tutto. — Su, grida, caro, — par che dicessero; — ci
piace di sentirti: più gridi e meglio è. — E che faceste allora? Deste di mano a una spazzola, a
uno stivale, o a un candeliere, facendo l’atto di scagliarlo. Essi videro il vostro atteggiamento,
videro l’oggetto in mano vostra; ma non si mossero d’un punto. Sapevano che non avreste gettato
fuori della finestra degli oggetti preziosi col rischio di perderli o di rovinarli. Essi hanno del
buon senso, e credono che ne abbiate un poco anche voi. Se non credete che la ragione sia questa,
provate a mostrar loro un pezzo di carbone, o un mattone... qualche cosa che sanno che voi
getterete. Prima che siate pronti a librarlo, non vi sarà più un gatto sotto il tiro.
«Così quanto a discernimento e conoscenza del mondo, di fronte ai gatti i cani sono dei
marmocchi, Avete mai provato a raccontare qualche cosa innanzi a un gatto?
«Io risposi che dei gatti erano stati presenti nel momento che avevo racontato qualche
aneddoto, ma che, fino allora, non avevo mai fatto particolare attenzione alla loro condotta.
« — Ah, bene, cercate l’occasione di osservarli, — rispose quel brav’uomo; — mette
conto di farne l’esperimento. Se narrate qualche cosa innanzi a un gatto, ed esso non si sente a
disagio, durante una parte della narrazione, siete in possesso d’un fatto che potete sicuramente
narrare al primo presidente della corte d’Inghilterra.
«Io avevo un collega, — continuò, — si chiamava Guglielmo Cooley. Noi lo chiamavamo
Guglielmo il Veritiero. Non c’era marinaio più bravo di lui; ma quando si metteva a raccontar
qualche cosa, non era necessario credergli. Bene, Gugliemo aveva un cane; ed egli raccontava
innanzi a quel cane cose che avrebbero fatto stizzire un gatto, ma il cane imboccava
tutto come se nulla fosse. Una sera, dalla sua padrona di casa, Guglielmo narrò una faccenda
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accanto alla quale la carne in conserva, vecchia di due viaggi, sarebbe passata come un pollo
novellino. Io osservai attentamente il cane per veder che faccia facesse. Ascoltò dal principio
alla fine con le orecchie appuntate, e non fece neppur segno di batter le palpebre. Di tanto in
tanto dava uno sguardo in giro con un’espressione di stupore e di gioia che sembrava dire: —
Stupendo, nevvero? — Ahimè, che paura! — L’avreste mai immaginato? — Una meraviglia, vi
dico! — Era un bietolone di cane, al quale si poteva far credere qualunque cosa.
«Io sentivo una sorda irritazione contro Guglielmo che doveva avere un simile animale
alle costole a incoraggiarlo, e quand’ebbe finito, gli dissi: — Vorrei che una sera narraste la
stessa cosa a casa mia.
«— Perchè — disse Guglielmo.
«— Una mia fantasia, — dissi. Non aggiunsi che volevo che il mio gatto lo sentisse.
«— Bene, — disse Guglielmo, — ricòrdamelo. Guglielmo aveva la mania di raccontare.
«Due sere dopo, egli viene e si trova in casa mia, e io gli rammento la cosa. Senza farsi
pregare, comincia a raccontare. Eravamo in sei o sette intorno a lui, e il gatto se ne stava seduto
innanzi al fuoco allisciandosi. Prima che Guglielmo abbia preso l’aire, il gatto cessa a un tratto
di lavarsi e mi fissa, perplesso, come a dire: — Che, hai condotto qui un missionario? — Io gli
feci cenno di star quieto, e Guglielmo continuò a narrare. Quand’egli arrivò al punto dei pescicani,
il gatto si voltò risolutamente e lo guardò. Vi assicuro che sulla faccia del gatto c’era
un’espressione di disgusto che avrebbe fatto vergognare un ciarlatano di piazza.
Un’espressione, parola d’onore, così umana, che per il momento dimenticai che la povera bestia
non poteva parlare. Io potevo veder le parole che erano sulle sue labbra: — Perchè non ci dici
che inghiottisti l’àncora? — Io stavo sui carboni accesi, temendo di istante in istante che dovesse
dirle ad alta voce. Feci un sospiro di sollievo quando vidi il gatto voltar la schiena a Guglielmo.
«Per pochi momenti se ne rimase cheto, ma pareva in preda a una violenta lotta interiore.
Non avevo mai visto un gatto sforzarsi tanto per frenarsi o soffrir tanto in silenzio. Mi sentivo
straziare il cuore a guardarlo.
«Finalmente Guglielmo arrivò al punto nel quale lui e il capitano spalancavano fra loro
due la bocca del pescecane mentre un mozzo si slanciava a testa in giù, a trarre l’orologio e la
catena d’oro non ancora digeriti che il secondo aveva addosso, quando era caduto in mare: e allora
il gatto cacciò un miagolio, e si rotolò su un fianco con le gambe in aria.
«Pensai in principio che la povera bestia fosse morta; ma dopo un po’ si rimise, e parve
che si fosse corroborata per udir il seguito.
«Ma qualche minuto dopo, Guglielmo si spinse tant’oltre, che il gatto dovè dichiararsi
battuto. Si levò, guardò in giro: — Mi dovrete scusare, signori, — esso disse... almeno questo è
ciò che disse, se lo sguardo significa qualche cosa, — forse voi siete avvezzi a codesta roba, e
non vi dà ai nervi. Con me è diverso. Credo d’aver udito abbastanza delle frottole di questo idiota,
da non poterne più; e se a voi non importa, io me ne vado, prima che mi pigli un accidente.
«E così dicendo, si diresse alla porta che io gli apersi ed uscì.
«Un gatto non s’infinocchia con le fandonie come un cane».
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CAPITOLO VII.
L’uomo è capace di riforma? Balzac dice di no. Fin dove la mia esperienza arriva, essa
s’accorda con quella di Balzac — una circostanza di cui gli ammiratori di quell’autore son liberi
di fare quell’uso che vogliono.
Quand’ero giovane e solito ad attingere le mie opinioni sulla vita da persone maggiori di
me, che se ne intendevano di più, come dicevano, io solevo credere che l’uomo si riformasse.
Mi venivano indicati spesso esempi di «caratteri riformati»: anzi, il nostro villaggio, a poche
miglia da un piccolo porto di mare, pareva ne abbondasse particolarmente. Erano persone che,
per quel che se ne diceva, e per quel che dicevano esse stesse, s’erano condotte con una malvagità
assolutamente non necessaria, e che, al tempo che io le conosceva, sembravano dirigersi
per la via assolutamente opposta, a una distanza egualmente riprensibile. E appartenevano invariabilmente
a una delle due classi: i malinconici o gli antipatici. Dicevano, e io lo credeva,
d’essere felici; ma non potevo fare a meno di riflettere come dovevano esser stati tristi prima di
esser felici.
Uno, certo vecchietto dagli occhi miti e dalla voce pigolante, era stato assai cattivo in
gioventù. Che specie di birbante fosse stato non riuscii mai a scoprire. Alle mie domande la
gente rispondeva dicendo ch’egli era stato: — Oh! cattivo in generale, — e accresceva la mia
curiosità per i particolari, aggiungendo che certe cose i ragazzi non dovevano saperle. Dal tono
e dalle maniere con cui mi si parlava, immaginavo che quegli doveva esser stato almeno un pirata,
e io lo consideravo con timore e non senza un sentimento di segreta ammirazione.
Comunque si fosse, egli era stato salvato dalla moglie, un ossuto donnone di poco simpatico
aspetto, ma di opinioni irreprensibili.
Un giorno, non so più perchè, egli venne in casa mia, e, rimasto solo con lui alcuni momenti,
colsi l’occasione d’interrogarlo personalmente sull’argomento.
— È vero che una volta voi eravate malvagio? — dissi, — cercando, col calcare la voce
sull’«una volta», di mitigare la spiacevolezza della domanda.
Con mia gran sorpresa, un raggio di vergognosa gloria si accese sulla sua faccia avvizzita,
e un suono che io volli interpretare un sospiro, ma che sonava come un gorgoglio di compiacimento,
gli sfuggì dalle labbra.
— Ah, sì, — rispose, — ai miei tempi ero un po’ caldo.
Il termine «caldo» in quel caso mi confondeva. Io fino allora avevo riguardato il fervore
d’una persona come un buon segno, la qualità di chi s’affanna per gli altri, in generale tepidi e
freddi. Che la parola potesse essere impiegata a designare una cattiveria m’era assolutamente
nuovo.
— Ma ora siete buono, nevvero? — continuai, rimandando a una migliore occasione
d’indagare sul senso della parola.
— Sì, sì, — rispose, riprendendo il suo solito aspetto di rassegnata malinconia. — Sono
un tizzone tolto dal fuoco, sono.
— Ed è vero ch’è stata vostra moglie a farvi buono? — incalzai, risoluto, giacchè avevo
cominciato a investigare, ad avere delle informazioni di prima mano su tutti i punti.
Alla menzione della moglie, i lineamenti di lui immediatamente si trasformarono. Guardando
in giro in fretta per assicurarsi che, all’infuori di me, nessuno altro sentisse, si curvò un
poco, e mi sibilò nell’orecchio queste parole... non le ho mai dimenticate, c’era in esse un così
vivo tono di sincerità: — La scorticherei viva, mia moglie; la scorticherei viva!
Ebbi l’impressione, anche alla luce del mio allora limitato giudizio, di un desiderio
d’una persona assai poco rigenerata; e così la mia fede nella possibilità della riforma dell’uomo
ricevè presto il primo dei molti colpi che hanno finito col distruggerla.
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La natura, umana o no, non fu fatta per essere riformata. Si può svilupparla, si può frenarla,
ma non si può alterarla.
Voi potete prendere una piccola tigre e farla stare su un tappeto, e farle lambir con la
lingua il latte, e finchè le darete tappeti su cui sdraiarsi e abbastanza latte da bere, farà le fusa e
si comporterà come un’affezionata bestia domestica. Ma è una tigre, con tutti gl’istinti della tigre,
e la sua progenie fino alla consumazione dei secoli sarà di tigri.
Nello stesso modo, potete prendere una scimmia e svilupparla per alcune migliaia di generazioni,
finchè non perda la coda e diventi una scimmia assolutamente superiore. Potete continuare
a svilupparla ancora per altre poche migliaia di generazioni, finchè non raccolga dai vasti
vapori dell’eternità un intelletto e un’anima, con l’aiuto dei quali è messa in grado di tener la
propria natura originalmente scimmiesca più o meno sotto controllo.
Ma la scimmia c’è sempre e ci sarà sempre, e di tanto in tanto, quando la guardia, rappresentata
dalla Civiltà, volterà per un momento le spalle, come durante le «furie spagnuole», o
«i massacri di settembre» o «l’impero della plebaglia d’occidente», essa si slancia e morde e
sbrana la carne tremebonda, o immerge il braccio peloso fino al gomito nel sangue, o balla intorno
a un negro che vien arso vivo.
Conoscevo una volta un tale — o, meglio, sapevo d’un tale — ch’era un ubriacone inveterato.
Egli diventò e continuò a essere ubriacone non per debolezza, ma per proposito deliberato.
Quando i suoi amici gli facevano delle rimostranze, egli rispondeva che badassero ai fatti loro,
e che lo lasciassero in pace. Se avesse veduto qualche ragione per non ubriacarsi più, ci avrebbe
rinunziato. Intanto gli piaceva d’ubriacarsi, e, voleva ubriacarsi quanto più spesso avrebbe
potuto.
Continuò a farlo deliberatamente e con metodo. Per quasi dieci anni, così si diceva, non
era mai andato a letto sobrio. Sarà forse un’esagerazione — sarebbe una singolare diceria se così
non fosse — ma si può ritenerla abbastanza veritiera considerandone gli effetti pratici.
Un giorno vide una ragione per non ubriacarsi più. Non firmò alcuna obbligazione, non
fece alcun giuramento. Disse: «Non toccherò più un’altra goccia di vino, un’altra goccia di alcool
», e per ventisei anni mantenne la parola.
Alla fine di quel tempo occorse una serie di circostanze che gli fecero tormentosa la vita,
e lo spinsero a desiderare di sbarazzarsene. Egli era uomo avvezzo, quando desiderava un
oggetto a sua portata, di stender la mano e prenderselo. Esaminò il proprio caso, con calma, e
decise di uccidersi.
Se la cosa si doveva fare, era meglio, per ragioni che se elencate ci menerebbero troppo
lontano, farla quella stessa sera, e, se possibile, prima delle undici, l’ora che una certa persona
poteva arrivare da un certo posto.
In quel momento erano le quattro del pomeriggio. Egli attese ad alcuni affari necessari,
e scrisse alcune lettere necessarie. Questo lo occupò fino alla sette. Poi egli chiamò una vettura
e si fece portare in un alberghetto del suburbio, domandò un salottino riservato, e ordinò delle
sostanze per la composizione d’un ponce particolare ch’era stata l’ultima bevanda da lui assaporata
ventisei anni prima.
Per tre ore se ne stette colà a bere in continuazione, con l’orologio davanti. Alle dieci e
mezzo sonò il campanello, pagò il conto, tornò a casa e si segò la gola.
Per un quarto di secolo la gente aveva parlato di lui come d’un carattere riformato. Il suo
carattere non s’era riformato un fico secco. La sete per i liquidi ardenti non gli s’era mai spenta.
Per ventisei anni egli l’aveva, essendo un grand’uomo, tenuta abbrancata per la gola. Quando
tutto gli era diventato indifferente, sciolse la stretta, e il pravo istinto risorse in lui così forte il
giorno che doveva morire come il giorno che l’aveva domato.
Tutto ciò che un uomo può fare, è di pregare per aver la forza di soggiogare il male ch’è
in lui e di tenerlo bene avvinto di giorno in giorno. Non sento mai degli sciocchi discorsi intorno
a «caratteri cambiati» e a «nature riformate», senza pensare a un sermone che ascoltai una
volta in una riunione wesleyana per il risveglio religioso.
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— Ah! amici miei, tutti quanti siamo abbiamo il diavolo in corpo. Io l’ho, voi l’avete,
— gridava il predicatore, ch’era vecchio, con i capelli bianchi e la barba lunga, e gli occhi selvaggi
e pieni di fuoco. La maggior parte dei predicatori che venivano per il risveglio religioso,
come si diceva in quel distretto, avevano gli stessi occhi.
— È vero... è vero, — disse una voce in risposta.
— E voi non potete liberarvene, — continuò l’oratore.
— Non da noi, — esclamò una voce calda dall’estremità della sala; — ma il Signore ci
aiuterà.
Il vecchio predicatore si volse quasi con sdegno contro colui che aveva parlato:
— Ma il signore non lo farà, — gridò, — non ci contare, caro. Il diavolo lo abbiamo e
dobbiamo tenercelo. Non possiamo liberarcene. Il Signore non vuole.
Si levò un gran mormorio di riprovazione, ma il vecchio continuò imperterrito:
— Non siete capaci di liberarvene. Dovete tenervelo stretto. Non lo lasciate andare. Tenetelo
stretto... e dategliene! Vi dico che è un buono e salutare esercizio cristiano.
Noi avevamo discusso sull’argomento in quanto si riferiva al nostro eroe. Era stato accennato
da Brown come un’idea veramente originale, e che si prestava, perciò, a una relativa
novità di trattamento, di fare del nostro eroe un briccone del più perfetto conio.
Jephson assecondò la proposta, perchè saremmo stati in grado di fare più facilmente un
lavoro artistico. Egli era persuaso che saremmo stati più sicuri del fatto nostro ritraendo un furfante
che tentando di dipingere un galantuomo.
MacShaughnassy rinterzò (se m’è lecito dir così) questa mozione con ardore. Egli era
stanco, disse, del cuore d’una purità cristallina, del giovane generoso e nobile della letteratura
romanzesca. E poi, questo costituiva una lettura poco raccomandabile per la gioventù. Le dava
un’idea falsa del mondo, e la rendeva poco soddisfatta dell’umanità qual’è in realtà.
E, così, si mise con gran fervore a schizzare la sua idea d’un eroe, riguardo al quale io
dirò soltanto che non vorrei incontrarlo in una notte tenebrosa.
Brown, il nostro compagno più serio, ci pregò d’essere ragionevoli, e ci rammentò, non
per la prima volta, e non forse assolutamente senza necessità, che le nostre riunioni avevano lo
scopo di discutere di affari, non di chiacchierar di sciocchezze.
Così ammoniti, attaccammo il soggetto coscienziosamente.
L’idea di Brown era che il protagonista dovesse essere un perfetto briccone fin verso la
metà del libro; quando un avvenimento inatteso avrebbe l’effetto di riformarlo completamente.
Questo naturalmente portò la discussione fino alla domanda con la quale ho cominciato questo
capitolo: «L’uomo è capace di riforma?» Io mi dichiarai per il no, e diedi le ragioni della mia
incredulità quasi nello stesso modo come le ho date qui. MacShaughnassy, d’altra parte, si dichiarò
per il sì, e portò ad esempio sè stesso — un uomo che in passato, com’egli asserì, era stato
scervellato, intrattabile e d’una volubilità assoluta.
Io sostenni che questo era semplicemente un esempio dell’enorme forza di volontà, che
metteva in grado un uomo di vincere e sollevarsi sui difetti di carattere coi quali la natura lo aveva
debilitato.
— La mia opinione su di te, — dissi — è che sei un asino di buone intenzioni, sebbene
naturalmente sii disperatamente irresponsabile. Ma, — continuai in fretta, vedendo che stendeva
la mano su un volume delle opere complete di Shakespeare lì sul pianoforte, — le tue capacità
intellettuali sono di una così straordinaria potenza da dissimulare questa circostanza e far la
figura d’una persona di molta sagacia e buon senso.
Brown convenne con me che nel caso di MacShaughnassy gl’indizi della primitiva disposizione
erano chiaramente visibili, ma sostenne che la spiegazione non era affatto felice e
che non doveva aver peso nella discussione.
— Parlando seriamente, — egli disse, — non credi che vi siano dei casi capaci di demolire
e ricostruire, cioè riformare, la natura d’un uomo?
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— Da demolire, — risposi, — sì; ma da riformare, no. Il passaggio per una gran prova
può frantumare o rafforzare un uomo, appunto come passare per un fornace può produrre o purificare
il metallo; ma nessuna fornace accesa mai in questo mondo può cambiare una verga
d’oro in una verga di piombo, o una verga di piombo in una verga d’oro.
Domandai a Jephson che ne pensasse lui. Quella della verga d’oro, egli disse, non era
una buona similitudine, giacchè riteneva che il carattere non fosse un elemento immutabile. Lo
rassomigliò a una droga — veleno o elisir — composta da ciascuno per sè dalla farmacopea di
tutte le cose note alla vita e al tempo; ed egli non vedeva alcuna impossibilità, soltanto qualche
improbabilità, a gettar il bicchiere da parte e a preparare con dolore e fatica una nuova pozione.
— Bene. — dissi, — esaminiamo praticamente il caso: hai saputo mai d’un uomo che
abbia cambiato di carattere?
«— Sì, — rispose. — Conobbi un uomo il cui carattere mi parve completamente mutato
da un caso che gli occorse. Forse avvenne, come tu dici, perchè era stato demolito, o forse perchè
la lezione gl’insegnò a frenare il suo istinto naturale; ma il risultato, comunque, fu sorprendente.
Gli chiedemmo di narrarci i particolari della cosa, ed egli ce li narrò.
— Era un amico di certi miei cugini, — cominciò Jephson, — coi quali solevo trovarmi
spesso insieme, prima che andassi all’università. Quando lo incontrai la prima volta, era un giovane
di ventisei anni, forte spiritualmente e fisicamente, e d’un’indole grave e ostinata che quelli
che gli volevano bene chiamavano imperiosa e quelli ai quali era antipatico — i più numerosi
— chiamavano tirannica. Quando lo vidi tre anni dopo, era, si sarebbe detto, un vecchio di ventinove
anni, affabile e debole oltre la linea di confine della debolezza, sfiduciato di sè stesso e
riguardoso per gli altri in un grado ch’era spesso sciocco. Prima, per nulla pigliava fuoco e
s’accendeva d’ira ogni momento. Dopo il cambiamento di cui parlo, una sola volta vidi
un’ombra di collera oscurargli il viso. Nel corso d’una passeggiata c’imbattemmo in un giovinastro
che atterriva una bambina col fingere d’aizzarle contro un cane. Egli abbrancò quel ragazzaccio
con una stretta che mancò poco non lo soffocasse, e gli diede una lezione che mi parve
assolutamente sproporzionata alla colpa per quanto brutale.
«Io gli feci le mie rimostranze quando mi raggiunse.
— «Sì, — rispose scusandosi. — Credo d’essere un duro giudice di certe follie. — E,
sapendo a che miravano i suoi occhi d’ossesso, io non dissi più altro.
«Egli era il socio più giovane d’una gran ditta d’esportatori di tè in Londra. Per lui non
v’era molto da fare nell’ufficio di Londra, e perciò, quando in grazia di alcune obbligazioni ipotecarie,
una piantagione di tè dell’India meridionale cadde nelle mani della ditta, si pensò di
mandarlo laggiù ad assumerne la direzione. Questo progetto gli si adattava mirabilmente. Era
un uomo che pareva assolutamente nato per vivere una vita di dure fatiche, per affrontare una
somma non indifferente di difficoltà e di pericoli, per governare un piccolo esercito di lavoratori
indigeni più disposti a obbedire per timore che per affezione. Una vita che domandava pensiero
e azione avrebbe dato alla sua forte natura un interesse maggiore e uno svago maggiore di
quelli che avrebbe potuto mai sperare d’ottenere fra gli stretti limiti e le pastoie della nostra civiltà.
«Una sola cosa si poteva ragionevolmente obiettare contro questa risoluzione, e la cosa
era sua moglie. Ella era una creatura fragile e delicata, che egli aveva sposata ubbidendo a
quell’istinto di attrazione verso il contrario, che la natura, con lo scopo di mantenere il tipo medio,
ha impiantato nei nostri petti — una timida fanciulla dagli occhi miti, una di quelle donne
per le quali la morte è meno terribile del pericolo, e più facile affrontare il destino che la paura.
Si sa che le donne di tal tempra fuggono sgomente da un topolino e si sottopongono eroicamente
al martirio. I loro nervi debbono tremare, appunto come un albero di tremula deve aver le foglie
continuamente agitate.
«Che essa fosse assolutamente disadatta, e che sarebbe stata resa infelice dalla vita alla
quale il posto accettato dal marito l’avrebbe condannata, egli l’avrebbe subito compreso, se si
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fosse fermato un momento a considerare i sentimenti di lei. Ma non era sua abitudine vedere
una questione sotto altro rispetto che non fosse il proprio. Non vi può esser dubbio che, a suo
modo, egli l’amava appassionatamente, come una cosa che gli apparteneva; ma lo faceva con
quell’amore che uomini così fatti hanno per il cane che battono, per il cavallo che fanno sanguinar
con gli sproni. Non pensò neppure a consultarla sulla decisione presa. La informò un
giorno della cosa e della data della loro partenza, e, consegnandole una bella somma di denaro,
le disse di comprarsi tutto ciò di cui aveva bisogno, e di chiedergli altro denaro se le occorreva;
e lei, che lo amava con una devozione da cane, la quale su lui andava tutta sciupata, ingrandì un
po’ più gli occhi già grandi, ma non disse parola. Pensò molto fra sè, però, all’imminente mutamento,
e quando era sola, piangeva in silenzio; poi, udendo i passi di lui, s’asciugava in fretta
la traccia delle lagrime, e gli andava incontro con un sorriso.
Ora, la timidezza e la nervosità di lei, che a casa erano sempre state un soggetto di canzonatura,
diventarono, nelle nuove condizioni della loro vita, un fastidio serio per il marito. Una
donna che sembrava incapace di reprimere uno strillo tutte le volte che si volgeva e vedeva nel
buio un paio d’occhi lucenti guardare da una faccia oscura, una donna ch’era in pericolo di cader
da cavallo per la paura al ruggito d’una fiera un miglio lontana e diventava bianca e smorta
d’orrore alla semplice vista d’un serpente, non era una persona con cui si potesse vivere comodamente
nelle vicinanze della giungla indiana.
