§ TIZIANO TERZANI: un Fiorentino in giro per il Pianeta §
Lettera di Tiziano Terzani in risposta alle invettive razziste di Oriana Fallaci contro l'islam e i mediorientali.
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di Tiziano Terzani
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia' grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e' in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La' morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso' di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanita', un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualita'.
Pensare quel che pensi e scriverlo e' un tuo diritto. Il problema e' pero' che, grazie alla tua notorieta', la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e' un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile e' appena cominciato, ma e' ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita' perche' certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu' bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita' delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu' difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finche' l'uomo non si mettera' di sua volonta' all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara' per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e' nella tua rabbia accalorata, ne' nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu' accettabile, "Liberta' duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e' mondo non c'e' stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara' nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e' nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita' di nulla, tanto meno all'inevitabilita' della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu' tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu' determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu' terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira' necessariamente una loro ancora piu' orribile e poi un'altra nostra e cosi' via.
Perche' non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanita' a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita'. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per se' un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore e' Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Universita' di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e' che la politica, nella sua espressione piu' nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu' profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessita' di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta'.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che e' anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima citta'. La vendetta non e' degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perche' col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e' servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita' della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi', attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pieta' sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perche' vorrei capire che cosa li rende cosi' disposti a quell'innaturale atto che e' il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche' io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera' uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e' semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c'e' raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e' il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle e' uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e' l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e' neppure "un attacco alla liberta' ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell'Universita' di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da' di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico".
Cosi' si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, e' evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'e', a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e' stata la trappola.
L'occasione per uscirne e' ora.
Perche' non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche' non studiamo davvero, come avremmo potuto gia' fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi' d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu' disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi' anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa e' stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e' legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da li' nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e' impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita' di proteggere la liberta' e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta' che rendono l'America cosi' particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi' come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha gia' sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'e' stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l'America ci mettesse gia' paura. Capita cosi' di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e' un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - e' un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu' l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta' combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilita' come quella, non facile, di andare dietro alla verita' e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e' complicato. Ma non si puo' esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita' di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e' l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che gia' studiano l'inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e', come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita piu' lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu' in la' degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu' di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo' una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago' e lui si salvo' a malapena. Ci provo' una seconda volta, ma si ammalo' prima di arrivare e torno' indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso' le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era il 1219 - perche' sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perche', dopo una chiacchierata che probabilmente ando' avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio' che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlo' di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita' e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo' voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l'uomo piu' umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi piu' capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due fattori - un atteggiamento piu' civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio' a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio' invece ad Einstein, che divenne pero' sempre piu' convinto della necessita' del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanita' un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'e' bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'e' bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M'e' sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia' i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta' di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita' commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si'.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere e' il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; e' l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e' il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero' accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e' piu' conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu' i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e' relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo' esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara' difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero' sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e' diffuso cosi' come e' diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu' carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e' mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia'. Un mondo "piu' giusto" e' forse quel che noi tutti, ora piu' che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita' ed ispirato ad un po' piu' di moralita'.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche' ora tornano comodi, e' solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita' internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu' reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne' il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne' il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilita' del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara' presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e la' nel mondo le persone che la Cia stessa mettera' sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra' ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta' mi fa male e mi intristisce. Tutto e' cambiato, tutto e' involgarito. Ma la colpa non e' dell'Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta' bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu' piccola e piu' povera. Ora e' un obbrobrio, ma non perche' i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche' i filippini si riuniscono il giovedi' in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi' perche' anche Firenze s'e' "globalizzata", perche' non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e' scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo piu'.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle piu' divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li' maestose ed immobili, simbolo della piu' grande stabilita', eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e' una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu' grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu'. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passera' anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche' se quella non e' dentro di noi non sara' mai da nessuna parte.
Tiziano Terzani
http://www.aton-ra.com/doc/letters_against_the_war.pdf
* LETTERE CONTRO LA GUERRA *
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Il libro è nato come una pacata riflessione di Tiziano Terzani sulla guerra in Afganistan e sulle esaltate prese di posizione della sua concittadina Oriana Fallaci che in quel periodo vomitava la sua bile sul maggiore quotidiano italiano. (Il libro "Lettere contro la guerra" è acquistabile in italiano anche in edizione economica su IBS). La versione inglese è libera per volontà dello stesso Tiziano Terzani e della sua famiglia.
Intervista a Tiziano Terzani
A cura di Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi - fonte: www.zam.it/
Come ha deciso di diventare giornalista?
Tiziano Terzani: Io sono il primo della mia schiatta che sa leggere e scrivere. Vengo da una famiglia poverissima, i miei primi pantaloni lunghi furono comprati a rate. Mio padre faceva il tagliapietre ma era una persona saggia, coltissima, citava Dante, sapeva il Rigoletto a memoria.
Così ho cominciato a fare il giornalista a sedici anni per guadagnare un po’ di soldi: la domenica, quando i miei amici andavano alle feste da ballo con le ragazzine, correvo con la vespa a seguire le corse ciclistiche o le partite di calcio. Ma al giornalismo vero e proprio sono arrivato che avevo già trent’anni, perché nel frattempo mi ero laureato in Legge e mi ero sposato molto giovane con la mia splendida moglie. Per mantenere la famiglia andai a lavorare all’Olivetti, dove per cinque anni ho fatto l’operaio e ho venduto macchine da scrivere. Poi finalmente, quando avevo 27-28 anni, mi offrirono una borsa di studio che mi permise di andare alla Columbia University a studiare il cinese, con il quale avrei potuto finalmente realizzare il mio sogno: conoscere l’Oriente.
Dopo la laurea tornai in Italia e andai a lavorare al quotidiano Il Giorno, dove feci il praticantato e l’esame da giornalista professionista. Appena avuto il tesserino in tasca chiesi al mio direttore di andare a fare il corrispondente in Asia: era il 1971. Mi rispose di no. Incontrai i direttori dei principali quotidiani, ma nessuno poteva soddisfare la mia richiesta. Allora diedi le dimissioni, e con il denaro della liquidazione di un anno e mezzo di lavoro cominciai a girare per l’Europa con mia moglie e due figli piccoli.
Ho avuto fortuna. Parlavo francese, inglese e tedesco… Ad Amburgo mi presentai al settimanale Der Spiegel dove mi offrirono il primo vero contratto di inviato. Mi garantivano soltanto un piccolo fisso, ma andare in giro per il mondo, cercare di capire cosa succede, era proprio quello che volevo fare da sempre.
Da lì è cominciata la sua avventura, la sua ricerca di capire gli altri?
Tiziano Terzani: La vita è una cosa molto strana e meravigliosa, quando la si vive non ci si rende bene conto di come stanno le cose: si è lì, in quel momento. È solo quando si invecchia che ci si guarda indietro e si vede che c’è un filo che collega tutto. Per me questo filo era la curiosità, la curiosità di capire l’altro. La spinta ad andare là dove c’era qualcosa che non era mio, per capire, per rendermi conto.
Tra noi e l’altro c’è una distanza naturale, noi riteniamo altro lui e lui ritiene altri noi. Nelle guerre questo è ancora più evidente, perché le guerre, è ovvio, nascono quando gli uni non capiscono le ragioni degli altri, e gli uni dicono che il male è lì mentre gli altri dicono che il male è qui, e in nome di questo Dio io ammazzo te e in nome di un altro Dio tu ammazzi me. Bin Laden, Bush, ora Sharon…
Il mio istinto è stato sempre quello di capire chi fossero “gli altri”. Nel 1973 ero in Vietnam con gli americani, come tutti gli altri giornalisti. Stavamo al di qua del fronte e gli altri sparavano. Ma io non sentivo questi “altri” come nemici, a me non avevano fatto nulla. E allora passai le linee e trascorsi una settimana con i Vietcong.
Lei è stato tanti anni in Cina.
Tiziano Terzani: La Cina è stata la mia grande avventura. È una grande civiltà, per volerla capire bisogna avvicinarcisi quasi camuffandosi. In tutte le lingue asiatiche “altro” è una parola orribile. Identifica lo straniero, colui che è fuori, colui che viene da fuori e deve rimanere fuori. Se si è già incapsulati all’interno di una parola che rende stranieri, l’unico modo per avvicinarsi a una cultura è fare come il camaleonte, che prende il colore della foglia se è sulla foglia e il colore della sabbia se è sulla sabbia: diventare sempre di più come l’altro. Io in Cina parlavo cinese, mangiavo cinese, vestivo cinese, mandavo i miei figli alla scuola cinese, viaggiavo insieme alla famiglia con le biciclettine dei cinesi. E nonostante tutto ciò a un certo punto i cinesi mi hanno chiesto: «Ma tu chi sei? Un italiano che lavora per i tedeschi, che parla cinese imparato in America, sei forse della CIA o del KGB?». Dopo l’interrogatorio e un mese agli arresti, arrivò l’espulsione.
E il Giappone?
