venerdì 27 luglio 2012

FABIO GUIDI - EROS, Archetipo Unitivo - IL DIAVOLO, Archetipo Separativo.

\\\*°* E R O S  Archetipo Unitivo *°*///





Fabio Guidi

Eros, o l'archetipo unitivo - 1 Marzo 2012

Iniziamo il nostro viaggio nel mondo degli archetipi, di cui la coppia Eros-Thanatos costituisce, a mio parere, il bipolarismo archetipico fondamentale, il conflitto psicosintetico per eccellenza. In questo e nei prossimi contributi cercherò di rendere ragione di questa mia affermazione. Iniziamo con Eros.
Nella mitologia greca, Eros, il più giovane degli dei, era rappresentato come un fanciullo, spesso alato e armato di arco e frecce, con le quali accendeva negli dei e negli umani la passione amorosa, senza risparmiare alcuno. Era figlio di Ares e Afrodite - entrambi legati all’aspetto passionale, l’una riguardo all’amore e l’altro alla guerra - e fin da piccolo rivelò la sua natura capricciosa e crudele, al punto che Zeus consigliò ad Afrodite di sopprimerlo (la dea, però, lo salvò nascondendolo in un fitto bosco).

La più antica teogonìa lo vede generato da Caos, che, nel senso etimologico, indica l’abisso tenebroso che sta all’inizio di tutte le cose e contiene in sé gli elementi in una confusa miscela. Eros, in questo caso, appare come un dio cosmogonico, ben anteriore agli dei uranici, come la forza primordiale che unisce, il principio della forza attrattiva che spinge gli elementi a combinarsi. In altre parole, assume un significato ben più ampio del precedente e non a caso, nei misteri eleusini, viene adorato come «il Primogenito».

Platone, nel Convito, ci offre la sua visione di Eros, attraverso i racconti di alcuni ospiti di un banchetto. Aristofane, per esporre la sua posizione, narra il gustosissimo mythos degli esseri androgini:

«Inizialmente l'umanità comprendeva […] l'androgino, un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna. La forma degli umani era un tutto pieno: la schiena e i fianchi a cerchio, quattro bracci e quattro gambe, due volti del tutto uguali sul collo cilindrico, e una sola testa sui due volti, rivolti in senso opposto; e così quattro orecchie, due sessi, e tutto il resto analogamente, come è facile immaginare da quanto s'è detto. Camminavano anche ritti come ora, nell'una e nell'altra direzione; ma quando si mettevano a correre rapidamente, come i saltimbanchi fanno capriole levando in alto le gambe, così quelli veloci ruzzolavano poggiando su quei loro otto arti. […] Possedevano forza e vigore terribili, e straordinaria superbia; e osavano sfidare gli dèi.

Pertanto Giove e gli altri dèi andavano arrovellandosi che dovessero fare ed erano in grave dubbio perché non se la sentivano di ucciderli e farli sparire fulminandoli, né potevano lasciarli insolentire. Ma finalmente Giove, pensa e ripensa: “Se non erro, dice, ce l'ho l'espediente perché gli uomini, pur continuando a esistere ma divenuti più deboli, smettano questa arroganza. Ora li taglierò in due e così saranno più deboli e cammineranno ritti su due gambe”. Ciò detto prese a spaccare gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per conservarle. Quando dunque la natura umana fu tagliata in due, ogni parte, vogliosa della propria metà le si attaccava e, gettandosi le braccia attorno, si avviticchiava con l'altra, nella brama di fondersi insieme. […] Ecco dunque da quanto tempo l'amore reciproco è connaturato negli uomini: esso ci restaura l'antico nostro essere perché tenta di fare di due una creatura sola e di risanare così la natura umana.

Ognuno di noi è dunque la metà [symbolon] di un umano resecato a metà com'è al modo delle sogliole: due pezzi da uno solo; e però sempre è in cerca della propria metà, […] di congiungersi cioè e di fondersi con l'amato per formare, di due, un essere solo. E la spiegazione di questo sta qui, che tale era l'antica nostra natura, e noi eravamo tutti interi: a questa brama di interezza, al proseguirla, diamo il nome di Amore [Eros]. Prima di allora, lo ripeto, eravamo uno; ma ora per la nostra arroganza il dio ci ha divisi e dispersi. Ecco perché bisogna esortare ogni uomo ad essere rispettoso deglidèi, per evitare questa rappresaglia e per raggiungere quel bene di cui ci è guida e maestro Eros. […] Ecco, noi potremmo essere felici solo se conducessimo a perfezione il nostro Eros e se ciascuno di noi si imbattesse con l'essere gemello, restaurando così l'antica natura. […] Ed allora se volessimo celebrare le lodi di un dio autore di questa felicità, ad Amore [Eros] giustamente le canteremmo, perché egli ci guida verso la nostra antica natura, il nostro vero essere.»