«Egli non aveva paura di nulla, e non poteva capire la paura della moglie, che considerava
una semplice affettazione. Aveva una mezza idea, comune agli uomini del suo stampo, che
le donne si mostrassero nervose perchè immaginavano di parer più avvenenti e leggiadre, e che
a convincerle della follia della nervosità, potessero essere indotte a lasciarla stare, allo stesso
modo che si può lasciare stare un’andatura affettata o delle moine infantili. Un uomo che si
vantava, come faceva lui, di conoscere a fondo i cavalli, avrebbe dovuto, si crederebbe, possedere
una nozione più esatta della natura della nervosità, che è una semplice faccenda di carattere.
Ma quell’uomo era uno sciocco.
«La cosa che più lo irritava era l’orrore della moglie per i serpenti. Egli aveva la fortuna
— o la sfortuna, come meglio vi piace — di non aver immaginazione di sorta, e fra lui e la razza
dei serpenti non correva alcuna speciale avversione. Una creatura che strisciava sul ventre
non gli faceva più paura d’un’altra che camminasse con le gambe; anzi, un po’ meno, perchè
sapeva che, in generale, v’era meno pericolo d’esser assalito. Un rettile cerca sempre di fuggire
con la massima velocità dall’uomo. Se non è attaccato o spaventato, non tenta di assaltar
l’uomo. Molti son contenti di apprender questo particolare dai libri di storia naturale. Egli
l’aveva potuto sperimentare da sè stesso. Il suo servo, un vecchio sergente dei dragoni, mi raccontò
d’averlo visto fermato con la faccia a sei pollici dalla testa d’un cobra col cappuccio, a
osservarlo a traverso gli occhiali mentre s’allontanava strisciando, pur sapendo che un solo tocco
di quelle zanne avrebbe significato senza scampo la morte. Gli sembrava mostruoso che un
essere ragionevole potesse aver terrore — un indicibile, mortale terrore — di esseri così pietosamente
innocui; ed egli risolse di tentar di curar la moglie dalle sue insane paure.
«Ci riuscì meglio di quanto avesse sperato, ma gli rimase negli occhi uno sguardo di orrore
che non se n’è andato più e non se n’andrà più mai.
«Una sera, tornando a cavallo a traverso una parte della giungla non lontana dalla sua
abitazione, sentì da presso un sibilo morbido e basso, e, guardando in su, vide un pitone svolgersi
dal ramo d’un albero e avviarsi a traverso l’erba alta. Egli era stato a caccia di antilopi, e
aveva il fucile carico sospeso alla sella. Saltando dal cavallo spaventato, fece appena in tempo a
sparare un colpo contro l’animale, prima che esso sparisse. Aveva appena sperato, in quelle
condizioni, di colpirlo. Per caso, la palla lo prese alla giuntura delle vertebre con la testa, e lo
freddò all’istante. Era un magnifico campione della specie, e tranne che per la piccola ferita fatta
dalla palla, era rimasto assolutamente intatto. Egli lo raccolse, e lo depose a traverso la sella,
per portarselo a casa e conservarlo.
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Andando a galoppo, e dando di tanto in tanto un’occhiata al grosso, odioso rettile che
s’agitava e si torceva innanzi ai suoi occhi come se fosse ancora vivo, gli lampeggiò una bellissima
idea: di servirsi del serpente morto per curar la moglie dalla paura di quelli vivi. Avrebbe
fatto in modo ch’ella lo vedesse, lo credesse vivo e ne avesse paura; poi lui, le avrebbe mostrato
che s’era spaventata d’un semplice oggetto inerte, e lei si sarebbe vergognata, risanando della
sua follia. Un’idea simile non poteva presentarsi che a uno sciocco.
«Giunto a casa, portò il serpente morto nel suo salottino; poi, chiusa la porta, l’idiota
cominciò a mettere in atto il suo piano. Accomodò il mostro in una posizione che lo facesse apparir
vivo. Lo lasciò nell’atto di strisciar dalla finestra aperta sul pavimento, e chiunque fosse
entrato nella stanza all’improvviso, difficilmente avrebbe potuto evitare di calpestarlo. Tutto era
abilmente preparato.
«Come ebbe finito, prese un libro da uno scaffale, l’aperse, e lo mise con le pagine in
giù sul canapè. Poi, soddisfatto di quanto aveva preparato, aprì l’uscio e uscì, con un sorriso di
compiacenza.
«Dopo desinare, accese un sigaro e se ne stette a fumare un po’ in silenzio.
« — Ti senti stanca? — disse finalmente alla moglie con un sorriso.
Lei si mise a ridere, e, chiamandolo poltrone, gli chiese che cosa gli occorresse.
« — Il romanzo che stavo leggendo. L’ho lasciato nel salottino. Hai compreso. Lo troverai
aperto sul canapè.
«Ella si levò in fretta e corse leggera verso l’uscio.
«Siccome si fermò un momento a volgersi indietro e a chiedergli il titolo del libro, egli
ebbe il tempo di pensare che la moglie era tutta leggiadria e dolcezza, e per la prima volta scorse
un debole barlume della vera natura di ciò che stava facendo.
« — No, no, — disse, come per alzarsi; — non ho più... — Poi, abbagliato dal fulgore
del piano preparato, si frenò; e la moglie andò.
«Egli udì i passi sul tappeto del corridoio, e sorrise di compiacenza. Pensò che la cosa
sarebbe stata assai divertente. Ripensando al fatto, è difficile anche ora considerarlo con indulgenza.
«La porta del salottino si aprì e si chiuse, e lui rimase trasognato a guardar la cenere del
sigaro, sempre sorridendo.
«Passarono un po’ di secondi, ma il tempo parve molto più lungo. Il marito allontanò
con un soffio la grigia nuvola dinanzi a lui e aspettò. Poi udì ciò che aveva aspettato di udire —
un grido lacerante. Poi un altro, che, giacchè sperava di udire il tonfo dell’uscio distante e la
precipitosa corsa della moglie per il corridoio, lo sorprese, così che il sorriso gli si dileguò dalle
labbra.
«Poi un altro grido, e un altro, e un altro, di seguito.
«Il servo indigeno, che s’aggirava tacito per la stanza, depose l’oggetto che aveva in
mano, e si mosse istintivamente verso il salotto. Il marito si alzò e lo trattenne.
« — Non ti muovere, — gli disse con voce dura. — Non è nulla. La tua padrona ha paura;
ecco tutto. Deve imparare a dominarsi. — Poi si mise di nuovo a origliare, e le grida finirono
con ciò che sonava stranamente come una risata soffocata; e poi si fece un improvviso silenzio.
«E da quel silenzio senza fondo, quell’uomo sentì la prima volta in vita sua emergere la
paura, e lui e il servo bruno si guardarono l’un l’altro con occhi in cui v’era una strana rassomiglianza;
e, per un istinto comune, si mossero insieme verso il luogo donde il silenzio veniva.
«Quando aprì la porta, l’uomo vide tre cose: l’una il pitone morto, che giaceva dove era
stato lasciato; la seconda, un pitone vivo, il suo compagno o la sua compagna, forse, che strisciava
intorno all’altro; la terza un mucchio di carne schiacciata, sanguinosa, in mezzo al pavimento.
«Egli poi non ricordò nient’altro, e soltanto alcune settimane dopo aprì gli occhi in una
stanza buia che non gli era familiare. Ma il servo indigeno, prima di fuggire gridando, vide il
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padrone gettarsi sul serpente vivo e afferrarlo con le mani; e quando poi altri irruppero nella
stanza e lo raccolsero barcollante nelle loro braccia, trovarono il secondo pitone con la testa
staccata.
«Questo è il caso che mutò il carattere del mio uomo... se pure mutò — concluse Jephson.
— Egli me lo raccontò una sera, mentre sedevamo sul ponte d’un piroscafo, tornando da
Bombay. E non cercò di diminuire la propria responsabilità. Mi raccontò il fatto, quasi come ve
l’ho raccontato io, ma in un tono eguale e monotono, senza neppure un indizio di commozione.
Gli domandai, dopo ch’ebbe finito, come mai avesse la forza di ricordarlo.
« — Ricordarlo! — rispose, con un lieve accento di sorpresa. — Se non mi abbandona
mai!»
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CAPITOLO VIII.
Un giorno parlavamo di delitti e di delinquenti. Avevamo discusso la composizione d’un
romanzo senza bricconi, ma avevamo deciso che non sarebbe riuscito attraente.
— È triste, — osservò MacShaughnassy, meditabondo; — ma come questo mondo sarebbe
disperatamente noioso e uggioso, se non ci fosse la gente cattiva. Quando sento dire di
persone, — continuò — che vanno in giro tentando di riformare gli altri e renderli buoni, sapete
che divento assolutamente nervoso? Abolite il peccato, e la letteratura diventa un ricordo del
passato. Senza la classe dei delinquenti, noi autori morremmo di fame.
— Non mi affannerei, se fossi in te — rispose Jephson, secco; — una metà
dell’umanità, quasi in continuazione, dal principio della creazione, ha cercato di riformare
l’altra metà; ma nonostante tutto, par che ci resti sempre una somma considerevole di natura
umana. Sopprimere il peccato sarebbe quasi lo stesso che sopprimere un vulcano... tappando un
cratere, se ne apre un altro. Nel nostro tempo continuerà a durare il male.
— Io, in questo caso, non sono così ottimista come sei tu, — rispose MacShaughnassy.
— A me sembra che il delitto... a ogni modo, il delitto interessante... sia a poco a poco bandito
dalla nostra esistenza. I pirati e i ladroni di strada sono effettivamente scomparsi. Il vecchio assassino
ha nascosto il suo coltellaccio in una scatola a doppio fondo. La ciurma, che era sempre
pronta a salvare l’eroe del matrimonio imminente, s’è sparpagliata ai quattro venti. Non v’è più
un trabaccolo sulla costa in attesa d’un ratto. Gli uomini decidono le loro vertenze d’onore nelle
aule dei tribunali, e ritornano a casa feriti soltanto nella borsa. Gli assalti alle donne senza protezione
sono confinati nei quartieri più miserabili, dove non abitano eroi, e sono vendicati dal
magistrato della relativa giurisdizione. Il ladro moderno è generalmente un disoccupato. Il suo
bottino, di solito, consiste in un soprabito e un paio di stivaletti, e nell’atto di trafugarli, egli è
sorpreso e catturato da una domestica che sbuca dalla cantina. I suicidi e gli assassini si fanno
d’anno in anno meno numerosi. Se la diminuzione continua nella stessa proporzione, nella
prossima decade le morti violente saranno scomparse, e si riderà d’un omicidio come d’un fatto
troppo improbabile per essere interessante. Una certa sezione di ficcanasi strepitano perchè si
dia man forte al settimo comandamento. Se il loro desiderio sarà esaudito, gli autori non avranno
che a seguire il consiglio dato loro dai critici, e ritirarsi interamente dagli affari. È certo che i
nostri mezzi di sostentamento a uno a uno ci vengono tutti tolti. Gli autori dovrebbero unirsi in
società per l’incoraggiamento e l’incremento del delitto.
La principal mira di MacShaughnassy con queste osservazioni, era di urtare e di affliggere
Brown, e il suo scopo egli raggiunse. Brown è — o meglio, era in quei giorni — un bravo
e serio giovane con un’alta — si sarebbe inclinati a dire — esagerata — opinione
dell’importanza e della dignità della professione letteraria. Il concetto di Brown del fine della
creazione era che Iddio avesse fatto l’universo per dare al letterato qualche cosa da scrivere. Io
una volta solevo attribuire a Brown il merito dell’originalità di quest’idea; ma cresciuto negli
anni ho appreso che la teoria è comunissima e popolarissima nei circoli letterari.
Brown fece delle rimostranze a MacShaughnassy:
— Tu parli, — egli disse, — come se la letteratura fosse parassita del male.
— E che altro è mai? — rispose MacShaughnassy, con entusiasmo. — Che ne sarebbe
della letteratura senza la follia e il peccato? Che altro fa il letterato, se non rastrellare il vitto per
sè dal mucchio della spazzatura della miseria umana? Immàginati, se tu vuoi, un mondo perfetto...
un mondo dove uomini e donne non dicano mai delle sciocchezze e non ne facciano; dove i
ragazzi non siano mai malvagi e le bambine non facciano mai delle osservazioni imbarazzanti;
dove i cani non s’azzuffino mai e i gatti non miagolino; dove le mogli non rimbecchino mai i
mariti e le suocere non li irritino mai; dove gli uomini non vadano mai a letto con tutte le scarpe
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e i capitani di mare non bestemmino mai; dove i conciatetti sappiano il loro mestiere e le zitellone
non vestano mai come giovinette; dove i negri non rubino mai galline e gli orgogliosi non
siano mai antipatici... dove sarà il tuo umorismo e il tuo spirito? Immagina un mondo dove i
cuori non siano mai infranti; dove le labbra non siano mai chiuse dagli affanni; dove gli occhi
non si annebbino mai, dove i piedi non si stanchino mai, dove gli stomachi non siano mai vuoti...
dove sarà il tuo sentimento di pietà? Immagina un mondo dove gli uomini non amino mai
più d’una moglie e quell’una sia la legittima; dove le mogli non siano mai baciate che dai mariti;
dove i cuori degli uomini non siano mai neri e i pensieri delle donne non mai impuri; dove
non vi sia mai odio, non mai invidia, non vi siano desideri, non vi siano disperazioni... dove saranno
le tue scene di passione, le tue interessanti complicazioni, le tue sottili analisi psicologiche?
Mio caro Brown, noi scrittori... romanzieri, drammaturghi, poeti, — noi c’ingrassiamo
dell’infelicità dei nostri simili. Dio creò l’uomo e la donna, e creò il letterato quand’essa addentò
la mela. Noi siamo venuti al mondo sotto l’ombra del serpente. Noi siamo corrispondenti
speciali dell’esercito del diavolo, e riportiamo le sue vittorie nei nostri romanzi, e qualche sua
disfatta di tanto in tanto nei nostri melodrammi in cinque atti.
— Tutto questo è verissimo, — osservò Jephson; — ma tu devi ricordare che non è il
letterato solo che traffica in disgrazie. Il dottore, l’avvocato, il predicatore, il proprietario di
giornali, il profeta del tempo, difficilmente, credo, saluterebbero volentieri l’avvento del regno
di Dio sulla terra. Io non dimenticherò mai un aneddoto che mio zio soleva raccontare di quando
egli era cappellano della prigione del Lincolnshire. Una mattina ci doveva essere
un’impiccagione, e il solito piccolo gruppo di testimoni, cioè lo sceriffo, il governatore, tre o
quattro giornalisti, un magistrato e un paio di guardie, erano raccolti nella prigione. Il condannato,
un tristo furfante, ch’era stato sentenziato, colpevole dell’assassinio d’una bambina in circostanze
assolutamente repugnanti, venne legato dal boia e dal suo aguzzino, e mio zio stava
impiegando gli ultimi pochi istanti a sua disposizione nel tentar di scioglier la torva indifferenza
che quel tristo aveva sempre manifestato verso il suo delitto e il suo destino.
«Giacchè mio zio non riusciva a fare alcuna impressione su di lui, il governatore,
s’arrischiò ad aggiungere un po’ di parole di esortazione; ma l’uomo si volse selvaggiamente
contro tutti.
— «Andate all’inferno, con la vostra compassione! — egli gridò. — Chi siete voi da
farmi la predica? Voi siete contentoni che io sia qui... tutti quanti. Io sono l’unico qui che non
debba fare qualche cosa che gli frutti. Vorrei sapere dove sareste tutti quanti, porci, ipocriti, se
non fosse per me e la mia sorte? Perchè sono quelli come me che mantengono quelli come voi!
— E così dicendo, si diresse rapido alla forca e disse al boia di sbrigarsi, per non far attendere
quei signori».
— Aveva del fegato quel condannato, — disse MacShaughnassy.
— Sì, — aggiunse Jephson, — e anche spirito.
MacShaughnassy lanciò una boccata di fumo contro un ragno ch’era nell’atto di uccidere
una mosca. Questo fece cadere il ragno nel fiume, donde lo trasse immediatamente una rondine
in cerca della colazione.
— Tu mi rammenti, — egli disse, — d’una scena alla quale assistetti una volta
nell’ufficio del «Daily...», bene, nell’ufficio d’un certo giornale quotidiano. Era la morta stagione,
e gli affari stagnavano. Era stato fatto uno sforzo per lanciare una discussione sulla questione
«Sono i figliuoli una fortuna?» Il redattore più giovane, scrivendo sotto la semplice ma
commovente firma di «Una madre di sei», aveva mosso un vigoroso, benchè inconcludente, attacco
contro i mariti, come classe; il redattore sportivo, firmandosi «Un operaio», e fregiando il
suo articolo di sbagli ortografici penosamente elaborati, aveva cercato di dare un’aria di verosimiglianza
alla corrispondenza, mentre, nello stesso tempo, per non offendere la suscettibilità
della democrazia, (dalla quale il giornale attingeva principalmente i suoi fondi) aveva risposto
rivendicando la dignità dei genitori inglesi, e riferendo ciò che intendeva fossero i propri eccitanti
esperimenti notturni. Un cronista, chiamandosi, con un bel volo di fantasia, «Gentiluomo e
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Cristiano», scriveva, indignato, di considerar la polemica su quel soggetto empia e indiscreta, e
aggiungeva d’esser sorpreso che un giornale dell’altezza del..., così meritamente popolare, dovesse
aprire le sue colonne alle scervellate secrezioni della «Madre di sei», e dell’«Operaio».
«Il soggetto, però, non aveva attaccato. Tranne un tale, che aveva inventato una bottiglia
che si riempiva da sè e credeva di poterla lanciare gratis, il pubblico rimase sordo, e sul giornale
ricadde la più profonda apatia.
«Una sera, stavamo in tre o quattro a goderci la luna sulle scale, facendo segretamente
voti per una guerra o una carestia, quando Todhunter, un cronista, piombò fra noi trafelato con
un grido e si precipitò nella stanza del vicedirettore. Noi lo seguimmo. Egli agitava sulla testa
un taccuino, domandando penna, inchiostro e carta, come negli esercizi di grammatica francese.
«— Che c’è? — dimandò il vicedirettore, partecipando a quell’entusiasmo. — Un’altra
volta l’influenza?
«— Meglio, molto meglio! — gridò Todhunter. — Un battello che faceva un’escursione
di piacere colato a picco, centoventi morti... quattro colonne di scene strazianti.
«— Per Giove! — esclamò il vicedirettore, — non poteva capitare in momento più opportuno.
— E così, dicendo, si mise a tavolino e scarabocchiò un articoletto di fondo, col quale
diffondendosi sulla tristezza e l’angoscia del giornale per quel disastro, metteva in rilievo la
cronaca eccezionalmente straziante fornita dall’energia e dall’ingegno del nostro inviato speciale
».
«— È legge di natura, — disse Jephson; — noi non siamo i soli giovani filosofi ai quali
sia capitato d’osservare che la disgrazia di un uomo è la fortuna d’un altro.
«— Eventualmente anche d’un’altra, — osservai.
Io pensavo a un caso raccontatomi da un’infermiera. Se un’infermiera che esercita attivamente
il suo mestiere, non s’intende della natura umana un po’ più e non vede nelle anime
degli uomini e delle donne più chiaramente di tutti i romanzieri di questo mondo messi insieme,
vuol dire che dev’essere fisicamente cieca e sorda. Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli
uomini e le donne semplici attori: finchè siamo in buona salute, rappresentiamo bravamente la
nostra parte fino alla fine, e, tutto considerato, con una certa arte e un certo vigore, qualche volta
immaginando persino d’essere il personaggio che fingiamo d’incarnare. Ma con un’infermità,
ci assale l’oblio della nostra parte, e l’indifferenza dell’opinione che se ne fanno gli spettatori.
Siam troppo deboli per metterci il rossetto e la cipria in viso e tutti i fronzoli teatrali giacciono
dimenticati al nostro fianco. I gesti eroici, i sentimenti virtuosi c’infastidiscono. Nella calma
penombra dai lumi della gloriosa ribalta, dove non aguzziamo più l’udito a cogliere gli applausi,
o i fischi della città, noi siamo, per un po’ di tempo, noi stessi.
L’infermiera, alla quale ho accennato, era una donnetta malinconica, con un paio di occhi
grigi e trasognati, che avevano lo strano potere di assorbire tutto ciò che si svolgeva innanzi
a loro, senza aver l’aria di guardare a nulla. Osservando per lungo tempo molta vita messa a
nudo, avevano assunto una leggera espressione cinica, che pure celava un gran fondo di gentilezza.
Durante le sere della mia convalescenza, ella mi raccontava i suoi casi d’infermiera. Ho
pensato a volte di trascrivere i racconti da lei narratimi, ma formerebbero una lettura molto malinconica..
La maggior parte mostrerebbero il triste intrico e il lato peggiore della natura umana,
e Dio sa che non c’è necessità di additarci l’un l’altro roba così fatta, per quanto molti oggi pensino
che questo sia il solo lavoro al quale metta conto di attendere. Pochi dei fatti narratimi avevano
qualche dolcezza, ma credo che sarebbero i più tristi; su un paio si potrebbe persino ridere,
ma non sarebbe una bella risata.
— Non entro mai in una casa dove sono stata chiamata, — mi disse una sera, — senza
domandarmi, varcandone la soglia, che dramma vi si dovrà svolgere. Nella camera d’un malato,
ho sempre l’impressione d’essere dietro le quinte della vita. Va e viene gente, la senti parlare e
ridere, e non hai che da guardare negli occhi dell’infermo per sapere di che dramma si tratti.
74
Il caso, rammentatomi dall’osservazione di Jephson, mi fu narrato da lei un pomeriggio,
mentre innanzi al caminetto, allungato in una poltrona, io tentavo di centellinare un bicchiere di
vino di porto, e mi sentivo alquanto depresso scoprendo che non mi andava.
— Uno dei primi casi, — ella disse, — fu un’operazione chirurgica. Ero giovanissima
allora, e commisi un grosso errore, oh... non intendo un errore professionale... ma un errore tuttavia
che non avrei dovuto commettere.
«Il malato era un bravo e simpatico signore. La moglie era una leggiadra bruna, ma fin
dal principio, non mi piacque; era una di quelle donne gelide, perfettamente compite, che mi
dànno sempre l’idea di esser nate in chiesa, e di non esser riuscite mai a sbarazzarsi della loro
originaria freddezza. Però, sembrava innamoratissima di lui, e lui di lei, e si parlavano con molta
gentilezza... con troppa gentilezza, avrei detto per essere assolutamente sincera, se avessi conosciuto
il mondo come lo conosco ora.
«L’operazione fu difficile e pericolosa. Quando arrivai per il mio ufficio la sera, trovai il
malato, come m’aspettavo, in preda a un grave delirio. Cercai di calmarlo, come meglio potei;
ma verso le nove, giacchè il delirio non faceva che aumentare, cominciai a sentirmi in ansia. Mi
curvai su di lui, per cercar di comprendere le stravaganze che diceva. Più e più volte afferrai il
nome di Luisa. Perchè Luisa non era accanto a lui? Perchè si curava così poco di lui? Avevano
scavato un gran pozzo, e volevano buttarvelo a capofitto. Perchè lei non correva a salvarlo? Se
lei gli avesse dato la mano, lui si sarebbe salvato.
«Le grida dell’infermo si fecero così strazianti, che non potei più sopportarle. La moglie
s’era recata a un’assemblea religiosa; ma la chiesa era nella via lì accanto. Per fortuna,
l’infermiera diurna non se n’era ancora andata. La chiamai, perchè rimanesse a guardia
dell’infermo ancora qualche minuto, e messomi il cappellino, corsi fuori. Chiesi della donna a
uno dei mazzieri, ed egli mi condusse da lei. La trovai inginocchiata; ma io non potevo aspettare.
Apersi la porticina del banco, e le bisbigliai: — Per piacere, venite subito; vostro marito delira
più gravemente; voi sola potete calmarlo.
«Ella rispose con un sussurro, senza levar la testa: — Fra poco avrò finito. L’assemblea
non durerà ancora molto.
«La risposta mi sorprese e mi ferì dolorosamente: — Vi condurreste più da cristiana, se
veniste subito a casa, — dissi vivamente, — che trattenendovi qui. Lui vi chiama disperatamente,
e io non posso indurlo a calmarsi e ad addormentarsi.
«Ella levò la testa dalle mani: — Mi chiama? — chiese, con un tono leggermente incredulo.
— «Sì, — risposi. — Da un’ora non fa che chiamarvi. Dov’è Luisa? Perchè Luisa non
viene?
«Ella aveva il viso in ombra, ma, come si voltò, e la fioca luce d’un becco a gas abbassato
lo illuminò, mi parve di vedervi errare un sorriso, che me la rese più che mai antipatica.