Tiziano Terzani: Devo dire che il Giappone per me è stato difficile, non ci sono entrato davvero dentro, non sono riuscito a imparare bene la lingua, forse ero troppo vecchio. Poi avevo un handicap: venivo dalla Cina. Chi viene dalla Cina ha difficoltà a capire il Giappone e viceversa, perché si tratta di due realtà simili, ma per niente uguali. Forse è a causa dei caratteri della scrittura: sono gli stessi ma vengono pronunciati in modo diverso.
Un’altra grande differenza: il Giappone è la civiltà del dettaglio mentre la Cina non ha dettagli, è la civiltà della grandeur, non c’è mai l’attenzione per le piccole cose. Sono due prospettive molto difficili da conciliare. E poi c’è da dire che io venivo da un’esperienza drammatica, quella di essere stato espulso dalla Cina.
In Giappone ho passato cinque anni belli, ma alla fine credo di poter dire che io e questo paese non ci siamo davvero intesi. In verità, credo che in questa vita non riuscirò a cambiare le cose, ma se avrò un’altra vita come essere umano – a me piacerebbe essere rugiada nella prossima – vorrei provare a fare i conti con il Giappone.
Può raccontarci la sua esperienza indiana?
Tiziano Terzani: I primi cinque anni in India li ho passati da giornalista, dietro ai ministri, agli ambasciatori, alle cene, tra i viaggi, la guerra in Kashmir, il conflitto con il Pakistan. Ma poi mi sono accorto che non sapevo nulla di questo paese.
Ero andato lì perché cercavo la dimensione del divino, ormai assente nel mondo occidentale e nella Cina maoista. In India invece ogni gesto ha ancora a che fare con un altro mondo: il salutarsi, o quando le donne prendono una manciata d’acqua e la porgono al sole la mattina… Com’era da noi cinquant’anni fa, ricordo che mia madre si segnava prima di mangiare. Questo mi affascinava. E poi, l’India mi piaceva perché mi pareva l’ultima civiltà asiatica in cui c’era ancora una forza interiore che poteva essere di freno al materialismo occidentale.
Però dopo cinque anni mi resi conto che di tutta questa roba non avevo visto niente, mi tenevano sempre lì a parlare di guerre, di morti in Kashmir, di programmi di sviluppo, di apertura del mercato delle telecomunicazioni, tutte cose da giornalisti…
Mi mancavano tre anni per andare in pensione. Dissi al mio giornale che non volevo più lavorare, non volevo più fare il corrispondente, correre dietro a tutti i massacri, le alluvioni, i colpi di stato… Così mi hanno fatto un contratto da scrittore “speciale”, talmente speciale che non avevo bisogno di scrivere. Allora ho preso "i voti", sono entrato in un ashram induista, mi sono messo a studiare il sanscrito, la mattina alle cinque andavo a pulire le statue con lo yogurt e la polvere di sandalo. Sono entrato in quella realtà. Mi rendo conto che per tutta la vita non ho fatto altro che questo, per tutta la vita una sola cosa mi ha davvero incuriosito: capire gli altri. Ma per capirli bisogna avvicinarli, vivere nel loro mondo.
Come ha conciliato il desiderio di stare dentro le cose con quello di raccontare, di essere testimone…
Tiziano Terzani: Io ho avuto molto dalla vita, sono un uomo fortunatissimo. Innanzitutto a diciassette anni ho incontrato mia moglie, e ciò ha determinato tutta la mia esistenza. E poi la vita mi piace, mi diverte, mi affascina, e per istinto la devo raccontare. Non c’è gioia che io provi da solo, perché ho imparato molto presto a spartirla con mia moglie, e poi anche con gli altri. Ma non solo quando una cosa è bella provo il desiderio di condividerla, anche quando mi trovo di fronte un’esperienza orribile, se mi pare di aver capito qualcosa attraverso di essa, mi viene voglia di parlarne agli altri.
Come giornalista, poi, ho quasi sempre scritto in una lingua che non era la mia. Questo ha fatto sì che mi dovessi liberare scrivendo libri nella mia lingua. E mi è andata bene. Se mi guardo indietro mi dico: «Che fortuna!».
Questa sua curiosità istintiva può essere la chiave del rispetto per l’altro…
Tiziano Terzani: Credo di sì. L’altro giorno è venuto da me un signore per chiedere una dedica sul mio libro. Mi è venuto da scrivere: «Al signor tal dei tali perché mi aiuti a rendere i turisti dei pellegrini».
Mi spiego: la curiosità che viene dall’interno – non quella di prendere qualcosa da portarsi a casa, il ricordino, la fotografia – parte proprio dal rispetto. Mentre invece l’industria del turismo, una delle più orribili del mondo, sollecita solo una curiosità consumistica. Come si potrebbe recuperarla? Trasformando i tour in pellegrinaggi.
In realtà il turismo è nato proprio così. In un paese come il Giappone, per esempio, si andava al monte Fuji come pellegrini, non come turisti. Quando io sono stato in Giappone mi sono rapato, ho preso il bastone e ho scalato quella montagna con l’idea del pellegrino che vuole raggiungere la cima, che sta camminando su Dio, e allora non lascia cartacce. Se si potesse riportare nel turismo questo atteggiamento, il rispetto, il senso di devozione, si salverebbero i turisti, che saprebbero di più quello che fanno e la smetterebbero di continuare a consumare, e si salverebbe anche il consumabile.
Se ci si mette a studiare una cosa, come si può odiarla? L’odio dell’Occidente verso l’Islam risiede in gran parte nel fatto che nessuno se ne occupa più, nessuno più studia questa cultura. Provate a vedere quanti studenti all’università studiano l’arabo: pochissimi. È chiaro che così si aumenta la distanza. Ma se ci si mette a studiare, l’oggetto del proprio studio diventa anche l’oggetto del proprio amore. Il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo.
Come si può coniugare il rispetto, il riconoscimento di una cultura altra e la nostra idea occidentale di universalità dei diritti umani…
Tiziano Terzani: Questo è il vero grande problema. Innanzitutto bisogna intendersi sulle parole. Le parole di per sé sono una trappola. Per esempio, cosa significa felicità? Per Gengis Kan forse la felicità era ammazzare un migliaio di persone, chiamare il capo di quella tribù, prendergli la moglie, violentarla sotto i suoi occhi e poi tagliarle la testa. Ma per me quella non è felicità.
Quindi parlare di diritti umani, di universalità dei diritti umani, mi lascia qualche perplessità… Vorrei che i diritti fondamentali fossero sempre rispettati, ma onestamente mi chiedo: siamo tutti d’accordo sull’universalità di questi diritti?
Certo che c’è qualcosa che accomuna gli esseri umani, che dovrebbe essere il rispetto per tutti. Un occidentale ha forse meno paura della morte di un orientale? Forse la psiche è diversa tra un orientale e un occidentale? Non credo. Un orientale ama più o meno come un occidentale, ha la stessa paura di essere solo... Secondo me di cuore ce n’è uno solo, e il cuore è uguale per tutti, la voce del cuore sa quali sono i diritti umani, i diritti degli animali, il cuore parla allo stesso modo nel petto di tutti, musulmani, ottentotti, bantù, esquimesi, uomini, donne. Il problema è che questa voce del cuore non la sta più ad ascoltare nessuno, c’è tanto rumore, quella è una voce piccola, che bisbiglia, proprio un soffio a volte.
È da questo, a suo avviso, che dipendono le difficoltà sempre più gravi che il mondo si trova a fronteggiare?
Tiziano Terzani: L’umanità sta affrontando un periodo di spaventosa barbarie, le torri che crollano sono una barbarie, il modo con cui l’occidente reagisce – perché non sono solo bombe americane, sono bombe di tutti – è un’altra barbarie. E Guantanamo – la base americana sull’isola di Cuba dove vengono portati i prigionieri afgani – non è una barbarie? Forse potevano risparmiarsi la foto del marine che tiene l’arabo legato come un cane con la camicia di forza. Quella foto non l’ha mica rubata un paparazzo, l’ha fatta un fotografo ufficiale del Dipartimento della difesa ed è stata diffusa nel mondo perché volevano farla vedere, volevano soddisfare la fame e la sete di vendetta dell’opinione pubblica americana.
Quello che mi stupisce è come mai un paese che per tanti anni ha fatto giustamente la lotta per la difesa dei diritti umani nei confronti del mondo comunista, nei confronti di tante dittature africane, d’un tratto fa distinzione tra cittadini americani e cittadini non americani.
Ci sono voluti centocinquanta anni per mettere a punto la Convenzione di Ginevra, per dare una vernice di umanità alla convivenza umana, e ora viene tutto messo da parte in nome dell’interesse nazionale americano, della lotta al terrorismo. Di nuovo l’ambiguità delle parole: ma chi è il terrorista? Certo, ci vogliono le istituzioni, ci vorrebbero le leggi, ci vorrebbero le definizioni, ma a corto di tutto ciò bisogna fermarsi, rallentare, bisogna sedersi, chi sa pregare preghi, chi non sa pregare faccia qualcos’altro. E allora prendiamo coscienza di esserci e cominciamo a ragionare, cosa vogliamo diventare, da dove veniamo, dove stiamo andando.