Il messaggio contenuto in questo passo del dialogo platonico, anche se espresso simbolicamente, è sufficientemente chiaro. L’uomo non è intero: è “il synbolon di un umano resecato a metà”. Il termine greco ‘synbolon’ deriva dal verbo ‘synballo’, che vuol dire «mettere insieme». Può essere utile ricordare che il synbolon, nell’antica Grecia, corrispondeva ad un’attuale tessera di riconoscimento. Si spezzava un oggetto in due parti (poteva essere un anello, una moneta, un sigillo…) e ciascuna metà costituiva un synbolon, che, unito all’altro, diventava un segno di riconoscimento tra due contraenti di un patto, un accordo, un matrimonio... Quindi, ogni synbolon anela alla totalità, alla completezza, e ha bisogno dell’altra parte, deve essere “messo insieme” all’altra metà per ricreare l’unità originaria.

Anche in psicosintesi il simbolo è un ‘segno di riconoscimento’: attraverso il simbolo l’individuo si riconosce, si ‘mette insieme’, si integra, ricucendo i pezzi disuniti della propria personalità. Nel lavoro psicosintetico bisogna prestare particolare attenzione a quelle rappresentazioni psichiche archetipiche che emergono dall’inconscio e mostrano di possedere una funzione sintetica o anagogica, ‘simbolica’ appunto. Tali archetipi hanno la funzione di ricomporre l’unità dell’individuo, restituendogli l’identità smarrita.

Ecco, in tale prospettiva Eros rappresenta l’archetipo unitivo, questo impulso potente verso la completezza, l’integrazione, l’unità interiore e, insieme, la felicità perduta. Dice Rollo May, uno dei massimi esponenti della psicologia esistenziale:

“L’eros è quella potenza in noi che fa desiderare la totalità, quell’impulso… a integrare ciò che altrimenti tenderebbe a disintegrarsi. […] L’eros è la forza unificante per eccellenza.”.

L’espressione più comune dell’archetipo unitivo resta la tensione di due amanti che desiderano superare la separazione e l’isolamento in cui tutti noi versiamo in quanto individui. Tuttavia, tale archetipo è presente in ogni tendenza ad uscire da sé, ad espandersi, come eterna spinta all’accrescimento, anche all’interno della ricerca interiore, in quanto desiderio verso l’unità della psiche e la pienezza esistenziale. Eros è dunque quella nostalgia dolorosa per la pienezza del nostro essere e quel desiderio struggente di ricreare tale pienezza.

Approfondiremo nel prossimo contributo.

\\\*°* EROS - http://libera45.wordpress.com/author/libera45/page/2/ *°*///

Fabio Guidi

Eros, o l'archetipo unitivo - 2 Maggio 2012

Nel precedente contributo [Eros, o l’archetipo unitivo, 1] facevo riferimento al mito degli androgini, narrato nel Convito platonico. Tra gli ospiti del banchetto di cui si parla nel dialogo, troviamo, naturalmente, anche Socrate, il quale presenta la sua visione riguardo a Eros.


Nel suo intervento, il maestro ateniese racconta di quando aveva interrogato la profetessa Diòtima sulla natura del dio. Dalla risposta di Diòtima emerge l’idea che Eros è quella spinta interiore che ispira i processi creativi nella psiche dell’uomo, rappresenta quell’impulso a generare in direzione dell’immortalità. Seguiamo alcuni passi del mythos di Socrate.


«Ed io ripresi: «Va bene, o straniera, hai ragione; ma se Amore [Eros] è così che utilità reca agli uomini ?».


