Józef Teodor Konrad Korzeniowski
Joseph ConradCuore di Tenebra
Tradotto da Francesco
Persichelli (2007) pubblicato su
www.booksandbooks.it Grafica
copertina © Mirabilia –
www.mirabiliaweb.net Booksandbooks faparte del network Coonet –
www.coonet.it
I
La
Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era
alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che
ormeggiare aspettando il riflusso. L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile
all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e,
nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi
trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di
aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si
perdevano nel mare. L'aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava
addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più
illustre, città del mondo. Il Direttore delle Compagnie era il nostro capitano e il nostro
ospite. Noi quattro l'osservavamo con affetto mentre, a prua, volgendoci le spalle, guardava
verso il mare. Su tutta la distesa del fiume, nulla aveva l'aria più navigata di lui. Si sarebbe
detto un pilota, che per un marinaio è come dire la fiducia in persona. Era difficile credere
che il suo lavoro non si svolgesse là, su quell'estuario luminoso, ma alle sue spalle, dentro
quell'incombente oscurità. Fra noi, come ho già detto da qualche parte, c'era il legame del
mare. Oltre che tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, aveva
l'effetto di farci tollerare i racconti e addirittura le convinzioni gli uni degli altri.
L'Avvocato, il migliore dei vecchi compagni, in ragione dei suoi numerosi anni e delle sue
molte virtù, aveva diritto all'unico cuscino che ci fosse sul ponte ed era disteso sulla nostra
unica coperta. Il Contabile aveva già preparato il domino e si divertiva ad architettare
piccole costruzioni con le tessere d'osso. Marlow sedeva all'estrema poppa a gambe
incrociate, appoggiato all'albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione gialla,
il dorso eretto, l'aspetto ascetico: con le braccia distese e il palmo delle mani aperte volto in
fuori, assomigliava a un idolo. Il Direttore, soddisfatto della tenuta dell'ancora, venne a
poppa e si sedette in mezzo a noi. Scambiammo qualche parola, svogliatamente. Poi ci fu
silenzio a bordo dello yacht. Non ricordo per quale ragione non iniziammo la partita di
domino. Eravamo in vena di meditazioni, a nient'altro disposti che a una placida
contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L'acqua
scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle
paludi dell'Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata
ai pendii boscosi dell'interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane. Solo
l'oscurità a ponente, che incombeva sui tratti superiori del fiume, diventava sempre più
tetra, come irritata dall'avvicinarsi del sole. E infine, nella sua caduta obliqua e
impercettibile, il sole toccò l'orizzonte e dal bianco incandescente passò a un rosso opaco,
senza raggi e senza calore, come stesse per spegnersi all'improvviso, colpito a morte al
contatto di quella oscurità che incombeva sopra una moltitudine di uomini. Anche
sull'acqua ci fu un cambiamento repentino, e la serenità si fece meno brillante, ma più
profonda. Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di
onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di
una via che conduce ai confini più remoti della terra. Guardavamo quel venerabile corso
d'acqua non nella passeggera vampata di un giorno che compare e poi scompare per
sempre, ma nell'augusta luce dei ricordi duraturi. E di fatti, non c'è niente di più facile che
un uomo che, come si usa dire, si è "votato al mare" con amore e riverenza, si metta a
evocare il grande spirito del passato sull'estuario del Tamigi. La corrente della marea che
va e che viene nel suo incessante lavorio, è popolata dal ricordo degli uomini e delle navi
che ha portato verso il riposo nel nido natio o alle battaglie nell'Oceano. Li aveva conosciuti
e serviti tutti, quegli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John
Franklin, tutti cavalieri, con o senza investitura, i grandi cavalieri erranti del mare. Le
aveva portate tutte, quelle navi dai nomi come gioielli scintillanti nella notte dei tempi,
dalla Golden Hind, che rientrava in porto con i rotondi fianchi tutti pieni di tesori, per
ricevere la visita di sua maestà la Regina e poi uscire dalla gloriosa leggenda, fino
all'Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste, e non più ritornate. Aveva conosciuto le
navi e gli uomini, quelli partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith, gli avventurieri e i
coloni, navi di re e navi di banchieri, capitani e ammiragli, loschi "intermediari" dei traffici
con l'Oriente e "generali" incaricati delle flotte delle Indie Orientali. Che cercassero l'oro o
che inseguissero la gloria, tutti avevano disceso quelle acque, portando la spada e spesso la
fiaccola, messaggeri della potenza di quella terra, depositari di una scintilla del fuoco sacro.
Quale grandezza non aveva fluttuato sulla corrente di quel fiume verso il mistero di un
mondo sconosciuto!... Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi!... Il sole
tramontò. L'ombra cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo le sponde. Il
faro di Chapman, issato come su un treppiedi sul suo banco di fango, gettava uno sfavillio
intenso. Le luci delle navi si spostavano nel canale: un gran movimento di luci che si
avvicinavano e si allontanavano. E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo
della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla
luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle. «E anche questo», disse Marlow
all'improvviso, «è stato uno dei luoghi di tenebra della terra.» Era il solo fra noi che ancora
"corresse" il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto, era che rappresentava in
modo atipico la sua categoria. Era un marinaio, ma era anche un vagabondo, mentre la
maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria. La loro indole è
casalinga; e la loro casa, la nave, se la portano sempre dietro, e così il loro paese, il mare.
Non c'è nave che non assomigli a un'altra, e il mare è sempre lo stesso. Nell'immutabilità di
ciò che le circonda, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della
vita,tutto scivola e passa, velato non dal senso del mistero, ma da un'ignoranza un po'
sdegnosa. Perché, per un marinaio, non c'è niente di misterioso al di fuori del mare,
signore e padrone della sua vita, e imperscrutabile come il destino. Per il resto, gli bastano
una passeggiata o una bisboccia a terra, di tanto in tanto, al termine del lavoro, per
scoprire il segreto di un intero continente e per capire, di solito, che non valeva la pena di
conoscerlo. I prolissi racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e il loro
significato sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era tipico (se non per la sua
tendenza a essere prolisso); per lui il significato di un episodio non andava cercato
all'interno, nel gheriglio, ma all'esterno, in ciò che, avviluppando il racconto, finiva col
rivelarlo, come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l'illuminazione spettrale del
chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi. La sua osservazione non sorprese
nessuno. Era nello stile di Marlow. Venne accolta in silenzio. Neanche un grugnito da parte
nostra. E dopo un istante riprese a parlare, molto lentamente: «Stavo pensando a quei
tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa.
L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come
una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel
guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano
le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama?
ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord,
attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle
imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in
un mese o due, se si deve credere a quello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al
mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una
fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro.
Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e
da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo
militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le
tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella
boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche,
indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto
quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le
tenebre in faccia. E forse lui si faceva coraggio tenendo d'occhio di tanto in tanto la
possibilità di una promozione alla flotta di Ravenna, sempre che avesse buoni amici a
Roma e che sopravvivesse all'orribile clima. Oppure provate a pensare a un giovane
cittadino di buona famiglia con tanto di toga - troppo dedito ai dadi, forse, sapete dove
portano - che arriva qui al seguito di qualche prefetto, o di un esattore delle imposte,
oppure di un mercante, per rimettere in sesto la sua fortuna. Sbarcare in una palude,
marciare nei boschi, e in qualche posto dell'interno sentirsi circondato da una natura
selvaggia, assolutamente selvaggia - tutta quella vita misteriosa della landa selvaggia che si
agita nella foresta, nella giungla, nel cuore degli uomini selvaggi. E non c'è iniziazione a
questi misteri. Lui deve vivere in mezzo all'incomprensibile, che in sé è già detestabile. Che
però ha anche un fascino, e che comincia a far presa sul nostro uomo. Il fascino dell'orrido,
capite? Immaginate i rimpianti, sempre più grandi, il desiderio ossessivo di fuggire, il
disgusto impotente, la resa, l'odio.» Si interruppe. «Badate», ricominciò, alzando un
avambraccio, il palmo della mano in fuori, le gambe incrociate: adesso aveva la posa di un
Budda in preghiera, vestito all'europea e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi
proverebbe niente di simile. Ciò che ci salva è l'efficienza, il culto dell'efficienza. Ma su
quegli uomini non si poteva fare molto affidamento. Non erano colonizzatori e la loro
amministrazione non era che l'arte di spremere, nient'altro, temo. Erano dei conquistatori
e per questo, non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha,
perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui. Mettevano le
mani su tutto quello che potevano arraffare, per il solo piacere di arraffare. Si trattava
propriamente di rapina a mano armata, di omicidio premeditato su vasta scala, e gli
uomini ci andavano alla cieca, come fanno tutti quelli che si devono misurare con le
tenebre. La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che
hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa
tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo
l'idea. Un'idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un'idea e una fede
disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire
sacrifici.» Si interruppe. Dei bagliori passavano sul fiume, piccoli bagliori verdi, rossi o
bianchi, che si inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, si incrociavano per poi
separarsi, lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva senza sosta nel
cuore della notte sprofondata sul fiume senza sonno. Noi guardavamo e attendevamo con
pazienza: non c'era altro da fare fino alla fine della marea. Solo dopo un lungo silenzio,
quando, con voce esitante, ci disse: «Suppongo che vi ricordiate di quando, per un po' di
tempo, son diventato marinaio d'acqua dolce», capimmo di essere destinati, prima che il
riflusso si facesse sentire, ad ascoltare il racconto di una delle inconcludenti esperienze di
Marlow. «Non ho intenzione di affliggervi con quello che mi è capitato personalmente»,
incominciò, tradendo con questa osservazione l'errore comune a tanti narratori che
sembrano così spesso non sapere quello che il loro uditorio preferirebbe sentire. «Però, per
capire l'effetto prodotto su di me, bisogna che sappiate come sono giunto fin là, cosa ho
visto, e come ho risalito quel fiume fino al luogo in cui per la prima volta ho incontrato quel
poveraccio. Era il limite estremo accessibile alla navigazione: fu anche il punto culminante
della mia avventura. Mi è sembrato che emanasse una specie di luce su tutte le cose
intorno a me e sui miei pensieri. Era oscuro, ciononostante, e penoso, per nulla
straordinario, ma neanche chiaro. No, non molto chiaro... Eppure sembrava emanare una
specie di luce...«Ero appena tornato a Londra, ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano
Indiano, Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno - e
bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se
avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un po' andò benissimo, ma ben
presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave:
penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene
di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi. «Dovete sapere che, quand'ero un
ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare
l'America del sud, o l'Africa o l'Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell'esplorazione. A
quei tempi c'erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno
dall'aria particolarmente invitante (ma ce l'hanno tutti quell'aria) ci posavo il dito sopra e
dicevo: "Quando sarò grande, ci andrò." Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo.
Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L'incanto è finito. Altri di quei
luoghi erano disseminati intorno all'Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli
emisferi. In qualcuno ci sono stato, e... beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n'era
uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente
attratto. «È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia, si era
riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente
avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria.
Era diventato un luogo di tenebra. Ma là dentro c'era soprattutto un fiume, un fiume
possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il
corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E
mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un
serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c'era una
grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume. Diamine, mi dissi, non
potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella
massa d'acqua dolce - i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno?
Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l'idea di dosso. Il
serpente mi aveva incantato. «Si trattava in realtà di un'impresa continentale, la
Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a
sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra. «Devo purtroppo ammettere
che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine
ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la
mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di
esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l'impressione che lì ci dovevo andare, a
qualunque costo. Così li scomodai. Gli uomini mi dissero "Carissimo" e non fecero nulla.
Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all'opera
per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l'idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una
tenera anima entusiasta. Mi scrisse: "Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi
cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un'idea straordinaria. Conosco la moglie di un
personaggio molto in vista nell'Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in
capitolo...", ecc., ecc. Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di
un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio. «Naturalmente ottenni il posto, e anche
rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era
stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più
impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava
del corpo, seppi che all'origine della questione c'era stato un malinteso per delle galline. Sì,
per due galline nere! Fresleven - è così che si chiamava quell'uomo, un danese - pensando
di essere stato in qualche modo imbrogliato nell'affare, scese a terra e iniziò a picchiare il
capo del villaggio con un bastone. Oh, non mi sorpresi neanche un po' quando me lo
raccontarono e neanche quando, contemporaneamente, mi assicurarono che Fresleven era
l'essere più mite e più pacifico che avesse mai camminato su questa terra. Era sicuramente
vero, ma erano già due anni che era laggiù, al servizio della nobile causa, sapete, e
probabilmente sentiva un estremo bisogno di riaffermare in qualche modo la sua dignità.