«— Verrò con voi, — disse levandosi e mettendo da parte i libri di preghiere. Quindi lasciammo
insieme la chiesa.
«Per via mi fece molte domande: — I malati quando delirano riconoscono quelli che
hanno d’attorno? Ricordano gli avvenimenti reali, o i loro discorsi sono chiacchiere incoerenti?
I loro pensieri, si possono guidare in qualche modo?
«Non appena entrata in casa, si sbarazzò in un momento del cappellino e del mantello, e
corse di sopra rapida e silenziosa.
«Si diresse al capezzale dell’infermo, e lo stette a guardare; ma lui, assolutamente inconsapevole
della sua presenza, continuò a mormorare le sue incoerenti filastrocche. Dissi alla
donna di rivolgergli la parola; ma mi rispose che sarebbe stato inutile, e, tirando una sedia
nell’ombra, gli si sedette accanto.
«Vedendo che la sua presenza non giovava, cercai di convincerla d’andarsene a letto;
ma lei disse che intendeva vegliare, e io, che allora ero poco più d’una ragazza e senza molta
autorità, la lasciai stare. Per tutta la notte egli s’agitò e delirò, mormorando sempre lo stesso
75
nome: Luisa, Luisa; e per tutta la notte la donna se ne stette lì nell’ombra, senza mai muoversi,
senza dir mai una parola, con un sorriso rappreso sulle labbra, che mi dava una voglia matta di
afferrarla per le spalle e cacciarla fuori dell’uscio.
«Una volta l’infermo immaginò d’esser tornato ai giorni del suo innamoramento, e diceva:
— Dimmi che mi vuoi bene, Luisa. So che mi vuoi bene. Te lo leggo negli occhi. Che serve
fingere? Noi ci conosciamo. Abbracciami. Fammi sentire il tuo respiro. Ah! lo sapevo, diletta
mia, amor mio!
«Tutta la casa era avvolta da un silenzio mortale, e io coglievo ogni parola delle sue fantasie
sconvolte. Quasi mi sembrava di non avere il diritto di star lì ad ascoltarle; ma ero trattenuta
dal mio dovere. Più tardi, indovinai ch’egli immaginava di progettare un’escursione con
lei. — Partirò lunedì sera, — egli diceva, — e tu puoi raggiungermi mercoledì a Dublino,
all’albergo Jackson, donde partiremo subito.
«La voce gli si affiochì, e la moglie si sporse sulla sedia, e gli avvicinò il viso alle labbra.
— «No, no, — continuò, dopo un poco; — non v’è alcun pericolo. È un posticino solitario,
nel cuore dei monti di Galway... la chiamano la Casa a mezza via... a cinque miglia da Ballynahinch.
Lì non s’incontra un’anima. Avremo tre settimane di paradiso per noi soli, mia diletta,
mia signora Maddox di Boston... non dimenticare questo nome.
«Nel suo delirio rise; e la donna, che gli sedeva accanto, rise anche lei; e poi la verità,
come un lampo, mi traversò la mente.
«Corsi da lei e la presi per il braccio. — Voi non vi chiamate Luisa, — le dissi, guardandola
fissa. Era un intervento indiscreto, il mio; ma mi sentivo eccitata, e obbedii al primo
impulso.
— «No, — ella rispose, con molta calma; — ma è il nome d’una mia cara compagna di
collegio. Stanotte ho avuto una chiave che andavo cercando da due anni. Buona sera, infermiera;
grazie per essermi venuta a chiamare».
«S’alzò e se n’andò, e io sentii i suoi passi allontanarsi giù per le scale, e poi tirai la tendina
e lasciai entrare l’alba.
«Fino a stasera non avevo mai raccontato a nessuno questo fatto, — concluse la mia infermiera,
levandomi di mano il bicchiere di vino di porto, e attizzando il fuoco. — Difficilmente
verrebbe chiamata un’infermiera, se la sapessero capace d’indiscrezioni di questa specie.
Un’altra storia, da lei narratami, mostrava la vita coniugale illuminata da maggior amore;
ma si trattava, ella aggiunse con quello scintillio cinico degli occhi che balzava stranamente
a volte nel suo sguardo sereno, d’una coppia sposata di recente... anzi tornata appena dalla luna
di miele.
I due avevano viaggiato per il continente d’Europa, e avevano contratto una grave malattia
di tifo, che si dichiarò immediatamente al loro ritorno.
— Io fui chiamata lo stesso giorno del loro arrivo, — ella narrò. — Il marito era stato il
primo a mettersi a letto, e la moglie fece lo stesso dodici ore dopo. Furono messi in due stanze
attigue, e la porta di comunicazione, finchè era possibile, lasciata socchiusa, perchè si potessero
chiamare.
«Poverini! Erano ancora, si può dire, un ragazzo e una ragazza, e ciascuno s’affannava
per l’altro più di quanto s’affannasse per sè. L’unico pensiero della moglie era di non esser in
grado di far nulla per il povero Gianni». Oh, infermiera, voi gli starete attenta, vero? — ella
gemeva, con i grandi occhi infantili pieni di lagrime; e il momento ch’io andava da lui egli mi
raccomandava: — Di me, infermiera, non vi date pensiero: io sto bene. Vi raccomando di badare
a mia moglie.
«Io dovevo molto affaticarmi fra tutti e due, perchè, con l’aiuto della sorella di lei, accudivo
a entrambi. Professionalmente non andava; ma io potevo vedere che non erano ricchi; e
assicurai il dottore che sola me la sarei cavata. Metteva conto, pur facendo un lavoro doppio,
respirare quell’aria di altruismo che mitigava e addolciva quelle due camere d’infermi. In gene76
rale il malato non è il docile paziente che la gente immagina. È un piccolo mondo piagnucoloso,
querulo, insofferente quello in cui noi viviamo e nel quale c’induriamo. Accudendo a quei
giovani, il cuore mi si rinnovellava.
«L’uomo resisteva, e cominciò pian piano a riaversi; ma la moglie era un cencetto di ragazza,
e la sua forza — quella che aveva — diminuiva di giorno in giorno. A misura che si sentiva
meglio, lui la chiamava sempre più lietamente a traverso la porta, e le domandava come
stava; e lei cercava di rispondergli allegramente. Era stato un errore metterli in due camere contigue,
e me ne rimproveravo, ma oramai era troppo tardi per cambiare. Tutto ciò che potevo fare
era di pregar la donna di non stancarsi, e di permetterci di dire al marito, quando chiamava,
ch’ella dormiva. Ma il pensiero di non rispondergli e di non chiamarlo, angosciava tanto la poverina
ch’era preferibile lasciarla fare a suo modo.
«Lo sforzo della donna era di cercar che il marito non sapesse il proprio pietoso stato. —
L’addolorerebbe tanto, — ella diceva, — si dà tanto pensiero per me. Pian piano sto guarendo;
non è vero, infermiera?
«Una mattina lui la chiamò secondo il solito, domandandole come stava, e lei gli rispose,
benchè dovesse aspettare un po’ di secondi per aver la forza necessaria. Parve che lui
s’accorgesse dello sforzo, perchè gridò di nuovo, in ansia: — Proprio vero che stai bene, cara?
«— Sì, — lei rispose, — vado rapidamente migliorando. Perchè?
«— La tua voce, cara, m’è sembrata più debole, — lui rispose; — non gridare, se
t’affatica.
«Allora per la prima volta, ella cominciò a rattristarsi... non per sè, ma per lui.
«— Credete, infermiera, ch’io sia indebolita di più? — mi chiese, fissandomi gli occhi
in viso con uno sguardo di sgomento.
«— Voi v’indebolite col gridare, — risposi, con qualche vivezza. — Dovrò chiudere
quella porta.
«— Oh, non glielo dite... (questo era tutto il suo pensiero)... non glielo lasciate sapere.
Gli direte che son forte, non è vero, infermiera? L’uccidereste, dicendogli che non sto guarendo.
«Fui contenta che venisse sua sorella di sopra, e io potessi uscir dalla camera, perchè
una non è in grado di far l’infermiera, quando le pare d’aver inghiottito, come a me pareva allora,
un cucchiaio da tavola che non andava nè su nè giù.
«Dopo, quando mi recai dal marito, egli mi chiamò accanto al letto, e mi bisbigliò di
dirgli veramente come stava la moglie. Se bisogna dire una bugia, è meglio dirla bene. Così gli
dissi che veramente lei stava molto bene: solo un po’ esausta, naturale, dopo la malattia, e che
io m’aspettava di vederla in piedi prima di lui.
«Poverino! Questa bugia gli fece più bene che una settimana di rimedi e di cure; e la
mattina appresso salutò più allegro che mai la moglie, e le offerse di scommettere un cappello
da donna contro un cappello da uomo ch’egli l’avrebbe raggiunta e si sarebbe alzato prima.
«Lei rispose ridendo allegramente. Io ero nella stanza di lui in quel momento. — Benissimo,
lei disse; — tu perderai; m’alzerò prima io, e verrò a farti una visita.
«La risata era così gioiosa, e la voce sonava tanto più forte, che veramente cominciai a
pensare che ci fosse un inizio di miglioramento. E quando mi recai da lei e vidi il guanciale bagnato
di lagrime, rimasi stupita.
«— Come, eravate così allegra un minuto fa? — le dissi. — Che accade?
«— Oh povero Gianni! — ella gemè, aprendo e chiudendo le dita sulla coltre. — Povero
Gianni, gli s’infrangerà il cuore.
«Non giovò a nulla quello che potei dirle. Viene un momento in cui qualcosa rivela al
malato tutto ciò che si sa intorno alla sua malattia, e il dottore e l’infermiera possono riserbarsi
la loro assicurazione di speranza per dove sono più utili. La sola cosa che avrebbe confortato la
donna allora sarebbe stata convincerla che lui l’avrebbe dimenticata presto e sarebbe stato felice
senza di lei. In quell’istante ci pensai, e provai ad accennarglielo, ma non ci riuscii, e lei se mai,
non m’avrebbe creduta.
77
«Così non potei far altro che ritornare nell’altra camera, e dire al marito ch’era necessario
che la moglie si addormentasse, e che lui non doveva più chiamarla, finchè non gliel’avessi
detto io.
«Lei stette cheta tutto il giorno. Venne il dottore all’ora solita e la osservò minuziosamente.
Le carezzò la mano, e diede un’occhiata al cibo intatto lì accanto.
«— Sì, — disse, calmo. — È inutile tormentarla, — aggiunse, volgendosi a me. — E io
compresi.
«Verso sera, lei aprì gli occhi e fece cenno alla sorella, che stava accanto al capezzale, di
chinarsi.
«— Giannina, — bisbigliò, — credi che sia male ingannare qualcuno, se si fa il suo bene?
«— Non so, — rispose la sorella, in tono asciutto; — non direi. Perchè me lo domandi?
«— Giannina, la tua voce somiglia tanto alla mia... ricordi? a casa solevano sempre
scambiarci. Giannina, rispondi per me... soltanto finchè... lui starà un po’ meglio. Promettimelo.
«Le due fanciulle si volevano tanto bene, più di quanto sia solito fra sorelle. Giannina
non ebbe la forza di risponder sillaba, ma strinse nelle braccia la sorella, e l’altra fu contenta.
«Poi raccogliendo tutta la sua piccola riserva di forze per un ultimo sforzo, la sposa si
sollevò nelle braccia della sorella:
«— Buona sera, Gianni, — gridò in tono abbastanza forte e chiaro da esser sentito oltre
la porta chiusa.
«— Buona sera, mogliettina, — egli rispose allegro. — Stai bene?
«— Sì, caro. Buona notte.
«La piccola figura emaciata ricadde sul letto. E poi ricordo che dovetti dar di piglio a un
guanciale e tenerlo stretto contro la faccia di Giannina per téma che il suono dei suoi singhiozzi
arrivasse nell’altra camera; e dopo uscimmo entrambe, per l’uscio di fronte, e ci precipitammo
da basso, e ci abbracciammo nella retrocucina.
«Come noi due riuscissimo a mantenere quella finzione per tre interi giorni, non so neppur
dire. Giannina sedeva nella camera dove la sorella morta giaceva lunga distesa, delineata
dal lenzuolo candido, e io accanto al vivo dicevo menzogne e rappresentavo menzogne, finchè
ci pigliai gusto e dovetti esser molto cauta contro il pericolo di comporle con troppi artifici.
«Egli si meravigliò di quella che credette una mia insolita vena d’allegria; e io gli dissi
ch’ero allegra per la gioia che la moglie era fuori pericolo; e poi, continuai per il semplice amore
del giuoco, e gli dissi che una settimana prima, quando gli avevamo lasciato credere che la
moglie stava meglio, l’avevamo ingannato; che invece, allora, era stata assai grave, e d’ora in
ora s’era temuta una catastrofe; ma che finalmente l’ansia era cessata e la guarigione era ormai
sicura. Mi abbandonai su una sedia in fondo al letto e scoppiai in una gran risata, e mi dovetti
aggrappare alla lettiera per non cadere.
«Egli s’era levato in letto con un pallore selvaggio in viso, quando Giannina aveva risposto
la prima volta dalla stanza accanto, benchè le voci delle due sorelle fossero così stranamente
simili che io non ero stata mai capace di distinguerle. Gli dissi che quella lieve differenza
era effetto della febbre, che anche la voce di lui era un po’ mutata, e che accadeva sempre così
con le persone che si riavevano da una lunga malattia. Per allontanare ogni suo sospetto, aggiunsi
che Giannina, affranta dalle lunghe veglie, non essendoci più bisogno di lei, se n’era andata
in campagna a riposarsi un po’. Quel pomeriggio concertammo una lettera di Giannina al
cognato, e io asciugai con un fazzoletto le lagrime di Giannina mentre la scriveva, perchè non
cadessero sul foglio; e poi quella sera ella fece un viaggio di venti miglia in treno per andare a
impostare la lettera e tornare subito con la corsa seguente.
«A lui non albeggiò mai in mente il minimo sospetto della verità, e il dottore ci aiutò fino
alla fine con la nostra finzione. Il polso del malato che di giorno in giorno s’era rafforzato,
ora batteva sempre più debolmente. Nel paese dove son nata e cresciuta io, si dice che dovunque
giacciono morti, intorno intorno a loro, sia estate o inverno, l’aria si faccia a mano a mano
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più fredda, e che il fuoco, anche se si mette una catasta di ceppi nel camino, non riesca mai a
scaldarla. Un’assistenza di pochi mesi in un ospedale basta a guarire di tutte le fantasiose idee
intorno alla morte; ma di quella io non son stata mai capace di liberarmi. Il termometro può
mostrarmi una temperatura di ventidue gradi nella camera, e io posso tentar di credere che sia
realmente di ventidue; ma, se accanto a me v’è un morto, sento freddo fin nel midollo delle ossa.
Io potevo vedere il freddo dalla camera della morta insinuarsi sotto la porta, strisciare fino al
letto del marito, e salir su su fino alla mano e toccargli il cuore.
«Giannina e io raddoppiammo i nostri sforzi, perchè ci sembrava che la morte stesse in
agguato nel corridoio, mettendo l’occhio al buco della toppa e attendendo che l’una o l’altra di
noi commettesse uno sproposito e lasciasse trapelare la verità. Io difficilmente abbandonavo
mai il malato, per recarmi nell’altra stanza, ad attizzare un fuoco immaginario, e dire un po’ di
frasi a una donna immaginaria viva sul letto dove giaceva una morta; e Giannina se ne restava
accanto al cadavere, e gridava assurde risposte, per rassicurare l’uomo che faceva delle ansiose
domande.
«Talvolta, sentendo che se ci fossimo fermate un altro momento in quella camera, ci saremmo
messe a piangere forte, ce ne andavamo pian piano da basso a sfogliarci. Credo che fossimo
diventate un po’ matte.
«Un giorno — era il terzo di quella vita fantastica, come appresi dopo, perchè allora avrei
detto che fosse anche il trentesimo, essendo il tempo fuggito via da quella casa come un
sogno, ed essendosi così arruffati gli avvenimenti — commisi un errore che mancò poco non
terminasse la commedia all’istante.
«Io ero andata nell’altra stanza. Giannina aveva lasciato il suo posto per un momento, e
non c’era più nessuno.
«Non pensai a ciò che facevo. A quanto ricordo, dopo la morte della sorella, non avevo
chiuso occhio, e il mio cervello e i miei sensi avevano allentato il loro contatto. Continuai a recitare
e a parlare ad alta voce al cadavere, a riassettare con forza i guanciali, a spostare le boccette
sul tavolino da notte.
«Al ritorno, il marito mi domandò come stesse lei, e io risposi mezzo assonnata: — oh,
caro, ella tenta di leggere un poco. — Lui si levò su un gomito e la chiamò. In risposta giunse il
silenzio... non il silenzio che è silenzio, ma il silenzio che è come una voce. Io non so se comprendete
quello che voglio dire. Se aveste vissuto fra i morti come ho vissuto io, lo comprendereste.
«Balzai all’uscio di comunicazione, e finsi di guardare all’intorno. — S’è addormentata,
— dissi, chiudendo; e lui non rispose parola, ma i suoi occhi mi fissarono con uno sguardo strano.
«Quella notte io e Giannina rimanemmo nel vestibolo a conversare. Lui s’era addormentato
presto, e io avevo chiuso l’uscio fra le due camere, mettendomi la chiave in tasca, per andare
da basso a dire a Giannina ciò ch’era accaduto e domandar consiglio.
— «Che fare! Dio ci aiuti, che possiamo fare? — fu tutto quello che potè dire Giannina.
Avevamo pensato che in un paio di giorni il cognato sarebbe stato più forte, e gli si sarebbe potuta
dire la verità. Ma invece era diventato più debole, tanto che insospettirlo col portar via lui o
lei sarebbe stato ucciderlo.
«Ci guardammo smarrite, domandandoci come risolvere il problema; e in
quest’aspettazione il problema si risolse da sè.
«L’unica domestica era uscita, e la casa era silenziosissima, così silenziosa che potevo
udire il ticchettio dell’orologetto che Giannina portava addosso. A un tratto nella calma si udì
un suono. Non era un grido che paresse di voce umana. Io ho udito la voce della sofferenza umana
e ne conosco ogni nota, e non mi commuove più; ma prego Iddio in ginocchio di non
farmi sentir più quel suono, perchè era il singhiozzo d’un’anima.
«Gemè per la casa cheta e si spense, e nè l’una nè l’altra di noi si mosse.
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«Finalmente, col ritorno del sangue nelle nostre vene, ci lanciammo su per le scale. Il
marito s’era spinto dal letto nella camera di lei. Non aveva avuto abbastanza forza da sollevare
il lenzuolo. Ed era caduto sul letto abbrancato alla mano della moglie morta».
«La mia infermiera se ne stette un po’ in silenzio, tratto un po’ insolito in lei.
« — Voi dovreste scrivere le vostre memorie, — dissi.
« — Ah, — mi rispose, attizzando il fuoco meditabonda, — se vedeste sul mondo il dolore
al quale ho assistito io, non vorreste scrivere un libro triste. Credo, — aggiunse, dopo qualche
tempo, con l’attizzatoio in mano, — che soltanto la gente che non sa che sia la sofferenza
vorrebbe leggerlo. Se io potessi scrivere un libro, scriverei un libro allegro, un libro da ridere.
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CAPITOLO IX.
La discussione nacque così. Io avevo proposto un matrimonio fra il briccone del nostro
romanzo e la figliuola del farmacista locale, una ragazza d’istinti assai nobili e generosi, l’umile
ma degna amica dell’eroina.
Brown aveva rifiutato il suo consenso per ragioni d’inverosimiglianza. — Perchè diavolo
mai la sposerebbe? — egli domandò.
— Per amore, — risposi, — l’amore che arde con lo stesso calore nel più vile petto d’un
briccone, e nel cuore orgoglioso d’un nobile giovane.
— Dimmi... hai voglia di scherzare, — rispose Brown, severamente, — o vuoi discutere
seriamente? Che attrattiva potrebbe avere una ragazza simile per un uomo come Reuben Neil?
— Tutte le attrattive, — risposi. — Lei è il perfetto contrasto di lui. Lei è bella (se non è
abbastanza bella, potremo ritoccarla un po’), e quando il padre morrà, vi sarà la farmacia. Inoltre,
— aggiunsi, — la cosa sembrerà anche più naturale, se tutti si domanderanno per qual ragione
mai si siano sposati.
Brown non volle sciupare altre parole con me, e si volse a MacShaughnassy:
— Ti figuri tu, che il nostro amico Reuben, abbia il desiderio ardente di sposare Maria
Holme? — domandò con un sorriso.
— Sì, che me lo figuro, — disse MacShaughnassy; — io posso figurarmi tutto; e non
credere a nulla di nessuno. Soltanto nei romanzi le persone si comportano ragionevolmente e in
conformità di ciò che si aspetta da loro. Io conoscevo un vecchio capitano marittimo che soleva
leggere il «Young Ladies’ Journal» a letto, e sciogliersi in lagrime. Conoscevo un agente di
cambio che portava sempre addosso le poesie di Browning per studiarle in treno. Conoscevo un
dottore di Harley Street che a quarantott’anni cominciò a sviluppare un’irresistibile passione per
i caroselli, e passare tutte le ore libere a cavalcare i cavalli di legno in questa o quella fiera,
spendendovi quattro o cinque lire in giri successivi. Ho conosciuto un recensore di libri che distribuiva
arance (non avvelenate) ai bambini. Un uomo non è un carattere unico, è una dozzina
di caratteri; con uno predominante e con gli altri più o meno sviluppati. Conobbi un tale che aveva
due caratteri di egual forza, e le conseguenze furono molto importanti.
Lo pregammo di narrarci il caso, ed egli ci accontentò.
— Era nato a Balliol, — disse MacShaughnassy, — e il suo nome di battesimo era Giuseppe.
Era un membro del consiglio del Devonshire, al tempo che lo conobbi, e si presentava
come la persona più piena di sussiego che mi fosse mai stato dato d’incontrare. Aveva un sorriso
di compatimento per la «Saturday Review», che stimava il giornale prediletto del circolo letterario
suburbano, e anche per «l’Athenaeum» come l’organo di scrittori senza séguito. Considerava
che Thackeray avesse giustamente il diritto d’esser l’autore favorito degli studiosi colti,
e riteneva Carlyle l’esponente del lavoratore serio.. Non leggeva gli autori viventi, ma questo
non gli impediva d’averli in gran disprezzo. I soli abitanti del secolo decimonono che si degnasse
di lodare erano un po’ d’oscuri romanzieri francesi, che conosceva soltanto lui. Aveva la
sua speciale opinione intorno a Dio onnipotente, e aveva qualche obiezione contro il cielo, in
ragione del forte contingente di Clapham che probabilmente vi risiedeva. L’umorismo lo rattristava,
e il sentimento gli faceva male. L’arte lo irritava e la scienza l’annoiava. Egli disprezzava
la propria famiglia e aveva antipatia per tutte le altre. I divertimenti all’aria aperta lo facevano
sbadigliare, e la sua conversazione si limitava a una scrollata di spalle.
«Nessuno gli voleva bene, ma tutti lo rispettavano, e quasi sentivano per lui della gratitudine
per la sua degnazione di vivere.
«Un’estate, ch’ero occupato a pescare a Norfolk Broads, pensando che mi sarebbe piaciuto
di vedere il buontempone londinese in tutta la sua gloria, feci una corsa fino a Yarmouth.
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Passeggiando sulla spiaggia la sera, mi trovai a un tratto di fronte a quattro scelti campioni della
specie. Camminavano a braccetto. Quello più vicino alla strada sonava una fisarmonica sfiatata,
e gli altri tre cantavano in coro una canzonetta da caffè concerto.
Occupavano tutto il marciapiede, cacciandone nella strada tutte le donne e i bambini che
incontravano in cammino. Io non mi mossi dall’orlo del marciapiede, e come mi sfiorarono al
loro passaggio, qualcosa nel viso di quello con la fisarmonica mi sorprese come a me familiare.
«Mi voltai e li seguii. Evidentemente si divertivano immensamente. A ogni ragazza che
passava, gridavano dei complimenti arrischiati; e ridevano beffardi alle vecchie che protestavano.
Il più rumoroso e il più volgare dei quattro era quello con la fisarmonica.
«Li seguii sul molo, e poi, sorpassandoli, li aspettai sotto un fanale. Quando quello con
la fisarmonica arrivò nella luce, e lo vidi distintamente, diedi un balzo. Dal viso avrei potuto
giurare ch’era Giuseppe; ma tutto ciò che lo circondava faceva parer questa idea impossibile.