«Ecco il punto, o Socrate, che proverò ora ad insegnarti. Tutti gli uomini, o Socrate, sono pregni nel corpo e nell'anima, e quando giungono ad una certa età, la nostra natura fa sentire il desiderio di procreare. L'unione dell'uomo e della donna è procreazione; questo è il fatto divino, e nel vivente destinato a morire questo è immortale: la gravidanza e la riproduzione. […]


Perché la riproduzione è il qualcosa di sempre nascente e immortale per quanto è possibile a un essere mortale. Da ciò consegue come necessario che l'amore sia anche amore dell'immortalità. Ché in questo modo si salva ogni esistenza mortale, pur non rimanendo come quella divina, sempre assolutamente uguale a se stessa, ma in quanto ciò che invecchia e se ne va, lascia al suo posto un'altra esistenza giovane, identica a quella di prima. Con questo espediente, o Socrate, il mortale partecipa dell'immortalità sia per il corpo sia quanto al resto. L'immortale tiene altra via. Non ti meravigliare dunque, se ogni essere tiene caro per natura il proprio germoglio: perché è in vista dell'immortalità che in ognuno procede cotanto zelo e amore.


Coloro però che sono fecondi nel corpo si volgono per lo più alle donne, e per questa via perseguono l’amore [Eros], perché pensano di procurarsi per tutto il tempo futuro l'immortalità, il ri­cordo e la felicità mediante la procreazione dei figli. Ma quelli che sono fecondi nell'anima... - giacché vi sono naturalmente quelli che sono gravidi nello spirito ancor più che nel corpo, di quelle cose che è proprio dell'anima di concepire e partorire. Quali cose ? Il pensiero e ogni altra virtù. Delle quali sono generatori tutti i poeti [poìetes: creatori] e quanti degli artisti sono detti inventori, ma la forma più alta e più bella del pensiero concerne la costituzione dei governi e delle istituzioni, che si chiama appunto saggezza e giustizia. Quando qualcuno, fin dalla gioventù, sia gravido di queste cose nell'anima per ispirazione divina e divenuto maturo già brami di dar loro vita e di creare, ecco che allora si dà attorno e cerca anche lui il Bello, nel quale poter procreare, poiché nel Brutto non vi riuscirà mai. E così venendo a contatto della bella persona ed accompagnandosi a lei dà alla luce e procrea le cose da tempo concepite; e sempre la tiene nella memoria, vicino o lontano che sia, ed insieme a lei coltiva ciò che ha creato. Onde essi hanno fra loro molta più intima comunione e più salda amicizia di quella che viene dai figli, perché sono accomunati dall'avere dei figli più belli e immortali. Chiunque preferirebbe tali figli a quelli umani, se solo guardi Omero e Esiodo e tutti gli altri grandi poeti, ed invidi le progeniture che hanno lasciato di sé, e che garantiscono loro fama e memoria immortale essendo tali esse stesse. Onorato è da voi anche Solone per le leggi che dette alla luce; e così altri uomini, altrove e dappertutto, fra i greci e fra i barbari, che hanno prodotto alla luce molte opere stupende, fecondi in ogni genere di virtù. Molti altari sono stati loro dedicati per tali figli, ma non ancora per i figli umani di alcuno.»


Eros è quell’anelito a rendere immortale ciò che di più prezioso possediamo e, in definitiva, la nostra esistenza. È proprio per soddisfare tale anelito che l’essere umano sente questo irrefrenabile impulso a procreare, generare, creare. In questo senso, dice Rollo May


«L’Eros è il fulcro della vitalità di una cultura, il suo cuore, la sua anima. Quando l’Eros creativo scompare e la tensione vitale viene meno, la civiltà è avviata al declino.»


Attraverso Eros, lo spirito unitivo, noi tendiamo a creare, formare il mondo. Per riassumere, Eros nasce dal sentimento dell’assenza, dalla ricerca di qualcosa che integri, completi, realizzi la nostra esistenza. A questo qualcosa attribuiamo la qualità del Bello, l’inseguimento del quale ci arricchisce interiormente, ci rende “gravidi”, secondo la metafora socratica, e in grado di “partorire”, esprimere creativamente la nostra presenza nel mondo. È questo a farci partecipare del divino, a renderci immortali: fornire il nostro apporto personale all’evoluzione dell’uomo.


Come emerge dai passi successivi del discorso di Socrate, la ricerca della nostra compiutezza, guidata da Eros, l’archetipo Unitivo, si snoda a partire dagli aspetti più materiali dell’esistenza, dagl’impulsi legati al corpo, fino a condurci alle vette rarefatte della Verità. Anche nella ricerca più astratta – dell’arte, della scienza, della giustizia, della filosofia, dell’etica, della spiritualità – è presente una dimensione erotica, un gusto, una tensione ardente. Alla fine della sua ricerca – se mai è possibile -, l’uomo raggiunge la Verità, vale a dire la realizzazione totale di sé, la perfetta guarigione, il risveglio definitivo.