Perciò bastonò il nero senza pietà, sotto gli occhi impietriti degli indigeni, finché un uomo -
mi dissero che era il figlio del capo del villaggio - spinto alla disperazione dalle urla del
vecchio, provò, in via sperimentale, a colpire il bianco con la lancia che, naturalmente,
entrò senza difficoltà fra le due scapole. Al che l'intera popolazione se la svignò nella
foresta, aspettandosi ogni genere di calamità, mentre, dal canto suo, il vapore che
Fresleven comandava se la filava anche lui in preda al panico, agli ordini, credo, del
macchinista. In seguito, nessuno sembrò preoccuparsi molto dei resti di Fresleven, fino al
giorno in cui arrivai io a prendere il suo posto. Non potevo non seppellirlo; ma quando
finalmente mi si presentò l'occasione di incontrare il mio predecessore, l'erba che gli
cresceva tra le costole era abbastanza alta da nascondere le sue ossa. C'erano tutte. Dopo la
sua caduta, l'essere soprannaturale non era stato toccato. E nel villaggio abbandonato, le
capanne si spalancavano come bocche nere, putrescenti, tutte sghembe entro i recinti
caduti. Una calamità si era davvero abbattuta su di lui. E la popolazione era svanita. Un
terrore folle li aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e non erano più
ritornati. Anche le galline, non so che fine abbiano fatto. Immagino, però, che siano andate
alla causa del progresso. In ogni modo, fu per quest'affare glorioso che io ricevetti la mia
nomina, prima ancora che avessi iniziato a sperarci. «Corsi come un matto per essere
pronto in tempo e, meno di quarantott'ore dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai
miei datori di lavoro, e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi
fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo. Non mi fu difficile
trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di
tutti quelli che incontravo. S'accingevano a gestire un impero d'oltremare e a trarne una
barca di soldi con il commercio.«Una strada stretta e deserta, sprofondata nell'ombra di
alte case, piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l'erba che spuntava
fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie porte che stavano
faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure, salii una scala spoglia e pulita,
arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e una
magra, sedute su seggiole impagliate, sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e
venne dritta verso di me, sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre
pensavo di scansarmi per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si
fermò e sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un
ombrello. Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d'aspetto. Dissi il mio
nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo, seggiole comuni intorno alle
pareti, su un lato una grande carta lucida, segnata con tutti i colori dell'arcobaleno. Una
gran quantità di rosso - sempre bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio - un
bel po' di azzurro, un po' di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza
violacea, che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono
l'euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel giallo. Dritto nel
centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente. Ohi, ohi! Una porta
s'aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un'espressione di compatimento,
e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario. La luce era fioca, e una
massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza. Dietro quel monumento si
distingueva una pallida pinguedine in redingote. Il grand'uomo in persona. Poco più alto di
un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva in pugno le fila di chissà quanti
milioni. Mi strinse la mano, se non mi sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto
del mio francese. Bon voyage. «Passati quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala
d'aspetto con il segretario compassionevole, che, afflitto e partecipe, mi fece firmare dei
documenti. Credo di essermi impegnato, fra l'altro, a non rivelare segreti commerciali.
Beh, non ho intenzione di farlo. «Cominciavo a sentirmi un po' a disagio. Sapete che non
sono abituato a questo genere di cerimonie, e nell'atmosfera c'era qualcosa di sinistro.
Come se mi avessero coinvolto in una cospirazione - non so - in qualcosa di non proprio
onesto; ed ero contento di andarmene. Nell'anticamera, le due donne sferruzzavano
febbrilmente la lana nera. Arrivava gente e la più giovane andava avanti e indietro ad
accompagnarla. La vecchia restava seduta sulla sua sedia, con le ciabatte di stoffa
appoggiate su uno scaldino, e un gatto che le riposava in grembo. Portava sulla testa un
affare bianco, inamidato, aveva una verruca su una guancia e gli occhiali cerchiati
d'argento poggiavano sulla punta del naso. Mi diede un'occhiata da sopra le lenti. La
placidità sbrigativa e distaccata di quello sguardo mi turbò. A due giovanotti, che con aria
allegra e spensierata stavano seguendo la loro guida, lei lanciò la stessa rapida occhiata di
imperturbabile saggezza. Pareva sapesse tutto di loro e anche di me. Mi invase una
sensazione inquietante. Lei mi sembrava misteriosa e fatale. Spesso, quand'ero laggiù,
ripensai a quelle due - le guardiane della porta delle tenebre - che sferruzzavano la loro
lana nera come per farne una calda coltre funebre, una che accompagnava, accompagnava
senza tregua verso l'ignoto, l'altra che scrutava i volti allegri e spensierati con i suoi vecchi
occhi impassibili. Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant. Di tutti
quelli che lei guardò, non furono in molti a rivederla: molto meno della metà. «Restava
ancora la visita dal dottore. "Una semplice formalità", mi assicurò il segretario, con l'aria di
prendere immensa parte a tutte le mie pene. A questo scopo, un giovanotto, che portava il
cappello inclinato sul sopracciglio sinistro, un impiegato, immagino - ci dovevano pur
essere degli impiegati in quell'azienda, anche se l'edificio era altrettanto silenzioso di una
casa della città dei morti - arrivò da qualche piano superiore e mi fece strada. Era sciatto e
trasandato, con delle macchie di inchiostro sulle maniche della giacca, e un'ampia cravatta
svolazzante sotto un mento a punta, come uno stivale vecchio. Siccome era un po' troppo
presto per il dottore, proposi di andare a bere qualcosa, il che lo fece diventare gioviale.
Mentre sedevamo davanti ai nostri vermout, si mise a magnificare gli affari della
Compagnia, tanto che, di lì a poco, espressi la mia sorpresa che non fosse andato laggiù.
Diventò subito freddo e riservato. "Non sono così stupido come sembro, disse Platone ai
suoi discepoli", proferì in tono sentenzioso; poi vuotò il bicchiere con grande risolutezza e
ci alzammo. «Il vecchio medico mi tastò il polso pensando visibilmente ad altro. "Buono,
buono per laggiù", borbottò, e poi con una certa animazione mi chiese se gli permettevo di
misurarmi la testa. Piuttosto sorpreso dissi di sì ed egli tirò fuori una specie di calibro.
Prese le mie misure, davanti, di dietro, da tutte le parti, annotandole accuratamente. Era
un ometto mal rasato, con un logora palandrana e, ai piedi, un paio di pantofole. Mi fece
l'effetto di un matto innocuo. "Nell'interesse della scienza, chiedo sempre il permesso di
misurare il cranio di quelli che vanno laggiù", disse. "Anche quando tornano?", domandai.
"Oh", rispose, "io non li vedo mai e poi i cambiamenti, sa, avvengono internamente."
Sorrise, come se avesse detto una spiritosaggine. "Così lei va laggiù. Ottima idea.
Interessante, anche." Mi lanciò un'occhiata indagatrice e prese un altro appunto. "Nessun
caso di pazzia in famiglia?", chiese in tono molto naturale. Mi seccai moltissimo. "Anche
questa domanda è nell'interesse della scienza?" "Per la scienza", disse, senza rilevare la mia
irritazione, "sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli
individui, ma..." "Lei è uno specialista in malattie mentali?", lo interruppi. "Ogni medico lo
dovrebbe essere, un po'", rispose quell'originale, senza scomporsi. "Ho una piccola teoria
che voi signori che andate laggiù, dovreste aiutarmi a dimostrare. Questa è la mia parte nei
profitti che il mio paese mieterà dal possesso di una colonia così magnifica. La nuda
ricchezza la lascio agli altri. Scusi le mie domande, ma lei è il primo inglese che ho
occasione di osservare..." Mi affrettai a garantirgli che non ero affatto tipico. "Se lo fossi",
aggiunsi, "non parlerei così con lei." "Quel che dice è senz'altro profondo, ma
probabilmente errato", disse ridendo. "Eviti ogni fonte di irritazione, più dell'esposizione al
sole. Addio. Com'è che ditevoi inglesi, eh? Goodbye. Allora, good-bye. Addio. Ai tropici
bisogna soprattutto mantenere la calma..." Fece un cenno di ammonimento con
l'indice..."Du calme, du calme. Adieu." «Non restava che una cosa da fare: salutare la mia
ottima zia. La trovai trionfante. Mi offrì una tazza di tè - l'ultima tazza di tè decente per
non so quanto tempo - in una stanza che rispondeva nel modo più lusinghiero all'idea che
ci si fa del salotto di una signora. Parlammo a lungo, tranquilli, vicini al camino. Nel corso
di quelle confidenze divenne evidente che ero stato descritto alla moglie dell'alto
dignitario, e Dio sa a quante altre persone ancora, come un essere eccezionalmente dotato -
una vera fortuna per la Compagnia - un uomo come non se ne trovano tutti i giorni. Dio
santo! e io che andavo ad assumere il comando di un vaporetto da quattro soldi munito di
un fischio da due. Risultava chiaro, però, che io ero anche uno dei Pionieri, con la P
maiuscola, capite. Qualcosa come un portatore di luce, una specie di apostolo in formato
ridotto. Proprio a quel tempo circolavano sulla stampa, e nei discorsi, un mucchio di
stupidaggini di questo tipo e quella bravissima donna, che in mezzo a quelle frottole ci
viveva, se ne era lasciata travolgere. Parlò di "distogliere quella massa di ignoranti dalle
loro orribili usanze", tanto che alla fine, parola d'onore, riuscì a farmi sentire molto a
disagio. Provai ad accennare al fatto che la Compagnia agiva a scopo di lucro. «"Tu
dimentichi, caro Charlie, che ogni fatica merita una ricompensa", disse lei raggiante.
Straordinario che le donne siano così lontane dalla verità. Vivono in un mondo che si
costruiscono loro stesse, che non c'è mai stato e non ci sarà mai. Troppo perfetto nel suo
insieme e tale che, se dovessero realizzarlo, non vedrebbe neanche un tramonto,
crollerebbe prima. A buttar giù tutto salterebbe fuori uno di quei maledetti fatti a cui noi
uomini siamo rassegnati sin dal giorno della creazione. «Poi mia zia mi abbracciò, mi
raccomandò di portare la maglia di lana, di scrivere spesso, ecc., ecc., e me ne andai. Per
strada, non so perché, ebbi la curiosa sensazione di essere un impostore. Strana cosa che
io, abituato a partire per qualsiasi parte del mondo in meno di ventiquattr'ore, senza
pensarci tanto quanto la maggior parte degli uomini per attraversare la strada, avessi un
momento, non dirò di esitazione, ma di pausa allarmata davanti a questa impresa banale.
Non saprei spiegarmi meglio se non dicendo che, per un paio di secondi, mi sentii come se,
invece di partire per il centro di un continente, stessi per avventurarmi nel centro della
terra. «Mi imbarcai su un piroscafo francese, che fece scalo in ognuno di quei dannati porti
che loro hanno laggiù, al solo scopo, per quanto mi fu dato di vedere, di sbarcarvi dei
soldati e dei doganieri. Io osservavo la costa. Osservare una costa mentre scivola via lungo
la nave, è come riflettere su un enigma. È là, davanti a voi, sorridente o accigliata,
invitante, splendida o mediocre, insipida o selvaggia, e muta sempre, ma con l'aria di
sussurrare: "Venite a vedere." Quella era quasi informe, come ancora incompiuta, con un
aspetto ostile e monotono. Il limitare di una giungla colossale, di un verde così scuro da
sembrare quasi nero, orlato dal bianco della risacca, correva dritto, come tracciato con la
riga, lontano, lontano lungo un mare azzurro il cui scintillio era offuscato da una foschia
strisciante. Il sole era implacabile, la terra sembrava rorida e luccicante per il vapore. Qua
e là affioravano delle macchie di un grigio biancastro raggruppate dentro la bianca risacca,
con a volte una bandiera inastata: insediamenti vecchi di qualche secolo, e non più grandi
di capocchie di spillo sull'intatta distesa di quell'immenso entroterra. Ci trascinavamo
lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo funzionari di
dogana venuti a riscuotere le gabelle su quella che sembrava una landa selvaggia,
dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un'asta per la bandiera sperdute là dentro.