Prescindendo dal tempo e dal luogo, e dimenticando la sua condotta, i suoi compagni e il suo
strumento, ciò che rimaneva era sufficiente a far parere assurda la cosa. Giuseppe era sempre
raso accuratamente; e invece quel giovane aveva dei mustacchi fuligginosi e non delle incipienti
fedine rossicce. Era vestito del più vistoso costume quadrettato che io avessi mai veduto fuori
del palcoscenico. Portava un paio di stivaletti con bottoni di madreperla, e una cravatta che
qualche anno prima avrebbe attirato tutti i fulmini del cielo. Aveva un cappello di feltro dal cocuzzolo
basso, e un sigaro male olente fra le labbra.
«Pure, la faccia era la faccia di Giuseppe, e, mosso da una curiosità che non potei frenare,
continuai a camminare accanto a lui, osservandolo.
«Una volta, per un po’, lo persi di vista; ma non avevo molta paura di non ritrovarlo con
quel vestito, e dopo aver cercato un po’ in giro, eccolo di nuovo. S’era seduto sulla punta del
molo, dove c’era meno folla, e col braccio cingeva la vita d’una ragazza. Mi avvicinai pian piano.
Era una ragazza dal viso rubicondo, abbastanza simpatica, ma volgare fino all’ultimo grado.
Il suo cappellino stava sulla sedia accanto a lei, e la testa poggiava sulla spalla di lui. Pareva
ch’ella gli volesse bene, ma intanto lui sembrava seccato.
«— Tu non mi vuoi bene quanto te ne voglio io, Beppe, — udii la ragazza dire.
«— Sì, — egli rispose, con qualche freddezza, — sì che ti voglio bene.
«Ella gli diede un colpettino affettuoso, ma lui non rispose, e pochi minuti dopo, mormorando
qualche pretesto, si levò e la lasciò. Io lo seguii mentre si dirigeva verso un caffè. Alla
porta incontrò un compagno.
«— Ehi? — questi gli domandò? — E Lisa?
«— Ah, non la sopporto, — egli rispose, — m’annoia mortalmente. Vacci tu.
«L’amico scomparve alla volta di Lisa, e Beppe entrò nella sala interna del caffè, seguito
da me. Ora che era solo, avevo intenzione di parlargli. Quanto più avevo studiato le sue fattezze,
tanto più m’erano parse più rassomiglianti a quelle del mio ragguardevole amico Giuseppe.
«Egli era di fronte al banco, e domandò un bicchierino di gin, quando io lo picchiai amichevolmente
sulla spalla. Volse la testa, e nell’istante che mi vide, la faccia gli diventò livida.
«— Il signor Giuseppe Smythe, se non sbaglio, — dissi con un sorriso.
«— Chi Giùseppe Smythe? — egli mi rispose con voce rauca, — io mi chiamo Smith,
io non sono l’elegante Smythe. Voi chi siete? Io non vi conosco.
«Mentre parlava, i miei occhi si posarono su un bizzarro anello d’oro di lavorazione indiana,
che egli portava alla mano sinistra. Non era possibile scambiare l’anello: nel nostro circolo
aveva fatto il giro di tutte le mani, più d’una volta, oggetto della più viva curiosità. I suoi
occhi seguirono il mio sguardo. Egli scoppiò in pianto, e traendomi con lui in un angolo tranquillo
della sala si sedette di fronte a me.
«— Non dite nulla a nessuno, caro, — egli gemè; — per amor di Dio, non dite a nessuno
di questi amici qui che io son membro di quel vecchio museo di mummie del nostro circolo;
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mi toglierebbero il saluto. E siate così buono da non dir nulla dei miei studi a Oxford. Non vorrei
per nulla al mondo che sapessero che ho appartenuto a quel collegio.
«Lo guardai stupito. Mi sarei aspettato di sentirmi supplicare di tener segreto Smith ai
conoscenti del ragguardevole Smythe. Invece Smith aveva una mortale paura che i suoi compagni
di baldoria dovessero apprendere che egli non era altri che l’aristocratico Smythe, e bandirlo
dal loro seno. In quel momento il suo atteggiamento mi confuse parecchio, ma quando ci riflettei
meglio, mi meravigliai di me per essermi aspettato il contrario.
«— Non posso farne a meno, — egli continuò — io debbo vivere due vite. Metà del
tempo sono una persona piena di sussiego, come dev’essere una persona del bel mondo.
«— E allora, — lo interruppi, — vi ho sentito esprimere delle opinioni assai poco gentili
sulla classe popolare.
«— Lo so, — mi rispose, con tono che rivelava un vivo sentimento di confusione; —
questa è la maggiore stranezza in me. Quando sono contegnoso ed elegante, mi disprezzo, perchè
so che sotto il mio sogghigno sono peggio d’un becero. Quando faccio il becero, mi odio
perchè so d’aver degli istinti più alti.
«— Non vi potete risolvere per uno dei due caratteri e adottarlo definitivamente? — gli
domandai.
«— No, — rispose, — non posso. — È una cosa bizzarra; ma nell’un carattere o
nell’altro, dopo un mese, con una certezza matematica, comincio a sentir nausea di me stesso.
«— Lo comprendo, — mormorai; — io non durerei una quindicina.
«— Io ho seguito il mio istinto, — continuò, senza badare alla mia osservazione, — per
circa dieci giorni. Una mattina, fra circa tre settimane, rientrerò nel mio alloggio di Mile End
Road, e guarderò in giro la stanza, e quest’abito sospeso accanto a letto, e questa stessa fisarmonica,
(e così dicendo, le diede una stretta affettuosa), e mi sentirò di diventar rosso da capo a
piedi. Poi salterò dal letto, e mi guarderò nello specchio. «Brutto vigliacco, — mi dirò — ho
una mezza idea di strangolarti»; e mi raderò e m’infilerò un vestito decoroso e un cappello duro,
dirò alla mia padrona di casa di custodirmi l’appartamentino fino al mio ritorno, uscirò di
casa, e via, nella prima carrozza che incontrerò, nel mio quartierino d’Albany. Un mese dopo,
entrerò nel quartierino d’Albany, getterò Voltaire e Parini nel fuoco, mi scaglierò contro il busto
del vecchio Omero; indosserò di nuovo questo vestito e sarò di ritorno nell’appartamentino
di Mile End Road.
«— E come spiegate la vostra assenza nelle due parti? — domandai.
«— Abbastanza semplicemente, — rispose. — Dico alla mia padrona d’Albany che parto
per il continente; e i miei compagni qui credono che io sia un viaggiatore. Nessuno poi si dà
gran pensiero della mia assenza, — aggiunse pateticamente. — Io non ho un aspetto assai affascinante,
nell’uno o nell’altro personaggio. Quando faccio il cialtrone, sono cialtrone anche
troppo, e quando faccio il gentiluomo pieno di contegno, sono più contegnoso che mai. Mi
sembra di essere due estremità d’uomo senza un tratto di congiunzione. Se io potessi mescolarmi
un po’, avrei quello che occorrerebbe.
«Aspirò un paio di volte, e poi si mise a ridere.
«— Ah, bene — si disse, mettendo da parte la sua momentanea malinconia; — è tutto
un giuoco, e che importa? finchè uno si sente felice. Volete bagnarvi il becco?
«Io rifiutai di bagnarmi il becco, e lo lasciai a sonare delle arie sentimentali sulla fisarmonica.
«Un pomeriggio, circa un mese più tardi, la domestica mi si presentò con un biglietto da
visita che portava il nome «Giuseppe Smythe». Le dissi di farlo entrare. Egli entrò con la sua
solita aria di languido sussiego, e si adagiò in grazioso atteggiamento sul canapè.
«— Bene, — dissi appena la ragazza si chiuse la porta alle spalle, — dunque vi siete
sbarazzato di Smith?
«Un sorriso stentato gli passò sul viso. — Lo avete detto a qualcuno? — mi domandò
ansioso.
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«— Neppure a un’anima, — risposi; — ma confesso che più volte ho avuto la tentazione
di dirlo.
«— Sinceramente, confido che non lo farete mai, — disse in tono di sgomento. — Voi
non avete idea dell’angoscia che mi dà tutta questa faccenda. Non me ne dò ragione. Non posso
comprendere quale affinità esista fra me e quel volgarissimo uomo. Vi assicuro, mio caro Mac,
che se sapessi di essere un basilisco, un vampiro, mi farebbe meno nausea della convinzione
che io sono quello stesso identico mascalzone di Whitechapel. Quando penso a lui, ogni pelo
sul corpo mi...
«— Non ci pensate più, — interruppi, indovinando tutta la sua compressa indignazione.
— Voi, certo, non siete venuto qui per parlarmi di lui. — Lasciamolo stare.
«— Però, — mi rispose, — in un certo momento la mia presenza qui si riconnette a lui.
Questa, anzi, è la mia scusa per esservi venuto a disturbare. Voi siete l’unica persona alla quale
posso parlare della cosa... se non vi secco.
«— Niente affatto, — dissi, — son tutto orecchi. — Ma giacchè egli esitava, gli domandai
di punto in bianco di che si trattasse.
«Egli parve impacciato. — Veramente è assurdo da parte mia, — disse, mentre una leggera
ombra di rossore gli si diffondeva in viso, di solito abbastanza pallido; — ma non posso
fare almeno di parlarne a qualcuno. Il fatto sta, mio caro Mac, che io sono innamorato.
«— Magnificamente! — esclamai, — son lieto d’apprenderlo. (Pensavo che la cosa potesse
trasformarlo). Conosco la ragazza?
«— Son tratto a credere che voi dobbiate averla veduta; — mi rispose. — Ella era con
me sul molo di Yarmouth quella sera che m’incontraste.
«— Intendete Lisa? — esclamai.
«— Lei! — rispose; — la signorina Elisabetta Muggins, — e strascinò la voce affettuosamente
sul nome.
«— Ma — dissi, — avevate l’aria (non avevo potuto fare a meno di notarlo, era così evidente);
avevate veramente l’aria di non volerle bene. Infatti, capii da una frase detta da voi a
un vostro amico che la compagnia di quella ragazza vi era odiosa.
«— A Smith, — egli mi corresse. — Quel miserabile briccone poteva essere in grado di
giudicare del valore d’una donna? L’antipatia d’un uomo come quello è un titolo d’onore per
una donna!
«— Posso sbagliarmi, — gli dissi; — ma ella mi parve un po’ volgare.
«— Ella, forse, non è ciò che la società elegante chiamerebbe una gentildonna, — ammise;
— ma, mio caro Mac, l’opinione del bel mondo non è tale che possa fare alcuna impressione
su di me. Io e il bel mondo, mi onoro di dire, differiamo in molte cose. La ragazza è bella,
è buona, ed è quella che mi son scelta.
«— È una brava ragazza, — risposi, — e, direi, molto affezionata; ma avete considerato,
Smythe, se è proprio... come diremmo... proprio così intelligente e colta come si desidererebbe?
«— Realmente, per dir la verità, non mi sono affannato minimamente intorno alla sua
intelligenza, — rispose, con un sorriso di sprezzo. — Io non ho alcun dubbio che quella quantità
d’intelligenza necessaria al governo d’una casa inglese, sarò in grado di prestarla io stesso. Io
non desidero d’avere una moglie intellettuale. Si è costretti a volte d’incontrarsi con della gente
noiosa, ma si evita, se si può. — No, — continuò, tornando al suo tono naturale, — quando più
penso a Elisabetta tanto più mi appare evidente che lei è l’unica donna al mondo che possa essermi
moglie. Comprendo che a un osservatore superficiale la mia scelta possa sembrare strana.
Io non pretendo di spiegarla, e neppure di capirla. Lo studio dell’umanità non è possibile
all’uomo. Solo gli sciocchi lo tentano. Forse mi attrae il suo contrasto con me. Forse una natura
troppo spirituale sente la necessità del contatto d’un’argilla più grossolana per perfezionarsi.
Non so. Queste cose rimarranno misteri in eterno. Io so soltanto che le voglio bene, e che se bisogna
fidarsi dell’istinto, è lei la compagna alla quale Artemide mi guida.
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«Era chiaro ch’egli era innamorato, e perciò cessai di discutere con lui. — Allora voi
continuaste ad aver relazione con lei, dopo che…, — stavo per dire «dopo che cessaste d’essere
Smith», — ma non volendo agitarlo, per quanto stava in me con la menzione di quel nome, sostituii:
— dopo che ritornaste nell’appartamento d’Albany.
«— Non esattamente, — egli mi rispose; — la persi di vista dopo che lasciai Yarmouth;
e fino a cinque giorni fa che la incontrai in una latteria, non l’avevo veduta più. Ero entrato per
bere un bicchiere di latte con un panino, e fu lei che me li portò. Subito la riconobbi. — Il suo
viso s’illuminò d’un sorriso veramente benevolo. — Ora vado tutti i giorni a prendervi il tè, —
aggiunse guardando l’orologio, — alle quattro.
«— Non occorre di domandare ciò che ne pensa lei, — dissi ridendo, — i suoi sentimenti
per voi sono piuttosto evidenti.
— «Bene, questo è appunto lo strano, — mi rispose, tornando a mostrarsi, come prima,
impacciato; — sembra che ora ella di me non si curi un bel nulla. Anzi, positivamente mi rifiuta.
Ella dice... per esprimermi con la stessa frase energica della cara ragazza... che non mi prenderebbe
neppure per tutto l’oro del mondo. Dice che sarebbe come sposarsi un meccanismo
d’orologio senza la chiave. Ella s’esprime con più franchezza che cortesia, e perciò mi piace.
«— Un momento, — dissi, — mi viene un’idea. È informata della vostra identità con
Smith?
«— No, — rispose, sgomento. — Non vorrei neppure per sogno che lo sapesse. Appunto
ieri mi disse che io le rammentavo una persona da lei incontrata a Yarmouth, e mi saltò il
cuore in gola.
«— Come vi parve quando disse così? — domandai.
«— Come mi parve? — ripetè, non comprendendomi.
«— Che espressione aveva in quel momento? — dissi. — Era severa o tenera?
«— Bene, — rispose, — ora che ci penso, mi sembra che proprio allora si fosse rammorbidita
un poco.
«Caro mio, — dissi, — la cosa è chiara come la luce del giorno. Essa ama Smith. Una
ragazza che ammirava Smith non può essere attratta da Smythe. Oggi come oggi voi non la
conquistereste. Fra poche settimane, però, voi sarete Smith. Fino allora lasciate stare. Domandatele
la mano come Smith e lei vi accetterà. Dopo il matrimonio, pian piano, potrete rivelarvele
come Smythe.
«— Per Giove, — esclamò, scosso dalla sua letargia abituale. — Non ci avevo pensato.
Il fatto sta, che quando io sono nelle mie buone disposizioni, Smith e tutte le sue faccende mi
sembrano un sogno. Un’idea che si riferisce a lui non mi passa neppur per la mente.
«Si levò e mi tese la mano. — Son contento d’esser venuto a trovarvi, — mi disse; — il
vostro consiglio mi ha quasi riconciliato col mio triste destino. E ora, proprio agogno a un mese
di vita in qualità di Smith.
«— Mi rallegro anch’io, — risposi stringendogli la mano. — Non vi dimenticate di venire
a dirmi il seguito. Di solito le faccende amorose d’un altro non sono così attraenti, ma
l’elemento d’interesse ch’è nelle vostre le rende assolutamente eccezionali.
«Ci separammo, e per un mese non lo vidi più. Poi una sera la domestica picchiò
all’uscio della mia stanza per dire che il signor Smith chiedeva di me.
«— Smith, Smith, — ripetei. — Che Smith? Non t’ha dato un biglietto?
«— Smith, Smith, — ripetei. — Che Smith? Non sembra una persona che possegga biglietti
da visita. Non è un signore; ma dice che voi lo conoscete. — Evidentemente, ella considerava
questa affermazione come un fatto che mi faceva disonore.
«Stavo per dire di rispondere ch’ero uscito, quando il ricordo dell’altro Smythe mi traversò
come un lampo la mente, e dissi alla ragazza di farlo salire.
«Passò un minuto, e poi egli entrò. — Portava un abito nuovo d’un modello più vistoso,
se mai, di quello in cui l’avevo visto la prima volta. Credo che l’avesse disegnato lui stesso. Egli
era in viso tutto accaldato e lucido. Non m’offerse la mano, ma si sedè goffamente sull’orlo
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esterno d’una sedia, e guardò la stanza in giro con la bocca aperta, come se non l’avesse mai vista.
«La sua timidezza egli la comunicò ancora a me. Non sapevo che dire, e sedemmo per
un po’, in un silenzio impacciato.
«— Bene, — finalmente dissi, tuffandomi a testa in giù nell’argomento, secondo il metodo
dei timidi, — e Lisa come sta?
«— Oh, lei sta bene, — rispose, tenendo gli occhi fissi al cappello.
«— Avete combinato tutto? — continuai.
«— Combinato che cosa? — domandò, levando gli sguardi.
«— Non la sposate?
«— No, — rispose, rimettendosi a contemplare il cappello.
«— Vi ha rifiutato, allora? — gli dissi.
«— Non la voglio io, — rispose.
«Non sembrava disposto a spiegar volontariamente le cose. Dovetti trasformar la conversazione
in una specie d’interrogatorio.
«— Perchè no? — gli domandai. — Non credete che continui a volervi bene?
«Scoppiò in una gran risata. — Di questo niente paura, — disse; — è come avere un vescicante
applicato alla schiena, quant’è vera la morte. Non c’è modo di liberarsi di lei. Vorrei
che s’attaccasse a qualcun altro. Ne ho fin sopra i capelli.
«— Ma di lei un mese fa eravate entusiasta! — esclamai meravigliato.
«— Smythe, forse, — egli disse, — ma non bisogna dar retta a quel balordo, con la testa
piena di crusca. A ogni modo, finchè conto e comando io, non ci penso neppure per sogno. Io
sono un tipo di buontempone... Con quella specie di ragazza si può scherzare, — continuò; —
ma non sposarla. Sarebbe un cattivo affare. Un uomo desidera una moglie che possa rispettare...
qualcuna tagliata su un modello migliore del proprio, e che stia un gradino o due gradini più alta...
qualcuna da poter guardare e adorare. Per un uomo la moglie dovrebbe essere una dea... un
angelo... una...
«— Sembra che abbiate incontrato la gentildonna, — osservai, interrompendolo.
«Si fece rosso scarlatto, e s’immerse a un tratto nella contemplazione del tappeto. Ma un
momento dopo levò il volto, che mi parve letteralmente trasformato.
«— Ah! signor MacShaughnassy, — esclamò con un tono di vera dignità, — voi non
sapete quanto è bella e quanto è buona. Io non son degno di pronunziare il suo nome neanche
mentalmente. Ed è così brava! La incontrai nella sala Toynbee. V’era raccolta una compagnia
di persone eleganti. Vi sareste divertito, signor MacShaughnassy, se vi ci foste trovato; lei si
divertiva dei quadri che v’erano esposti e delle persone intorno al padre... Che spirito, che dottrina,
che sublimità! Io la seguii poi in istrada e le aprii lo sportello della carrozza, e lei, tirandosi
dentro il lembo della gonna, mi guardò come se fossi il fango della strada. E vorrei esserlo,
perchè forse un giorno le bacerei i piedi.
«La sua commozione era così sincera che io non sentii alcuna voglia di ridere. — E poteste
sapere chi era? — domandai.
«— Sì, — rispose; — udii il padre che diceva al cocchiere «A casa», e corsi dietro la
carrozza per tutta Harley Street. Si chiama Trevior, Editta Trevior.
«— La signorina Trevior! — esclamai, — una fanciulla alta, bruna, dai capelli arruffati
e gli occhi un po’ miopi?
«— Alta e bruna, — rispose, — con i capelli che par vogliano raggiungere le labbra per
baciarle, e occhi leggermente azzurri, come una cravatta di Cambridge. Il numero della casa
centosettantatrè.
«— Benissimo, — dissi; — mio caro Smith, questa faccenda si complica. Voi avete incontrata
la fanciulla e parlato con lei una mezz’oretta... come Smythe, ricordate?
«— No, — disse, dopo aver meditato per un minuto; — non posso dire che me ne ricordi.
Smythe mi sembra come un brutto sogno.
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«— Sì, la incontraste come Smythe, — dissi, — ne son certo. A lei vi presentai io stesso;
ed ella dopo mi confidò che le eravate parso simpaticissimo.
«— Veramente? — mi domandò, evidentemente rammorbidito verso Smythe, — e io mi
mostrai tutto pieno di premure, come un innamorato?
«— Per dir la verità, — risposi, — non credo. Avevate l’aria mortalmente seccata.
«— Diavolo! — l’udii mormorare a sè stesso, e poi disse ad alta voce: — Credete che
avrò l’occasione di rivederla, quando sarò... quando sarò Smythe?
«— Naturale, — dissi. — Vi condurrò io stesso. A proposito, — aggiunse, levandosi e
guardando sulla mensola del camino, — ho avuto un invito per una «Cenerentola» in casa di
lei... una festa per un genetliaco. Sarete Smythe il venti di novembre.
«— Sì…, — rispose, — oh sì, costretto a essere per quel giorno.
« — Benissimo, allora, — dissi, — verrò a pigliarvi nel vostro quartiere d’Albany, e andremo
insieme.
«Egli si levò e si mise a spazzolarsi il cappello con la manica. — La prima volta che desidero
d’essere Smythe, quel cadavere animato, — disse lentamente. — Ch’io sia ammazzato se
non tenterò di diventarlo più presto... parola d’onore!
«— Prima del venti, non serve, — gli rammentai. E, — aggiunsi levandomi a sonare il
campanello, — siete sicuro che questa volta si tratti d’un sentimento sincero? Non ritornerete
poi a Lisa?
«— Ah, non mi parlate di Lisa nello stesso istante di Editta, — rispose; — mi fa
l’effetto d’un sacrilegio.
«Era rimasto con la mano sul pomo della porta. Infine, aprendola e guardando fisso il
cappello, disse: — Ora me ne vado ad Harley Street. Cammino su e giù fuori il palazzo ogni sera,
e a volte, quando non c’è nessuno che guardi, colgo il destro per baciarne la soglia.
«Egli scomparve, e io tornai a sedermi.
«Il venti di novembre, lo andai a pigliare secondo la promessa. Lo trovai sul punto di
uscire per andare al circolo; ma aveva dimenticato tutto intorno al nostro appuntamento. Glielo
rammentai, e lui con difficoltà se lo richiamò a mente, e acconsentì, senza alcun entusiasmo, ad
accompagnarmi. Con un po’ di accorte allusioni alla madre della fanciulla (non tralasciando una
menzione casuale del patrimonio del mio amico) feci in modo che lui ed Editta potessero stare
insieme a conversare quasi tutta la sera. Io ero orgoglioso della mia manovra, e andandocene a
casa insieme, dopo, m’aspettavo di sentirmi sicuramente ringraziare.
«Siccome mi pareva di non vedere alcun indizio simile, portai il discorso
sull’argomento.
«— Credo, — dissi, — d’aver condotto la faccenda con molta abilità.
«— Che cosa avete condotto con molta abilità? — mi chiese.
«— La possibilità d’intrattenervi tanto tempo nella serra a tu per tu con la signorina
Trevior, — risposi, con qualche risentimento; — sono stato io a favorirla.
«— Ah, voi, — mi rispose, — voi. Avevo mandato tanti accidenti alla Provvidenza.
«Mi arrestai di botto sul marciapiede, squadrandolo in viso: — Non l’amate? — gli dissi.
«— Amarla! — rispose, con gran sbalordimento; — che cosa diavolo ha perchè si possa
amarla? Ella non è nient’altro che una cattiva traduzione d’una commedia francese, meno
l’interesse.
«Questo mi sdegnò: — Voi veniste da me un mese fa innamorato cotto, dicendo che sareste
stato lieto d’essere il fango sotto i suoi piedi e che baciavate la soglia di casa sua.
«— L’amico diventò rosso: — Vorrei, mio caro Mac, che mi faceste il favore di non
confondermi con quell’odioso cialtrone col quale ho la disgrazia d’essere associato. Mi userete
una vera finezza, la prima volta che tenta d’infliggervi qualche sua volgarità, di cacciarlo a calci
giù per le scale, senza dubbio, — aggiunse con un sogghigno, continuando a camminare, — la
signorina Trevior sarebbe il suo ideale. Ella è esattamente il tipo di donna, capace d’incantare,
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direi, quel tipo d’uomo. Quanto a me, non apprezzo affatto la donna artistica e letteraria. Inoltre,
— continuò, in tono più profondo, — voi conoscete i miei sentimenti. Io non avrò per ideale
che Elisabetta.