Voi, con le vostre preghiere, trovate una consolazione tutti i giorni… Permettetemi di dire che avete scoperto l’acqua calda, ma quest’acqua calda l’hanno dimenticata tutti. Com’è possibile che con tutte queste scienze delle comunicazioni, con tutti questi telefonini, abbiamo dimenticato le cose fondamentali?
Ma pensi ai suoi nonni, o ai miei bisnonni, la mattina si alzavano e pregavano, andavano nei campi, tornavano la sera e c’era il vespro, prima di andare a cena guardavano il pezzo di pane e dicevano grazie, c’era sempre un momento in cui si ringraziava, oggi siamo tutti distratti, tutti di corsa… A volte mi intristisce un po’ che questa grande vecchia civiltà europea, che aveva una sua storia e che potrebbe ritrovare anche all’interno di se stessa dei valori, deve avere dei giovani che viaggiano fino in Oriente e vanno a cercare la soluzione laggiù.
Credo che occorra cercare in se stessi le proprie radici, la propria ricchezza. Non è un caso che si stia diffondendo proprio il Buddismo, che non è una religione, è una civiltà, non ha comandamenti o dogmi. Einstein diceva che il Buddismo è l’unica religione che si confà alla mentalità scientifica. A Bodhigaya ho visto mongoli, tibetani, cinesi, srilankesi, europei, e ho avuto per la prima volta il senso di come il Buddismo sia una grande religione, una religione universale.
Tornando all’universalità dei diritti umani, come possiamo agire in loro favore senza calpestare l’identità delle altre culture? Come possiamo porci, ad esempio, nei confronti del burqa indossato dalle donne afgane?
Tiziano Terzani: Il punto è chiedersi: dobbiamo aiutare altri popoli, che ci sembrano oppressi, a volere quello che vogliamo noi? Bisogna per prima cosa rendersi conto che nel mondo ci sono oggi milioni e milioni di persone che non vogliono essere come noi.
Sono orgogliosissimo di essere italiano, di essere fiorentino, di essere europeo, ma dico, specie ai giovani: «Siate orgogliosi di essere chi siete, però non pretendete che la vostra cultura abbia il monopolio di tutto, il monopolio della dignità della donna, il monopolio della civiltà, il monopolio della felicità, del benessere, del progresso. Analizzate, confrontatevi, difendete la vostra in maniera giusta, non violentemente». Io trovo bello, meraviglioso essere diversi. Pensate alle donne giraffa del nord della Birmania, che portano quei lunghi collari. È una tortura terribile, ma cosa dovremmo dire loro: «Toglieteveli»? Non solo il loro collo è diventato così lungo che levando il collare soffocherebbero, ma soprattutto in questo modo sarebbero private della loro identità. Tutta la vita sognano questo… Alla lunga se non gli andrà più bene saranno loro a cambiare, le trasformazioni economiche e culturali porteranno a questo mutamento, ma l’idea che ci debba essere un gruppo di donne americane che gli tolgono i collari è una follia.
Riguardo al burqa è lo stesso. Sono d’accordo che è l’espressione di un aspetto maschilista dell’Islam, ma è anche una tradizione di centinaia di anni. Ci sono gruppi di coraggiose donne afgane che risolveranno il problema. Ma mi chiedo nuovamente: dobbiamo aiutarle a volere quello che vogliamo noi?
Si ritorna a quanto dicevamo all’inizio: il rispetto delle altre culture è una grande cosa, quello che va evitato è lo scontro tra civiltà, che porterà alla fine di tutto. Mai come ora l’umanità ha avuto in mano armi di distruzione di massa così potenti, e questo rappresenta un pericolo per tutti gli esseri umani, ma l’idea che gli americani vogliono andare a bombardare Saddam Hussein per togliergli queste armi è assurda, come se solamente loro avessero il diritto di possederle.
Ma allora perché non ricominciamo da zero, non eliminiamo le armi e smettiamo di produrle?
Dopo l’11 settembre si è detto da più parti che interpretare gli attuali conflitti come scontri tra civiltà è una posizione pericolosa e fuorviante. Secondo lei oggi, nei conflitti, pesano più gli aspetti ideologici o quelli economici?
Tiziano Terzani: Questa domanda mi permette di esprimere una mia posizione ben precisa. Per trent’anni ho fatto il giornalista, e mi sono sempre dovuto occupare di quello che si pensa domani, la prossima settimana o il prossimo mese. Non c’è dubbio che se fossi giornalista e dovessi analizzare la situazione di oggi direi che per la popolazione americana l’istinto di vendetta è comprensibile, perché si sono presi una botta spaventosa. Direi anche che dietro c’è il petrolio, c’è l’interesse delle aziende militari che vogliono rinnovare tutto l’armamento, la voglia di essere una superpotenza.
Ma oggi voglio fare un passo in avanti: le vere radici della violenza, cioè della guerra, secondo me non sono fuori di noi. La violenza ha le sue radici dentro, nelle nostre passioni, nei nostri desideri, nella nostra voluttà, nel nostro arraffare, nel nostro voler possedere più che volere essere. Di questo sono assolutamente convinto, e quindi arrivo a dire che le rivoluzioni esterne sono state dei disastri. Quelle di questo secolo le ho viste tutte, all’inizio o alla fine. Sulla fine della rivoluzione sovietica ci ho scritto un libro, Buonanotte signor Lenin. Che disastro, le montagne di morti, le montagne di lacrime, le tracce di orrore, di tristezza… E quella cinese? Quanti morti… E quella vietnamita? Perciò sono arrivato a questa conclusione, che è la mia ultima speranza: forse l’unica rivoluzione da fare è quella interiore, che non fa morti, non massacra, non lascia tristezza.
Ci vorrà tempo, forse due vite, tre, quattro generazioni, ma è questa una buona ragione per non cominciare? Dico sempre che se ognuno di noi fa una piccola cosa, allora tutti insieme ne facciamo una grande.
Quindi se ognuno di noi decide di fare qualcosa…
Tiziano Terzani: Ma cosa vogliamo sperare, che Bush ci salvi dall’orrore del mondo? Forse ci salviamo noi se è vero quello che sento, che la vita è una, che siamo tutti collegati. Il Buddismo ha dato veramente il contributo più grande. Mi piace raccontarlo come fa Thich Nhat Hanh, quando dice che il tavolino che ha davanti è lì perché migliaia di cose hanno contribuito: quel seme, quel giorno che ha piovuto, quella pianta che è diventata albero dentro la foresta, il boscaiolo che va e lo taglia, e poi lo porta in una segheria dove c’è un falegname, e il falegname prende i chiodi, e anche i chiodi vengono da una miniera dove un giorno un altro signore è andato a comprarli. Bastava che il nonno del falegname non fosse nato, e quel tavolo non sarebbe stato lì…
Se la vita è così, allora perché vogliamo eliminarne un pezzo che non ci sta bene?
Se riuscissimo a dire: «Siamo tutti parte di questa cosa», se riuscissimo con questa benedetta coscienza a prendere coscienza di chi siamo, dove siamo, da dove veniamo, dove andiamo, forse… Io per un mese e mezzo sono andato in giro per l’Italia a parlare di queste cose, e la cosa curiosa è che la gente mi sta ad ascoltare. Nelle tante lettere che mi scrivono il tono è sempre questo: «Grazie, lei dice quello che sento». Siccome sono vecchio e non ho più paura di essere preso per pazzo dico le cose che sento… e la gente questa pazzia la riconosce, è la pazzia di tutti, tutti vogliono vivere in pace, chi vuol mandare i propri figli a morire?
Però soltanto quando si vedono i morti altrui come propri, quando si sente la sofferenza sui corpi degli altri come sul proprio, allora si comincia a ragionare. Il cammino di pace può partire da tante considerazioni: secondo me è l’unico cammino oggi. Qualcuno mi ha detto: ah, tu parli sempre della pace, ma in tutta la storia dell’umanità c’è stata sempre la guerra… Io ho risposto, citando Gandhi: ma perché ripetere la vecchia storia e non cominciarne una nuova?
L’essere umano che noi siamo oggi non è allo stadio definitivo, veniamo dalla scimmia, ci sono voluti cinque milioni di anni per diventare così. Questa non è la fine della nostra specie, è una parte della sua storia. Allora perché non approfittare ora di questa bella cosa che è la coscienza per fare un passo in su invece che in giù? Visto che possiamo ancora cambiare, perché non prendiamo la decisione di cambiare in meglio, un po’ più di fratellanza, un po’ meno violenza…
Ma guardatevi davvero bene attorno, guardate la televisione, siamo all’inizio di una svolta orribile di disumanità, di atrocità, di imbarbarimento… Vogliamo continuare in questa catena oppure, come io dico, cogliere questa buona occasione? Tutto il mondo ha visto le torri crollare, e tutto il mondo tutte le sere vede la Palestina, com’è che la gente non si sveglia? Io ci spero ancora: questa è una buona occasione, l’occasione che tutti dicano basta, non si può andare avanti così…
In realtà anche noi siamo complici di tutto ciò.