Sbarcavamo altri soldati che, apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di
loro, a quanto ho sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno
sembrava preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva. La costa era ogni
giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma toccammo diversi luoghi - luoghi
commerciali - i cui nomi, come Gran Bassam o Piccolo Popo, sembravano appartenere a
qualche sordida farsa recitata davanti a un sinistro scenario. La mia inoperosità di
passeggero, l'isolamento in mezzo a tutti quegli uomini con cui non avevo niente in
comune, il mare languido e oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi
lontano dalla realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce
della risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una parola
fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un significato. Di tanto in tanto
una barca che si staccava dalla costa creava un momentaneo contatto con la realtà. Era
portata da rematori neri. Di lontano si vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano,
cantavano; i loro corpi grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche,
quegli esseri; ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un'intensa energia di
movimenti, naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano
bisogno di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se mi
sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una sensazione che
durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a scacciarla. Un giorno, mi
ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non si vedeva
neanche una capanna, eppure bombardava la boscaglia. Sembra che i Francesi avessero
una delle loro guerre in corso da quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida
come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte
dello scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per lasciarla
poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e
della terra, stava là, incomprensibile, a far fuoco su un continente. Bum! partiva il colpo di
uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola fiamma saettava e svaniva; una sottile
fumata bianca scompariva subito, un minuscolo proiettile passava fischiando, e non
accadeva nulla. Poteva accadere qualcosa? C'era un tocco di follia in quell'azione,
un'impressione di macabra buffonata nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando
qualcuno a bordo mi assicurò con grande convinzione che c'era un campo di indigeni - lui li
chiamava nemici! - nascosto da qualche parte.«Consegnammo la posta (seppi che su quella
nave solitaria gli uomini morivano di febbri al ritmo di tre al giorno) e ripartimmo.
Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del
commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba
surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa,
quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai
fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite
dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un
eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché
potessi ricavarne un'impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento
diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso
immagini da incubo. «Prima che si vedesse la foce del grande fiume, passarono più di
trenta giorni. Gettammo l'ancora di fronte alla sede del governo. Ma il mio lavoro non
sarebbe cominciato che a quattrocento chilometri da lì; perciò, appena fu possibile,
raggiunsi una località a una cinquantina di chilometri più a monte. «Feci il viaggio su un
piccolo piroscafo. Il capitano, uno svedese, quando venne a sapere che ero un marinaio, mi
invitò sul ponte di comando. Era un giovane magro, biondo e imbronciato, i capelli lisci e
sottili, l'andatura strascicata e irregolare. Mentre ci allontanavamo dalla miserabile
banchina, fece con la testa un cenno di disprezzo in direzione della riva. "È stato lì?",
chiese. Dissi di sì. "Bei tipi quei funzionari del governo, vero?", continuò. Parlava inglese
con molta precisione e grande amarezza. "È sorprendente quello che certa gente è disposta
a fare per pochi franchi al mese. Mi domando cosa succeda a quella genia quando s'inoltra
nell'interno." Gli dissi che mi aspettavo di scoprirlo presto. "Ah-ah!", esclamò. Si spostò di
traverso strascicando i piedi, senza staccare gli occhi dalla rotta. "Non ne sia troppo
sicuro", proseguì, "l'altro giorno ho fatto salire a bordo un uomo che si è impiccato durante
il viaggio. Anche lui era svedese." "Impiccato!", esclamai, "ma perché in nome di Dio?" Non
distolse il suo sguardo vigile. "Chi lo sa! Non ha retto al sole o al paese, forse." «Alla fine il
fiume si allargò. Apparvero un picco roccioso, dei monticelli di terra rivoltata presso la
riva, delle case su una collina, altre col tetto di lamiera tra mucchi di terra di scavo, o
abbarbicate sul pendio. Il rumore incessante delle rapide più a monte, planava sopra quel
paesaggio di devastazione abitata. Degli uomini, generalmente neri e nudi, andavano e
venivano come formiche. Un piccolo molo avanzava nel fiume. E un sole accecante
annegava talvolta l'insieme in una improvvisa recrudescenza di luce. "Ecco la stazione della
sua Compagnia", disse lo svedese indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme,
sulla salita scoscesa. "Le faccio portare su la sua roba. Quattro colli, ha detto? Benissimo.
Arrivederci." «Mi imbattei in una caldaia che sguazzava nell'erba, poi trovai un sentiero
che portava alla collina. Non procedeva in linea retta perché era ostruito da massi di pietra
e anche da un vagoncino che giaceva capovolto con le ruote all'aria. Ne mancava una. La
carcassa di un animale avrebbe dato la stessa impressione di morte. Mi imbattei in altri
pezzi di macchine deteriorate e in una catasta di rotaie arrugginite. Alla mia sinistra un
gruppo d'alberi gettava una macchia d'ombra in cui delle cose oscure sembravano
muoversi debolmente. Battei le palpebre: il sentiero era ripido. Un corno risuonò alla mia
destra e vidi i neri correre. Una detonazione violenta e sorda scosse il suolo, uno sbuffo di
fumo uscì dalla rupe, e fu tutto. Non apparve alcun cambiamento sulla parete della roccia.
Stavano costruendo una ferrovia. La rupe non intralciava affatto; ma tutto il lavoro in corso
consisteva in quel brillamento di mine senza scopo. «Un lieve tintinnio dietro di me mi
fece volgere il capo. Sei neri in fila si inerpicavano su per il sentiero. Camminavano rigidi e
lenti, tenendo in equilibrio sulla testa delle ceste piene di terra, e il tintinnio segnava il
tempo dei loro passi. Sui loro fianchi erano annodati degli stracci neri, le cui corte
estremità si agitavano dietro la schiena come delle code. Le loro costole si distinguevano
una a una, le giunture delle loro membra sembravano i nodi di una corda; ciascuno aveva
un collare di ferro intorno al collo e tutti erano legati a una catena i cui anelli, dondolando
assieme, tintinnavano ritmicamente. Una nuova esplosione nella rupe mi richiamò
improvvisamente alla memoria quella nave da guerra che avevo visto far fuoco su un
continente. Era la stessa voce sinistra, ma neanche con uno sforzo di immaginazione questi
uomini si potevano chiamare nemici. Qui li chiamavano criminali, e la legge oltraggiata,
come le cannonate, si era abbattuta su di loro, un mistero insolubile, venuto dal mare. I
magri petti ansimanti, le narici frementi, violentemente dilatate, gli occhi pietrificati, fissi
sulla collina, mi passarono accanto, quasi sfiorandomi, senza uno sguardo, con quella
totale, mortale indifferenza dei selvaggi infelici. Dietro quella materia prima, uno dei
redenti, il prodotto delle nuove forze all'opera, veniva avanti ciondolando con aria
smarrita, tenendo una carabina per la canna. Aveva indosso una giubba d'uniforme senza
un bottone. Scorgendo un bianco sul sentiero, issò l'arma alla spalla con grande alacrità.
Un'elementare misura di precauzione, perché da lontano non poteva riconoscermi, visto
che i bianchi si assomigliano tutti. Si sentì presto rassicurato e con un'ampia smorfia da
furfante, che gli scoprì i denti bianchi, strizzò l'occhio verso il suo gregge, come per
associarmi all'alta missione che compiva. Dopo tutto, anch'io facevo parte della grande
causa da cui derivavano queste nobili e giuste misure. «Invece di continuare a salire, girai a
sinistra e incominciai a scendere. Volevo lasciare il tempo a quella squadra incatenata di
sparire dalla mia vista prima di riprendere la salita. Sapete che non sono particolarmente
tenero; ho dovuto dare e parare molti colpi; difendermi e qualche volta attaccare - anche
questo è un modo di difendersi - senza valutarne esattamente il costo, secondo le esigenze
del genere di vita in cui mi ero andato a cacciare. Ho visto il demone della violenza e il
demone della cupidigia, e quello della passione; ma, numi del cielo!, questi erano demoni
in carne e ossa, forti e robusti, gli occhi iniettati di sangue, che trascinavano e dominavano
degli uomini..., degli uomini, capite. In piedi sul fianco di quella collina, ebbi il
presentimento che sotto il sole accecante di quel paese, avrei imparato a conoscere il
demone flaccido, finto, dalla vista corta, di una follia rapace e spietata. E anche quanto
potesse essereinsidioso, dovevo scoprirlo solo molti mesi più tardi e a qualche migliaio di
chilometri da lì. Rimasi sgomento per un attimo, come da una premonizione. Infine discesi
la collina, trasversalmente, verso gli alberi che avevo visto. «Evitai una vasta fossa
artificiale che era stata scavata nel pendio, a quale scopo mi fu impossibile indovinare. Non
era sicuramente una cava, né di pietra né di sabbia. Era soltanto una fossa. Forse aveva
qualche nesso col desiderio filantropico di dare qualcosa da fare ai criminali. Chissà. Poi
stavo quasi per cadere in una forra, poco più di una ferita sul fianco della collina. Scoprii
che un mucchio di tubi di scolo, importati a uso della colonia, erano stati fatti ruzzolare là
dentro. Non ce n'era uno che non fosse rotto. Puro vandalismo. Finalmente arrivai sotto gli
alberi. La mia intenzione era di gironzolare all'ombra per un po', ma non appena fui lì
dentro mi parve di essere entrato in un girone dell'Inferno. Le rapide erano vicine, e un
fragore ininterrotto, uniforme, irruente, precipitoso, riempiva la lugubre quiete di quel
boschetto - dove non un soffio di vento alitava, non una foglia si muoveva - di un suono
misterioso, come se il movimento vorticoso della terra nello spazio vi fosse subitamente
divenuto percettibile. «Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli
alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste
entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell'abbandono e della disperazione.
Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei
piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si
erano ritirati a morire. «Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non
erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere
ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati
dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in
un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano
inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde
erano libere come l'aria e altrettanto leggere. Incominciai a distinguere il bagliore degli
occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una faccia vicino alla mia mano. La
nera ossatura era distesa in tutta la sua lunghezza, la spalla contro l'albero. Con lentezza, le
palpebre si sollevarono; gli occhi incavati mi guardarono, enormi e vuoti; nella profondità
delle orbite ci fu una specie di scintilla bianca, cieca, che si spense lentamente. L'uomo
sembrava giovane, quasi un ragazzo, ma, sapete, con loro non si può mai dire. Non trovai
niente di meglio da fare che dargli una di quelle gallette che avevo in tasca, prese dalla nave
del mio buon svedese. Le dita si richiusero lentamente e la trattennero, senza nessun altro
movimento né un altro sguardo. Si era legato un filo bianco, di lana o di cotone, attorno al
collo. Perché? Dove l'aveva trovato? Era un distintivo, un ornamento, un amuleto, un atto
propiziatorio? C'era connessa una qualche idea? Era sorprendente, attorno al suo collo
nero, quel pezzetto di filo bianco venuto d'oltremare. «Presso lo stesso albero altri due
fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il
mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo
fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande
spossatezza; e tutt'intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di
prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste. Mentre io restavo
immobile, paralizzato dall'orrore, una di quelle creature si sollevò sulle mani e sulle
ginocchia, e si diresse carponi verso il fiume per bere. Sorbì l'acqua dal cavo della mano,
poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e dopo poco lasciò cadere la testa
lanosa sul petto. «Mi era passata la voglia di passeggiare all'ombra, e ripresi in fretta il
cammino verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un'eleganza così
inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato,
polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e
stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati,
sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente,
e dietro l'orecchio aveva un penna. «Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che
era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione.
Era uscito un momento, disse, "a prendere una boccata d'aria fresca." L'espressione mi
parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un
ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima
volta è uscito il nome di quell'uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel
periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi
ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un
manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo
significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di
carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come
riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia
disse: "Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva
un'avversione per il lavoro." Così quell'uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si
dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare. «Nella stazione tutto il
resto era solo confusione: nelle teste, nelle cose, negli edifici. File di neri impolverati e con i
piedi piatti che arrivavano e ripartivano; un profluvio di manufatti, tessuti di cotone di
scarto, perline e grani di vetro, filo di ottone, spedito nel cuore delle tenebre, da dove, in
cambio, sgorgava un prezioso rivolo d'avorio. «Dovetti aspettare dieci giorni in quella
stazione: un'eternità. Alloggiavo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos,
qualche volta, andavo a rifugiarmi dal contabile. Il suo ufficio era costruito con assi
orizzontali, così sconnesse che, stando chino sul suo alto scrittoio, era zebrato dalla testa ai
piedi da sottili strisce di sole. Non c'era bisogno di aprire la grande imposta per vederci. E
che caldo là dentro! Delle grosse mosche facevano un ronzio infernale e non pungevano:
trafiggevano. Generalmente mi sedevo per terra, mentre lui, appollaiato su un alto
sgabello, impeccabile (e anche leggermente profumato), scriveva e scriveva. Ogni tanto si
alzava per sgranchirsi. Quando portarono lì dentro una branda con un ammalato - un
agente dell'interno che veniva rimpatriato - manifestò,educatamente, una certa
insofferenza. "I gemiti del malato", disse, "potrebbero distrarre la mia attenzione. E senza
attenzione, con questo clima, è già molto difficile evitare gli errori materiali." «Un giorno,
senza alzare il capo, osservò: "Nell'interno incontrerà certamente il signor Kurtz." Siccome
gli chiesi chi era il signor Kurtz disse che era un agente di prima classe e, percependo la
mia delusione alla sua risposta, aggiunse lentamente, posando la penna: "È una persona
veramente notevole." Incalzato da altre domande, aggiunse che il signor Kurtz attualmente
dirigeva un posto commerciale, un posto importantissimo, nel vero paese dell'avorio, "al
limite estremo. Ci manda più avorio lui di tutti gli altri messi insieme..." Ricominciò a
scrivere. Il malato stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una gran
quiete. «All'improvviso si udì un crescente mormorio di voci e un forte scalpitio di piedi.