«— E lei? — domandai.
«— Lei, — sospirò, — si strugge il cuore per Smith.
«— Perchè non le dite che Smith siete voi? — gli chiesi.
«— Non posso, — rispose, — neanche per conquistar lei. E poi, non mi crederebbe.
«Ci salutammo alla cantonata di Bond Street, e non lo vidi che in un pomeriggio del
marzo seguente, in Ludgate Circus. Portava l’abito di transizione turchino e il cappello duro.
Gli corsi incontro e gli presi il braccio.
«— Quale dei due siete in questo momento? — domandai.
« Per il momento nè l’uno nè l’altro, grazie a Dio, — mi rispose. — Mezz’ora fa ero
Smythe, fra mezz’ora sarò Smith. Per la presente mezz’ora sono un uomo.
«V’era nella sua voce una cordiale, piacevole risonanza, e negli occhi una luce gentile di
gaiezza, ed egli aveva l’aspetto d’un caro gentiluomo.
« — Certo voi siete un’edizione assai corretta di tutti e due, — dissi.
«Rise con una cordiale risata, appena velata da una lieve ombra di tristezza. — Conoscete
la mia idea del cielo? — disse.
«— No, — risposi, — alquanto sorpreso dalla domanda.
«— Ludgate Circus, — mi rispose; — le uniche ore, veramente felici, della mia vita, le
ho passate nei pressi di Ludgate Circus. Esco da Piccadilly come un odioso sornione. A Charing
Cross il sangue comincia a bollirmi nelle vene. Da Ludgate Circus a Cheapside sono un esser
umano col cuore caldo e il cervello pulsante di pensieri umani... di fantasie, di simpatie e speranze.
Presso la Banca il mio spirito si vuota. E andando innanzi, i sensi mi diventano ottusi e
grossolani; e giunto che sono a Whitechapel sono già un disutilaccio. Nel percorso di ritorno,
mi succede la stessa cosa nell’ordine inverso.
«— Perchè non abitate in Ludgate Circus, — dissi — per essere sempre quello che siete
ora?
«— Perchè, — mi rispose, — l’uomo è un pendolo e deve disegnare il suo arco. Mio caro
Mac, — aggiunse, mettendomi la mano sulla spalla, — v’è una sola cosa in me, ed è una morale.
L’uomo è come Dio l’ha fatto; non crediate di poterlo scomporre e migliorare. In tutta la
vita non ho cercato che d’essere una persona straordinariamente superiore. La natura s’è vendicata,
facendomi straordinariamente inferiore. La natura aborre le esagerazioni. Essa presenta
l’uomo come un intero, da essere sviluppato come un intero. Io mi domando sempre, tutte le
volte che incontro una persona straordinariamente pia, una persona straordinariamente morale,
una persona straordinariamente dotta, se abbiano anch’esse il loro rovescio.
«Mi sentii offeso dall’argomento da lui insinuato, e poi un po’ camminai senza parlare.
Infine, non potendo frenare la curiosità, gli domandai come andassero le sue varie faccende
amorose.
«— Secondo il solito, — rispose, — entro e fuori d’un vicolo cieco. Quando sono
Smythe, voglio bene a Lisa, e Lisa mi disprezza. Quando sono Smith amo Elisabetta, e la semplice
mia vista la fa rabbrividire. È una disgrazia per esse come per me. E non lo dico per vantarmi.
Il cielo sa che è un sorso che s’aggiunge alla tazza della mia infelicità; ma è un fatto che
Elisa si strugge letteralmente per me come Smith, e che a me come Smith è addirittura impossibile
mostrarmele gentile; mentre Editta, povera ragazza, è stata abbastanza sciocca da consacrarmi
il cuore come Smythe, e a me, come Smythe, ella non appare che come una pelle di
donna impagliata di bucce di scienza e di cenci strappati dal cadavere dello spirito.
«Rimasi per qualche tempo immerso nei miei pensieri, e non ne uscii che quando traversammo
la contrada delle Minories. Poi, mi lampeggiò improvvisamente un’idea e dissi:
«— Perchè non ti scegli un’altra ragazza addirittura? Vi debbono essere delle ragazze
medie che debbono piacere tanto a Smith quanto a Smythe, e che accontenterebbero tutti e due.
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«— Non più ragazze per questo bambino, — egli rispose; — non mette conto
d’assumersi i fastidi che vi dànno. Quello che desiderate non potete averlo, e quello che potete
avere, non lo desiderate.
«Mi arrestai un momento, e lo guardai. Camminava pesantemente con le mani in tasca, e
lo sguardo fisso.
«Un’improvvisa repulsione mi assali. — Ora debbo andarmene, — dissi. — Non m’ero
accorto d’essere arrivato così lontano.
«Egli parve così lieto di liberarsi di me, com’io di lui. — Dovete andarvene, — disse,
stendendo la mano. — Sì, è lontano.
«Ci stringemmo indifferenti la mano. Egli scomparve nella folla, e fu l’ultima volta che
lo vidi».
— È un fatto vero? — domandò Jephson.
— Sì, ho cambiato i nomi e le date, — disse MacShaughnassy, — ma ho riferito fedelmente
le circostanze principali.
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CAPITOLO X.
L’ultima questione discussa nella nostra ultima riunione era stata: che farà il nostro protagonista?
MacShaughnassy aveva consigliato che fosse un autore, con un critico come tiranno.
La mia predilezione era per un agente di cambio, con un sostrato di romanzesco nel suo carattere.
Disse Jephson, guardando la faccenda dal lato pratico: — Non si tratta di ciò che piace a noi,
ma di ciò che piace alle lettrici di romanzi.
— Appunto, — convenne MacShaughnassy. — Propongo di raccogliere le opinioni
femminili su questo punto. Io scriverò a mia zia e avrò da lei il parere d’una vecchia signora.
Tu, — disse, volgendosi a me, — puoi sottoporre il caso a tua moglie, e avrai l’ideale d’una
giovane donna. Brown scriverà alla sorella a Newnham, e scoprirà le predilezioni delle ragazze
intellettuali, mentre Jephson apprenderà dalla signorina Medburg ciò che più attrae le ragazze
che hanno il senso pratico della vita.
Adottammo questo piano, e il risultato fu messo all’ordine del giorno. MacShaughnassy
aprì la discussione, leggendo la lettera della zia. La vecchia signora scriveva:
«Se fossi in te, ragazzo mio, sceglierei per protagonista un soldato. Tu sai che il tuo povero
nonno, che fuggì in America con quella malvagia signora Featherley, la moglie del banchiere,
era soldato, come pure il tuo povero cugino Roberto, che perse ottomila sterline a Montecarlo.
Io mi son sentita sempre singolarmente attratta dai soldati, anche come ragazza, benchè
il tuo povero zio non potesse soffrirli. Tu troverai molte allusioni ai soldati e ai guerrieri nel
Vecchio Testamento (vedi Ger. XLVIII, 14). Naturalmente non fa piacere pensare alle loro battaglie
e alle loro uccisioni scambievoli, ma oggi non par che faciano la stessa cosa».
— Questo il parere della vecchia signora, — disse MacShaughnassy, ripiegando la lettera
e mettendosela in tasca. — Che dice la coltura?
Brown trasse dal portasigari una lettera con un bell’indirizzo in iscrittura rotonda, e lesse
ciò che segue:
«Che strana coincidenza! Ieri sera discutevamo con alcune amiche nelle sale di Hightopper
in Millicent dello stesso argomento,e io ti posso dire che la decisione fu unanime in
favore dei soldati. Tu vedi, mio caro Selkirk, l’inclinazione della natura umana è verso
l’opposto. Per una modistina un poeta sarebbe senza dubbio attraente; per una donna colta e intelligente
sarebbe indicibilmente noioso. Ciò che la donna intellettuale esige da un uomo non è
qualche cosa da discutere, ma qualche cosa da guardare. Immagino che il tipo di soldato possa
essere insipido, insulso e senza interesse per una donna senza sale in zucca; ma per la donna
coltivata presenta l’ideale dell’uomo... l’essere forte, bello, ben vestito e non troppo abile».
— E così abbiamo due voti per l’esercito, — osservò MacShaughnassy, mentre Brown
strappava la lettera della sorella in due pezzi e li gettava nel cestino. — Che dice la ragazza dal
senso critico?
— Prima trovate la ragazza dal senso pratico, — mormorò Jephson, alquanto sgarbatamente,
come mi parve. — Dove vi proponete di trovarla?
— Bene, — rispose MacShaughnassy, — io pensavo di trovarla nella signorina Medburg.
Di solito, la menzione del nome della signorina Medburg portava un rossore di gioia nel
viso di Jephson; ma in quel momento i suoi lineamenti avevano un’espressione che
s’avvicinavano molto al cipiglio.
— Ah, sì, — rispose. — Bene, allora, alla ragazza dal senso pratico piace anche il soldato.
— Per Giove! — esclamò MacShaughnassy. — che caso strano! Che ragione ella dà?
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— Che i militari hanno un non so che e che ballano divinamente, — rispose Jephson,
secco.
— Tu mi sorprendi, — mormorò MacShaughnassy, — io sono stupito. — E poi disse
rivolto a me.
— E la giovane moglie che dice? La stessa cosa?
— Sì, — risposi, — precisamente la stessa cosa.
— E lei dà una ragione? — domandò.
— Oh sì, — spiegai, — perchè sono così naturalmente simpatici.
Vi fu silenzio per un paio di minuti, mentre fumavamo e meditavamo. Immagino che ci
fossimo pentiti d’aver avuto la malaugurata idea di promuovere quell’inchiesta.
Che i quattro tipi assolutamente diversi della femminilità civile, con prontezza e unanimità
niente affatto femminili, avessero scelto il soldato come il loro ideale, dava un senso di
scoraggiamento al nostro petto di cittadini. Fossero state sirene o cameriere, me lo sarei aspettato.
L’adorazione di Marte, da parte di Venere dalla cuffia bianca, è una delle poche religioni
rimaste a questa età senza fede. Io abitavo, un paio d’anni fa, nei pressi d’una caserma, e non
dimenticherò mai lo spettacolo che si poteva godere i pomeriggi della domenica intorno a quei
grossi cancelli di ferro. Le ragazze cominciavano a raccogliersi verso mezzogiorno. Alle due,
l’ora nella quale l’esercito, con la chioma accuratamente oliata e un bastoncino in pugno, si disponeva
a fare una passeggiata, ve n’erano quattro o cinquecento che aspettavano schierate.
Prima si raccoglievano in folla selvaggia, e siccome i soldati erano fatti uscire due per volta,
combattevano per essi, come i leoni per i primi cristiani. Ma erano successe scene così scandalose
e brutali, che la polizia, era stata costretta a intervenire; e le ragazze, ora, erano obbligate a
far coda e poi mandate innanzi a due per due, da un gruppo di guardie speciali addette a questo
servizio.
Alle tre, la sentinella di piantone si presentava al cancelletto e lo chiudeva: — Se ne sono
andati tutti, care, — gridava alle ragazze rimaste ad aspettare; — è inutile che stiate lì; per
oggi non ve ne sono più.
— Proprio non c’è più nessuno? — mormorava supplice qualche povera fanciulla, con i
grossi occhi tondi pieni di lagrime. — Neppure uno piccino? Ho aspettato tanto tempo!
— Che ci posso fare? — diceva il brav’uomo, burbero, ma non senza qualche tocco di
tenerezza, voltandosi da parte per non farsi veder commosso; — ve li siete pigliati tutti. Sapete
che non li facciamo noi; se non li fate voi, noi non possiamo averli. Venite più presto
quest’altra volta.
E s’allontanava in fretta, per non essere importunato da nuove sollecitazioni; e la polizia,
che pareva avesse atteso quell’istante con avida aspettazione, spazzava via, canzonandole,
le rimanenti in lagrime. — Su, andate via, ragazze, andate via; — dicevano le guardie con quella
loro voce antipatica. — Vi si è data l’occasione. E non possiamo aver la via impedita per tutto
il pomeriggio con questa dimostrazione delle non amate. Andate via.
In relazione con quella stessa caserma, la nostra fantesca a giornata raccontò ad Amenda,
la quale raccontò ad Etelberta, la quale raccontò a me un fatto, che io allora raccontai agli
amici.
In una certa casa, in una certa strada del vicinato, un giorno prese stanza una certa famiglia.
La fantesca se n’era andata — molte fanno così dopo una settimana di servizio — e il
giorno dopo il trasloco fu redatto e mandato al «Daily Chronicle» un annuncio per una domestica.
Diceva così:
«Si cerca una domestica per una piccola famiglia di undici persone. Salario: sei sterline;
non le si dà la birra. Si deve levar presto ed esser molto laboriosa. Il bucato si fa in casa. Deve
saper cucinar bene, e non rifiutarsi di pulir le finestre e i pavimenti. Si preferisce di religione
unitaria. Rivolgersi, con referenze, ad A. B. ecc.».
L’annuncio fu mandato il mercoledì sera. Alle sette della mattina di giovedì, tutta la famiglia
fu risvegliata dai continui squilli del campanello all’uscio di strada. Il capo di casa, af91
facciatosi alla finestra, vide sorpreso una folla di circa cinquanta ragazze che assediavano il
portone. S’infilò la veste da camera e andò da basso a vedere di che si trattava. Nell’istante che
aprì, quindici ragazze si slanciarono tumultuosamente nel corridoio, facendo cader il capo di
casa lungo disteso sul pavimento. Una volta dentro, le quindici ragazze fecero dietro fronte e
respinsero le altre trentacinque a un di presso rimaste sugli scalini al di fuori, e sbatterono loro
la porta in faccia. Poi raccolsero il padron di casa, e lo pregarono gentilmente di condurle da A.
B.
In principio, per il clamore della folla fuori, che picchiava alla porta e scagliava imprecazioni
per il buco della serratura, egli non potè capir nulla; ma finalmente le ragazze riuscirono
a spiegargli ch’erano le domestiche venute in risposta all’annuncio della moglie. L’uomo andò
a dirlo alla moglie, e la moglie disse che le avrebbe ricevute a una per volta.
Fu una questione assai grave decidere quale dovesse avere udienza prima. L’uomo, richiesto
in proposito, disse che preferiva lasciare ad esse la decisione. Ed esse quindi discussero
fra loro della cosa. Dopo un quarto d’ora, la vincitrice, fattasi prestare un po’ di forcine e uno
specchietto dalla fantesca a giornata, ch’era rimasta a dormire in casa, andò di sopra, mentre le
quattordici rimanenti attendevano nell’anticamera, sventagliandosi coi cappellini.
A. B. fu molto meravigliata quando si presentò la prima concorrente, che era una ragazza
alta e di finissimo aspetto. Fino al giorno prima ella era stata la prima cameriera della contessa
Standon, e antecedentemente era stata per due anni vicecuoca della duchessa di York.
— E perchè lasciate la contessa Standon? — domandò A. B.
— Per venire qui, signora.
La signora non comprendeva.
— E sarete contenta di sei sterline all’anno? — domandò
— Certo, signora, credo che basti.
— Sapete che dovete lavorare molto? — Lavorare, mi piace.
— E vi alzate presto?
— Oh, sì, signora, dopo le cinque e mezzo non so più stare a letto.
— Sapete che il bucato lo facciamo in casa?
— Sì, signora. Credo che sia meglio farlo in casa. Le lavanderie rovinano la biancheria
buona. Ci badano così poco alla roba.
— Siete di religione unitaria? — continuò la signora.
— Non ancora, signora, — rispose la ragazza, — ma sarò tanto contenta di abbracciarla.
La signora prese le sue referenze, e disse che le avrebbe scritto.
La seconda concorrente offerse di contentarsi di tre lire sterline, perchè sei erano troppe.
Si contentava di dormire nella retrocucina: tutto ciò che le occorreva era un pagliericcio sotto
l’acquaio. Parimenti desiderava tanto d’entrare nella religione unitaria.
La terza ragazza non chiedeva alcun salario — non comprendeva perchè le domestiche
dovessero riscuotere un salario, giacchè esso non faceva che incoraggiare la mania per i fronzoli
— ed era d’opinione che una casa comoda in una famiglia unitaria fosse un compenso sufficiente
per qualunque ragazza. E disse che metteva una condizione, questa: che le doveva esser
permesso di pagare tutte le rotture che disgraziatamente le sarebbe accaduto di fare. Rinunziava
ai giorni di vacanza e alle uscite, perchè distraevano dal lavoro.
La quarta candidata offerse un premio di cinque sterline per il posto; e poi A. B. cominciò
a spaventarsi, e rifiutò di ricevere altre ragaze, convinta che dovevano essere pazze fuggite
da qualche manicomio vicino.
Durante il giorno, trovatasi con la padrona della casa accanto, le raccontò quello che era
accaduto la mattina.
— Non c’è nulla di straordinario, — disse la signora della casa accanto; — nessuno da
questa parte della via paga nulla alle domestiche, e noi qui abbiamo il fiore delle migliore domestiche
di Londra. Le ragazze corrono dall’altra estremità del mondo per entrare in una di
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queste case. È il sogno della loro vita. Per esser in grado di venir qui per nulla, non fanno per
anni e anni che risparmiare e accumulare.
— E perchè mai? — chiese A. B. più che mai stupita.
— Come, non vedete? — spiegò la signora della casa accanto, — le nostre finestre si
aprono sul cortile della caserma. Una ragazza che abita in una di queste case è sempre vicina ai
soldati. Affacciandosi alla finestra, può sempre vedere i soldati, e talvolta qualche soldato le farà
dei segni o anche la chiamerà. Esse non si sognano neppure di domandare il salario. Lavorano
diciotto ore al giorno e tollerano qualunque cosa pur di non andar via.
A. B. approfittò di queste notizie, e prese la ragazza che offriva un premio di cinque
sterline. La trovò un perfetto tesoro di domestica, invariabilmente volenterosa e rispettosa, che
dormiva su un canapè in cucina e si contentava d’un uovo per desinare.
Non posso garantire la verità di questo fatto; ma, per conto mio, lo credo. Brown e MacShaughnassy
si rifiutarono, con atto poco amichevole, di prestarvi fede. Jephson si scusò col
pretesto d’un mal di testa. Ammetto che vi siano dei punti difficili per un’intelligenza media.
Come ho spiegato in principio, l’aneddoto mi fu raccontato da Etelberta, la quale l’aveva appreso
da Amenda, la quale lo aveva appreso dalla fantesca a giornata; e possono esservisi insinuate
delle esagerazioni. I seguenti, però, sono casi ai quali ho assistito io stesso. Essi offrono una più
calzante prova dell’influenza esercitata dal soldato sulla domestica inglese, e perciò credetti
mettesse conto di riferirli.
— L’eroina, — dissi, — è la nostra Amenda. Ora non la direste una ragazza a modo e
abbastanza accorta?
— Ella è il mio ideale della rispettabilità senza ostentazione, — rispose MacShaughnassy.
— Questa era anche la mia opinione, — risposi — Potete immaginare, perciò, la mia
meraviglia, quando la vidi passar una sera per il corso di Folkestone con un panama in testa (il
panama mio e il braccio d’un soldato intorno alla vita. Essa era una fra le tante persone che seguivano
la banda del terzo reggimento fanteria di Berkshire, allora accampato a Sandgate. Aveva
negli occhi uno sguardo estasiato, e, più che camminare, danzava, e con la sinistra batteva il
tempo.
«In quel momento Etelberta era con me. Noi guardammo la sfilata finchè non voltò la
cantonata e poi ci guardammo scambievolmente.
«— Mi sembra impossibile — mi disse Etelberta.
«— Ma quello era il cappello mio, — dissi io a Etelberta.
«— Il momento che giungemmo a casa, Etelberta, cercò di Amenda, io del cappello; ma
non c’era nè l’una nè l’altro.
«Passarono le nove, passarono le dieci. Alle dieci e mezzo, andammo da basso a cena e
cenammo in cucina. Alle undici e un quarto, ecco Amenda. Entrò in cucina senza dire una parola,
appiccò il mio capello dietro la porta, e cominciò a sparecchiare.
«Etelberta si levò calma, ma severa.
«— Dove sei stata, Amenda? — chiese.
«— Sono andata un po’ in giro coi soldati, — rispose Amenda, senza cessare di sgombrar
la tavola.
«— Avevi il cappello mio, — io aggiunsi.
«— Sì, signore, — rispose Amenda, sempre continuando a sparecchiare, — m’è capitato
subito sotto mano. E ho avuto piacere che non fosse il cappello della signora.
«Se Etelberta fosse addolcita dallo spirito di quest’ultima frase, non so; ma è probabile.
In tutti i casi fu con voce più di ambascia che di collera, ch’ella riprese l’interrogatorio.
«— Tu camminavi con la vita cinta dal braccio d’un soldato; — osservò mia moglie.
«— Sì, signora, — ammise Amenda, — anch’io me ne accorsi quando cessò la musica.
«Etelberta considerava le sue domande. Amenda empì un tegame d’acqua, e poi rispose.
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«— Lo so che non faccio onore a una famiglia onesta, — ella disse; — nessuna padrona
che si rispettasse mi terrebbe più neppure per un minuto. Dovrei esser cacciata in istrada col
mio baule e il mio salario d’un mese.
«— Ma perchè l’hai fatto allora? — disse Etelberta, con naturale stupore.
«— Perchè sono una sciocca, signora. Non posso reggermi. Se veggo i soldati son costretta
a seguirli. È un vizio di famiglia. La mia povera cugina Emma era un’altra sciocca come
me. Era fidanzata di un bravo giovane con una bottega propria, e tre giorni prima del matrimonio
fuggì con un reggimento di marina a Chatham e sposò il sergente portabandiera. Questo è
ciò che finirò per fare anch’io. Ho seguito fino a Sandgate i soldati, con cui m’avete veduta, e
ne ho baciati quattro... brutti insolenti! Io sono una buona ragazza che può andare a passeggio
con un lattaio rispettabile.
«Pareva così profondamente sdegnata di sè stessa, che era inutile che altri si sdegnasse
per lei; ed Etelberta mutò di tono, e cercò di consolarla.
«— Ah, dimentica tutte codeste sciocchezze, Amenda, — le disse ridendo; — è inutile
stare a piangere. Tu devi dire al tuo bravo ragazzo di tenerti lontana dai soldati.
«— Ah, io non posso pensarla a codesto modo, signora, — rispose Amenda, con una
punta di rimprovero; — una ragazza che non può vedere un po’ di vestiti rossi passare per la
strada senza sentirsi spinta a precipitarsi e a seguirli non è capace di diventare una buona e brava
moglie. Perchè due volte la settimana sarei costretta a lasciar la bottega senza nessuno dentro,
e mio marito dovrebbe fare il giro di tutte le caserme di Londra per cercarmi. Mi farò un
po’ di denaro, e mi farò chiudere in un manicomio, ecco quanto.
«Etelberta cominciò a impensierirsi. — Ma è strano, Amenda, ella disse; — tu devi
spesso aver veduto dei soldati, anche quando non eri a Londra?
«— Sì, a vederne uno o due per volta non mi fanno effetto. È quando ne vedo tanti con
la banda che perdo la testa. Voi non immaginate, signora, che cosa m’accade, — aggiunse osservando
la strana espressione di Etelberta; — non l’avete mai provato. E vi auguro di non provarlo
mai.
«Sorvegliammo attentamente Amenda nei restanti giorni della nostra dimora a Folkestone,
con qualche ansia. Ogni giorno l’uno o l’altro reggimento attraversava la città, e alla prima
nota di musica Amenda diventava irrequieta ed eccitata. Il pifferaio della favola non avrebbe
potuto eccitare i bambini di Hamelin più profondamente di quel che facessero le fanfare di
Sandgate col cuore della nostra domestica. Per fortuna passavano la mattina presto, quando noi
eravamo a casa; ma un giorno, ritirandoci per la colazione, sentimmo degli accordi lontani dileguarsi
in direzione di Hythe Road. Aspettammo il passo. Etelberta corse in cucina: era vuota!
Su, in camera di Amenda, vuota! Chiamammo. Nessuno rispose.
— «Quella sciagurata è corsa via certamente — disse Etelberta. — Che terribile disgrazia
per lei! È assolutamente una malattia.
«Etelberta voleva che mi recassi al campo di Sandgate e vi facessi delle ricerche. Anche
a me dispiaceva molto per la ragazza, ma mi si presentò in mente l’immagine d’un giovane
d’ingenuo aspetto, vagante per un accampamento complicato, in cerca d’una domestica perduta,
e risposi che non sarei andato.