Tiziano Terzani:Io dico che siamo inconsapevoli complici, non c’è dubbio, siamo corresponsabili. Se non prendiamo coscienza e non diciamo basta….
Come facciamo noi occidentali a vivere questa contraddizione? In realtà tutti virtualmente abbiamo bombardato l’Afghanistan.
Tiziano Terzani: Sono d’accordo, e mi vergogno… Ci sono momenti nella storia in cui vivere normalmente, come se non fosse successo niente, è vergognoso. Bisogna arrestare un attimo la propria vita frenetica e dire no, parlare con gli altri, contarsi. Viviamo ancora in un sistema democratico, possiamo fare qualcosa. Io ho scritto un libro, vado in giro, parlo, ognuno fa il suo. Durante una delle mie presentazioni un signore anziano si è alzato e ha chiesto come avrebbe potuto contribuire. Io gli ho domandato: «Ma lei cosa faceva nella vita?». «Io suonavo». «E allora si rimetta a suonare per la pace, insegni ai giovani a godere della musica, se amano la musica verranno fuori dei pacifisti, forse…».
Cosa direbbe a un bambino?
Tiziano Terzani: Gli parlerei di una cultura di pace. Ieri il mio editore mi ha detto: «Visto che ha un nipotino di due anni e mezzo – a cui è dedicato l’ultimo libro Lettere contro la guerra, ndr – perché non scrive un racconto per lui?»
Io mi rendo conto che sono vissuto tutta la vita senza essere esposto a delle idee di pace, tutta la storia che studiamo parla di massacri, di guerre, Alessandro è Magno (grande) perché ammazza tutti… Sono dovuto arrivare a sessant’anni per scoprire in India che l’imperatore Ashoka, vissuto nel terzo secolo a.C., dopo una battaglia disse: «Che cosa terribile ho fatto!», e cambiò profondamente. Davanti al museo nazionale di Delhi c’è una stele dove si annuncia che Ashoka aveva aperto in Siria due ospedali, uno per gli umani e uno per gli animali. Questo accadde più di duemila anni fa. E noi parliamo tanto di progresso. Un bambino che sa queste cose cresce in modo diverso.
Davvero sono preoccupato… le cose sono complicate, non mi aspetto niente di buono, senonché continuo a credere che questa possa essere ancora una buona occasione. Questi orribili mezzi di comunicazione di massa che oggi mi spaventano sono anche un potente aiuto.
Esiste allora un lato positivo della globalizzazione?
Tiziano Terzani: Certo. Questo mio pellegrinaggio di pace che mi ha portato in diverse città italiane a parlare del mio ultimo libro è cominciato con una letterina, una e-mail che ho mandato a tre o quattro amici dal mio rifugio sull’Himalaya. Questi a loro volta l’hanno mandata ai loro amici e agli amici degli amici, ed è diventata una catena di S. Antonio. A un certo punto ho ricevuto la telefonata di un preside di un liceo di Foggia che mi diceva: «Ho avuto la sua e-mail da una monaca buddista di Katmandu». Vedi la globalizzazione…
In questo viaggio in Italia ho incontrato migliaia di giovani, migliaia di persone, ho fatto a volte tre riunioni al giorno. Se in ciascuno di questi incontri ho acceso anche una sola lampadina, e questa ne ha accesa un’altra e così via… posso essere contento, ho fatto il mio dovere. E ora torno per un po’ alla mia meravigliosa montagna.
http://www.aton-ra.com/doc/Tiziano_Terzani_intervista_completa.mp3
In questa brillante intervista che dura oltre un'ora, Tiziano Terzani parla in modo straordinariamente lucido e appassionato della situazione venutasi a creare dopo l'11 settembre e l'attacco americano a Afganistan e Iraq. Assolutamente da non perdere!
Alcune notizie su Tiziano Terzani
Tiziano Terzani (Firenze 1938 – valle di Orsigna, Pistoia 2004) scrittore e giornalista.
Terzani è stato uno dei più grandi giornalisti internazionali. Corrispondente in Asia per il settimanale tedesco "Der Spiegel" – a partire dal 1971 e per trent'anni collaborò anche con "Repubblica" e il "Corriere della Sera".
Profondo conoscitore dei paesi asiatici (in particolare del Sud-Est asiatico), che raccontò nei suoi reportage e nei suoi libri. Terzani visse per lungo tempo a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo e Bangkok; nel 1994 si trasferì in India.
Nel 1973 Tiziano Terzani pubblicò il primo libro, Pelle di leopardo, sulla guerra del Vietnam, e nel 1975 fu l'unico giornalista occidentale a rimanere a Saigon (oggi Ho Chi Min) dopo la fuga delle truppe statunitensi e ad assistere alla presa di potere dei comunisti, che racconterà nel libro Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976). In seguito fu uno dei primi giornalisti a tornare in Cambogia dopo l'invasione del paese da parte dei vietnamiti, esperienza rievocata in Holocaust in Kambodscha (1981).
La porta proibita (1985) racconta invece gli anni in cui visse in Cina (Terzani parlava perfettamente il cinese). La sua permanenza in Cina terminò con l'espulsione per “attività controrivoluzionaria”.
Buonanotte signor Lenin (1992) è dedicato al crollo dell’Unione Sovietica.
Un indovino mi disse (1995)- il suo libro di maggior successo - è il resoconto di un anno vissuto come corrispondente nei paesi del Sud-Est asiatico senza mai usare un aeroplano per spostarsi. Per chi non abbia mai letto nulla di Terzani è senz'altro questo il libro da cui cominciare.
TIZIANO TERZANI CON LA MOGLIE ANGELA STAUDE
Tiziano Terzani: "Lettere contro la guerra"
Tiziano Terzani è stato un pacifista convinto (dopo essere stato per trent'anni su tutti i fronti di guerra), impegnato contro le guerre e contro i fanatismi, di qualsiasi tipo essi siano, nel 2002 pubblicò Lettere contro la guerra, una meditazione sugli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 e sulla risposta del mondo occidentale a tali atti. L'ultimo libro, Un altro giro di giostra (2004), che trae spunto dalla scoperta di essere malato di tumore, è il racconto della malattia e della ricerca di una cura, ma anche un testamento spirituale, una riflessione sull’epoca contemporanea.
FILMATI CONTRO LA GUERRA DI TIZIANO TERZANI:
http://www.youtube.com/watch?v=C_YRZdVpzrE&feature=player_embedded
tiziano terzani - DENTRO DI NOI 2006:
http://www.youtube.com/watch?v=408FmNsR_WQ&feature=fvw
L'unica rivoluzione possibile è quella interiore:
http://www.youtube.com/watch?v=-n1ehDye_og&feature=related
L'armonia della Vita:
http://www.youtube.com/watch?v=4PsenU-sJcc&feature=related
Tiziano Terzani - Ridere:
http://www.youtube.com/watch?v=z_BuMwNNJJ4&feature=related
T U T T I I FILMATI, INTERVISTE, RIFLESSIONI DI TIZIANO TERZANI:
http://www.youtube.com/results?search_query=Tiziano+Terzani&aq=f
Breve cronologia della vita di Tiziano Terzani
tratta dal sito a lui dedicato www.tizianoterzani.com (a cura di Àlen Loreti)
1938. Tiziano Terzani nasce il 14 settembre del 1938 a Monticelli, quartiere di Firenze. A 17 anni conosce Angela Staude, sua futura moglie (nata nel 1939 a Firenze da genitori tedeschi, padre pittore e madre architetto).
1961. Tiziano Terzani si laurea con lode in Giurisprudenza presso il Collegio Medico-Giuridico di Pisa, l'attuale Scuola Superiore Sant'Anna, frequentata grazie all'ottenimento di una borsa di studio su concorso pubblico bandito nel 1957 dallo stesso collegio.
1965. Terzani mette piede per la prima volta in Asia, quando viene inviato in Giappone dall'Olivetti per tenere alcuni corsi aziendali.
1969. Tiziano Terzani consegue un Master in Affari Internazionali alla Columbia University di New York seguendo corsi di storia e lingua cinese. Nell'agosto dello stesso anno nasce il primo figlio, Folco. Ansioso di partire per l'Asia, rinuncia alle richieste di grandi quotidiani come "il Giorno", bussa alle porte del The Guardian e Le Monde, finendo per accettare un contratto con il settimanale tedesco Der Spiegel che lo manda a Singapore: diventa così corrispondente dall'Asia, lo sarà per 30 anni.
1971. A marzo nasce la secondogenita, Saskia.
1973. Terzani pubblica Pelle di Leopardo dedicato alla guerra in Vietnam.
1975. Tiziano Terzani è tra i pochi giornalisti al mondo a rimanere a Saigon: assiste così alla presa di potere da parte dei comunisti. Da questa esperienza nascerà Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976). Il libro viene tradotto in varie lingue e selezionato in America come "Book of the Month".
1979. Dopo quattro anni passati ad Hong Kong, Terzani si trasferisce, sempre con la famiglia, a Pechino. Fra i primi corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l'intervento vietnamita in Cambogia, racconta il suo viaggio in Holocaust in Kambodscha (1981).