Ma non possiamo esaurire una seppur breve presentazione dell’archetipo Unitivo, senza accennare all’aspetto sessuale dell’Eros. Una volta identificato Eros con l’archetipo unitivo, la grande potenza che tende a connetterci con ogni altra cosa, dobbiamo distinguere chiaramente Eros dal desiderio sessuale. Per i greci il sesso nudo e crudo, in quanto impulso biologico, era detto “epithymìa”, la quale era incorporata e trascesa da Eros, anche se non negata. L’impulso biologico è una spinta organica, un «istinto», mentre Eros è un impulso psichico, un «desiderio», e quindi una realtà specificamente umana. La differenza non è da poco.


Soprattutto perché attraverso l’appagamento sessuale l’essere umano cerca di scaricare le tensioni, al punto che, dopo l’orgasmo, tendiamo ad addormentarci. Il piacere sessuale, anche secondo Freud, è una “riduzione della tensione”: l’aumento dell’eccitazione tende al rilassamento e serve a raggiungere una condizione di assenza di tensione.


Di contro, Eros, l’archetipo unitivo, è una eterna tensione, un desiderio vitale che mai trova appagamento. Come dicono con notevole saggezza i francesi, “il fine del desiderio non è la sua soddisfazione, ma il suo prolungamento”. Rollo May sottolinea che l’Eros


«non si esprime in noi come una tendenza a ridurre l’eccitazione bensì a convivere con essa, a cullarsi in essa e persino ad accrescerla.»


E poi:


“Attraverso l’Eros noi cerchiamo di aumentare gli stimoli”.


Eros non ci fa dormire, ci tiene svegli nel pensare alle possibilità che si aprono e ai nuovi aspetti che scopriamo; ci spinge in alto, nel regno delle potenzialità inespresse, nutrendoci di immaginazione e progettualità. L’archetipo Unitivo esprime una grande vitalità, una grande disponibilità ad aprirsi e ad abbandonarsi all’oggetto del nostro impulso erotico. Dall’innamoramento alla passione mistica questa e non altro è la logica di Eros.


Oggi, purtroppo, assistiamo ad una netta separazione tra sesso ed Eros, tra sesso e spirito unitivo, esaltando il primo (e banalizzandolo) e perdendo di vista il secondo. È l’era dei legami «liquidi», come ci ricorda Zygmunt Bauman, un’epoca cioè in cui le relazioni si riducono a semplici connessioni, in “un contesto in cui è possibile con pari facilità entrare e uscire”, puri ‘contatti’, senza alcun impegno o responsabilità.


Il fatto è che abbiamo una grande paura di Eros, abbiamo un gran paura di abbandonarci nelle sue braccia. Eros è incontrollabile, Eros non tiene conto di logiche diverse dalla sua, come la sicurezza, la prudenza, l’opportunità o l’obbedienza al senso comune e alle convenzioni sociali. Certo, tutti questi elementi sono importanti per calarci nel «principio di realtà», eppure spesso li facciamo diventare i nostri tiranni. Fuggiamo Eros e ci rifugiamo nelle sensazioni sessuali: il sesso riduce la passione erotica che coinvolge l’intero organismo ad una pura sensazione genitale. La sessualità, lasciata a se stessa e diventata una droga, conduce alla ripetitività e alla noia - in altre parole, alla pornografia.


Ma in questo modo evitiamo di percepire ogni minaccia… la minaccia d’incontrare il rifiuto, di essere abbandonati, traditi o imprigionati in una gabbia. Ciò che conta, allora, è evitare i legami, tenersi a distanza, controllare il bisogno dell’altro, impedire l’intimità, creando una barriera difensiva contro l’angoscia. Perché Eros è annichilimento, morte, perdita di sé, abbandono all’incertezza. Eliminando Eros, tutto questo scompare: evitiamo la paura, ma il rapporto diventa in-significante.


In definitiva, Eros, l’archetipo Unitivo, è la parte di noi che spinge in direzione del Lavoro, verso la nostra piena realizzazione di esseri umani, verso l’Unità della Coscienza. Il suo grande nemico è l’archetipo separativo, cioè Thanatos, o il ‘Diavolo’. Lo vedremo prossimamente.