«Etelberta mi giudicò spietato, e disse che, se non volevo andar io, sarebbe andata lei.
Risposi che della mia famiglia un rappresentante femminile per volta in quell’accampamento,
bastava e ce n’era di avanzo; e perciò era bene che lei non ci andasse. Etelberta mi fece comprendere
che la mia condotta era disumana, rifiutando di assaggiare la colazione; e io le feci
comprendere la sua irragionevolezza col buttare tutto il pasto nel focolare; dopo di che Etelberta
si sentì improvvisamente una grande affezione per il gatto (che non aveva alcun bisogno
d’affezione, e s’era buttato verso il camminetto dietro la colazione) e io m’immersi con
un’attenzione straordinaria nel giornale di due giorni prima.
«Nel pomeriggio, uscendo a far due passi in giardino, udii il fioco gemito d’una donna
angosciata. Ascoltai attentamente, e il gemito si ripetè.
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Mi parve che fosse la voce di Amenda, ma donde venisse non si poteva indovinare. Ma
come arrivai in fondo al giardino, il gemito mi parve più vicino, e infine mi accertai che usciva
da una casetta di legno, che il padron di casa usava come camera oscura per lo sviluppo delle
fotografie.
«La porta era chiusa. — Sei tu, Amenda? — gridai per il buco della serratura.
«— Sì, signore, — rispose con voce soffocata. — Volete farmi uscire? troverete la chiave
in terra accanto alla porta.
«La scoprii sull’erba un passo lontano, e apersi. — Chi ti ha rinchiusa? — le domandai.
«— Io, signore, — rispose; — mi son chiusa da me, e ho spinto la chiave sotto la porta.
Ho dovuto farlo; se no, sarei dovuta andare con quei maledetti soldati! Spero di non avervi dato
un gran disturbo, signore; — aggiunse, uscendo; — ho lasciata la colazione pronta.
La passione di Amenda per i soldati era il suo unico tributo al sentimento. Verso tutti gli
altri della classe mascolina manteneva un atteggiamento della più dura insensibilità, e
gl’impegni con loro (numerosi) erano presi o abbandonati per ragioni così sordide da urtare
gravemente Etelberta.
Quando era venuta da noi, s’era promessa a un macellaio di maiali... e a un lattaio in riserva.
Per far piacere ad Amenda facemmo buon viso al macellaio, ma non ci piacque, e il suo
maiale ci piacque ancora meno. Quando, perciò, Amenda ci annunziò che aveva mandato a
monte l’impegno, e ci fece capire che la sua sensibilità non avrebbe sofferto affatto andando a
comprare il nostro lardo altrove, in segreto ce ne rallegrammo.
— Credo che tu abbi fatto bene, Amenda, — disse Etelberta; — non saresti stata mai felice
con quell’uomo.
— È vero, — rispose Amenda. — Nessuna ragazza potrebbe esser felice con lui senza
avere lo stomaco di struzzo.
Etelberta la guardò con l’aria di non capire. — Ma che c’entra lo stomaco? — domandò.
— Molto, signora, — rispose Amenda, — quando si pensa di sposare un uomo che non
sa fare delle buone salsicce.
— Ma non intendi dire, — esclamò Etelberta, — che mandi a monte il matrimonio perchè
non ti piacciono le sue salsicce.
— In fondo credo che venga a esser così, — convenne Amenda, inconturbata.
— Che terribile idea! — sospirò la povera Etelberta, dopo una lunga pausa. — E credi
che gli abbi mai voluto bene?
— Oh sì, — disse Amenda; — io gli volevo bene abbastanza, ma non serve voler bene a
uno che vuol farti campare di salsicce che ti tengono sveglia tutta la notte.
— Ma che, voleva che tu campassi di salcicce? — insistè Etelberta.
— Oh, per questo non diceva nulla, — spiegò Amenda; — ma sapete bene com’è, signora,
quando si sposa uno che ammazza i maiali: si aspetta che tu ti mangi i resti. Questo è
l’errore che commise Elisa, la mia povera cugina, che sposò uno che faceva le ciambelle. Naturalmente
quelle che non si vendevano, le dovevano finir essi. Un inverno, che gli affari andarono
male, vissero per due mesi di nient’altro che ciambelle. In tutta la vita non vidi mai una ragazza
così cambiata. A queste cose bisogna pensarci, sapete.
Ma la relazione più vergognosamente mercenaria contratta da Amenda, credo che fosse
quella con un conduttore d’omnibus. Noi abitavamo allora al nord di Londra, ed ella amoreggiava
con un giovane rivenditore di formaggi, che teneva una bottega in Lupus Street, Chelsea.
Siccome per la bottega lui non poteva venir da lei, soleva andar lei una volta la settimana da lui.
Con due soldi, in quei giorni non si percorrevano dieci miglia; e lei trovava un po’ grave per la
sua borsa il prezzo della corsa da Holloway a Vittoria. Lo stesso omnibus che la prendeva alle
sei, la riportava alle dieci. Durante il primo viaggio il conduttore dell’omnibus fissò Amenda,
durante il secondo le rivolse la parola, durante il terzo le regalò una noce di cocco, durante il
quarto le fece una proposta di matrimonio, che fu subito accettata. Dopo di ciò, Amenda fu
messa in grado di visitare senza alcuna spesa il rivenditore di formaggi.
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Quello stesso conduttore era di carattere abbastanza bizzarro. Lo incontravo spesso
quando pigliavo l’omnibus per andare a Fleet Street. Egli mi conosceva assai bene (credo che
Amenda gli avesse dato le mie informazioni) e sempre mi domandava di lei — ad alta voce, innanzi
a tutti gli altri passeggeri, cosa assai seccante — dandomi delle ambasciate per lei. Quando
si trattava di donne, egli aveva una sua maniera particolare di fare, e dall’estensione e dalla
varietà delle sue conoscenze femminili, e la tenerezza particolare con cui la maggior parte di esse
lo considerava, son tratto a credere che l’esser stato abbandonato da Amenda (la quale contemporaneamente
piantò anche il rivenditore di formaggi) gli cagionasse meno ambascia di
quanta si sarebbe potuto altrimenti credere.
Era un uomo che in un modo o nell’altro mi divertiva molto. Ripensando a lui mi torna a
mente qualche incidente alquanto bizzarro.
Un pomeriggio saltai sull’omnibus nella Seven Sisters Road. Non c’era nel veicolo che
un altro passaggero: un vecchiotto francese: — Non mi dimenticherete, — diceva il francese,
quando entrai io, — io desidero Sciaring Cross.
— Non vi dimenticherò, — rispose il conduttore, — voi avrete (e imitava la sua pronuncia)
il vostro Sciaring Cross. Non ci pensate. Questa è la terza volta, — aggiunse volgendosi a
me con voce stentorea, — che mi raccomanda di non dimenticarmene... è difficile che me ne
dimentichi, vero?
Alla cantonata dell’Holloway Road ci fermammo, e il conduttore cominciò a gridare,
come è uso: — Charing Cross... Charing Cross... è qui... Su, avanti, signora... Charing Cross.
Il francese si levò in piedi, preparandosi a uscire; ma il conduttore lo respinse.
— Sedetevi e non fate lo sciocco; qui non è Charing Cross.
Il francese parve stupito, ma docilmente si abbiosciò sul sedile. Raccogliemmo un po’ di
passeggeri, e andammo innanzi. Mezzo miglio dopo la Liverpool Road una signora stava sul
marciapiedi guardandoci, mentre passavamo, con quel misto di diffidenza e di desiderio che è
l’atteggiamento medio della donna verso i trasporti di qualunque specie. Il nostro conduttore si
fermò.
— Dove volete andare? — le chiese severamente. — Strand Charing Gross?
Il francese non udì o non capì la prima parte della domanda, ma raccolse le parole «Charing
Cross», e saltò in piedi e via fuori sul predellino. Il conduttore lo afferrò per il bavero mentre
scendeva e lo trasse dentro con ira.
— Non potete star fermo un minuto, — gli gridò indignato; — bisogna corrervi dietro
come a un marmocchio.
— Io non voglio perdere Sciaring Cross, — rispose il francese umilmente.
— Voi non perderete Sciaring Cross, — ripetè l’altro amaramente, riconducendolo al
suo posto. — Vi lascerò per strada, se continuate a questo modo. State lì fermo, finchè non
vengo io a pigliarvi. Non vi farò andare oltre Sciaring Cross; state pur certo; sarà una fortuna
sbarazzarmi di voi.
Il povero francese tacque, e si ripigliò la strada. All’Angelo, naturalmente ci fermammo.
— Charing Cross, — gridò il conduttore, e il francese si levò in piedi.
— Dio buono, — disse il conduttore, prendendolo per le spalle e costringendolo a prender
posto su sedile d’angolo. — Che debbo fare? Non c’è nessuno che voglia sederglisi addosso?
Lo tenne fermo finchè l’omnibus non si mosse e poi lo lasciò. All’estremità di Chancery
Lane la stessa scena si ripetè; e il povero francese divenne furioso.
— Continua a dire Sciaring Cross, Sciaring Cross, — esclamò, rivolto ad altri passeggeri;
— e non è Sciaring Cross. È pazzo.
— Non capite, — ribattè il conduttore, egualmente indignato; — naturalmente dico
Sciaring Cross... intendo Charing Cross, ma non s’intende che sia Charing Cross. S’intende
che... — E poi, comprendendo dallo sguardo vago sul viso del francese l’impossibilità di spiegargli
la cosa, si volse a noi, con un gesto di supplica, e domandò:
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— C’è nessuno che sappia dire in francese «perfetto idiota?»
Un paio di giorni dopo, capitai di nuovo sull’omnibus.
— Bene, — domandai al conduttore, — il vostro amico francese discese finalmente a
Charing Cross?
— No, signore, — mi rispose; — non si crederebbe; ma litigai con una guardia prima di
voltar la cantonata, e m’uscì addirittura di mente. Il fatto sta che lo portai fino a Vittoria.
97
CAPITOLO XI.
Disse una sera Brown: — Non v’è che un unico vizio, l’egoismo.
Jephson stava in piedi innanzi al fuoco e s’accendeva la pipa. Tirò finchè il tabacco non
cominciò a bruciare, buttò il fiammifero nel fuoco e poi disse:
— E anche il seme di tutte le virtù.
— Sedetevi e continuate a lavorare, — disse MacShaughnassy dal canapè, dove giaceva
lungo sdraiato coi tacchi su una sedia; — noi stiamo parlando del romanzo. I paradossi non sono
ammessi durante le ore di applicazione.
Jephson, però, era in vena dialettica:
— L’egoismo, — egli continuò, — è semplicemente un altro nome della volontà. Ogni
azione, buona o cattiva, che noi facciamo è determinata dall’egoismo. Noi siamo caritatevoli
per assicurarci un buon posto nel mondo di là, per esser rispettati in questo, per addolcire la nostra
ambascia alla conoscenza o allo spettacolo della sofferenza. Un uomo è pietoso perchè gli
fa piacere d’essere pietoso, appunto come un altro è crudele, perchè la crudeltà gli piace. Un
grand’uomo fa il suo dovere perchè la coscienza del dovere compiuto gli dà una gioia maggiore
di quella che avrebbe dalla liberazione del dovere. Il religioso è religioso perchè trova una gioia
nella religione; l’onesto è onesto perchè la disonestà lo farebbe infelice.
«La stessa abnegazione non è che un sottile egoismo: noi preferiamo l’esaltazione mentale
ch’essa ci dà al godimento dei sensi che sta all’altra estremità. L’uomo non può essere che
egoista. L’egoismo è la legge della vita. Ogni cosa, dalla più remota stella fino all’insetto più
minuto che striscia sulla terra, lotta per sè, secondo le proprie forze; e su tutto domina l’Eterno,
che lavora per sè. Questo è l’universo.
— Pigliati un bicchierino di qualche cosa, — disse MacShaughnassy; — e non essere
così complicatamente metafisico. Tu mi fai venire il mal di testa.
— Se tutte le azioni, buone o cattive, derivano dall’egoismo, — rispose Brown, — vi
dev’essere l’egoismo buono e l’egoismo cattivo; e il tuo egoismo cattivo è il mio semplice egoismo,
senza aggettivi di sorta; e così ritorniamo donde siamo partiti. Io dico che l’egoismo...
l’egoismo cattivo... è la radice d’ogni male, ed ecco che tu sei costretto a convenire con me.
— Non sempre, — insistè Jephson; — io ho conosciuto dell’egoismo... dell’egoismo,
secondo l’ordinario significato della parola... che ha prodotto delle buone azioni. Posso dartene
un esempio, se vuoi.
— Ha una morale? — domandò MacShaughnassy, sonnacchioso.
Jephson meditò un momento. — Sì, — disse infine, — una morale molto pratica... e utilissima
ai giovani.
— Questo è ciò che ci occorre. — disse MacShaughnassy, mettendosi in posizione eretta.
— Ascolta, Brown.
Jephson si adagiò su una sedia, nell’atteggiamento preferito, coi gomiti sulla spalliera, e
fumò per un po’ in silenzio.
— Vi sono tre persone nel fatto che racconterò, — cominciò; — la moglie, il marito della
moglie, e l’altro. In molti drammi dello stesso tipo è la moglie il personaggio principale. Nel
mio la persona interessante è l’altro.
«La moglie... la vidi una volta: era la donna più bella che avessi mai incontrato e
dall’aspetto più perverso; il che è dir molto per le due cose. Ricordo una volta, durante
un’escursione a piedi, d’essermi imbattuto in una graziosa casetta. Era il luogo più dolce immaginabile.
Non serve descriverlo. Era il ricetto che si vede nei quadri, e di cui si parla nella poesia
sentimentale. Stavo, appoggiato alla siepe ben mondata che separava la casa dalla strada,
ammirandone la bellezza, quando a una delle finestre vidi un volto che mi guardava. Stette lì un
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momento solo, ma in quel momento la casetta era diventata brutta, e io mi allontanai con un
brivido.
«Il viso di quella donna mi ha rammentato questo particolare. Era un viso d’angelo, finchè
lei non guardava: quando guardava, sorprendeva il disaccordo fra l’abitazione e l’abitante.
«Son quasi certo che una volta ella avesse voluto bene al marito. Le donne viziose hanno
pochi vizi, e fra questi di solito non c’è la cupidigia. Probabilmente ella lo aveva sposato,
portata verso di lui da una di quelle onde di passione, sulle quali la natura umana s’alza e
s’abbassa in continuazione. Al possesso, però, era seguita la sazietà, e dalla sazietà era germogliato
il desiderio d’una sensazione nuova.
«In quel periodo essi erano al Cairo: il marito vi aveva un importante ufficio, e per esso
e per la bellezza e il tatto di lei, la loro casa era diventata il centro della società anglosassone
che arrivava e partiva dalla città. Le donne detestavano la padrona di casa e la copiavano; gli
uomini parlavano di lei alle mogli con leggerezza, leggermente di lei l’un l’altro, e
s’istupidivano quando rimanevano soli con lei. Ella rideva loro sul muso, e imitava i loro gesti
in loro assenza. I loro amici dicevano che lo faceva benissimo.
«Un anno arrivò un giovane ingegnere inglese, che era stato mandato a dirigere alcuni
lavori idraulici. Portava delle magnifiche lettere di raccomandazione, e fu subito accolto dai residenti
europei, come un gradito acquisto di tutta la colonia. Egli non era particolarmente attraente,
non era molto simpatico, ma aveva l’unica cosa che le donne trovano quasi irresistibile in
un uomo: la forza. La donna guardò l’uomo; l’uomo rispose allo sguardo della donna; e il
dramma incominciò.
«La maldicenza si diffonde rapida nelle piccole comunità, come nei piccoli luoghi. Non
era passato un mese, e la loro relazione era il principale argomento di conversazione a traverso
tutto il quartiere. In meno di due mesi, essa raggiunse le orecchie del marito della donna.
«Il marito o aveva un carattere straordinariamente vile o straordinariamente nobile, secondo
donde la cosa si voglia considerare. Adorava la moglie — come gli uomini col cuore
grande e il cervello piccolo sogliono adorare simili donne — con devozione da cane. Il suo solo
timore era che lo scandalo dovesse raggiungere proporzioni che lo obbligassero ad accorgersene,
e così a coprir d’obbrobrio e far soffrir la donna per la quale egli avrebbe data la vita. A lui
sembrava naturale che chi la vedeva dovesse amarla; naturale che lei si fosse stancata di lui, e le
era grato che una volta, almeno, per un poco lo avesse amato.
«Quanto all’altro, egli parve un enigma a quanti avevano relazione con lui. Non tentava
di nasconder nulla; e se mai, metteva piuttosto in mostra la sua soggezione amorosa... o la sua
conquista, comunque si volesse chiamarla. Andava a cavallo o in carrozza con la donna; la visitava
apertamente e segretamente (con quella segretezza che si può sperare in una casa piena di
servi ciarlieri e spiata da occhi curiosi); la caricava di ricchi doni, che ella portava pubblicamente,
e disseminava le pareti del proprio salottino con fotografie di lei. Pure non si permetteva mai
di apparire nel menomo grado ridicolo; e non permise mai ch’ella si frapponesse fra lui e il suo
lavoro. Una lettera che riceveva da lei, la metteva da parte e non l’apriva se non aveva finito ciò
che evidentemente riteneva una faccenda più importante. Quando la donna e lo studio diventarono
rivali, era il salotto che doveva aspettare.
«La donna s’irritava di quella freddezza, che la colpiva come uno staffile, ma
s’aggrappava a lui con più abiettezza.
«— Dimmi che mi vuoi bene! — ella gridava fiera, stendendo verso di lui le candide
braccia.
«— Te l’ho detto, — rispondeva lui calmo, senza muoversi.
«— Voglio sentirlo ancora, — supplicava ella con una voce che tremava in un singhiozzo.
— Su, vieni qui, vicino a me, a dirmelo ancora, ancora!
«Quindi, mentre ella giaceva con gli occhi semichiusi, egli le versava un fiotto di parole
appassionate sufficienti a soddisfarla, e dopo, appena le porte avevano cigolato dietro di lui, ri99
pigliava un problema d’ingegneria precisamente al punto dove lo aveva lasciato mezz’ora prima,
all’ingresso di lei nella stanza.
«Un giorno, un amico intimo gli fece a un tratto questa domanda: — Ti muove l’amore
o la vanità?
«A questo il giovane ingegnere, dopo aver meditato a lungo, rispose: — Sull’anima mia,
caro, non saprei dire.
«Ora, quando un uomo è innamorato d’una donna che non sa discernere nel suo spirito
se lo ami o no, noi chiamiamo questa complicazione commedia; ma se la donna fa sul serio,
l’esito è in generale una tragedia.
«Essi continuarono a vedersi e a far l’amore e parlavano — come in generale quelli nella
loro condizione — della felice vita che avrebbero menato, se non fosse stato per
l’impedimento che li teneva; del paradiso terrestre — o terreno, che sarebbe stato un aggettivo
più adatto — che l’uno avrebbe creato all’altra, se mai avessero avuto il diritto che non avevano.
«In quel lavoro d’immaginazione, l’uomo si affidava principalmente alle sue facoltà letterarie,
che erano notevoli; la donna ai propri desideri. Così le scene di lui avevano una grazia e
un tocco che mancava a quelle della donna; ma i quadri di lei erano più vivi e così realisticamente
dipinti che le sembravano realtà che stessero ad attenderla. Ma levandosi per muoversi
verso di esse non faceva che urtare contro il pensiero dell’essere che le ostacolava il cammino.
Sulle prime prese soltanto a odiare l’essere; ma, dopo un po’, le scintillò nell’occhio un truce
sguardo di speranza.
«Per il giovane ingegnere, s’avvicinava il tempo del ritorno in Inghilterra. Il canale era
finito, ed era stato stabilito il giorno dell’immissione dell’acqua. All’inaugurazione presero parte
un gran numero d’invitati, fra i quali la donna col marito. Dopo per gli ospiti erano preparati
dei rinfreschi in un bel luogo boscoso, a tre quarti di miglio dalla prima chiusa.
«La cerimonia dell’immissione dell’acqua doveva esser compiuta dalla donna, che per
la posizione del marito aveva diritto a quest’onore. Fra il fiume e l’estremo capo del canale era
stato lasciato un forte banco di terra, tappato da una lastra d’acciaio che vi s’adattava perfettamente.
La donna tirò la leva che sollevava la lastra e l’acqua si precipitò cominciando a premere
contro le porte della chiusa. Raggiunta una certa altezza, le cateratte furono sollevate e
l’acqua si riversò nel bacino più profondo.
«Era un bacino assai profondo. Gl’invitati si raccolsero intorno a guardare l’acqua che
pian piano si sollevava. La donna diede un’occhiata giù nel fondo, e rabbrividì; l’ingegnere le
stava accanto.
«— Com’è profondo! — ella disse.
«— Sì, — rispose, — contiene dieci metri d’acqua, quand’è pieno.
«L’acqua saliva centimetro per centimetro.
«— Perchè non apri le chiuse, e non lasci entrar l’acqua subito? — ella domandò.
«— Non gioverebbe farla entrare subito, — egli spiegò; — riempiremo questa chiusa a
metà, apriremo le porte all’altra estremità e lasceremo passar l’acqua.
«La donna guardò le pareti di pietra lisce e le porte di ferro.
«— Chi sa che farebbe uno che cadesse qui dentro, se non ci fosse qualcuno pronto ad
aiutarlo?
«Il giovane ingegnere si mise a ridere: — Credo che si fermerebbe qui dentro, — rispose.
— Su, gli altri ci aspettano.
«Si fermò un momento a fare qualche ultima raccomandazione agli operai. — Quando
tutto è a posto, andate pure a mangiare un boccone, egli disse. — Basta che qui rimanga uno solo.
— Poi raggiunse gli altri invitati, e arrivò chiacchierando e ridendo, al luogo dei rinfreschi.
Dopo la colazione la compagnia si disciolse, e si disperse a gruppi e a coppie. Il giovane
ingegnere che era stato fino allora tutto occupato nei suoi doveri di ospite, cercò la donna, invano.
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Un amico, che passeggiava lì accanto, quello stesso che gli aveva messo la questione
dell’amore e della vanità, gli chiese:
«— Vi siete bisticciati?
«— No, egli rispose.
«— Ho immaginato che vi foste bisticciati, — disse l’altro. — L’ho incontrata appunto
in questo momento col marito, e, pare impossibile, tutta vezzi e moine con lui.
«L’amico se ne andò, ed egli si sedette su un albero caduto, ad accendersi un sigaro.
Fumò e meditò, consumò il sigaro, e continuò a meditare.
«Dopo un po’ sentì di dietro un fruscio di rami, e spiando fra i cespugli che lo nascondevano,
vide la donna strisciare accosciata per il bosco.
«Le labbra di lui già si aprivano per chiamarla quando ella volse la testa in quella direzione,
ed egli posò gli occhi sul viso della donna. Qualcosa in lei, che non avrebbe saputo determinare,
lo fece ammutolire. La donna continuò ad andare.
«A poco a poco le idee nebulose che gli fluttuavano per il cervello cominciarono a congregarsi
in un’idea tangibile, e il giovane ingegnere inconsapevolmente si levò e s’incamminò.
Dopo aver fatto un po’ di passi, si mise a correre, perchè l’idea era diventata più chiara. Si fece
sempre più chiara, ed egli si mise a correre più forte, e poi s’accorse che correva follemente
verso il canale. Avvicinandosi, volse lo sguardo cercando l’operaio che vi doveva esser rimasto,
ma non c’era. Gridò, ma se mai una voce rispose, fu soffocata dal muggito dell’acqua che si
precipitava.
«Ivi raggiunse l’orlo e guardò giù. A cinque metri di profondità, era la realtà dell’oscura
visione che gli s’era presentata a un miglio più su nel bosco: il marito della donna che nuotava
all’ingiro come un topo in un mastello.
«La corrente entrava ed usciva dalla chiusa alla stessa velocità, di modo che il livello
dell’acqua rimaneva il medesimo. La prima cosa che il giovane ingegnere fece fu di chiudere le
cateratte di sotto e di aprire per tutta la loro estensione quelle di sopra. L’acqua cominciò a sollevarsi.
«— Puoi resistere ancora? — gridò.
«L’altro gli volse una faccia contorta da sforzi disperati, e rispose con un fioco: — No.
«II giovane guardò per qualcosa in giro da buttare all’altro nell’acqua. Nella mattinata
c’era stata lì una tavola, e vi aveva perfino inciampato. Ma s’era lagnato che fosse stata lasciata
per terra, ed era stata portata via.