Era arrivata una carovana. Un violento cicaleccio di suoni rozzi e sconosciuti scoppiò
dall'altra parte delle assi. I portatori parlavano tutti assieme, e in mezzo al clamore si udì la
voce lamentosa dell'agente capo che, per l'ennesima volta nella giornata, dichiarava in tono
piagnucoloso che lui "ci rinunciava, non ce la faceva più"... Il contabile si alzò lentamente.
"Che chiasso spaventoso", esclamò. Attraversò piano la stanza, diede un'occhiata al malato,
e tornando verso di me, disse: "Lui non sente." "Come! È morto?", chiesi trasalendo. "No,
non ancora", rispose tranquillamente. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel
cortile: "Quando si è tenuti a riportare i numeri in modo corretto, si finisce con odiare
questi selvaggi, odiarli a morte." Rimase un attimo soprappensiero. "Quando vedrà il
signor Kurtz", continuò, "gli dica da parte mia che qui" - lanciò un'occhiata al suo scrittoio
- "va tutto benissimo. Non mi piace scrivergli. Con i messaggeri che abbiamo, non si sa in
che mani potrebbe finire una lettera, in quella Stazione Centrale." Mi fissò per un istante
coi suoi placidi occhi sporgenti. "Oh, andrà lontano, molto lontano", riprese. "In poco
tempo diventerà qualcuno nell'Amministrazione. Loro, quelli del Consiglio lassù, in
Europa, capisce, hanno questo in mente." «Si rimise al lavoro. All'esterno, il rumore era
cessato. Prima di varcare la soglia per uscire, mi fermai. Nell'incessante ronzio delle
mosche, l'agente malato in attesa del rimpatrio giaceva inerte e congestionato; l'altro,
chino sui suoi libri, riportava correttamente le voci relative a transazioni perfettamente
corrette; e a una quindicina di metri più in basso del gradino della porta si ergevano
immobili le cime del boschetto della morte. «Il giorno seguente, lasciai finalmente la
stazione, con una carovana di sessanta uomini, per una marcia di trecento chilometri.
«Inutile che vi racconti tutti i dettagli. Piste, piste dappertutto; una rete di piste battute che
si stendeva su un paese vuoto, attraverso l'erba alta, l'erba bruciata, i rovi, su e giù per
fredde gole, giù e su per petrose colline arroventate; e solitudine, solitudine: nessuno,
neanche una capanna. La popolazione se n'era andata da tanto tempo. Che volete, se una
banda di neri misteriosi, muniti di ogni specie di armi spaventose, si mettesse tutt'a un
tratto a percorrere la strada che da Deal porta a Gravesend, acciuffando i contadini a destra
e a manca per caricarli di pesi enormi, credo che le fattorie e le cascine di quei paraggi si
vuoterebbero tutte in un baleno. Solo che laggiù erano sparite anche le case. Però
attraversai anche dei villaggi abbandonati. C'è qualcosa di pateticamente infantile nei muri
d'erba in rovina. Giorno dopo giorno, con dietro il calpestio e lo strascicamento di sessanta
paia di piedi nudi, ciascun paio sotto un peso di una trentina di chili. Accamparsi, cucinare,
dormire, levare il campo, marciare. Ogni tanto un portatore morto sotto il peso, steso tra
l'erba alta presso la pista, con accanto la sua zucca per l'acqua, vuota, e il suo lungo
bastone. Un gran silenzio attorno e sopra di noi; tutt'al più, in certe notti tranquille, il
tremolio di tamburi lontani, un tremolio fievole e vasto, che s'attutiva e si gonfiava; un
suono misterioso, supplichevole, suggestivo, e selvaggio, il cui significato forse era
altrettanto profondo del suono delle campane in terra cristiana. Un giorno, un bianco,
l'uniforme sbottonata, accampato sulla pista, con una scorta armata di allampanati
zanzibaresi, molto ospitale e allegro, per non dire ubriaco. Badava alla manutenzione della
strada, dichiarò. Non posso dire di aver visto né strada né manutenzione, a meno di non
dover considerare una perenne miglioria il corpo di un nero di mezza età, con un foro di
pallottola in fronte, nel quale sono letteralmente inciampato a un cinque chilometri da lì.
Avevo anche un compagno bianco, non un cattivo soggetto, ma troppo in carne, e con
l'esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati, a chilometri di distanza dalla
minima traccia d'ombra e di acqua. Snervante, credetemi, tenere la propria giacca a mo' di
parasole sopra la testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei trattenermi dal
chiedergli, una volta, cosa fosse venuto a fare in quel paese. "Che domanda! A far soldi",
rispose un po' sdegnato. Poi si ammalò e bisognò portarlo dentro a un'amaca sospesa a un
palo. Siccome pesava più di un quintale, fu una brutta gatta da pelare con i portatori. Si
tiravano indietro, prendevano il largo, scappavano di notte furtivamente col loro carico: un
vero ammutinamento. Allora una sera tenni un discorso in inglese, accompagnandomi con
gesti di cui neanche uno sfuggì alle sessanta paia d'occhi che mi stavano di fronte; il
mattino seguente feci partire l'amaca in testa, in perfetta regola. Un'ora dopo trovai che
tutto era naufragato dentro a un cespuglio: l'uomo, l'amaca, i gemiti, le coperte, l'orrore. Il
pesante palo aveva scorticato il suo povero naso e lui voleva a tutti i costi che io
ammazzassi qualcuno, ma non c'era neanche l'ombra di un portatore nelle vicinanze. Mi
ricordai del vecchio dottore: "Per la scienza sarebbe di grande interesse osservare sul posto
le modificazioni mentali degli individui." Sentii che cominciavo a diventare
scientificamente interessante. Comunque tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo
giorno mi ritrovai in vista del grande fiume ed entrai, zoppicando, nella Stazione Centrale.
Si trovava in una insenatura d'acqua stagnante, circondata dalla sterpaglia e dalla foresta,
con un bel margine di fango puzzolente da un lato, e recinta sugli altri tre da una cadente
staccionata di giunchi. Un varco informe era l'unica via d'accesso, e bastava un'occhiata per
capire che lì il demone flaccido regnava sovrano. Degli uomini bianchi, con dei lunghi
bastoni in mano, fecero una languida apparizione fra gli edifici, si avvicinarono,
ciondolanti, per guardarmi, e poi scomparvero non so dove. Uno di loro, un tipo robusto e
frenetico, con i baffi neri, appena saputo chi ero, mi informò con abbondanza di particolari
e molte digressioni che il mio battello giaceva in fondo al fiume. Rimasi fulminato.
Cos'erasuccesso, come, perché? Oh, "niente di grave". Il "direttore in persona" aveva
assistito. Si era svolto tutto regolarmente. "E tutti si erano comportati magnificamente,
magnificamente!" "Lei deve andare subito", proseguì agitatissimo, "dal direttore generale.
La sta aspettando." «Non afferrai subito il significato di quel naufragio. Credo di capirlo
adesso, ma non ne sono affatto sicuro. Quel che è certo è che la storia era troppo stupida, a
pensarci bene, per essere del tutto naturale. Ma d'altra parte... comunque sia, in quel
momento mi si presentò semplicemente come una maledetta seccatura. Il battello era
affondato. Erano partiti due giorni prima, presi da una fretta improvvisa, per risalire il
fiume, con il direttore a bordo e la guida improvvisata di un capitano che si era offerto
volontario. Non erano ancora trascorse tre ore che già avevano lacerato lo scafo sulle rocce
ed erano andati ad affondare presso la riva sud. Mi chiesi cosa ci restavo a fare là, adesso
che la mia barca era perduta. In effetti, ebbi molto da fare per ripescare dal fiume la mia
posizione di comandante. Dovetti mettermici subito, dal giorno successivo.
Quell'operazione e le riparazioni, una volta portati i pezzi alla stazione, mi presero alcuni
mesi. «Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi
trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia. Era un uomo ordinario
nell'aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione
normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e
certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un'accetta.
Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l'intenzione.
Altrimenti c'era solo un'indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di
furtivo - un sorriso? no, non un sorriso - me lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era inconscio,
quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento.
Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere
enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in
quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né
amore né paura, nemmeno rispetto. Suscitava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza
vera e propria - solo disagio - niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale... tale...
facoltà possa essere. Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per
l'organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo
stato deplorevole in cui giaceva la stazione. Non aveva cultura, né intelligenza. Occupava
quella posizione... perché? Forse perché non si era mai ammalato... Erano già tre periodi di
tre anni che era in servizio laggiù... Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una
salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su
grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra..., con qualche differenza solo apparente. Lo
si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione. Da lui non nasceva nulla,
sapeva far andare avanti l'ordinaria amministrazione, tutto qui. Però era grande. Era
grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su
quell'uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c'era niente dentro di lui. Ma un tal
sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando
quasi tutti gli 'agenti' della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si
intese dire: "Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri." Sigillò la
dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui
lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo.
Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza
durante l'ora dei pasti, un giorno fece costruire un'immensa tavola rotonda, per la quale fu
fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui,
era il posto d'onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente
convinto. Non era né cortese né scortese. Stava zitto. Permetteva che il suo 'servitore', un
giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con
provocante arroganza. «Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto
ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me.
Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C'erano stati già così tanti rinvii che non
sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc. Non prestò alcuna
attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie
volte che la situazione era "molto grave, gravissima". Correvano voci che
un'importantissima stazione fosse in pericolo, e chi ne aveva il comando, il signor Kurtz,
fosse ammalato. Sperava che non fosse vero. Il signor Kurtz era... Mi sentivo stanco e
irritabile. Kurtz... che vada al diavolo!, pensai. Lo interruppi per dire che avevo sentito
parlare del signor Kurtz sulla costa. "Ah! Così parlano di lui laggiù", mormorò fra sé. Poi
ricominciò per dirmi che il signor Kurtz era il suo miglior agente, un uomo eccezionale,
della massima importanza per la Compagnia; potevo quindi capire la sua ansia. Era, disse,
"molto, molto inquieto". Di fatti continuava ad agitarsi sulla sedia e all'improvviso, mentre
esclamava "Ah, il signor Kurtz!", il bastoncino di ceralacca gli si spezzò in mano e lui
ammutolì stupito. Dopo di che volle sapere "quanto tempo avrei impiegato per..." Lo
interruppi di nuovo. Con la fame che avevo, capite, costretto anche a stare in piedi, stavo
diventando rabbioso. "Come faccio a saperlo?", dissi. "Non ho ancora visto il relitto;
qualche mese, senza dubbio." Tutte quelle chiacchiere mi sembravano talmente inutili.
"Qualche mese", ripeté. "Beh, diciamo tre mesi, prima che sia possibile ripartire. Sì.
Dovrebbero bastare per la faccenda." Mi precipitai fuori dalla capanna (viveva da solo in
una capanna d'argilla con una specie di veranda) borbottando fra i denti l'opinione che mi
ero fatta di lui. Era un idiota d'un chiacchierone. In seguito dovetti ricredermi, quando fui
colpito dall'estrema precisione con cui aveva valutato il tempo necessario per quella
'faccenda'. «Il giorno dopo mi misi al lavoro, voltando, per così dire, le spalle alla stazione.