1984. Il lungo soggiorno di Tiziano Terzani in Cina si conclude a febbraio con l'arresto per "attività controrivoluzionarie" e successiva espulsione. L'intensa esperienza cinese, con il suo drammatico epilogo, dà origine a La porta proibita (1985), pubblicato contemporaneamente in Italia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
1985. Tiziano Terzani risiede ad Hong Kong per tutto l'anno, poi si trasferisce a Tokyo dove rimane fino al 1990, quindi a Bangkok.
1991. In agosto, mentre si trova in Siberia con una spedizione sovietico-cinese, apprende la notizia del golpe anti-Gorbacëv e decide di raggiungere Mosca. Il lungo viaggio diventerà Buonanotte, Signor Lenin! (1992), uscito anche in Germania e Gran Bretagna. Questo libro rappresenta una fondamentale testimonianza in presa diretta del crollo dell'impero sovietico e viene selezionato per il Thomas Cook Award, il premio inglese per la letteratura di viaggio. Collabora nel frattempo, già dalla metà degli anni ottanta, con diversi quotidiani e riviste italiane (Corriere della Sera, la Repubblica, L'Espresso) e con la radio e tv svizzera in lingua italiana insieme all'amico Leandro Manfrini.
1994. Tiziano Terzani si stabilisce in India con la moglie Angela Staude, scrittrice, e i due figli.
1995. Esce il capolavoro di Terzani: "Un indovino mi disse" (1995) è la cronaca di un anno vissuto come corrispondente dall'Asia senza mai prendere aerei e visitando ogni sorta di indovini: il libro ottiene un notevole successo di critica e di pubblico. E' assolutamente il libro da cui comincire se non avete mai letto nulla di Tiziano Terzani!
1997. A ritorno da Calcutta Terzani avverte i primi sintomi che porteranno alla diagnosi di cancro. Ad Orvieto gli viene conferito il prestigioso Premio Luigi Barzini all'inviato speciale.
1998. La sua esperienza lo accredita a livello internazionale tra i massimi conoscitori del continente asiatico: in questo anno pubblica In Asia dove descrive le multiformi realtà storiche, culturali ed economiche del continente. Un libro a metà tra reportage e racconto autobiografico.
2001. Pochi mesi dopo gli attentati dell'11 settembre e dell'attacco militare degli Stati Uniti in Afghanistan, interviene nel dibattito sul terrorismo pubblicando Lettere contro la guerra (I ed. marzo 2002), dedicate al nipote Novalis. Il libro per i suoi contenuti decisamente forti, ma onesti, viene rifiutato da tutti gli editori di lingua anglosassone. Significativa, anche se non molto conosciuta, la protesta dell'Ambasciata americana a Roma, che sottolinea la gravità di alcuni passaggi del libro. Comunque sia, per contrastare questa "censura", Terzani paga di tasca propria la traduzione del libro e la rende disponibile gratuitamente su internet nel sito del "Fun" Club, dimostrando così una libertà assoluta delle proprie opinioni. Curiosamente proprio in India comincia a girare una copia in inglese: Terzani stesso racconterà divertito questo episodio, a riprova di come la censura non possa nulla contro la libertà di sapere, ribadendo una volta per tutte come "i fatti siano un velo dietro cui si nascondono le verità". E la sete di verità - in un mondo in piena guerra - è legittimamente tanta.
2002. Tiziano Terzani inizia il "pellegrinaggio di pace" attraverso scuole e incontri pubblici appoggiando la causa di Emergency "Fuori l'Italia dalla guerra" insieme a Gino Strada. Questo impegno civile viene documentato in due modi. Il primo è raccolto in un volume di Federica Morrone dal titolo Regaliamoci la Pace. Una lunga conversazione con Tiziano Terzani con allegati quindici contributi per una cultura di pace tra cui spiccano il Nobel Dario Fo, Gianni Mina', Vauro, Alda Merini, Margherita Hack, Padre Zanotelli, Giulietto Chiesa ecc. (prima ediz. novembre 2002). Il secondo documento dell'impegno civile di Terzani è raccolto in un filmato che esce un mese più tardi con la nuova edizione di "Lettere contro la guerra". La vhs "Tiziano Terzani - Il kamikaze della pace" è un film-documento di circa un'ora realizzato dalla Radiotelevisione Svizzera in lingua italiana che vede la partecipazione di Jovanotti. Qui Terzani parla della sua vita, ma anche dell'attualità della guerra e dei valori di pace e civiltà che l'Uomo sta calpestando senza remore.
2004. Nel marzo 2004 Tiziano Terzani pubblica Un altro giro di giostra - Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo dove parla di sé, della sua malattia e di come "vede il mondo". Il 19 aprile 2004 registra un'ultima intervista radiofonica nella sede della storica emittente fiorentina Controradio (il dialogo verrà poi raccolto in un cd allegato al mensile "Rossofiorentino").
Il 27 e 28 maggio rilascia al regista milanese Mario Zanot una lunga intervista filmata che diventerà poi un film: Anam, il senzanome.
Quattro mesi dopo, il 28 luglio, proprio mentre tutte le sue opere vengono ristampate in edizione economica, si spegne nella sua casa all'Orsigna, piccolo borgo sull'Appennino pistoiese. Ma prima di "lasciare il suo corpo", raccoglie i suoi pensieri in un lungo dialogo autobiografico con il figlio Folco dal titolo La fine è il mio inizio.
2006. Viene pubblicato il libro di riflessioni La fine è il mio inizio. Libro bellissimo ed indispensabile per capire la straordianaria vita professionale di Tiziano Terzani.
2008. Esce il libro postumo di Tiziano Terzani: Fantasmi - Dispacci dalla Cambogia. Il libro contiene una lunga ed interessantissima prefazione della moglie Angela. Terzani è stato molte volte in Cambogia e ha anche rischiato di essere fucilato. Dopo aver letto e riletto tutti i sui altri libri sono stato contentissimo di poter iniziare una nuova lettura. Nota: su IBS trovate il libro a prezzo scontato.
Recensione di IBS di Fantasmi - Dispacci dalla Cambogia - [apri]
Fantasmi - Dispacci dalla CambogiaQuesto libro di Tiziano Terzani raccoglie gli articoli, i messaggi, i telegrammi, le corrispondenze inviate dalla Cambogia in guerra ai giornali europei: a Der Spiegel, di cui era corrispondente fisso dall’Asia, al Giorno, all’Espresso, al Messaggero, alla Repubblica e, dal 1988, al Corriere della Sera. Sono pagine intense, sospese tra l’illusione di una nuova era per l’Indocina e l’autocritica che il giovane reporter esercitò senza remore, di fronte ai drammatici eventi descritti con la sua Lettera 22. Il libro inizia con i pezzi sui bombardamenti americani in Cambogia nel ‘73, i caccia bombardieri F-111 che saettavano nel cielo, il ronzare dei B-52 che nel giro di un secondo potevano cancellare un intero villaggio: Terzani, giunto a Singapore all’inizio del ’72, si era spostato a Phnom Penh nel marzo dell’anno seguente e aveva trovato un Paese assediato dalle bombe e dalla miseria. Al governo c’era il generale Lon Nol che, nel 1970, sostenuto dalla Cia, aveva rovesciato il re Sihanouk e aveva preso il potere senza godere di alcuna simpatia da parte della popolazione. Terzani vedeva i mercanti e gli ufficiali di quella repubblica, arricchiti dalla guerra, pranzare sulle verande degli alberghi mentre per le strade la gente era costretta dalla fame a mangiare i cani randagi e a scortecciare gli alberi per fare la legna per cucinare. In quello scenario di coprifuoco e rovine, c’era la grande attesa per l’arrivo dei Khmer Rossi, i “partigiani”, il movimento comunista clandestino formato da Khieu Samphan e Saloth Sar, il futuro Pol Pot. “I guerriglieri – scriveva il giornalista fiorentino nell’agosto del ’74 – controllano l’80 per cento del paese, hanno le risaie, la regione con le rovine di Angkor, tengono in mano tutte le strade… si sono anche presi il vecchio importante centro buddista di Udong.” In quel clima di tensione per l’arrivo della svolta, Terzani si spostò al confine con la ricca Thailandia e nella piccola cittadina di Poipet, appena invasa dai guerriglieri rossi, rischiò di morire fucilato perché scambiato per “Ameriki! Ameriki!”, come gli urlava il quindicenne che per ore lo tenne al muro con una pistola puntata al volto. Liberato, perché grazie a un commerciante cinese venne riconosciuto come non americano, Terzani attraversò quello stretto ponte di ferro che costituiva la frontiera tra Thailandia e Cambogia convinto che alle sue spalle, al di là di quel ponte, finisse non solo il paese della corruzione, dei repubblichini arricchitisi con i dollari dei militari Usa, ma anche che cominciasse una Cambogia diversa: quella dei contadini, la Kampuchea Democratica come l’avrebbero ribattezzata i Khmer Rouge, povera, dura e popolare. Invece non ci fu neanche il tempo di festeggiare l’ingresso dei “liberatori” nella capitale che una cortina di silenzio calò sul paese: 4 milioni di abitanti furono trasferiti in pochi giorni con una forzata migrazione, dalle città nella campagna. Tutti i mezzi di trasporto vennero collettivizzati, il danaro eliminato e l’intera popolazione fu costretta