«Una casupola usata dagli operai per tenervi i loro strumenti era a un paio di centinaia di
passi di distanza: forse la tavola era stata portata lì dentro, forse egli potevar trovarvi una fune.
«— Un minuto ancora, — gridò al disgraziato nell’acqua, — e poi ritornerò.
Ma l’altro non l’udì. La poca forza rimastagli gli sfuggiva; la testa gli ricadde
sull’acqua, con gli occhi semichiusi, come in una rassegnata indifferenza al destino. Per il giovane
ingegnere non vi fu altro da fare che cavarsi gli stivali, saltare nell’acqua e abbrancare il
corpo inerte che affondava.
«E nell’acqua, in quella trappola murata, egli combattè con la morte una lunga battaglia
per la vita che si frapponeva fra lui e la donna. Non era un nuotatore esperto, aveva un impedimento
negli abiti, era già ansante per la lunga corsa, era trascinato giù dal carico che aveva nelle
braccia, e l’acqua si sollevava lentamente, dandogli un’inenarrabile tortura degna dell’inferno
dantesco.
«In principio non comprese perchè l’acqua continuasse ad alzarsi; ma, dando
un’occhiata in basso, vide con orrore di non aver ben chiusa la cateratta inferiore: rimanevano
aperti venti centimetri circa, di modo che la corrente che entrava sfuggiva almeno per metà. Sarebbero
occorsi venti o venticinque minuti prima che l’acqua fosse abbastanza alta da permettere
di aggrapparsi all’orlo.
«Osservò la linea raggiunta dall’acqua, sulla parete liscia di pietra, poi guardò di nuovo
dopo un intervallo ch’egli giudicò d’una decina di minuti, e trovò, che, se mai, s’era sollevata
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d’un tre centimetri. Gridò aiuto per un paio di volte, ma lo sforzo era grave, sfinito com’egli era;
e la voce gli tornava riflessa in mille echi dalle pareti della prigione.
«Centimetro per centimetro la linea dell’acqua saliva, ma la riserva dell’energia rimasta
gli si consumava più rapidamente. Gli sembrava come se fosse abbrancato al di dentro, e fosse
lentamente sbranato: aveva la sensazione che tutto il corpo gli gridasse di lasciarlo affondare e
riposare in fondo all’acqua.
«Finalmente il suo carico inerte aprì gli occhi e lo fissò con uno sguardo vuoto; poi li richiuse
con un sospiro; un minuto dopo li riaprì ancora una volta, guardandolo a lungo e con durezza.
«— Lasciatemi andare, — disse, — annegheremo entrambi. Pensate a voi.
«Fece un debole tentativo per liberarsi, ma l’ingegnere lo tenne stretto.
«— Sta fermo, sciocco! — gli sibilò, — o tu ti salverai con me, o io affonderò con te.
«E così la triste lotta continuò in silenzio, finchè l’ingegnere, levando gli occhi e vedendo
la pietra ricurva dell’orlo poco distante spiccò un salto per abbrancarvisi con la punta delle
dita, la tenne un istante, e poi ricadde con un tonfo sott’acqua. Ritornò a galla, si slanciò di
nuovo, e aiutato dall’impeto della corrente che saliva, si aggrappò questa volta più solidamente,
si sospese finchè non vide l’erba che cresceva al di fuori, e poi entrambi poterono arrampicarsi
sulla riva e giacervi, col petto contro il suolo, le dita infisse nel terreno, mentre l’acqua che traboccava
affluiva loro intorno.
«Dopo un po’ si rialzarono e si guardarono l’un l’altro.
«— Una bella fatica, — disse l’ingegnere con un cenno verso la chiusa.
«— Sì, — rispose l’altro, — terribilmente difficile per chi non è un buon nuotatore.
Come hai saputo che ero caduto qui dentro? Hai incontrato mia moglie, forse?
«— Sì, — disse l’ingegnere.
«Il marito rimase a fissare un punto nell’orizzonte per qualche minuto. — Sai che stavo
pensando stamane? — disse.
«— No, — disse l’altro.
«— Se ti dovessi o no uccidere. Mi avevano detto un monte di chiacchiere, — continuò
dopo una pausa, — e io ero stato abbastanza vile da crederle. So ora che non è vero... perchè se
fosse vero, non avresti fatto ciò che hai fatto. — Si levò e si diresse verso l’amico: — Ti domando
perdono, — disse stendendogli la mano.
«— Domando io perdono a te, — disse l’ingegnere, levandosi e stringendogli la mano;
— vuoi farmi il favore di aiutarmi con queste chiuse?
«Si misero a lavorare per metterle a posto.
«— Come hai fatto a cadervi? — domandò l’ingegnere, che senza levar gli occhi, era
occupato intorno alla cateratta inferiore.
«L’altro esitò, come se trovasse la spiegazione un po’ difficile. — Ah, — rispose con
tono indifferente, — mia moglie e io scherzavamo e lei disse che spesso ti aveva visto attraversare
il canale con un salto e... — aggiunse con una risata un po’ sforzata... — mi promise un...
un bacio, se l’avessi fatto anch’io. Ma ho commessa una sciocchezza.
«— Sì, credo, — disse l’altro.
«Pochi giorni dopo l’ingegnere e la donna s’incontrarono a un ricevimento. Egli la trovò
in un cantuccio fronzuto del giardino, occupata a conversare con le amiche. Ella si levò, e gli
andò incontro tendendogli la mano: — Che posso far di più che ringraziarvi? — mormorò in
tono basso.
«Le altre signore si allontanarono e li lasciarono soli.
«— M’han detto che tu hai arrischiato la vita per salvarlo — ella disse.
«— Sì, — egli rispose.
«Ella gli levò in occhi in viso, poi lo colpì sulla faccia con la mano nuda.
«— Stupido che non sei altro! — gli bisbigliò.
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«Egli l’afferrò per le candide braccia, e la condusse dietro un boschetto di aranci. — Sai
perchè? — disse, con voce lenta e ben chiara; — perchè temo che, lui morto, tu vorresti sposarmi,
e, bersagli di tante chiacchiere come siamo stati, difficilmente potrei evitarlo; e perchè,
senza più tuo marito fra di noi, tu puoi essere un tormento per me... forse frapporti fra me e la
donna che io amo e alla quale sono in procinto di ritornare. Ora m’intendi?
«— Sì, — rispose la donna, e lo lasciò.
«Ma vi sono soltanto due persone, — concluse Jephson, — che non considerano il salvataggio
del marito un’azione altamente nobile e disinteressata: la moglie e il salvatore».
Ringraziammo Jephson per la sua storia, e promettemmo di profittare della morale,
quando l’avessimo scoperta. Intanto, MacShaughnassy disse ch’egli sapeva un fatto che trattava
dello stesso téma, cioè il troppo stretto attaccamento di una donna a un bizzarro uomo. Il fatto
aveva realmente una morale ed era: alla larga dagl’inventori!
Brown, che aveva preso un brevetto per un fucile di sicurezza, senza aver trovato un
uomo abbastanza coraggioso da tirarvi un colpo, disse che la morale era pessima. Noi prima volevamo
sentire i particolari, riservandoci di giudicare.
— Questa storia, — cominciò MacShaughnassy, viene da Furtwangen, una cittadina
della Foresta Nera. Viveva colà uno stranissimo vecchio di nome Nicola Geibel, fabbricante di
balocchi meccanici, coi quali aveva conquistato una fama quasi europea. Costruiva conigli che
sbucavano dalla palla d’un cavolo, agitavano le orecchie, si lisciavano i baffi e di nuovo si rintanavano
nel cavolo; gatti che si lavavano il muso, e miagolavano con tanta naturalezza che i
cani li scambiavano per gatti vivi e s’avventavano contro di loro; pupazzi, con dei fonografi nascosti
nel petto, che si levavano il cappello e dicevano: «Buon giorno, come state?» e alcuni che
cantavano perfino delle canzonette.
«Ma egli era un po’ più che un semplice meccanico: era un artista. Il suo lavoro era per
lui più che una passione, una mania. La sua bottega era gremita di strani oggetti che non vendeva
mai e che non potevano esser venduti: oggetti che aveva fabbricati per il semplice scopo di
fabbricarli. Aveva congegnato un asino meccanico che trottava per due ore di seguito per mezzo
di pile elettriche; e trottava anche molto più veloce dell’animale vivo, e con minore bisogno
di spazio da parte del conduttore; un uccello che si slanciava in aria, volava intorno, descrivendo
un circolo, e cadeva al suolo nel punto esatto donde s’era levato; uno scheletro, che, sostenuto
da un’asta di ferro, ballava una danza scozzese; una donna di dimensioni naturali che sonava
il violino; e un signore incavato al di dentro, che fumava la pipa e beveva più birra di tre studenti
normali tedeschi messi insieme, il che è dir molto.
«Si diceva anzi, in città, che il vecchio Geibel potesse fabbricare un uomo capace di fare
tutto ciò che una persona rispettabile non sente il bisogno di fare. Un giorno fabbricò un uomo
che fece troppo, e avvenne a questo modo.
«Il giovane dottor Follen aveva un bambino, e il bambino aveva un genetliaco. Il primo
genetliaco mise in un certo trambusto la casa del dottor Follen, ma in occasione del secondo
genetliaco, il dottor Follen diede un ballo in onore dell’avvenimento. Il vecchio Geibel e sua figlia
Olga erano fra gli ospiti.
«Durante il pomeriggio del giorno dopo, tre o quattro buone amiche della figliuola Olga,
che erano state anche presenti al ballo, capitarono in casa di lei a far quattro chiacchiere e parlarono
del ballo. Naturalmente parlarono dei ballerini, e criticarono il loro modo di ballare. Il
vecchio Geibel era nella stanza, ma sembrava assorto nel giornale, e le ragazze non gli badarono.
«— A ogni ballo, — diceva una ragazza, — par che gli uomini che sanno ballare sian
sempre meno numerosi.
«— È vero, e quelli che sanno ballare, si dànno certe arie, — disse un’altra; — par che
vi facciano un favore, se vi domandano un giro.
«— E come parlano stupidamente, — disse una terza. — Dicono sempre le stesse sciocchezze:
— «Che aspetto incantevole avete stasera!» «Andate spesso a Vienna?» «Oh, dovreste
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andarci, è deliziosa» «Che magnifico vestito portate!» «Che caldo oggi!» «Vi piace Wagner?»
Vorrei che pensassero a qualche cosa di nuovo.
«— Ah, io non ci bado a quello che dicono. Se un uomo balla bene, non m’importa che
sia uno sciocco.
«— E in generale è sciocco, — insinuò una ragazza sottile sottile, piuttosto sprezzante.
«— Io vado al ballo per ballare, — continuò quella che aveva parlato in precedenza, non
badando all’interruzione. — Al cavaliere non chiedo altro che mi tenga stretta, mi faccia ballare
molto, e non si stanchi prima di me.
«— Un pupazzo a orologeria sarebbe quello che ti ci vorrebbe, — disse la ragazza che
l’aveva interrotta.
«— Brava, — esclamò una delle altre, battendo le mani, — una magnifica idea!
«— Quale idea? — si chiese.
«— Quella d’un ballerino meccanico, o meglio ancora, un ballerino che andasse a elettricità
e, non si fermasse mai.
«Le ragazze accolsero quell’idea con entusiasmo.
«— Che bel cavaliere sarebbe, — disse una, — non vi darebbe mai dei calci e non vi
camminerebbe mai sui piedi.
«— E non ci strapperebbe la gonna.
«— E non ballerebbe fuor di tempo.
«— E non gli verrebbe la vertigine per appoggiarsi alla dama.
«— E non avrebbe bisogno di asciugarsi il viso col fazzoletto. Detesto di vedere gli uomini
col fazzoletto sulla faccia dopo ogni giro.
«— E non vorrebbe passar tutta la sera nella sala dei rinfreschi.
«— Con un fonografo nascosto in petto per dir le solite frasi, non si distinguerebbe da
un uomo vero, — disse la ragazza che aveva espresso prima l’idea dell’uomo meccanico.
«— Sì, che si distinguerebbe, — disse la ragazza sottile, — sarebbe molto più a modo.
«Il vecchio Geibel aveva deposto il giornale, e ascoltava intento. Ma appena una delle
ragazze diede un’occhiata verso di lui, in fretta egli riprese il foglio e si rimise a leggere,
«Andatesene le ragazze, egli si recò nel laboratorio, e Olga lo sentì camminare su e giù,
e ridere di tanto in tanto soddisfatto. Quella sera egli parlò con lei molto di balli e di ballerini: le
chiese che dicessero e facessero di solito, quali danze erano più in voga, quali passi si eseguivano,
e le fece molte altre domande intorno allo stesso argomento.
«Per un paio di settimane passò la maggior parte del tempo nel suo laboratorio, pensoso
e affacendato, benchè di tanto in tanto, e senza alcuna ragione, rompesse in una risatina silenziosa,
come se pensasse a uno scherzo che nessun altro conosceva.
«Un mese dopo ebbe luogo a Furtwangen un altro ballo. Era dato dal vecchio Wenzel, il
ricco mercante di legname, per celebrare il fidanzamento della nipote, e Geibel e la figlia si trovarono
di nuovo fra gl’invitati.
«Arrivata l’ora di andare, Olga cercò il padre. Non trovandolo in casa, picchiò alla porta
del laboratorio. Egli si presentò in maniche di camicia, accaldato, ma raggiante.
« — Non m’aspettare, — disse. — Tu va, che ti seguirò. Ho da finire un lavoro.
«Mentre ella si avviava, il padre la richiamò: — Di’ a tutti che condurrò con me un giovane...
un bravissimo giovane e un eccellente ballerino. Tutte le ragazze andranno matte per lui.
— Poi si mise a ridere e chiuse la porta.
«Suo padre teneva in generale tutti i suoi segreti per sè; ma lei quasi indovinò ciò
ch’egli aveva fatto, e così, in un certo modo, fu in grado di preparare gli ospiti alla meraviglia
imminente. L’aspettativa si fece intensa, e l’arrivo del famoso meccanico venne febbrilmente
atteso.
«Finalmente si udì dal di fuori un rumore di ruote, seguito da un gran trambusto nel corridoio,
e lo stesso vecchio Wenzel, dalla gioviale faccia, rubiconda per l’eccitazione e le risate
frenate a stento, irruppe nella sala e annunziò con voce stentorea:
104
«— Il signor Geibel.... e un amico.
«Il signor Geibel e il suo amico entrarono, salutati da scoppi di risate e d’applausi, e si
avanzarono nel centro della sala.
«— Permettetemi, signore e signori, — disse il signor Geibel, — di presentarvi il mio
amico, sottotenente Fritz. Mio caro Fritz, fa un inchino a tutte queste signore e a questi signori.
«Geibel mise la mano sulla spalla di Fritz, come per incoraggiarlo, e il sottotenente fece
un profondo inchino, accompagnando l’atto con uno stridore metallico nella gola, che faceva
tristemente pensare a un rantolo di morte. Ma questo fu semplicemente un particolare.
«— Cammina con una certa rigidezza (il vecchio Geibel gli prese il braccio e lo accompagnò
per un paio di passi. Certo camminava con una certa rigidezza), — ma il suo forte non è
il camminare. Egli è essenzialmente un ballerino. Finora non ho potuto insegnargli che il valzer,
ma nel valzer è impeccabile. Su, a quale dama io posso presentarlo come cavaliere? Egli osserva
perfettamente il tempo, non si stanca mai; non darà dei calci, non camminerà sullo strascico
della dama; terrà ben stretta la compagna, e andrà rapido o lento, a piacere; non soffre di vertigini
ed è pieno di conversazione. Su, ragazzo mio, parla tu.
«Il vecchio toccò un bottone nel vestito di Fritz, e questi aperse immediatamente la bocca,
e, con un tono sottile che sembrava provenir dalla nuca, osservò a un tratto: — Posso avere
l’onore? — e con uno scatto di nuovo chiuse la bocca.
«Senza dubbio il sottotenente Fritz aveva fatto una grande impressione sulla brigata; ma
nessuna della brigata sembrava disposta a danzar con lui. Guardavano tutte di sbieco la sua faccia
di cera, i suoi occhi e il vago sorriso, e rabbrividivano. Finalmente il vecchio Geibel, si diresse
alla fanciulla dalla quale era nata l’idea.
«— È l’idea vostra eseguita alla lettera, — disse Geibel, — un ballerino elettrico. È vostro
dovere permettere a questo signore che dia prova della sua abilità.
«Ella era una ragazza arguta, amante dello scherzo. L’ospite la pregò anche lui, ed ella
acconsentì.
«Il signor Geibel attaccò l’automa alla fanciulla. Il braccio destro del fantoccio fu avvitato
intorno alla cintura di lei e la tenne saldamente; la mano sinistra delicatamente articolata fu
fatta aggrappare alla destra di lei. Il vecchio fabbricante di balocchi le mostrò come regolare la
velocità, come fermarlo e come liberarsi.
«— Vi farà fare una danza completa, — egli spiegò; — badate che nessuno urti contro
di voi, e modifichi l’andatura del cavaliere.
«La musica cominciò. Il vecchio Geibel mise la corrente in moto, e Annetta e lo strano
cavaliere cominciarono a danzare.
«Per un po’ tutti rimasero a guardarli. L’automa ballava mirabilmente. Tenendo perfettamente
il tempo e il passo, e stringendo forte la dama in un abbraccio tenace, girava perseverante,
riversando nello stesso tempo un fiotto continuo di stridula conversazione, interrotta da
brevi intervalli di digrignante silenzio.
— «Che bello aspetto avete stasera, — notava col suo tono sottile e distante. — «Che
bella giornata è stata! Vi piace di ballare? I nostri passi vanno perfettamente d’accordo. Faremo
un altro giro, vero? Oh, non siate così crudele! Che bella gonna portate! Non è delizioso ballare?
Io continuerei a ballare in eterno... con voi. Avete cenato?
«Come divenne più familiare con quella paurosa creatura, la ragazza si liberò dalla nervosità,
che l’aveva assalita, e cominciò a trovarci gusto.
«— Ah, è proprio amabilissimo, — gridò, ridendo. — Danzerei con lui tutta la vita.
«A una a una, parecchie coppie li raggiunsero, e presto tutti i ballerini e le dame turbinavano
dietro di loro. Nicola Geibel stava ritto a guardare, raggiante di gioia infantile per la riuscita
del fantoccio.
«Il vecchio Wenzel s’avvicinò all’inventore, e gli bisbigliò all’orecchio qualcosa. Geibel
rise e fece cenno di sì, e i due s’aprirono tranquillamente un varco verso la porta.
105
«— Stasera questa è la casa dei giovani, — disse Wenzel, appena furono fuori; — voi e
io andremo nello studio a farci una fumatina e a bere un bicchier di vino.
«Intanto il ballo divenne più rapido e animato. Annetta allentò la vite che regolava la velocità
del cavaliere, e l’automa volò in giro con lei sempre più veloce. Le coppie, l’una dietro
l’altra, s’andavano a sedere esauste; ma essi soli ballavano sempre più rapidi, finchè non formarono
che l’unica coppia occupata nel ballo.
«Il valzer si fece sempre più folle. La musica rimaneva indietro, i musicanti incapaci di
tenere il tempo, s’interruppero, e si misero a guardare. Gli ospiti più giovani applaudivano, ma i
più anziani cominciarono a farsi ansiosi.
«— Non è meglio che ti fermi, cara? — disse una signora, — ti stancherai?
«Ma Annetta non rispose.
«— Credo che sia svenuta, — esclamò una ragazza, che l’aveva osservata in viso, mentre
passava.
«Un uomo si slanciò sul fantoccio, ma questo, col suo impeto, lo mandò lungo disteso
sul pavimento, mentre coi piedi calzati d’acciaio gli apriva una mascella. L’automa non intendeva
cedere così facilmente la preda.
«Non si può fare a meno di pensare che se qualcuno si fosse conservato calmo, il fantoccio
avrebbe potuto esser fermato. Due o tre uomini, mettendosi insieme, avrebbero potuto
sollevarlo di peso dal pavimento; o spingerlo in un angolo della sala. Ma pochi son capaci di
rimaner freddi nell’eccitazione generale. Quelli che non si son trovati presenti pensano alla stupidità
di quelli che erano presenti; quelli che erano presenti pensarono dopo che sarebbe stato
facile far questo o quello, badandoci a tempo.
«Le donne diventarono matte. Gli uomini si gridavano a vicenda delle istruzioni. Due si
slanciarono contro l’automa, ma col semplice risultato di cacciarlo dalla sua orbita nel centro
della stanza e di mandarlo a cozzare contro le pareti e i mobili. Un rivo di sangue apparve sulla
veste candida della fanciulla, e la seguì per il pavimento. La cosa diventava orribile. Le donne
si precipitarono atterrite fuor della sala. Gli uomini le seguirono.
«Un buon consiglio fu dato: — Trovate Geibel... andate a chiamare Geibel.
«Nessuno lo aveva visto uscire, nessuno sapeva dove fosse. Parecchi si mossero in cerca
di lui. Gli altri, troppo fiacchi e impauriti per arrischiarsi nella sala da ballo, si aggrupparono
fuori la porta e ascoltarono. Essi poterono udire il pesante strepito delle ruote sul pavimento liscio,
mentre l’automa continuava a girare; il tonfo sordo prodotto dall’automa, che, di volta in
volta, scagliava sè e il suo carico contro qualche oggetto che gl’impediva il passo e lo faceva
rimbalzare in una nuova direzione.
«E parlava continuamente con quel suo tono spettrale, ripetendo le stesse formule: —
Che bello aspetto avete stasera. Che bella giornata è stata oggi! Oh, non siate così crudele. Io
ballerei in eterno con voi. Avete cenato?
«Naturalmente si cercò Geibel da per tutto, tranne dov’era. Si guardò in tutte le stanze;
poi si precipitarono in corpo fino a casa sua, e persero dei minuti preziosi, svegliando la sua
vecchia governante sorda. Finalmente uno degli ospiti s’accorse che mancava anche Wenzel, e
allora si presentò l’idea dello studio in fondo al cortile, e colà fu trovato.
«Geibel si levò pallidissimo e accorse; e lui e Wenzel s’aprirono un varco fra la folla
degli ospiti raggruppati fuori la porta e la chiusero.
«Dall’interno venne il suono soffocato di voci basse e di rapidi passi, seguiti da un confuso
parapiglia, poi da un silenzio, poi di nuovo da voci basse.
«Dopo un po’ la porta si aperse, e quelli più innanzi fecero ressa per entrare, ma le poderose
spalle del vecchio Wenzel sbarravano l’ingresso.
— «Io voglio te.. e te, Bekler, — egli disse, rivolgendosi a due vecchi. Egli parlava calmo,
ma aveva la faccia mortalmente pallida. — Tutti gli altri, è meglio che ve ne andiate... conducete
via le donne più presto che potete.
106
«Da quel giorno il vecchio Nicola Geibel si limitò a fare dei conigli meccanici e dei gatti
che miagolavano e si lavavano la faccia».
Noi giudicammo che la morale del racconto di MaeShaughnassy era buona.
107
CAPITOLO XII.
Non so dire esattamente quant’altro del nostro, fortunatamente non preziosissimo tempo,
dedicassimo a quel nostro meraviglioso romanzo. Volgendo le pagine accartociate del logoro
scartafaccio che mi sta dinanzi, io trovo gli appunti delle seguenti riunioni confusi e incompleti.
Per settimane non c’è più una parola. Poi viene il minuto d’una riunione straordinariamente
affaccendata alla quale erano presenti: Jephson, MacShaughnassy, Brown e io; e della
quale «le operazioni cominciarono alle 8.30». A che ora le «operazioni» finissero, e che si conchiudesse,
la cronaca, però, non dice; benchè, scritti debolmente a lapis nel margine della pagina,
rintraccio questi geroglifici: «3.14.9 — 2.6.7, con un risultato di 1.8.2.». Evidentemente una
sera non rimunerativa.
Il 13 settembre par che noi diventassimo a un tratto pieni di grande energia, poichè leggo:
«Abbiamo risolto di cominciare subito il primo capitolo», col «subito» sottolineato. Dopo
questo slancio, riposiamo fino al 4 ottobre, in cui «discutiamo se debba essere un romanzo
d’intreccio o di costumi», senza — come il diario indica — arrivare a una decisione concreta.
Noto che nello stesso giorno «Mac ha raccontato un fatto intorno a un tale che per caso comprò
un cammello a un’asta pubblica». Mancano però, i particolari del fatto, fortunatamente, forse,
per il lettore.