\\\*°* IL VITELLO D'ORO, Archetipo del DEMONE SEPARATIVO *°*///

Fabio Guidi


Il Diavolo, o l'archetipo separativo - 1 Luglio 2012


In questo contributo – la cui lettura è consigliata dopo aver letto i miei due precedenti articoli sull'Eros [N.d.R. Eros, o l'archetipo unitivo parte 1 e parte 2] - mi voglio occupare di un argomento piuttosto delicato, cioè il 'demoniaco'.


Il «Diavolo» si riferisce ad una costellazione di archetipi che incontriamo regolarmente lungo le tortuose vie della ricerca interiore. In ogni presenza ‘diabolica’ che opera nella psiche dell’uomo si annidano i medesimi elementi fondamentali, pur conservando una coloritura strettamente personale. Tali elementi hanno un effetto distruttivo per l’evoluzione interiore e per l’integrazione della personalità, producendo un effetto regressivo o, quanto meno, paralizzante. Per questo motivo, potremmo definire ‘Thanatos’ questo archetipo, anche se il termine ‘Diavolo’, come vedremo tra poco, si rivela molto più calzante. Voglio sottolineare una volta per tutte che con questo termine non si vuole affatto indicare una realtà metafisica, cioè un’entità, ma solo un archetipo, cioè una realtà psichica.


Ovviamente, l’analisi dell’archetipo del Diavolo non può evitare di confrontarsi con la tradizione sapienziale ebraico-cristiana. Nella Bibbia la figura sinistra di Satana appare per la prima volta in Gb 1,6:


«Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche il satan andò in mezzo a loro.»


In questa scena il Signore, come un sovrano, dà udienza in determinati giorni alla sua corte, formata dai cosiddetti “figli di Dio”. Queste entità superiori all’uomo, che costituiscono il Consiglio di Yahweh, nella traduzione “dei Settanta” (1) sono identificate con gli ‘angeli’ e il satan appare uno di essi. É da notare che, nel versetto riportato, il termine ‘satan’ non è ancora un nome proprio. Il termine, nell’AT, appare sempre con l’articolo, «il satan», e solo uno sviluppo tardivo, a partire dal NT, lo indicherà come Satana, l’avversario di Cristo. I Settanta traducono il termine ebraico ‘satan’ con il greco «diàbolos», e nel NT le due parole vengono usate indifferentemente.


Pertanto, si può innanzitutto osservare che il satan non sembra indicare tanto una persona specifica, quanto un ‘atteggiamento’ che si fa strada all’interno del Consiglio divino, tra i “figli di Dio”. Così, nella letteratura successiva al Giobbe, il satan sembra identificabile con lo spirito maligno, che è contrapposto ad uno spirito santo. É interessante notare che un tale dualismo scaturisce dalla realtà divina: Satana è un «figlio di Dio». Questa affermazione, assai scomoda, necessita di alcuni chiarimenti.


Vediamo innanzitutto quali sono le caratteristiche del satan. Il suo significato più frequente è ‘avversario’, anche se propriamente indica l’‘accusatore’ in un processo. Analogamente, nel libro di Giobbe il satan è un funzionario della corte celeste che svolge il ruolo di mettere alla prova l’autenticità della fede dell’uomo, e quindi di istillare il dubbio, è un ‘tentatore’. Al fine di svolgere la sua opera maligna, ha pure il potere d’infliggere sofferenze all’uomo. Riprendiamo la vicenda di Giobbe.


«Il Signore disse al satan: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”.


Il satan rispose al Signore e disse: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”» (Gb 1,8-11).


Ciò che avviene nel racconto biblico è un’esperienza archetipica vecchia quanto il mondo. Il libro di Giobbe ci parla, in realtà, di due figli, uno dei quali, il figlio obbediente, è il beniamino del padre. Ma l’altro figlio non ci sta… due sono i sentimenti che lo muovono: essere accolto dal padre, ma, nello stesso tempo, avere la possibilità di esprimere la propria natura. Egli sente la necessità di distinguersi dal padre, di essere altro da lui, cioè di essere un individuo autonomo, con le proprie idee e la propria volontà. Tuttavia, anche se spesso lo detesta perché si sente oscurato da lui, nutre un grande rispetto per il padre, lo stima più di ogni altra cosa. Insomma, il figlio ribelle vuole essere amato da suo padre e, nello stesso tempo, differenziarsi da lui ed essere, finalmente, se stesso.