a partecipare al lavoro nelle risaie e a vasti progetti di opere pubbliche. I giornalisti occidentali furono espulsi da Phnom Penh e se, per il nuovo regime di Pol Pot, il paese era un’”immensa officina”, Terzani nel ’76 raccontava la tabula rasa realizzata dall’epurazione e confermava ciò che dicevano i rifugiati scampati ai massacri di un esercito di ragazzini ai danni dei propri connazionali. Scuole, biblioteche, chiese e pagode furono chiuse; insegnanti, intellettuali, chiunque avesse legami con la memoria del passato fu ucciso. “Non c’è persona oggi in Cambogia – scrisse Terzani nell’80 – che non abbia perso un familiare, la stima di 3 milioni di cambogiani uccisi o morti di fame tra il 1975 e il 1978 non dovrebbe essere esagerata.” Il giornalista ricostruì l’orrore onnipresente: fosse comuni e stragi in nome di un comunismo nazionalista e rurale, rozzo e primitivo, in nome della “purezza khmer” anti-thailandese e anti-vietnamita (i nemici storici del nord e del sud). Da quei Killing fields, dai teschi delle vittime accatastati nel crudo ed efficace “museo dell’orrore” di Tuol Sleng, prenderà corpo la svolta che porterà Terzani ad abbandonare ogni fiducia nell’ideologia, in cui pure aveva creduto, per iniziare un nuovo cammino di ricerca. Perché in Cambogia, l’unico paese dell’Asia che visiterà per altri 25 anni, Terzani vide in piccolo la tragedia del mondo in grande. E questo libro, Fantasmi, spiega le ragioni che lo hanno spinto a voltare le spalle al mondo e a cambiare direzione
Terzani in Cambogia: illusione e autocritica - [apri]
Ettore Mo - Terzani in Cambogia: illusione e autocriticaÈ davvero emozionante, per me, ripercorrere la carriera e la vita (che vita!) di Tiziano Terzani, sfogliando le pagine del suo libro postumo che s'intitola Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia (Longanesi) dove sono condensati i messaggi, i telegrammi, le corrispondenze — brevi e lunghe — che per anni ha inviato da quel Paese in guerra ai giornali con cui collaborava: a cominciare da Der Spiegel, di cui era corrispondente fisso dall'Asia, quindi al Giorno, all'Espresso,al Messaggero, alla Repubblica e, dal 1988, al Corriere della Sera. Nell'ampia prefazione la moglie Angela Terzani Staude racconta con dovizia di particolari ed episodi toccanti le tappe di quel lungo peregrinare in Indocina, Vietnam, Laos, Cambogia. Ma i suoi dispacci provengono soprattutto da questa contrada, dove ha rischiato di morire fucilato dai khmer rossi nella cittadina di confine (con la Thailandia) di Poipet, appena invasa dai guerriglieri di Pol Pot: esperienza non condivisa con nessuno, essendo il solo giornalista presente, ma dalla quale esce affranto. Rientrato a Singapore, «gira per casa come un leone malato — ricorda la moglie —, un leone che ha perso l'orientamento». Tiziano comincia a «coprire» (come si dice nel gergo) la Cambogia all'inizio del '73 e «s'innamora di Phnom Penh, la più bella delle tre capitali costruite dai francesi in Indocina », davanti al fiume Mekong «immenso e luminoso»: nella capitale cambogiana arrivano presto anche i giornalisti delle grandi testate internazionali, New York Times, Washington Post, Le Monde: ma vi sbarca pure un inviato italiano, Bernardo Valli, che diventerà suo amico, esperto di guerre che stava «a letto a leggere I tre moschettieri ». E tuttavia, in mezzo al frastuono o fracasso di cannonate e bombe, Valli rievocherà quei giorni con un sorriso: «Ci siamo divertiti da pazzi».
Terzani aveva 33 anni e nella sua testimonianza Angela ricorda che quelli erano i suoi anni felici. Dei khmer rossi all'epoca si sapeva poco o nulla, ma Tiziano è tra i primi a fornire qualche informazione sulla loro esistenza ai giornali europei. Per Terzani, «nel 1970 la Cambogia era un Paese piccolo e insignificante con 6 milioni di abitanti... Era un Paese che viveva in pace, governato da un estroso e astuto principe, Sihanouk, un signore feudale che considerava la Cambogia come sua proprietà e i cambogiani come i suoi "figli"». Il governo era nelle mani di Lon Nol, che godeva di scarse simpatie tra la popolazione. Sihanouk è un re-playboy che s'era anche rifugiato a Pechino e a Pyongyang, e che Tiziano definisce «un uomo senza grandezza». Aggiungendo: «Non l'ho mai sentito fare una riflessione umana intelligente sulla storia di questi anni, sui khmer rossi, sul ruolo degli uomini nella tragedia. C'è in quest'uomo una piccolezza spaventosa, una mancanza di grandezza umana. È un re, un despota». In un articolo per L'Espresso inviato nell'agosto del '73, Terzani così descrive le condizioni sociali dei cambogiani più poveri: «Davanti all'albergo Le Phnom, sulla cui veranda si riposano gli ufficiali e i mercanti di questa Repubblica arricchiti dalla guerra, ho visto donne che scortecciano gli alberi per fare legna per cucinare... Ho visto cenare una famiglia di sei bambini.
La madre ha ciucciato per prima una palla di riso che è poi passata di bocca in bocca». In un altro dispaccio del febbraio del '74, l'incipit è il seguente: «Il coprifuoco comincia alle sette e nemmeno i cani restano per le strade perché in queste settimane di assedio e di fame la gente ha finito per mangiarseli». In un successivo messaggio, riprende le parole di un ufficiale che dice: «Prima della guerra i turisti venivano in Cambogia per vedere le rovine di Angkor Wat. Quando ci sarà di nuovo la pace — ne verranno molti di più, perché allora la Cambogia sarà un Paese di rovine». E ancora: «Siamo tutti khmer eppure ci ammazziamo a vicenda. La Cambogia è il nostro Paese eppure lo stiamo distruggendo». Quando i khmer rossi entrarono a Phnom Penh, la città era senza riserve di cibo. I suoi due milioni di abitanti erano tenuti in vita giorno per giorno dal ponte aereo americano. L'unico modo di sfamare la gente era mandarla nelle campagne, dove anche le radici di alcune piante potevano, in un primo momento, tenerle in vita. L'evacuazione fu una misura radicale, draconiana. «Oggi — scrive Terzani in un articolo del giugno '76 — la Cambogia produce più riso di quanto ne consuma e ha cominciato l'esportazione. "Il Paese è un'immensa officina", dice Radio Phnom Penh. "È un campo di concentramento", ribattono i rifugiati», che «hanno trovato "atroce" l'evacuazione verso la campagna e ancor più terribili le dodici ore di lavoro al giorno richieste a ognuno, compresi bonzi, donne e bambini». E con riferimento all'immagine di una Cambogia retta dai sanguinari khmer rossi, ricorda che Radio Phnom Penh conclude la trasmissione quotidiana intonando l'inno nazionale, che è un truce peana con versi come questi: «Oh, sangue rosso, sangue brillante che copri le città e le pianure della patria...». 20 ottobre 1979. Altra raccapricciante corrispondenza: «La razza khmer sta per scomparire dalla faccia della terra. Nel 1975, alla fine di cinque anni di guerra americana, che aveva fatto un milione di vittime, i cambogiani erano almeno sette milioni. Dal 1975 alla fine del 1978, i khmer rossi, col loro folle comunismo, hanno massacrato e lasciato morire di stenti da due a tre milioni di loro compatrioti. Ora, altri due milioni stanno per morire di fame, di malaria, forse di peste, in un Paese i cui campi sono abbandonati e dove la guerra continua, giorno dopo giorno. Contrariamente ad altri popoli, i cambogiani non si riproducono più. La maggior parte delle donne, come le risaie, non sono più fertili. Accanto alle fosse comuni scavate in passato, per seppellire le vittime torturate, soffocate, impalate, bastonate dai soldati di Pol Pot, si scavano ora le fosse comuni per le vittime della lenta morte per inedia».
Pol Pot è morto impunito nell'aprile del 1998. «È morto — scrive Terzani — senza che nessuno facesse i conti con lui». Le stragi da lui commesse, la montagna di teschi del centro di tortura di Toul Sleng, diventato ora il Museo del genocidio, erano note già alla fine degli anni Settanta, in gran parte raccontate dai cambogiani profughi in Thailandia. Ma nonostante questo non ci fu nessuna protesta internazionale, nessuna commissione per i diritti umani si recò in Cambogia, nessun organo delle Nazioni Unite intervenne a fermare il massacro. Anzi, Pol Pot e i suoi khmer rossi vennero riconosciuti dalla comunità internazionale come il governo «legittimo» della Cambogia e come tali occuparono il seggio cambogiano all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel dicembre 1978 fu il Vietnam a intervenire. I khmer rossi, secondo l'autore di Fantasmi, non sono stati un'aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Zedong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; Pechino ha enormi responsabilità, sapeva e approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Sleng, a poche decine di metri dall'ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si teneva il conto della gente che veniva via via eliminata.