Il 10 stavamo ancora discutendo del personaggio del protagonista; e veggo che io consigliai
«un uomo del tipo di Carletto Buswell».
Povero Carletto, mi domando come mai avessi pensato a lui in veste d’eroe di romanzo.
Credo forse per la sua amabilità, non certo per le sue qualità eroiche. Posso rammentarmi ora la
sua faccia infantile (ebbe sempre una faccia infantile), le lagrime che gli rigavano il viso mentre
era accoccolato nel cortile del collegio accanto a un secchio, nel quale stava annegando tre topini
bianchi e un sorcio addomesticato. Gli stavo di fronte, piangendo anch’io, mentre lo aiutavo
a tenere il coperchio di un tegame sulle povere bestiole. Nacque così fra noi un’amicizia che
si fece grande.
Sulla tomba di quei rosicanti assassinati, egli fece il solenne giuramento di non violar
mai più la disciplina scolastica, col tenere topolini bianchi o sorci addomesticati, ma di dedicare
tutte le sue energie future nel piacere agl’insegnanti e nel dare qualche soddisfazione ai genitori
per il denaro che spendevano nella sua educazione.
Sette settimane dopo, l’invasione nel dormitorio d’un effetto atmosferico più curioso
che piacevole condusse alla scoperta ch’egli aveva convertito il suo baule in una conigliera.
Messo a confronto di undici testimoni e delle promesse già fatte, spiegò che i conigli non erano
topi, e parve pensare che un nuovo regolamento tormentatore fosse stato redatto a bella posta
per lui. I conigli furono confiscati. Quale fosse il loro ultimo fato, non sappiamo con certezza;
ma, tre giorni dopo ci diedero coniglio a desinare. Per confortar l’amico, mi sforzai di assicurargli
che non si trattava dei suoi conigli. Ma egli, persuaso del contrario, pianse in continuazione
sul piatto nell’atto che mangiava, e, dopo, nell’ora di ricreazione, mosse all’assalto d’un
ragazzo di quarta, che aveva domandato una seconda portata.
La sera fece un altro solenne giuramento, e per il mese seguente fu il ragazzo modello
del collegio. Leggeva opuscoli religiosi, mandava i suoi risparmi alle società per la molestia dei
selvaggi, e si abbonò al «Giovane Cristiano» e al «Pellegrino settimanale, miscellanea evangelica
» (checchè voglia dire). Un corso intensivo di questa perniciosa letteratura gli fece nascere
naturalmente il desiderio dell’estremo opposto. Improvvisamente lasciò andare il «Giovane cristiano
» e il «Pellegrino settimanale», e comprò degli orrendi fascicoletti a due soldi; e, non curandosi
più affatto del benessere dei selvaggi, si comprò coi risparmi una rivoltella di seconda
108
mano e un centinaio di cartucce. La sua ambizione, come mi confessò, era quella di divenire un
«tiratore consumato» e lo strano è che non ci riuscì.
Naturalmente avvenne la solita scoperta e la solita punizione, il solito pentimento e la
solita determinazione di cominciare una vita nuova.
Povero amico, egli viveva «cominciando una vita nuova». Ogni capodanno cominciava
una vita nuova, ogni genetliaco suo e ogni genetliaco degli altri. Immagino che, in appresso,
quando potè apprenderne l’importanza, estendesse il principio a ogni scadenza di pigione. «Pulizia
generale e metodi nuovi», diceva sempre.
Credo che come giovane fosse migliore di cento altri di noi. Ma gli mancava il dono che
è la caratteristica della razza che parla inglese in tutto il mondo, il dono dell’ipocrisia. Pareva
incapace di far la minima cosa senza che venisse scoperto, la più grave disgrazia che possa toccare
a un uomo.
Povero, semplice amico, non gli veniva mai in niente ch’era come gli altri — con in più
un pizzico di lealtà; e si considerava un mostro di depravazione. Una sera lo trovai in casa sua
occupato nel lavoro di disbrigo della «pulizia generale». Un mucchio di lettere, fotografie e biglietti
gli stava dinanzi. Li stracciava tutti e li buttava nel fuoco.
Feci per appressarmigli, ma mi fermò. — Non t’avvicinare, — mi disse, — non toccarmi.
Non son degno di stringer la mano a una persona per bene.
Proprio la specie di linguaggio da mettere in imbarazzo un amico. Non seppi che rispondere,
e mormorai qualche cosa, dicendo che egli non era peggiore degli altri.
— Non dir così, — mi rispose eccitato; — lo dici per consolarmi, lo so; ma non lo ascolto
volentieri. Se credessi gli altri come me, mi vergognerei d’essere uomo. Sono stato un
briccone, caro, ma, Dio sia lodato! non è troppo tardi. Domani mattina comincio una vita nuova.
Finì il suo lavoro di distruzione, e poi sonò il campanello, e mandò il domestico da basso
a pigliare una bottiglia di sciampagna.
— La mia ultima bevuta, — disse, come toccammo i bicchieri. — Finisce la vecchia vita,
e comincia la nuova.
Assaggiò un sorso e gettò il bicchiere con tutto il resto nel fuoco. Era sempre un po’ teatrale,
specialmente quando faceva sul serio.
Dopo, per lungo tempo, non seppi più nulla di lui. Poi, una sera, cenando in un ristorante,
lo vidi di fronte a me con una compagna che si poteva appena chiamare equivoca.
Si levò e venne presso di me. — Sono stato un vecchio eremita per quasi sei mesi, —
disse con una risata. — E non ho potuto durarci più. Dopo tutto, — continuò, — che è la vita se
non vivere? È un’ipocrisia tentar di essere ciò che non siamo. E sai, — disse, appoggiandosi alla
tavola e parlando gravemente, — onestamente e seriamente, sono migliore... lo so e lo sento...
quando seguo i miei impulsi naturali, che non quando tento d’essere un santo impossibile.
Questo era l’errore che commetteva: correva sempre agli estremi. Pensava che con un
giuramento, purchè fosse solenne, si spaventasse la natura umana, invece che sfidarla soltanto.
Quindi, ogni riforma era più esagerata della precedente, per essere debitamente seguita da un
maggiore slancio del pendolo nella direzione opposta.
Essendo allora in vena di sregolatezze, s’era messo a un passo piuttosto rapido. Poi una
sera, senz’altro preavviso, ebbi da lui un bigliettino: «Vieni a trovarmi, giovedì; è la vigilia del
mio matrimonio».
Andai. Era ancora una volta occupato nella pulizia generale. Tutti i cassetti erano aperti,
e sul tavolino erano ammucchiati pacchi di carte da giuoco, taccuini di scommesse e molta carta
scritta, tutta roba, come quell’altra volta, in corso di distruzione.
Mi misi a ridere: non potevo farne a meno; ma, niente affatto scoraggiato, egli mi rispose
con la sua solita cordiale franca risata.
— Lo so, — esclamò lietamente; — ma oggi non è come le altre volte. — Poi, mettendomi
la mano sulla spalla, e parlando con l’improvvisa serietà che sorge così pronta nelle nature
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superficiali: — Dio ha esaudito le mie preghiere, — disse. — Egli sa che son debole, e ha mandato
in mio soccorso un angelo dal cielo.
Prese il ritratto della sposa dal caminetto e me lo diede. A me parve l’immagine d’una
donna dura e angusta, ma, naturalmente, egli ne era più che l’innamorato.
Mentre parlava, cadde a terra, dal mucchio di carte che aveva dinanzi, il vecchio conto
di un ristorante. Si chinò, lo raccattò e lo tenne in mano, meditabondo
— Hai notato, — mi disse con leggiadria, annusandolo, — come a questa roba sembra
rimanga appiccicato un po’ dell’odore della sciampagna e delle candele? Chi sa che n’è di lei?
— Io non penserei a lei proprio stasera!
Aprì la mano, e lasciò cader il biglietto nel fuoco.
— Mio Dio! — gridò con veemenza, — quando penso a tutto il male che ho fatto...
all’immensa, irreparabile, sempre più vasta rovina che io forse ho cagionata nel mondo! O Dio,
fammi vivere a lungo, affinchè io possa riparare. Ogni ora, ogni minuto della mia vita sarà consacrato
a servirti!
Stando lì ritto, coi suoi penetranti occhi infantili rivolti in alto, pareva che un raggio di
luce gli cadesse sul viso e lo illuminasse. Gli avevo riconsegnato la fotografia, ed egli la depose
sulla tavola. S’inginocchiò e vi premè contro le labbra.
— Col tuo aiuto cara, e col suo, — mormorò.
La mattina appresso s’era sposato. Ella era una ragazza bene intenzionata, benchè la sua
religione, come è il caso con moltissima gente, fosse d’ordine negativo; e la sua antipatia per il
male molto più forte della sua simpatia per il bene. Per molto più, che non mi fossi aspettato,
ella lo fece rigar dritto... forse un po’ troppo dritto. Poi venne l’inevitabile ricaduta.
Andato da lui, chiamato da una sollecitazione urgente, lo trovai al colmo della disperazione.
La vecchia storia: l’umana debolezza associata alla mancanza delle più semplici precauzioni
per non essere scoperto. Egli mi raccontò i particolari della cosa, disseminati dalle più
violente accuse contro sè stesso, e io m’assunsi il compito delicato di paciere.
Fu un lavoro difficile, ma ella acconsentì a perdonargli. La gioia di lui, quando glielo
dissi, fu illimitata.
— Come son buone le donne! — disse, con le lagrime agli occhi. — Ma lei non se ne
pentirà. Piacendo a Dio, da oggi in poi io...
S’interruppe, e per la prima volta in vita sua un dubbio verso sè stesso gli traversò lo
spirito. La gioia gli si dileguò dal viso, e vi spuntò il primo indizio di maturità.
— Sembra che io non abbia in tutta la mia vita fatto altro che pulizia generale per adottare
un metodo nuovo, — disse sfiduciato. — Comincio a vedere dove sta il difetto, e l’unica
maniera di liberarmene.
Non capii allora che cosa intendesse, ma lo appresi più tardi.
Egli cercò di lottare secondo le forze sue, e cadde. Per un miracolo la sua colpa non fu
scoperta. I fatti vennero in luce molto tempo dopo, ma in quel tempo solo due persone li sapevano.
Fu il suo ultimo insuccesso. Una sera tardi ebbi un biglietto scritto in fretta dalla moglie,
che mi pregava di correre subito.
«È accaduta una cosa terribile — diceva, — Carletto è salito nel suo studio dopo desinare,
dicendo di dover far pulizia, e che non desiderava d’esser disturbato. Nello sgombrare il cassetto
deve aver maneggiato imprudentemente la rivoltella, che vi teneva, dimenticando, credo,
ch’era carica. Noi abbiamo sentito un colpo e corsi di sopra l’abbiamo trovato morto nella stanza.
La palla gli ha traversato il cuore.
Difficilmente il tipo d’un eroe! E pure non so. Forse egli combattè più duramente di
molti conquistatori! Nelle corti del mondo, noi siamo costretti a giudicare soltanto dagl’indizi, e
il testimone principale, l’anima dell’uomo, non può esser citata.
Ricordo una discussione sul coraggio che si ebbe una sera a un pranzo fra amici. Un signore
tedesco raccontò un aneddoto, del quale l’eroe era un giovane ufficiale prussiano.
110
— Non posso dire il suo nome, — spiegò il nostro amico tedesco; — lui stesso mi raccontò
il fatto in confidenza; e benchè personalmente, in virtù di altre gesta, egli possa desiderar
che si conosca, vi sono altre ragioni per non divulgarlo.
«Come io l’appresi avvenne così. Per una brillante impresa compiuta durante la breve
guerra contro l’Austria, gli era stata conferita la croce di ferro. Questa, come sapete, è la decorazione
più ambita del nostro esercito; gli uomini che l’hanno guadagnata ne vanno alteri, e veramente
hanno ragione di gloriarsene. Lui, invece, la teneva chiusa nel cassetto del tavolino, e
non la portava che quelle volte che ve lo costringeva l’etichetta ufficiale. Gli era penoso persino
vederla. Un giorno gliene chiesi il perchè. Noi siamo vecchi e intimi amici, ed egli me lo disse.
«L’incidente avvenne quando era un giovane sottotenente. Fu alla sua prima prova guerresca,
infatti. In un modo o nell’altro, s’era trovato separato dalla sua compagnia, e, non più in
grado di raggiungerla, s’era unito a un reggimento di fanteria situato all’ala estrema delle linee
prussiane.
«Lo sforzo del nemico era diretto principalmente verso il centro sinistro, e per un po’ il
giovane sottotenente non fu più che un lontano spettatore della battaglia. Improvvisamente, però,
l’attacco si spostò e il reggimento si trovò a occupare una posizione importantissima e pericolosissima.
Le granate cominciavano a piombar lì presso, e fu dato l’ordine «faccia a terra».
«Gli uomini si stesero proni in attesa. Le granate aravano il terreno in giro, soffocandoli
di detriti. Un’orribile sofferenza cominciò a straziare il petto del mio giovane amico, e a salir su
pian piano. Pareva che la testa e il cuore gli si contraessero e gli si agghiacciassero. Un colpo
portò via la testa dell’uomo accanto a lui, facendogliene spruzzare il sangue sulla faccia; un minuto
dopo un secondo colpo apriva la schiena d’un povero diavolo che gli stava dinanzi.
«Gli pareva che il corpo non gli appartenesse più, e che un bizzarro essere contratto se
ne fosse impossessato. Egli levò la testa e guardò in giro. Lui e tre soldati, giovani come lui,
che non erano mai stati sotto il fuoco, pareva che fossero completamente soli in quell’inferno.
Erano in coda al reggimento, e la configurazione del terreno li nascondeva assolutamente ai
compagni.
«Quei quattro si guardarono l’un l’altro, e si lessero nel pensiero. Lasciando i fucili
nell’erba, cominciarono a strisciare furtivamente sul ventre. Il sottotenente era in testa, gli altri
lo seguivano.
«A cinquecento passi di fronte s’elevava una piccola, ripida collina. Se avessero potuto
raggiungerne la vetta, si sarebbero sottratti alla loro vista. Continuarono ad affrettarsi, fermandosi
ogni trenta passi per riprender fiato, per quindi correr più veloci, lacerandosi la carne contro
lo scabro terreno.
«Finalmente raggiunsero la base dell’erta, e girando un po’ levarono la testa per guardare
indietro. Dove si trovavano era impossibile esser scorti dalle linee prussiane.
«Allora saltarono in piedi e si diedero a una corsa selvaggia. Ma dopo un po’ di passi si
trovarono di fronte a una batteria da campo austriaca.
«Il demone che s’era impossessato di loro era diventato più selvaggio a misura che
s’erano allontanati. Essi non erano uomini, ma bestie folli di terrore. Cacciati dalla stessa follia
che spinge altre creature colpite dal panico a precipitarsi a un tratto da un’altura nel mare, quei
quattro uomini, con un urlo, si scagliarono con la sciabola in mano su tutta la batteria; e tutta la
batteria, scompigliata da quell’attacco improvviso e inaspettato, credendo che fosse lì tutto un
battaglione, abbandonò il posto, e si precipitò in confusione giù per la collina.
«Alla vista degli austriaci in fuga, la paura del luogotenente, allo stesso modo come lo
aveva assalito, lo abbandonò, ed egli si sentì un desiderio sfrenato di tagliare e ammazzare. I
quattro prussiani inseguirono gli austriaci colpendoli e trafiggendoli in corsa; e quando arrivò
scalpitando la cavalleria prussiana, trovò che il sottotenente mio amico e i suoi tre compagni
avevano catturati due cannoni e avuto ragione di una diecina di nemici.
«Il giorno dopo, egli fu chiamato al quartier generale.
111
— «Mi farete il favore, — disse il capo dello Stato maggiore, — di ricordare per
l’avvenire che sua maestà non esige dai suoi sottotenenti di eseguire manovre per conto loro, e
inoltre che muovere all’assalto d’una batteria con tre uomini non è guerra, ma una semplice balordaggine.
Voi dovreste esser deferito alla corte marziale. — Poi, mutando di tono, e con la
faccia che si rammorbidiva in un sorriso, il vecchio soldato aggiunse: — Comunque, il valore e
l’audacia, mio giovane amico, sono buone qualità, specialmente quando sono coronate dal successo.
Una volta che gli austriaci fossero riusciti a piantare una batteria su quella collina, sarebbe
stato difficile sloggiarli. Forse, date queste circostanze, sua maestà può non tener conto della
vostra indiscrezione.
— «Sua maestà non soltanto non ne tenne conto, ma mi conferì la croce di ferro, —
concluse il mio amico. — Per l’onore dell’esercito, credei bene tacere e accettarla. Ma, come tu
puoi comprendere, la vista di quell’onorificenza non mi suscita ricordi piacevoli».
Per tornare al mio diario, veggo che il 14 novembre tenemmo un’altra riunione. Ma non
eravamo presenti che io, Jephson e MacShaughnassy. Del nome di Brown, da quel momento,
non v’è più traccia. La sera di Natale ci riunimmo ancora, e i miei appunti, informano che MacShaughnassy
preparò del ponce secondo una sua ricetta, che diventò una triste memoria natalizia
per tutti e tre. Nell’una e nell’altra occasione par non si determinasse alcuna iniziativa degna
di nota.
Poi v’è una lacuna fino all’8 febbraio, e la riunione si limitò alla mia persona e a quella
di Jephson. Con un ultimo guizzo, come quello d’una candela morente, il mio diario, a questo
punto, diventa brillante e proietta molta luce sulla conversazione di quella sera.
Par che noi parlassimo di molte cose... di moltissime cose, tranne che del nostro romanzo.
Fra l’altro, parlammo di letteratura in generale.
— Io son stufo dell’eterno cicaleccio intorno ai libri, — disse Jephson; — di queste colonne
di critica per ogni riga di scritto; di questi innumerevoli libri, intorno a libri; di queste lodi
esagerate e di questi biasimi esagerati; di questa sciocca adorazione del romanziere A; di
questo sciocco odio per il poeta B, di queste sciocche dispute intorno all’autore drammatico C.
Non v’è misura, non v’è senso comune in tutto questo. A sentire gli altri sacerdoti della cultura,
par che l’uomo sia fatto per la letteratura, non la letteratura per l’uomo. Il pensiero esisteva
prima della stampa; e gli uomini che elencarono i cento libri migliori non li lessero mai. I libri
hanno il loro posto nel mondo, ma essi non sono il suo scopo. Sono cose che vanno accanto al
manzo e al castrato, all’odor del mare, al tocco d’una mano, alla memoria d’una speranza, e a
tutti gli altri oggetti, nella somma totale dei nostri settant’anni. Pure noi parliamo dei libri come
se fossero le voci della vita, invece d’esserne semplicemente la sua debole eco. I racconti sono
deliziosi come racconti — dolci come primule dopo il lungo inverno, riposanti come pigolii di
uccelli al tramonto; ma ora non si scrivono «racconti», si preparano «documenti umani» e «si
sezionano anime».
S’interruppe improvvisamente in mezzo a quella sua tirata.
— Sai a che cosa mi fanno pensare questi «studi psicologici» che ora sono così alla moda?
— disse. — A una scimmia che cerca pulci su un’altra scimmia. E, dopo tutto, — continuò,
— che cosa mette a nudo la nostra penna analitica? L’umana natura? o semplicemente un indumento
più o meno decoroso che traveste e sfigura la natura umana? V’è l’aneddoto d’un vecchio
vagabondo, che colto da un infortunio, fu costretto a ritirarsi un po’ nella solitudine di Portland.
I suoi ospiti, desiderando di vedere il più che possibile di lui durante la sua temporanea
dimora con loro, si misero a lavarlo. Lo lavarono due volte al giorno per una settimana, ciascuna
volta apprendendo un po’ più di lui, finchè non raggiunsero una camicia di flanella. E si dovettero
contentar della camicia, perchè l’acqua e il sapone non avevano il potere di andare più
oltre.
«Quel vagabondo mi sembra il simbolo dell’umanità. La natura umana ha indossato per
tanto tempo le sue convenzioni che l’abito s’è immedesimato con essa. In questo secolo decimonono
è impossibile dire dove finisca il vestito della costumanza e dove cominci l’uomo natu112
rale. Le nostre virtù ci sono insegnate come un ramo della «condotta»; i nostri vizi sono i vizi
riconosciuti del nostro regno e del nostro assetto. La nostra religione pende bell’e pronta accanto
alla nostra culla per esserci abbottonata da mani amorevoli. I nostri gusti li acquistiamo con
difficoltà; i nostri sentimenti li impariamo per pratica. A costo di infinite sofferenze, ci studiamo
di appassionarci al whiskey e ai sigari, all’alta arte e alla musica classica. In un periodo noi
ammiriamo Byron e beviamo sciampagna dolce; vent’anni dopo, è più alla moda preferire Shelley,
e lo sciampagna ci piace secca. A scuola ci dicono che Shakespeare è un gran poeta, e che
la Venere dei Medici è un bel lavoro di scultura; e così per il resto della nostra vita noi andiamo
in giro dicendo che Shakespeare è un gran poeta e che, secondo la nostra opinione non v’è un
lavoro di scultura più bello della Venere dei Medici. Se siamo francesi, noi adoriamo nostra
madre; se inglesi, amiamo i cani e la virtù. Ci affliggiamo per la morte d’un parente prossimo
dodici mesi; ma per un secondo cugino soltanto tre. Il buono ha le sue eccellenze di prammatica
alle quali aspirare, i suoi peccati di prammatica da deplorare. Conoscevo un brav’uomo che si
affliggeva di non essere orgoglioso e di non poter, perciò, pregare ragionevolmente per la virtù
dell’umiltà. Nella società uno dev’essere necessariamente cinico e mediocremente malvagio;
nella Boemia ortodossamente eterodosso. Ricordo che mia madre rimproverava un’attrice, che
aveva abbandonato un marito devoto, fuggendo con un piccolo mediocre attore, brutto e spiacente
(parlo di molto, molto tempo fa).
«— Dovevate esser matta, — diceva mia madre; — come diavolo poteste dare un passo
simile?
«— Mia cara Emma, — rispose l’attrice; — che mi rimaneva? Voi sapete che non so
rappresentare. Dovevo far qualcosa per dimostrare ch’ero un’artista.
«Noi siamo burattini vestiti. La nostra voce è la voce del burattinaio nascosto, il Costume;
i nostri stessi movimenti di passione e di pena sono in diretta corrispondenza coi suoi fili.
Un uomo rassomiglia a uno di quei giganteschi involti e fagotti che si vedono nelle braccia delle
balie. È voluminoso e assai lungo; appare come una massa di merletti delicati, di costose pellicce
e di stoffe finemente intessute; e, in qualche parte, occulto alla vista fra tutto quella ricchezza,
v’è un minuscolo pezzettino roseo di umanità disorientata, con non altra voce che uno
sciocco vagito.
«— Non v’è che una storia sola, — continuò, dopo una lunga pausa, dicendo i suoi pensieri
ad alta voce, piuttosto che volgendosi a me. — Noi sediamo al nostro tavolino, e pensiamo
e pensiamo, e scriviamo e scriviamo; ma la storia è sempre la stessa. Degli uomini la dissero e
degli uomini l’ascoltarono molti anni fa; noi ce la diciamo a vicenda oggi; ce la diremo a vicenda
fra un altro migliaio d’anni, e la storia è: «Una volta c’era un uomo e una donna che lo amava
». Il piccolo critico grida che non è nuova, e domanda qualche cosa di più fresco, credendo
— come fanno i fanciulli — che vi siano delle strane cose nel mondo».
A questo punto finiscono i miei appunti, e non v’è più nulla nello scartafaccio. Non so
dire se qualcuno di noi continuasse a pensare al romanzo, o se ci riunissimo di nuovo a discutere,
se fosse mai cominciato, se fosse mai abbandonato. V’è una bella storia che io lessi e che
non ho mai dimenticata. Narrava d’un bambino che una volta, s’arrampicò all’arcobaleno. E
all’estremità dell’arcobaleno, proprio dietro le nuvole, trovò una città meravigliosa. Le case erano
d’oro, le strade erano pavimentate d’argento e la luce che la illuminava era quella del
mondo addormentato all’alba. In quella città v’erano così bei palagi, che, soltanto a guardarli,
tutti i desideri erano soddisfatti; e i templi erano così perfetti che chi si inginocchiava si levava
mondo dai peccati. E tutti gli uomini che dimorano in quella città meravigliosa erano grandi e
buoni, e le donne più belle delle donne nei sogni dei giovani. E il nome della città era «La città
delle cose che gli uomini intendevano di fare».
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INDICE
PROLOGO
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
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