Solo in quel modo, mi sembrava, potevo mantenere un contatto con le realtà redentrici
della vita. Di tanto in tanto, però, bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione
con quegli uomini che girovagavano senza meta nel sole del cortile. E qualche volta mi
chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano i loro assurdi
lunghi bastoni, come ungruppo di pellegrini senza fede, stregati dentro un recinto
putrescente. La parola 'avorio' risuonava nell'aria, sussurrata, sospirata. Si sarebbe detto
che le rivolgessero delle preghiere. Aleggiava lì sopra un odore infetto di rapacità imbecille,
come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho mai visto niente di tanto irreale nella mia
vita. E intorno, la silenziosa landa selvaggia che circondava quel pezzetto diboscato di
terra, mi colpiva come qualcosa di grande e d'invincibile, come il male o la verità, in
paziente attesa della fine di quella fantastica invasione. «Ah, quei mesi! Ma lasciamo
perdere. Accaddero varie cose. Una sera una capanna d'erba, piena di calicò, di cotoni
stampati, di conterie e non so cos'altro, prese fuoco così improvvisamente da far pensare
che un fuoco vendicatore fosse sgorgato dalla terra aperta per distruggere tutta quella
paccottiglia. Io fumavo tranquillamente la pipa vicino al mio battello in disarmo, e li
vedevo da lontano far le capriole fra i bagliori, con le braccia in aria, quando, a rotta di
collo, arrivò al fiume l'uomo robusto dai baffi neri, con un secchio di latta in mano. Dopo
avermi assicurato che "tutti si comportavano magnificamente, magnificamente", attinse un
paio di litri d'acqua e ripartì correndo. Notai che nel fondo del secchio c'era un buco.
«Andai lì con calma. Non c'era fretta, capite: quella cosa aveva preso fuoco come una
scatola di fiammiferi. Fin dal primo momento non c'era stato niente da fare. La fiamma era
balzata altissima, respingendo tutti, illuminando tutto, e poi si era abbassata. La capanna
non era che un ammasso di braci ardenti. Non lontano da lì, stavano bastonando un nero.
Dicevano che in un modo o nell'altro, era stato lui a provocare l'incendio; fosse vero o no,
urlava come un ossesso. Poi, per parecchi giorni, lo vidi seduto in un angolo all'ombra, con
un'aria molto sofferente, mentre stava cercando di riprendersi; finalmente si alzò e se ne
andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo riprese in grembo. «Mentre mi avvicinavo al
bagliore provenendo dall'oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano
discorrendo. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, "approfittare di questo
incidente disgraziato". Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. "Ha mai visto
una cosa simile, eh? È incredibile", disse e si allontanò. L'altro rimase. Era un agente di
prima classe, giovane, distinto, un po' riservato, con una barbetta a due punte e il naso
adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del
direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a
conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella
sua stanza, che era nell'edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che
quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura
d'argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il
direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi
era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli. L'incarico
affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non
c'era traccia di
mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A
quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della
paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la
spedissero dall'Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Un atto di creazione
spontanea, forse. Comunque tutti, tutti quei sedici o venti pellegrini che erano, stavano
aspettando qualcosa e, parola mia, non sembrava un'occupazione che non gli andasse a
genio, dal modo in cui la prendevano. Però, a quanto mi fu dato di vedere, la malattia fu
l'unica cosa che mai gli sia arrivata. Ammazzavano il tempo sparlando e tramando gli uni
contro gli altri nella maniera più insensata. Sulla stazione soffiava un'aria di complotto, che
naturalmente non approdava a niente. Era irreale come tutto il resto: il pretesto
filantropico dell'impresa, i loro discorsi, la loro amministrazione, l'esibizione del lavoro.
L'unico sentimento autentico era il desiderio di venire assegnati a un centro in cui passasse
l'avorio, per poter guadagnare delle buone percentuali. È solo per questo che
complottavano, si calunniavano e si odiavano, ma quanto ad alzare effettivamente un dito,
ah, no. Sant'Iddio! Non è poi così irragionevole che a un uomo il mondo lasci rubare un
cavallo, mentre a un altro non permetta neanche di guardare la cavezza. Rubare un cavallo
con decisione. Benissimo. L'ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c'è un modo di
guardare la cavezza che farebbe menar le mani anche a un santo. «Non mi sapevo spiegare
la sua improvvisa socievolezza ma, mentre chiacchieravamo là dentro, mi resi conto tutt'a
un tratto che quel tale stava mirando a qualche cosa, cercava, infatti, di farmi parlare.
Faceva continue allusioni all'Europa, alle persone che si immaginava io conoscessi lì,
ponendomi delle domande tendenziose sulle mie relazioni nella città sepolcrale e così di
seguito. I suoi occhietti brillavano di curiosità come dischi di mica, benché cercasse di
mantenere un'apparenza di distaccata alterigia. In principio ero stupefatto, ma presto
divenni curiosissimo di scoprire cosa volesse tirarmi fuori. Non riuscivo proprio a
immaginare che cosa ci potesse essere in me da meritare tutta quella fatica. Era un piacere
vedere quanto si ingannasse, perché in realtà in corpo non avevo che brividi e in testa
nient'altro se non quella disgraziatissima storia del battello. Era evidente che mi
considerava uno spudorato mistificatore. Alla fine perse la pazienza e per nascondere un
moto di esasperazione furiosa, sbadigliò. Mi alzai. Notai allora un piccolo schizzo a olio, su
tavola, che rappresentava una donna con la veste drappeggiata, gli occhi bendati, e una
fiaccola accesa in mano. Lo sfondo era tetro, quasi nero. Il movimento della donna era
statuario e l'effetto della fiaccola, sul viso, era sinistro. «Mi ero fermato davanti al quadro e
lui era rimasto vicino a me, educatamente, reggendo una mezza bottiglia di champagne
vuota (forse un ricostituente), con la candela incastrata dentro. Alla mia domanda rispose
che era stato il signor Kurtz a dipingerlo - proprio in quella stazione, più di un anno prima
- mentre aspettava il mezzo per raggiungere il suo posto commerciale. "Se non le dispiace",
chiesi, "mi può dire chi è questo signor Kurtz?" «"Il capo della Stazione Interna", rispose
secco, con lo sguardo altrove. "Grazie tante", dissi ridendo. "E lei è il mattonaio della
Stazione Centrale. Questo lo sanno tutti." Stette zitto per un po'. "È un prodigio", disse alla
fine. "È l'emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di quante altre
cose." E improvvisamente incominciò adeclamare: "Per dirigere a buon fine la causa che ci
è stata affidata, per così dire, dall'Europa, noi abbiamo bisogno di intelligenze superiori, di
vaste simpatie, di unità di intenti." "Chi è che lo dice?" chiesi. "Sono in molti a dirlo",
rispose. "Ci sono anche quelli che lo scrivono; ed ecco che arriva lui, un essere eccezionale,
come lei dovrebbe sapere." "Perché lo dovrei sapere?", intervenni sorpresissimo, ma non
mi badò. "Sì. Oggi è a capo della stazione più importante, il prossimo anno sarà
vicedirettore, fra due anni sarà... ma immagino che lei sappia cosa sarà fra due anni. Non
fa parte anche lei della nuova congrega, la congrega della virtù? Le persone che l'hanno
mandato qui in missione speciale, sono le stesse che hanno raccomandato lei. Oh, non dica
di no. Io mi fido dei miei occhi." Finalmente avevo capito: le conoscenze influenti della mia
cara zia stavano sortendo un effetto inaspettato su quel giovanotto. Per poco non scoppiai a
ridere. "Lei legge la corrispondenza riservata della Compagnia?", chiesi. Non aprì bocca.
Era proprio buffo. "Quando il signor Kurtz sarà Direttore Generale", continuai in tono
severo, "lei non potrà più permetterselo." «Spense improvvisamente la candela, e
uscimmo. Era sorta la luna. Delle ombre nere si aggiravano apatiche, versando l'acqua
sulle braci da cui proveniva un suono sibilante. Il vapore saliva nel chiaro di luna, il nero
picchiato gemeva da qualche parte. "Che baccano fa quell'animale!", disse l'infaticabile
uomo con i baffi comparendo tutt'a un tratto. "Gli sta bene. Trasgressione: punizione...
Bang! Senza pietà, senza pietà. È l'unico modo, e questo impedirà ogni incendio in futuro.
Stavo appunto dicendo al direttore..." Riconoscendo il mio compagno, abbassò
immediatamente la cresta. "Non ancora a letto", disse con una specie di servile cordialità.
"È naturale d'altronde... il pericolo, l'agitazione." Si eclissò. Proseguii in direzione del
fiume con l'altro dietro. Gli udii mormorare con disprezzo: "Massa di idioti, andate
all'inferno." Si vedevano qua e là gruppi di pellegrini che gesticolavano, discutevano,
parecchi con il bastone ancora in mano. Credo proprio che se lo portassero a letto,
quell'arnese. Oltre la staccionata la foresta si ergeva spettrale al chiaro di luna, e attraverso
il fermento indistinto, attraverso i flebili suoni di quel cortile tristo, il silenzio della terra si
faceva strada fin dentro al cuore, col suo mistero, la sua grandezza, la sorprendente realtà
della sua vita nascosta. Il nero bastonato si lamentava debolmente da qualche parte vicino
a noi, e poi trasse un sospiro profondo che mi fece affrettare il passo per allontanarmi da lì.
Sentii una mano infilarsi sotto al braccio. "Mio caro signore", disse, "non voglio essere
frainteso, e tanto meno da lei, che incontrerà il signor Kurtz molto prima che io abbia
questo piacere. Non vorrei che si facesse un'idea sbagliata delle mie intenzioni..." «Lasciai
che proseguisse, quel Mefistofele di cartapesta. Mi sembrava che se ci avessi provato, sarei
riuscito a passarlo da parte a parte con un dito e che dentro non avrei trovato niente, forse
solo un po' di sporcizia sparsa. Quel tale, vedete, aveva progettato di diventare di lì a poco
il vice dell'attuale direttore, ed era chiaro che la venuta di quel Kurtz aveva disturbato non
poco i piani di entrambi. Parlava con precipitazione e non cercai di fermarlo. Tenevo le
spalle appoggiate al relitto del mio battello, issato a riva sul pendio della sponda come la
carcassa di un grosso animale fluviale. L'odore del fango, del fango primordiale, per Giove,
riempiva le mie narici; la vasta immobilità della foresta vergine era davanti ai miei occhi;
c'erano macchie luccicanti sull'acqua nera dell'insenatura. La luna aveva steso su ogni cosa
un sottile strato d'argento: sull'erba folta, sul fango, sulla muraglia di vegetazione intricata
che si ergeva più alta delle mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia
scura, vedevo scintillare, scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un
mormorio. Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell'uomo si diffondeva in
chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul volto dell'immensità che ci
guardava fosse una supplica o una minaccia. Che cos'eravamo noi che eravamo andati a
sperderci laggiù? Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei? Sentivo
la grandezza, la smisurata grandezza di quella cosa che non poteva parlare, e forse
nemmeno udire. Che cosa conteneva? Vedevo uscirne un po' di avorio, e avevo sentito dire
che lì dentro c'era il signor Kurtz. Dio sa se me l'ero sentito dire! Eppure non riuscivo a
immaginarmelo, non più che se mi avessero detto che lì dentro c'era un angelo o un
demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta
ho conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci fossero
degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si comportassero, diventava
elusivo e mormorava qualcosa tipo "camminano a quattro zampe". Ma se si osava anche
solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse un uomo di sessant'anni, di fare a pugni.
Non sarei arrivato al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino
alla menzogna. Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io sia
più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c'è un odore di morte, di
corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di
dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se avessi in bocca qualcosa di marcio.