Un altro giro di Giostra
Un altro giro di Giostra è uno dei migliori libri di Tiziano Terzani. L'11 marzo 2004, il Corriere aveva anticipato un capitolo di «Un altro giro di giostra». In questo capitolo Terzani racconta il suo viaggio in America, dove era andato per curarsi.
La rivelazione della malattia, accolta dapprima con stupore misto a incredula indifferenza, in seguito con la frenesia di cure, visite, esami diagnostici e terapie, ha rappresentato per Terzani l’opportunità di compiere una riflessione sul significato dell’esistenza, tanto più intensa e coinvolgente in quanto intima e personale, vissuta sulla propria pelle. Di fronte all’imprevedibilità di un mare incurabile, anche il viaggiatore coraggioso, il cronista avventuroso, l’inviato di guerra sprezzante del pericolo si sente disarmato e vulnerabile, ma non si tira indietro. “Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere – scrive nelle prime pagine – e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” Il suo percorso di ricerca si snoda sulla scia della medicina tradizionale e alternativa: lo porta dapprima a New York e in un centro della California; segue un lungo girovagare per l’India, compresi tre mesi passati da semplice novizio in un ashram. E poi le Filippine, ancora gli Stati Uniti (a Boston), Hong Kong e la Thailandia. Infine, il ritorno nella quiete della regione himalayana, dove Terzani ha deciso di ritirarsi a vivere per molti mesi dell’anno. Tappa dopo tappa, il viaggio esterno alla ricerca di una cura si trasforma in un viaggio interiore, alla ricerca delle radici divine dell’uomo e all “scoperta” della “malattia che è di tutti: la mortalità.” Questa consapevolezza non significa però arrendersi al male. Al contrario, il libro di Terzani è un invito alla speranza e alla vita, un’esortazione a cercare l’unica cura risolutiva all’interno di se stessi. “La storia di questo viaggio non è la riprova che non c’è medicina contro certi malanni… tutto, compreso il malanno stesso, è servito tantissimo. E’ così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E questo è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi.”
Luci di un'alba a New York dove la felicità non è di casa
«Avevo l'impressione che a goderci la bellezza di Manhattan eravamo davvero in pochi»
di Tiziano Terzani
In India si dice che l'ora più bella è quella dell'alba, quando la notte aleggia ancora nell' aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta e per qualche momento l' uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa. Sono diversi, ma non facilmente separabili, sono distinti, ma «non sono due». Come un uomo e una donna, che sono sì meravigliosamente differenti, ma che nell' amore diventano Uno.
Quella è l' ora in cui in India - si dice - i rishi, «coloro che vedono», meditano solitari nelle loro remote caverne di ghiaccio nell' Himalaya caricando l' aria di energie positive e permettendo così anche ai principianti di guardare, appunto in quell' ora, dentro di sé, alla ricerca della spiegazione di tutto.
Non so dove meditassero i rishi americani, ma l'alba era anche per me a New York l'ora più bella, quella in cui davvero l'aria mi pareva più carica di qualcosa di buono e di speranza. Certo era così perché i primi, rassicuranti bagliori del nuovo sole scioglievano, specie per un ammalato, le paure della notte, ma anche perché, affondata ancora in un relativo silenzio, la città, senza le folle dei suoi abitanti, era al suo poetico meglio: con le cartacce che svolazzavano come gabbiani per le grandi, dritte strade deserte, qualche raro taxi che lentamente andava in cerca di un primo cliente e i barboni ancora raggomitolati nelle loro coperte sui bocchettoni di sfiato della metropolitana. Misteriosi buchi qua e là nell' asfalto soffiavano in aria strane colonne di vapore bianco, come fossero le narici dei draghi ancora addormentati nelle viscere calde di quello straordinario cuore di New York che è Manhattan.
Nella doppia luce di quell' ora la città stessa sembrava meditabonda, raccolta su di sé, concentrata sul suo essere, prima di diventare il campo di battaglia delle infinite guerre che ogni giorno si celebrano sulle scrivanie e nei letti dei suoi palazzi, ai tavoli dei suoi ristoranti, per le strade e nei suoi parchi: guerre di sopravvivenza, di potere, di avidità.
New York mi piaceva moltissimo. Adoravo, quando ero in forze, attraversarla in lungo e in largo, a piedi, a volte per ore di seguito. Ma mi era anche impossibile in certi momenti non sentire il carico di lavoro, di dolore e sofferenza che ogni suo grattacielo rappresentava. Guardavo il Palazzo delle Nazioni Unite e pensavo a quante parole e quante menzogne, a quanto sperma e quante lacrime venivano versate nell' inutile tentativo di gestire una umanità che non può essere gestita, perché il solo principio che la domina è quello dell' ingordigia e perché ogni individuo, ogni famiglia, ogni villaggio o nazione pensa solo al suo e mai al nostro. Camminavo davanti al Plaza Hotel, passavo davanti al Waldorf Astoria, i grandi, famosi alberghi di New York, dove sono scesi e scendono ancora i dittatori, i capi di Stato e di governo, le spie e i rispettabili assassini di mezzo mondo, e ripensavo alle decisioni prese, ai complotti che, orditi in quelle stanze, hanno cambiato i destini di vari Paesi rovesciandone i regimi, uccidendone gli oppositori o facendo sparire nel nulla qualche dissidente prigioniero.
Guardavo le insegne delle banche, le bandiere che sventolavano sugli edifici delle grandi società di varie nazionalità e di vari intenti, ma tutte, immancabilmente, con radici qui e immaginavo come qualche signore incravattato - uno per il quale nessuno ha votato, del quale i più non han mai sentito pronunciare il nome, uno che sfugge al controllo di tutti i parlamenti e di tutti i giudici del mondo - avrebbe da lì a qualche ora deciso, in nome del sacrosanto principio del profitto, di ritirare miliardi di dollari investiti in un Paese per metterli in un altro, condannando così intere popolazioni alla miseria.
La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l' increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l' umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione. E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent' anni c' ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell' industria, per rifarmi una vita come la volevo. Ora c' ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. Anche la prima volta avevo sentito forte la profonda contraddizione fra la naturale gratitudine per ciò che l' America mi dava - due anni di libertà pagata per studiare la Cina e il cinese alla Columbia University per prepararmi a partire da giornalista in Asia - e il disprezzo, il risentimento, a volte l' odio, per ciò che l' America altrimenti rappresentava.
Quando nel 1967 Angela e io, entusiasti, sbarcammo a New York dalla Leonardo da Vinci che ci aveva presi a bordo una settimana prima a Genova, l' America cercava, con una guerra sporca e impari, di imporre la sua volontà a un misero popolo asiatico armato solo della sua cocciutaggine: il Vietnam. Ora l' America, con una ben più sofisticata, meno visibile e per questo meno resistibile aggressione, stava cercando di imporre al mondo - assieme alle sue merci - i suoi valori, le sue verità, le sue definizioni di buono e di giusto, di progresso e... di terrorismo.
A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Wall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come «progetti di sviluppo», c' erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei Paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri «terroristi»?
Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità. Alle otto la Quinta Strada, a sud di Central Park, a un passo da casa mia, era già piena di gente. Zaffate di profumi da aeroporto mi riempivano il naso a ogni donna che, correndo col solito cartoccio della colazione in mano, mi sfiorava per entrare in uno dei grattacieli. Che modo di cominciare una giornata! (...) La folla a quell' ora era di gente per lo più giovane, bella e dura: una nuova razza cresciuta nelle palestre e alimentata nei Vitamin-shops. Alcuni uomini più anziani mi pareva di averli già visti in Vietnam, allora ufficiali dei marines, e ora, sempre dritti e asciutti nell' uniforme di businessman, sempre «ufficiali» dello stesso impero, impegnati a far diventare il resto del mondo parte del loro villaggio globale.
Quando stavo a New York la città non era ancora stata ferita dall' orribile attacco dell' 11 settembre e le Torri gemelle spiccavano snelle e potenti nel panorama di Downtown, ma non per questo, anche allora, l' America era un Paese in pace con se stesso e col resto del mondo. Da più di mezzo secolo gli americani, pur non avendo mai dovuto combattere a casa loro, non hanno smesso di sentirsi, e spesso di essere, in guerra con qualcuno: prima col comunismo, con Mao, con i guerriglieri in Asia e i rivoluzionari in America Latina; poi con Saddam Hussein e ora con Osama bin Laden e il fondamentalismo islamico. Mai in pace. Sempre a lancia in resta. Ricchi e potenti, ma inquieti e continuamente insoddisfatti. Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi: uno dei Paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L' India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo!
A volte avevo l' impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra.
Una guerra a cui non ero abituato, essendo vissuto per più di venticinque anni in Asia, era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park, le stavo a guardare. Le donne: sane, dure, sicure di sé, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio - tailleur nero, scarpe nere, borsa nera con il computer - i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava «femminile» è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini.