É un compito arduo: il padre è una pianta maestosa e rigogliosa: o si cresce alla sua ombra, o si rischia di apparire, in primo luogo di fronte a se stessi, una cosa di nessun valore, sbagliata. Il figlio ribelle è avviluppato in questo conflitto apparentemente insolubile: è sempre più irrequieto e non trova niente di meglio che cercare di screditare, agli occhi del padre, il fratello obbediente e fedele. Invidioso, il figlio ribelle, accusa segretamente il padre di non sostenerlo così come fa con il figlio prediletto e, nello stesso tempo, insinua senza mezzi termini che il fratello si mostra obbediente e fedele solo per opportunismo.


Ecco Satana, come avversario e accusatore, che attraverso il dubbio e l’insinuazione, come un tarlo, continua a ripetere: “E se non fosse proprio così come sembra?” L’invidia e il risentimento che lo rodono, portano ad azioni maliziose, sleali, tese a smascherare la malafede del fratello fino a nuocergli anche in modo grave. Conosciamo la triste sorte che, nel racconto biblico, deve inizialmente subire il povero Giobbe.


La frustrazione e l’invidia dell’uomo hanno esiti distruttivi, verso sé e verso il mondo intero, fin dai tempi di Caino e Abele. (2) Anche nel libro della Sapienza, si dice che “la morte è entrata nel mondo per invidia del satan, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,24). Il passo interpreta il capitolo 3 della Genesi, dove si parla della celebre tentazione del serpente ad opera dei due nostri malcapitati progenitori. Vedremo meglio altrove di che cosa si tratta. Per ora, basta accennare al fatto che anche qui si fa accenno all’invidia, come molla propulsiva di ogni azione diabolica, distruttiva verso gli altri e se stessi. L’invidia non è unmale, è il male.


Non nascondiamocelo: l’animo di ognuno di noi conosce l’invidia, cioè ognuno di noi deve fare i conti con l’impulso demoniaco. Naturalmente c’è invidia e invidia. C’è l’invidia che ti rode, ti distrugge interiormente e c’è l’invidia che si manifesta in maniera bonaria, magari attraverso una battuta scherzosa, o apparentemente ingenua. L’importante è che si guardi dentro alla nostra invidia e alla rabbia che vi è connessa… che si osservi il perché di questa invidia e si continui a mantenere il contatto quotidiano con essa… Ad un certo punto, se si ha il coraggio di guardare in profondità, la nostra invidia comincerà a rivelare il suo intimo significato.


Se non vogliamo riconoscerla (se è stata rimossa questa percezione) è perché altrimenti ci sentiremmo ‘sminuiti’, ‘cattivi’, non abbastanza immuni da debolezze ‘umane, troppo umane’… Eppure, mille sono i campi in cui l’invidia, più o meno larvatamente, si fa strada. Potremmo dire che l’invidia - e la maldicenza ad essa strettamente connessa - costituisce il problema psico-spirituale, dal momento che nasce da un senso di frustrazione e inadeguatezza del nostro Ego e, quindi, costituisce un buon espediente per proteggerlo. Approfondiremo nel prossimo contributo.



Fabio Guidi


 


NOTE
1) È la prima grande traduzione greca, che risale al III-II sec. A.C. Si narra che fu eseguita ad Alessandria, in Egitto, da settanta studiosi.


2) Il tema dei fratelli rivali appare in tutta la sua luce nell’episodio di Caino e Abele, raccontato in Gn 4,1-16. Caino appare il fratello maggiore (sempre invidioso del fratellino) dedito all’agricoltura, mentre Abele era “pastore di greggi”. Tuttavia, pare che il Signore non gradisse i sacrifici del fratello maggiore, a differenza di quelli di Abele, vale a dire che non sembrava apprezzare particolarmente lo sforzo, l’impegno di Caino, il quale, come si sa, spinto dall’invidia, uccide il fratello. “Caino offrì dei frutti del suolo in sacrificio al Signore; e anche Abele offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui. Perciò Caino ne fu molto irritato e il suo viso fu abbattuto” (Gn 4, 3-5). Il racconto genesiaco, su un piano di antropologia culturale, fa probabilmente riferimento a lotte tra clan rivali e alla supremazia dell’economia agricola sulla pastorizia nomade, dal momento che Caino è il fratello maggiore “coltivatore del suolo”, mentre Abele è “pastore di greggi”.

 

LUCE INFINITA DELL'AMORE, DELLA COMPASSIONE, DELLA VERITA'  

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