Questione di temperamento, credo. Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel
giovane imbecille quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa. In
un attimo divenni anch'io parte della finzione, come il resto dei pellegrini stregati. Lo feci
semplicemente perché avevo la vaga sensazione che in questo modo sarei stato d'aiuto a
quel Kurtz, che pure non riuscivo a figurarmi, capite. Era solo una parola per me. Non
vedevo l'uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi. Voi lo vedete? E la
storia la vedete? Vedete qualcosa? È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non
ci riuscissi, perché non c'è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del
sogno, quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un'affannata
ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell'incredibile che è l'essenza stessa dei
sogni...» Restò un attimo in silenzio. «... No, è impossibile. È impossibile comunicare la
sensazione della vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua
verità, il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come
sognamo: soli.» Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse: «Naturalmente voi, in
questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che voi conoscete...»Si
era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a vederci l'un l'altro, e già
da tempo, lui, che era seduto un po' in disparte, non era che una voce per noi. Nessuno
parlò. Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e stavo ad ascoltare,
ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la parola che mi desse la chiave del
lieve disagio suscitato da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza labbra
umane, nell'aria greve della notte sul fiume. «... Sì, ho lasciato che si sfogasse,» ricominciò
Marlow, «e che pensasse quello che voleva dei poteri che c'erano dietro di me. Sì. E dietro
di me non c'era niente. Niente se non quel miserabile, vecchio vapore sventrato contro cui
mi appoggiavo, mentre lui parlava enfaticamente della "necessità che ogni uomo ha di farsi
strada". "E quando uno viene qui, non viene per guardare la luna, le pare?" Il signor Kurtz
era un "genio universale", ma anche un genio lavora meglio con "strumenti adeguati: degli
uomini intelligenti". Lui non fabbricava i mattoni - perché gli era materialmente
impossibile - come io sicuramente dovevo sapere; e se faceva da segretario al direttore, era
perché "nessun uomo di buon senso rifiuta senza motivo la confidenza e la fiducia dei suoi
superiori". Lo capivo? Sì lo capivo. Che cosa volevo di più? Buon Dio, quello che volevo io,
erano dei ribattini. Sì ribattini. Per continuare il lavoro, per tappare la falla, mi servivano i
ribattini. Ce n'erano casse intere là sulla costa: casse accatastate, traboccanti, sfasciate! A
ogni passo, nel cortile di quella stazione sul fianco della collina, si inciampava su un
ribattino smarrito. Dei ribattini erano rotolati persino nel boschetto della morte. Per
riempirsi le tasche di ribattini, bastava far la fatica di chinarsi, mentre là dove ce n'era
bisogno, non se ne trovava nemmeno uno. C'erano le lamiere che ci servivano, ma niente
con cui fissarle. E ogni settimana, il messaggero della nostra stazione, un nero solitario,
sacco postale in spalla e bastone in mano, partiva per la costa. E parecchie volte alla
settimana, dalla costa arrivava una carovana con la sua mercanzia: dello spaventoso calicò
lucido che dava i brividi solo a guardarlo, delle perline di vetro da una lira al chilo, degli
orribili fazzoletti di cotone a pallini. Ma ribattini mai. Sarebbero bastati tre portatori per
trasportare tutto quello che serviva per rimettere in acqua il battello. «Ormai aveva
assunto un tono confidenziale, ma penso che la mia indifferenza lo avesse infine
esasperato, perché ritenne necessario informarmi che non temeva né Dio né il diavolo, e
tanto meno un semplice mortale, chiunque fosse. Gli dissi che non ne dubitavo, ma quel
che desideravo io era una certa quantità di ribattini, che erano proprio quello che avrebbe
desiderato anche il signor Kurtz, se solo l'avesse saputo. Poiché ogni settimana partivano
delle lettere per la costa... "Mio caro signore," esclamò, "io scrivo solo quello che mi si
detta!" Io insistevo. Un uomo intelligente trova sempre il modo... Cambiò atteggiamento:
divenne freddissimo e si mise improvvisamente a parlare di un ippopotamo. Si domandava
se dormendo a bordo del battello (io restavo incollato alla mia ancora di salvezza giorno e
notte) non venissi disturbato. C'era un vecchio ippopotamo che aveva la cattiva abitudine
di uscire dal fiume sulla riva e di girovagare la notte nei paraggi della stazione. I pellegrini
allora facevano una sortita in massa e gli scaricavano addosso tutte le carabine che erano
riusciti a scovare. Ce n'erano di quelli che stavano su la notte, per aspettarlo. Tutta fatica
sprecata, però: "Quella bestia è stregata, un incantesimo l'ha resa invulnerabile," disse,
"ma questo vale solo per le bestie, perché nessun uomo - mi capisce? - nessun uomo in
questo paese è invulnerabile". Restò lì un momento davanti a me, al chiaro di luna, col suo
delicato naso aquilino un po' storto, gli occhi di mica scintillanti senza un battito di
palpebre; poi, con un asciutto "Buona notte" si allontanò speditamente. Vedevo che era
turbato e molto sconcertato, il che mi rese fiducioso come da giorni non mi sentivo. Fu un
grande sollievo passare da quel tizio alla mia amica influente, la mia bagnarola a vapore,
tutta sfasciata, piegata, a pezzi. Mi arrampicai a bordo. Risuonava sotto i miei passi come
una scatola di latta di biscotti Huntley & Palmer vuota, presa a calci in un rigagnolo. Era,
anzi, molto meno solida di costituzione, e di forma meno elegante, ma le avevo prodigato
una quantità di duro lavoro sufficiente per farmela amare. Non c'era amicizia influente che
mi fosse più utile di lei. Mi aveva dato la possibilità di mettermi un po' alla prova, di
scoprire quello che sapevo fare. No, non è che io ami il lavoro. Preferisco stare senza far
niente a pensare a tutte le belle cose che si potrebbero fare. Non mi piace lavorare, a
nessuno piace, ma mi piace ciò che c'è nel lavoro: la possibilità di scoprire se stessi, la
propria realtà, valida per noi, non per gli altri, quello che nessun altro potrà mai sapere. Gli
altri possono vedere solo l'apparenza, senza mai poter dire che cosa significhi veramente.
«Non fui sorpreso di trovare qualcuno seduto a poppa, sul ponte, con le gambe penzoloni
sopra il fango. Vedete, io me la intendevo piuttosto bene con i pochi operai che c'erano in
quella stazione, e che naturalmente gli altri pellegrini disprezzavano, per via delle loro
maniere poco raffinate, suppongo. Quello era il caposquadra, calderaio di professione, gran
lavoratore. Era uno spilungone tutto ossa, con la carnagione gialla e grandi occhi
espressivi. Aveva l'aria angustiata e un cranio calvo come il palmo della mia mano, ma
sembrava che i capelli, cadendo, si fossero aggrappati al mento e che nel nuovo terreno
avessero prosperato, perché la barba gli scendeva fin quasi alla vita. Era vedovo, con sei
bambini (che aveva lasciato alle cure di una sorella per venire là), e i piccioni viaggiatori
erano la passione della sua vita. Era un entusiasta e un intenditore: delirava per i piccioni.
Terminato il suo orario di lavoro, qualche volta lasciava la sua capanna per venire a parlare
con me dei suoi bambini e dei suoi piccioni. Quando, al lavoro, doveva strisciare sotto il
fondo del battello dentro al fango, avvolgeva la sua famosa barba in una specie di
canovaccio bianco che si portava dietro a questo scopo. Era munito di due cappi da passare
sopra le orecchie. La sera, lo si vedeva accovacciato sulla riva, intento a sciacquare con
gran cura quel suo involucro nell'acqua dell'insenatura, per stenderlo poi solennemente ad
asciugare su un cespuglio. «Gli diedi una manata sulla schiena e gridai: "Avremo i
ribattini!" Balzò subito in piedi esclamando: "No! I ribattini!", come se non potesse credere
alle proprie orecchie. Poi a bassa voce, "Lei... eh?" Non so perché ci comportammo come
due matti. Col dito davanti al naso, annuii in modo misterioso. "Bravo!", esclamò e fece
schioccare le dita sopra la testa, sollevando un piede. Accennai qualche passo di danza e ci
mettemmo a saltare sul ponte di ferro.Dallo scafo smantellato uscì uno spaventoso rumore
di ferraglia che la foresta vergine, dall'altro lato dell'insenatura, rimandò come un rombo
di tuono sulla stazione addormentata. Dovevamo aver svegliato di soprassalto più di un
pellegrino nel suo tugurio. Una sagoma nera oscurò il vano illuminato della porta della
capanna del direttore, poi scomparve e dopo qualche secondo, scomparve anche il vano
della porta. Avevamo smesso di ballare e il silenzio interrotto dal nostro calpestio rifluì dai
recessi della terra. La grande muraglia di vegetazione, una massa esuberante e
aggrovigliata di tronchi, rami, foglie, fronde e tralci, immobile, alla luce della luna, era
come un'irruzione travolgente di vita silenziosa, una tumultuosa onda vegetale, alta,
crestata, pronta a irrompere nella insenatura, e a spazzar via dalla nostra piccola esistenza,
tutti noi, minuscoli uomini. E non si muoveva. Uno scroscio attutito di spruzzi e sbuffi
possenti ci giunse di lontano, come se un ittiosauro stesse facendo un bagno di gala, di
suoni e luci, nel grande fiume. "In fin dei conti", disse il calderaio, pacatamente, "perché
non dovremmo averli i ribattini?" Eh già, perché no? Non c'era nessuna ragione che ce lo
impedisse. "Arriveranno fra tre settimane", dissi fiducioso. «Ma non arrivarono. Invece dei
ribattini ci fu un'invasione, un castigo, un flagello. Arrivò a scaglioni per tre settimane di
seguito, con in testa a ogni scaglione un asino montato da un bianco vestito a nuovo e con
le scarpe gialle, che da quell'altezza si chinava, a destra e a manca, per salutare i pellegrini
ammirati. Una banda litigiosa di neri immusoniti e coi piedi doloranti tallonava l'asino;
mucchi di tende, di seggiolini da campo, di scatole di latta, di casse bianche, di balle
marrone venivano scaraventate nel cortile, e quell'aria di mistero che aleggiava sul gran
disordine della stazione si infittì ancor di più. Ce ne furono cinque di questi arrivi a
puntate, tutti con la stessa aria grottesca di fuga precipitosa, col bottino di innumerevoli
magazzini e botteghe che, si sarebbe pensato, loro stavano trascinando nella landa
selvaggia, dopo la razzia, per spartirselo equamente. Era un'inestricabile accozzaglia di
cose rispettabili in sé, ma che la follia degli uomini aveva reso simili a prede di ladroni.
«Questa stimabile compagnia si faceva chiamare Spedizione Esplorativa Eldorado, e credo
che i suoi membri fossero legati da un giuramento di segretezza. I loro discorsi, però, erano
quelli di sordidi bucanieri: cinici, senza essere arditi, cupidi senza essere audaci, crudeli,
ma senza coraggio; non c'era un briciolo di lungimiranza o di intenzione seria nell'intera
masnada, e non sembravano nemmeno rendersi conto che queste sono cose necessarie per
operare nel mondo. Strappare i tesori dalle viscere della terra era il loro unico desiderio,
senza scrupoli morali, almeno non più di quanti ne abbiano dei rapinatori a sfondare una
cassaforte. Chi pagasse le spese della nobile impresa, lo ignoro, ma lo zio del nostro
direttore era il capo della banda. «D'aspetto assomigliava a un macellaio di un quartiere
povero, e i suoi occhi avevano uno sguardo di furbizia sopita. Portava con ostentazione una
grossa pancia su delle gambe corte e durante tutto il periodo in cui la sua truppa infestò la
stazione non rivolse la parola a nessuno, se non a suo nipote. Li si vedeva passeggiare dalla
mattina alla sera, le teste ravvicinate, in un inesauribile conciliabolo. «Avevo smesso di
tormentarmi per i ribattini. La nostra capacità di preoccuparci per un tal genere di
sciocchezze è più limitata di quanto si creda. Dissi, al diavolo, e lasciai correre. Avevo tutto
il tempo per meditare e, ogni tanto, rivolgevo uno dei miei pensieri a Kurtz. Non che egli
mi interessasse molto. No. Però ero curioso di vedere se quell'uomo, che era venuto là con
un certo bagaglio di idee morali, sarebbe davvero arrivato in alto e in che modo avrebbe
allora organizzato la sua opera. II «Una sera, mentre me ne stavo lungo disteso sul ponte
del mio battello, sentii avvicinarsi delle voci: erano zio e nipote che venivano passeggiando
lungo il fiume. Misi di nuovo giù la testa sul braccio e, già mezzo assopito, udii qualcuno
dire, quasi dentro al mio orecchio: "Io non faccio del male a una mosca, però non mi
piacciono le imposizioni. Sono o non sono il direttore? Mi hanno ordinato di mandarlo là.
È incredibile..." Mi accorsi che quei due si erano fermati sulla riva, all'altezza della prora
del battello, proprio sotto la mia testa. Non mi mossi. Non mi venne neanche in mente di
muovermi: avevo sonno. "È spiacevole", grugnì lo zio. "È lui che ha chiesto
all'Amministrazione di essere mandato lì", disse l'altro, "per far vedere quello che sa fare e
io ho ricevuto le relative istruzioni. Vedi che razza di ascendente deve avere quell'uomo.
Non è spaventoso?" Ne convennero entrambi, che era spaventoso; dopo di che all'orecchio
mi giunsero delle espressioni bizzarre: "Fare il bello e il cattivo tempo... un uomo solo... il
Consiglio... menare per il naso", frammenti di frasi assurde che ebbero la meglio sul mio
torpore, tant'è vero che ero quasi in pieno possesso delle mie facoltà mentali quando lo zio
disse: "Potrebbe aiutarti il clima a risolvere queste difficoltà. È da solo là?" "Sì", rispose il
direttore, "ha spedito il suo assistente giù per il fiume con un biglietto per me che diceva:
'Allontani subito dal paese questo povero diavolo e non si disturbi a mandarmene altri
dello stesso stampo. Preferisco star solo piuttosto che avere il genere di uomini che lei mi
rifila.' Questo avveniva più di un anno fa. Si può immaginare una maggiore impudenza?"