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2004/07_Luglio/29/terzani_ultimo.shtml
Giuliano Amato, in questo articolo sul Corriere della Sera racconta la giovinezza comune con Tiziano Terzani.
Ma chi ne fa un guru lo tradisce
Tiziano Terzani fu mio compagno, negli anni universitari, al collegio Sant'Anna di Pisa. Mi diceva: «Voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». In Asia maturò una radicale ostilità verso la guerra. Negli ultimi tempi giunse alla convinzione dell'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, quello della vita: una visione per cui la guerra non ha senso alcuno. Ma non gli renderemmo un buon servizio se ne facessimo un santone del pacifismo.
Non avevamo ancora vent'anni quando ci conoscemmo. Ciascuno di noi veniva dal suo liceo, dalla sua provincia ed essere in quel collegio a Pisa, all'università, significava per Tiziano, per me e per gli altri superare i confini dentro i quali eravamo cresciuti, entrare in un mondo più grande, scrutarlo e cercarci quello che quei confini ci avevano negato. Si crearono, come sempre accade, amicizie più strette e si formarono piccoli gruppi, all'interno dei quali la ricerca avveniva lungo gli stessi percorsi. Ed erano percorsi i più diversi. Potevano essere infinite discussioni notturne sulla Montagna incantata o trasgressive esperienze di coppia, vissute nello stesso collegio contro le regole di allora, che vietavano in radice l'ingresso di ragazze nelle nostre stanze. Giuliano e Diana, Romano ed Elena, Enrico ed Erna e poi Tiziano e Angela fecero da battistrada su questo percorso. E furono insieme anche su altri.
Poi ciascuno prese la sua strada e continuò da solo (o meglio, solo con la sua compagna) la sua ricerca. E fu a quel punto, quando da poco tutti avevamo lasciato il collegio, che capii che la ricerca di Tiziano mirava più lontano di quella degli altri. Come Romano e Carlo aveva aderito alla richiesta di personale che allora la Olivetti indirizzava ai migliori delle università (il personale lo selezionava Paolo Volponi) e si era trovato a bussare alle porte per vendere macchine da scrivere. Lo sapeva che era un'esperienza temporanea, che era la gavetta a cui tutti si dovevano assoggettare in vista di lavori più gratificanti. Ma non la sopportava e soprattutto non vedeva se stesso neppure in quei lavori più gratificanti. Mi telefonava sempre insoddisfatto e mi diceva: «Ma io voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». È già grossa detta oggi, da un ragazzo di quell'età, ma allora era enorme. Allora in Cina non si entrava neppure e io gli dicevo: «Tiziano, sei completamente matto, pazienta qualche mese e vedrai che le cose cambiano».
Ma la sua testa non era nell'Olivetti, era in Oriente. Che ci fosse perché già Tiziano sapeva che cosa cercarva e, soprattutto, che cosa ci avrebbe trovato nella stupenda stagione che ha vissuto prima di «abbandonare il suo corpo», io francamente non lo credo. Gli attribuirei di più di quanto già non avesse e lo farei essere quello che ancora non era. Ma è certo che la tenacia, la vera e propria ostinazione con cui si mise a perseguire quel disegno, che io trovavo folle, qualcosa lo provano: almeno emotivamente sentiva che là per lui c'era qualcosa di tanto importante da essere irrinunciabile. E riuscì ad andarci. Cominciò a scrivere per un giornale italiano e queste sue prime credenziali gli consentirono, con l'aiuto credo di Angela e della sua famiglia, di arrivare a Der Spiegel e di divenire inviato dello stesso Spiegel non in Cina, ma ai bordi di questa (come tutti i giornalisti occidentali del tempo). Iniziò così un'avventura che divenne una nuova vita, per lui e per la famiglia che si stava formando.
E fu una vita segnata da cambiamenti profondi, da un inveramento progressivo dell'animo di Tiziano, che oggi ci appare guidato da un filo sicuro, ma che sicuro certamente non fu. Gli costò anni di riflessione, mentre gli passavano sotto gli occhi vicende ora umanissime ora atroci; ed anni di meditazione solitaria con gli occhi puntati sulla montagna e la mente e il cuore a frugare ancora in quelle vicende. Quel filo, insomma, Tiziano se lo è trovato, lo ha districato da chissà quanti altri e ha dato da ultimo un senso straordinario e profondo alla ricerca che aveva cominciato molti anni prima. Per questo alla fine era sinceramente felice e quando se ne è andato ci ha lasciato, non con il senso della morte, ma con la felicità della vita. L'Oriente che si trovò davanti quando vi giunse, e negli anni che seguirono, fu quello del totalitarismo del comunismo cinese, della guerra in Vietnam, dei massacri cambogiani: arbitrii, uccisioni, autentiche stragi, manomissioni della vita e della libertà umane in nome di spietate ideologie. Non era imprevedibile che tutto questo facesse maturare e crescere in Tiziano una ostilità sempre più forte nei confronti della guerra, la convinzione che essa possa trovare delle occasioni, mai delle ragioni.
Meno prevedibile fu che questa ostilità arrivasse nel tempo ad assumere in lui le motivazioni e l'ispirazione che portano il soldato giapponese Mizushima, il protagonista del film L'arpa birmana, a farsi prete buddista e a percorrere l'intera Birmania per trovare e seppellire i suoi compagni morti in guerra. Ma di questo ci accorgemmo, e lui stesso si accorse, molto più tardi. Ho avuto ripetuti contatti con Tiziano nel corso degli anni. Non abbiamo mai smesso di parlare di noi, ogni volta che ci siamo visti; di noi e dei nostri figli, che intanto erano arrivati e cresciuti, e di quello che stavano facendo e che un giorno avrebbero potuto fare insieme (almeno i nostri figli maschi, entrambi legati al teatro). Ma parlavamo anche del mondo e Tiziano, pur consapevole delle radici della violenza nello stesso Oriente, le trovava in primo luogo nel corrosivo individualismo e nella spietata competitività della nostra civiltà occidentale. Lo diceva a me e non si peritava di dirlo in posti come Cernobbio, dove la sua voce era, a dir poco, solitaria e controcorrente.
Ma fin qui una voce del genere, per quanto inusitata a Cernobbio, appariva e veniva intesa come la voce di uno dei tanti occidentali attirati dall'Oriente e da quella civiltà riflessiva di cui l'India (dove infatti Tiziano viveva sempre più a lungo) è una sorta di tempio. Io stesso — devo confessarlo — lo percepivo così, non avevo ancora capito che Tiziano spiritualmente era ancora in cammino, che non era un occidentale pago di guardare criticamente l'Occidente da Oriente, ma continuava a cercare, a cercare se stesso ed il mondo. Lo avrei capito, e lo avremmo capito tutti, nella fase terminale della sua vita, quando lui stesso capì che cosa stava cercando e finalmente lo trovò, guardando la montagna. Cercava, e trovò, la fondamentale unicità del creato, l'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, che è quello della vita, che passa da una creatura all'altra e che così preserva il mondo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, le bellezze che godiamo. E quando ne fu pienamente consapevole, comunicò con gioia ai figli il suo eureka e in tutta serenità si accinse ad abbandonare il suo corpo. Non solo sapeva a quel punto perché sopravviviamo a noi stessi, ma sapeva perché non ha senso alcuno la guerra, e lo sapeva perché vedeva finalmente l'errore di fondo dello schema dialettico, quello che contrappone il mio io a ciò che è altro da me e che sorregge l'opzione fra la pace e la guerra, facendo della scelta della pace una scelta (così ci spiega il realismo) di basilare convenienza.
Non c'è l'altro da me, questo fu l'approdo di Tiziano. E su questo approdo la pace non ha negazione possibile. Credo che sia qui, oltre che nel suo straordinario fascino personale, la ragione dell'amore che lo circonda e della quantità enorme, forse inaspettata, delle persone che continuano a leggerlo, a parlare di lui, ad adunarsi in ogni occasione in cui lo si ricorda. In un mondo in cui ancora prevale la paura, e spesso è paura dell'altro da sé, è fortissimo il bisogno di cancellarla, questa paura, ed è fortissimo perciò il desiderio di pace. Ma non faremmo un buon servizio a Tiziano, né a quello che ci ha lasciato, se ora trasformassimo lui in un santone e Angela e i suoi figli in chierici addetti al suo altare. Se il suo approdo ha un senso, neppure lui è altro da noi ed è a noi che lui stesso ha affidato la continuazione della sua vita. Viviamola, questa vita sua e nostra, dentro noi stessi. Quando seppi della sua morte, venni preso da un pianto irrefrenabile e mentre parlavo per telefono con Angela sentivo che la mia voce era rotta dai singhiozzi. Ora quel senso di morte è scomparso. Perché la vita è davanti a noi, la vita si vive, non si commemora.
Giuliano Amato - 30 luglio 2006
IL SITO UFFICIALE DI TERZANI: http://www.tizianoterzani.com/
INFINITAMENTE_PER L'ETERNITA'
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