"E da allora più niente?", chiese l'altro, con la voce roca. "Avorio", scattò il nipote, "a
mucchi e di prima qualità, mucchi di avorio, molto seccante, provenendo da lui." "Dopo di
che?", domandò il greve brontolio. "La fattura", fu la risposta, sparata a bruciapelo, come si
suol dire. Poi silenzio. Era di Kurtz che stavano parlando. «Ormai ero completamente
sveglio, ma rimanevo disteso, immobile nella mia comoda posizione, e non avevo nessuna
intenzione di cambiarla. "Ma come ha fatto tutto quell'avorio ad arrivare fin qua?", ringhiò
il più anziano che sembrava molto irritato. L'altro spiegò che era giunto con una flottiglia
di canoe guidata da un meticcio inglese, un impiegato di Kurtz; che Kurtz stesso aveva
apparentemente progettato di rientrare, la sua stazione era ormai sfornita diprovviste e
mercanzie, ma dopo aver percorso trecento miglia, aveva improvvisamente deciso di
tornare indietro; cosa che aveva fatto, da solo, in una piccola piroga, con quattro vogatori,
lasciando che il meticcio continuasse il viaggio giù per il fiume con l'avorio. I due compari
sembravano sbalorditi che qualcuno avesse tentato una cosa simile; e non riuscivano a
immaginarne il motivo. Quanto a me, mi sembrò di vedere Kurtz per la prima volta. Ne
ebbi una visione fugace ma chiara: la piroga, i quattro selvaggi che remavano, e l'uomo
bianco solitario che volgeva subitaneo le spalle al quartier generale, a ogni forma di aiuto, a
ogni idea di ritorno, chissà!, per dirigersi a viso fermo verso le profondità della selva
selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Forse era
solo un tipo in gamba attaccato al lavoro per amore del lavoro. Il suo nome, notate, non era
mai stato pronunciato, neanche una volta. Era "quell'uomo". Al meticcio che, da quanto
potevo giudicare, aveva condotto quella spedizione difficile con grande prudenza e fegato,
si alludeva invariabilmente come a "quella canaglia". La "canaglia" aveva riferito che
l'"uomo" era stato molto ammalato e che non si era rimesso del tutto... I due sotto di me si
allontanarono di qualche passo, passeggiando avanti e indietro poco distanti. Udii: "Posto
militare... dottore... duecento miglia... completamente solo adesso... ritardi inevitabili...
nove mesi... nessuna notizia... strane voci." Poi si riavvicinarono, proprio mentre il
direttore diceva: "Nessuno, per quanto io sappia, tranne una specie di trafficante
vagabondo, un individuo esiziale, che scippa l'avorio agli indigeni." Di chi è che parlavano
adesso? Mettendo assieme i pezzi capii che si trattava di un uomo che molto probabilmente
stava nella zona di Kurtz, e che non godeva della simpatia del direttore. "Riusciremo a
sbarazzarci della concorrenza sleale solo quando uno di questi individui verrà impiccato,
per dare l'esempio", disse. "Certamente", grugnì l'altro, "fallo impiccare! Perché no? In
questo paese si può fare di tutto, di tutto. Sai cosa ti dico? Qui, capisci, qui, nessuno può
compromettere la tua posizione. E sai perché? Tu sopporti il clima: li seppellirai tutti. Il
pericolo è in Europa, ma lì, prima di partire ho provveduto io a..." Si allontanarono
bisbigliando; poi le loro voci si alzarono di nuovo. "Questa straordinaria serie di ritardi non
è colpa mia. Io ho fatto il possibile." Il grassone sospirò: "Che ci vuoi fare!" "E la
pestilenziale assurdità dei suoi discorsi", continuò l'altro. "Mi ha quasi asfissiato quand'era
qua. 'Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per
commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.' Ti rendi conto... quel
coglione! E vuole diventare direttore! No, è..." A quel punto si soffocò in un accesso di
indignazione e io alzai un pochino la testa. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini,
proprio sotto di me. Avrei potuto sputare sui loro cappelli. Guardavano per terra, assorti
nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con una verga sottile; il suo sagace
parente sollevò la crapa. "Sei stato bene da quando sei tornato qui, questa volta?", chiese.
L'altro trasalì. "Chi? Io? Oh! D'incanto, d'incanto. Ma gli altri, Dio santo! Tutti malati.
Muoiono così in fretta poi, che non faccio neanche a tempo a mandarli via dal paese. È
incredibile!" "Hem. Per l'appunto", grugnì lo zio. "Ah! ragazzo mio, è proprio su questo che
devi contare, ti dico, su questo." Gli vidi stendere un braccetto, corto come una pinna, in
un gesto che abbracciava la foresta, l'insenatura, il fango, il fiume, come se, con una mossa
oltraggiosa alla faccia assolata del paese, rivolgesse un perfido invito alla morte in agguato,
al male nascosto, alla profondità tenebrosa del cuore di quella terra. Era così stupefacente
che balzai in piedi e mi voltai a guardare il ciglio della foresta, quasi mi aspettassi una
qualche risposta a quel diabolico sfoggio di confidenza. Sapete che idee stravaganti ci
vengono talvolta. L'immobilità assoluta, paziente e minacciosa, fronteggiava quelle due
figure in attesa che sparisse la fantastica invasione. «Bestemmiarono tutti e due ad alta
voce, per pura paura, credo, poi fingendo di ignorare che io esistessi, s'incamminarono
verso la stazione. Il sole era basso e, piegati in avanti, fianco a fianco, sembravano
trascinare faticosamente su per la salita le loro ridicole ombre di ineguale lunghezza, che
strisciavano lentamente dietro di loro sull'erba alta senza piegarne un solo filo. «Di lì a
pochi giorni la Spedizione Eldorado si inoltrò nella paziente landa selvaggia, che si richiuse
su di lei come fa il mare sopra uno che si tuffa. Dopo molto tempo arrivò la notizia che
erano morti tutti gli asini. Della sorte degli altri animali meno preziosi non so nulla.
Trovarono, senza dubbio, come tutti noi, ciò che si meritavano. Non indagai. Allora ero
troppo eccitato alla prospettiva che molto presto avrei incontrato Kurtz. Quando dico
molto presto vuol dire per quanto fosse consentito laggiù, cioè in modo relativo. Da
quando lasciammo l'insenatura, passarono giusto due mesi prima che toccassimo terra
sotto la stazione di Kurtz. «Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel
tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi
alberi erano sovrani. Un corso d'acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta
impenetrabile; l'aria calda, spessa, greve, immota. Non c'era gioia nello splendore del sole.
Deserte, le lunghe distese d'acqua si perdevano nell'oscurità di adombrate distanze. Sui
banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco.
Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva
in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle
secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello
che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un'altra vita forse.
C'erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come capita talvolta quando non si
ha un momento da dedicare a se stessi; ma veniva in forma di sogno inquieto e rumoroso,
ricordato con stupore fra le prorompenti realtà di quello strano mondo di piante, di acqua
e di silenzio. E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era
l'immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi
guardava con un'aria vendicativa, piena di risentimento. Alla lunga mi ci abituai: non la
vedevo più. Non ne avevo il tempo. Dovevo continuamente scrutare il fiume per cercare di
indovinare il passaggio; per discernere, più con l'intuito che con la vista, i segni di banchi
nascosti; per spiare le rocce sommerse. Imparai a serrare prontamente i denti per impedire
che il mio cuore balzasse via, quando schivavo, sfiorandolo, qualche infernale vecchio
tronco sornione che avrebbe attentato alla vita della mia bagnarola, sventrandola, facendo
annegare tutti i pellegrini. E dovevo tenered'occhio ogni traccia di albero morto che
avremmo tagliato durante la notte per assicurarci il vapore del giorno dopo. Quando si
deve badare a questo genere di cose, ai meri accidenti di superficie, la realtà - la realtà, vi
dico - impallidisce. La verità più riposta rimane nascosta, fortunatamente, fortunatamente.
Ma io la sentivo lo stesso; sentivo spesso la sua immobilità misteriosa che osservava i miei
trucchi da scimmia, proprio come osserva voi, quando vi esibite sulle vostre funi tese nel
vuoto, per quanto?, per mezza corona a ogni salto mortale.» "Cerca di essere più civile,
Marlow", borbottò una voce, per cui capii che oltre a me ce n'era almeno un altro sveglio,
ad ascoltare. «Scusatemi. Dimenticavo che si deve aggiungere il patema d'animo al resto
del prezzo. Ma che importanza ha il compenso se l'acrobazia è riuscita bene? A voi riescono
benissimo. E anch'io non me la sono cavata tanto male, dato che son riuscito a non far
affondare il battello al mio primo viaggio. Me ne meraviglio ancora. Immaginatevi un
uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada dissestata. Ho sudato e tremato
non poco su quell'affare, ve l'assicuro. In fin dei conti, per un marinaio, è il peccato più
imperdonabile scorticare il fondo di quella cosa che dovrebbe stare sempre a galla sotto la
sua guida. Forse nessuno se n'è accorto, ma voi il tonfo non lo dimenticherete mai, vero?
Un colpo al cuore. Ve lo ricorderete, lo sognerete, e anni dopo, vi sveglierete di notte per
pensarci, e sentirete caldo e freddo in tutto il corpo. Non pretendo di dire che il battello sia
rimasto sempre a galla. Più di una volta ha dovuto passare a guado per un tratto, con venti
cannibali intorno a diguazzare e a spingere. Strada facendo ne avevamo arruolati alcuni,
come ciurma. Brava gente, i cannibali, al loro posto. Uomini con cui si poteva lavorare e a
cui io sono grato. E poi non si sono mangiati fra di loro sotto i miei occhi. Si erano portati
dietro della carne di ippopotamo che marcì e che mi portò l'odore del mistero della landa
selvaggia fin dentro alle narici. Puah! Sento ancora il tanfo. A bordo avevo il direttore e tre
o quattro pellegrini col bastone: al completo. Qualche volta incontravamo una stazione
sulla sponda del fiume, aggrappata ai margini dell'ignoto, e i bianchi che si precipitavano
fuori dai loro tuguri, accogliendoci con gesti festosi e sorpresi, avevano un'aria stranita:
sembravano prigionieri di un incantesimo. La parola avorio echeggiava nell'aria per un po'
e poi ci rimmergevamo nel silenzio, lungo tratti deserti, intorno ad anse tranquille, tra le
alte mura del nostro tortuoso percorso, che riverberavano in cupi colpi il poderoso battito
della nostra ruota poppiera. Alberi, alberi, milioni di alberi, massicci, immensi, svettanti; e
ai loro piedi, rasentando la sponda per vincere la corrente, arrancava il piccolo battello
fuligginoso, come un indolente scarafaggio che si trascini sul pavimento di un ampio e
nobile porticato. Ci si sentiva molto piccoli e sperduti, eppure quella sensazione non era
del tutto deprimente. In fin dei conti, anche se eravamo piccoli, quello sporco scarafaggio
andava avanti ed era proprio quello che si voleva che facesse. Dove i pellegrini si
immaginavano che strisciasse io non lo so. Verso un luogo in cui si aspettavano di arraffare
qualcosa, scommetto! Per me strisciava esclusivamente verso Kurtz, ma quando i tubi del
vapore iniziarono a perdere ci trascinammo molto lentamente. Le lunghe strade d'acqua si
aprivano davanti a noi e si richiudevano al nostro passaggio, come se la foresta, pigra e
tranquilla, avesse scavalcato l'acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre
più a fondo nel cuore della tenebra. Regnava una gran quiete. La notte, qualche volta, il
rullio dei tamburi dietro la cortina degli alberi saliva su per il fiume e si prolungava
debolmente, come sospeso nell'aria, sopra le nostre teste, fino allo spuntar del giorno. Se
era un segnale di guerra, di pace o di preghiera noi non lo sapevamo. L'alba era sempre
annunciata dal calare di un gelido torpore; i taglialegna dormivano, con i fuochi che
bruciavano bassi; lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ci faceva trasalire. Eravamo
viandanti su una terra preistorica, su una terra che aveva l'aspetto di un pianeta
sconosciuto. Potevamo immaginarci di essere i primi uomini che prendevano possesso di
un'eredità maledetta, che si doveva conquistare al prezzo di un profondo tormento e di
un'enorme fatica. Ma improvvisamente, mentre lottavamo attorno a un'ansa, si apriva una
visione di muri di giunco, di tetti d'erba a punta, ed era un'esplosione di grida, un turbinio
di membra nere, una moltitudine di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi
che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto la cascata del fogliame fitto e immobile. Il
battello arrancava lentamente ai margini di una nera e incomprensibile frenesia. L'uomo
preistorico ci malediva, ci implorava, ci dava il benvenuto, chi poteva dirlo? Eravamo
tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circondava; scivolavamo via come fantasmi,
stupiti e segretamente sgomenti, come lo sarebbero degli uomini sani di mente davanti a
uno scoppio di entusiasmo in manicomio. Non potevamo capire, perché eravamo troppo
lontani, e non potevamo ricordare, perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi, di
quei tempi scomparsi senza quasi lasciare traccia e alcun ricordo. «La terra non sembrava
più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì,
lì si vedeva il mostro in libertà. Non era terreno e gli uomini erano... No, non erano
inumani. Ecco, sapete, era questa la cosa peggiore: il sospetto che non fossero inumani.
Veniva a poco a poco. Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili
smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità, simile
alla nostra, il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e
appassionata. Sgradevole. Sì era abbastanza sgradevole, ma con un po' di coraggio,
bisognava ammettere che c'era in noi, sia pur debolissima, una traccia di rispondenza alla
terribile franchezza di quel frastuono, l'impressione confusa che vi si nascondesse un
significato che, per quanto lontani noi si fosse dalla notte dei tempi, si poteva capire. E
perché no? La mente dell'uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, tutto il passato e
tutto l'avvenire. E in fondo là dentro cosa c'era? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio,
collera, - chi lo sa? - ma verità certamente, la verità spogliata dal mantello del tempo.
Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e tremare: l'uomo capisce, e può
guardare senza battere ciglio. Ma deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla
spiaggia. Deve rispondere a quella verità con ciò che c'è di più vero in lui, con la sua forza
innata. I principi? I principi non servono: acquisizioni, mascheramenti, orpelli, che
volerebbero via alla prima scossa un po' rude. No, ci vuole una fede deliberata. C'è un
appello per me in questo barbaro tumulto, sì? Benissimo, lo ascolto, lo riconosco, ma
anch'io ho una voce, e nel bene come nel male quello che io diconon può essere messo a
tacere. Naturalmente, uno sciocco, sia per semplice paura sia per nobili sentimenti, non
corre alcun rischio. Cos'è quel borbottio? Vi domandate se sono sceso a terra a ululare e a
ballare? No, non l'ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Non
avevo tempo. Dovevo trastullarmi con biacca di piombo e strisce tagliate dalle coperte di
lana per aiutare a bendare quei tubi che perdevano, proprio così. Dovevo sorvegliare la
rotta, aggirare i tronchi, e di riffa o di raffa, far avanzare la mia bagnarola. In quelle cose
c'era tanta verità di superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo
dovevo badare a quel selvaggio del mio fuochista. Era un esemplare progredito, capace di
alimentare una caldaia verticale. Era là, sotto di me, e, parola mia, guardarlo era
altrettanto edificante che vedere un cane in calzoncini da clown e cappello di piume, che
cammina sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di addestramento, a quel tipo
davvero notevole. Sbirciava il manometro del vapore e l'indicatore di livello dell'acqua con
un evidente sforzo di audacia, eppure aveva i denti limati, quel povero diavolo, e dei
bizzarri disegni scolpiti a rasoio sulla lana del suo cranio e tre cicatrici ornamentali sulle
guance. Avrebbe dovuto essere sulla riva a battere le mani e i piedi invece di star lì a
lavorare sodo, schiavo di una strana stregoneria, ricca di sapere avanzato. Era utile perché
era stato istruito e quel che sapeva era questo: che se veniva a mancare l'acqua in quella
cosa trasparente, lo spirito maligno chiuso nella caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete
e si sarebbe vendicato in maniera terribile. Perciò sudava e attizzava il fuoco e sorvegliava
timoroso il vetro (con un feticcio improvvisato, fatto di stracci, legato al braccio, e un pezzo
d'osso levigato, grosso come un orologio, infilato di piatto nel labbro inferiore), mentre le
rive boscose scorrevano lentamente al nostro passaggio, il breve clamore rimaneva
indietro, ricominciavano le miglia interminabili di silenzio, e noi strisciavamo, verso Kurtz.
Ma le insidie erano molte, i tronchi nascosti, l'acqua traditrice e senza profondità, e la
caldaia sembrava davvero posseduta da un demone scontroso. Perciò né io né il fuochista
avevamo il tempo di scrutare nei nostri strani e terribili pensieri. «A una cinquantina di
miglia dalla Stazione Interna, scorgemmo sulla riva una capanna di canniccio, un palo
inclinato e melanconico, su cui svolazzavano i brandelli irriconoscibili di quella che doveva
essere stata una specie di bandiera, e una pila di legna da ardere accatastata con cura. Una
cosa inattesa. Scendemmo a terra e in cima alla catasta di legna trovammo un'asse con una
scritta a matita, tutta sbiadita. Una volta decifrata, diceva: "Legna per voi. Fate presto.
Avvicinatevi con cautela." C'era anche la firma, ma illeggibile, non Kurtz, una parola molto
più lunga. Sbrigarsi. A far cosa? A salire il fiume? "Avvicinatevi con cautela." Noi non
l'avevamo fatto. Ma l'avvertimento non poteva riferirsi al luogo in cui si poteva trovare il
messaggio solo dopo essercisi avvicinati. Era più su che qualcosa non andava bene. Ma
cosa? Qualcosa di grave? Questo era il dilemma. Commentammo negativamente la
stupidità di quello stile telegrafico. La boscaglia intorno non rivelava nulla e non
consentiva nemmeno di inoltrarsi con lo sguardo molto lontano. Una tenda lacera di saia
rossa pendeva dalla soglia della capanna e ci sbatté tristemente in faccia. L'abitazione era
stata smantellata, ma si vedeva che fino a poco tempo prima ci aveva vissuto un bianco.
Restavano una tavola rudimentale, non era che un'asse su due sostegni, delle immondizie
ammucchiate in un angolo buio e, accanto alla porta, un libro, che raccolsi. Era senza
copertina e le pagine portavano l'impronta di un dito che, a forza di sfogliarle, le aveva
sporcate e logorate; il dorso, invece, era stato amorevolmente ricucito con del filo di cotone
bianco che sembrava ancora pulito. Avevo trovato una cosa straordinaria. Il titolo
era Indagine su alcuni aspetti dell'arte di navigare, di un certo Towser, o Towson, un nome
simile, capitano della Marina di Sua Maestà. La materia sembrava un po' ostica, con grafici
illustrativi e orrende tavole numeriche; e la copia era vecchia di sessant'anni. Maneggiai
quel sorprendente pezzo d'antiquariato con la massima delicatezza, per paura che mi si
polverizzasse in mano. Là dentro, Towson o Towser dissertava sul punto di massima
tensione delle catene, dei paranchi e su altri argomenti analoghi. Non proprio avvincente,
quel libro, ma dalla prima occhiata vi si scorgeva una serietà di intenti, un interesse
autentico per come affrontare bene un lavoro, che quelle umili pagine, pensate tanti anni
prima, s'illuminavano di una luce non solo professionale. Quel semplice vecchio marinaio
mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la sensazione di aver finalmente di
fronte qualcosa di indiscutibilmente reale. Che un libro simile fosse là era già abbastanza
sorprendente, ma ancor più stupefacenti erano le note scritte in margine a matita,
chiaramente riferite al testo. Non potevo credere ai miei occhi! Erano in codice! Sì, aveva
tutta l'aria di un codice. Vi immaginate un uomo che in quel nulla si porta dietro un libro
del genere, se lo studia, ci fa sopra delle note, e in codice! Era un mistero davvero
stravagante. «Era già da un po' che avvertivo dei vaghi rumori molesti: quando alzai gli
occhi vidi che la catasta di legna era scomparsa e che il direttore, con l'aiuto di tutti i
pellegrini, mi stava chiamando a gran voce dalla riva del fiume. Mi infilai il libro in tasca.
Dover abbandonare la lettura era come essere strappati dalle braccia di una vecchia e
solida amicizia, ve lo assicuro. «Rimisi in moto lo zoppicante macinino. "Non può essere
che quel miserabile trafficante, quell'intruso", esclamò il direttore, voltandosi a guardare
con aria malevola il luogo che avevamo appena lasciato. "Dev'essere inglese", dissi io. "Il
che non gli eviterà di passare dei guai se non sta attento", borbottò, cupo, il direttore.
Osservai con finta innocenza che a questo mondo nessuno è al riparo dai guai. «La
corrente si era fatta più rapida, il battello sembrava boccheggiare, la ruota poppiera batteva
l'acqua languidamente, e mi accorsi di stare sulla punta dei piedi ad ascoltare il successivo
battito della pala, perché in tutta sincerità, mi aspettavo che da un momento all'altro quella
cosa sciagurata avrebbe ceduto di schianto. Era come assistere agli ultimi fremiti di una
vita che si spegne. Ma, sia pure lentamente, continuavamo a procedere. Ogni tanto
sceglievo un albero davanti a me, come riferimento, per misurare il nostro progresso verso
Kurtz, ma lo perdevo invariabilmente di vista prima di averlo raggiunto. Tenere gli occhi
fissi, e a lungo, su uno stesso punto, era chiedere troppo alla pazienza umana. Il direttore
mostrava una grande capacità di rassegnazione. Io mi rodevo il fegato e nonsmettevo di
arrovellarmi chiedendomi se dovevo parlare apertamente con Kurtz oppure no; ma prima
di essere arrivato a una conclusione, mi si affacciò l'idea che se io parlavo, o tacevo, o
facevo una cosa qualsiasi, sarebbe stata una pura futilità. Che importanza aveva quello che
uno sapeva o ignorava? Che importanza aveva chi era il direttore? Talvolta si hanno simili
lampi d'intuizione. L'essenziale di quella faccenda giaceva molto sotto la superficie, oltre la
mia portata e al di là del mio potere d'intervento. «Verso la sera del secondo giorno,
calcolammo di essere a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io avrei voluto proseguire,
ma il direttore, che aveva assunto un'aria grave, disse che più a monte la navigazione era
talmente pericolosa che sarebbe stato più prudente, col sole già così basso, fermarci
dov'eravamo fino al mattino seguente. Mi fece inoltre notare che, se dovevamo seguire
l'avvertimento di avvicinarci con cautela, ci conveniva farlo di giorno, non al crepuscolo, o
col buio. Era abbastanza sensato. Per noi otto miglia volevano dire circa tre ore di
navigazione, e per di più, in fondo a quel tratto di fiume, a monte vedevo delle increspature
sospette. Ciononostante quel ritardo mi contrariò in modo indicibile, e anche
assolutamente irragionevole, dato che dopo tanti mesi una notte in più o in meno non
poteva fare molta differenza. Siccome la legna abbondava, e la parola d'ordine era
"cautela", gettai l'ancora in mezzo al fiume. In quel tratto correva diritto, stretto fra argini
alti come le trincee di una ferrovia. Il crepuscolo vi entrò scivolando molto prima che fosse
calato il sole. La corrente fluiva liscia e veloce ma sulle sponde pesava una muta
immobilità. Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e
rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal
rametto più sottile, alla foglia più leggera. Troppo innaturale per essere un sonno:
sembrava uno stato di trance. Non si sentiva il più debole suono, di nessuna specie. Si
stava a guardare stupiti, con il sospetto di essere diventati sordi e all'improvviso scese la
notte a renderci anche ciechi. Verso le tre del mattino, un grosso pesce saltò sull'acqua con
un tonfo così sonoro che mi fece sobbalzare come se fosse stato sparato un colpo di arma
da fuoco. Al sorgere del sole ci trovammo immersi in una nebbia bianca, calda e gommosa,
più accecante ancora della notte. Non si spostava, né verso riva né in avanti: stava lì
immobile intorno a noi, come una cosa solida. Verso le otto o forse le nove, si alzò, come si
alza una saracinesca. Si aprì uno spiraglio sulla torreggiante foresta d'alberi, sull'immenso
intrico della giungla su cui dardeggiava la piccola palla del sole - tutto perfettamente
immobile - e poi la bianca saracinesca si riabbassò senza intoppi, come scivolando su guide
ben oliate. Diedi l'ordine di mollare di nuovo la catena dell'ancora che avevamo già iniziato
a issare a bordo. Prima che finisse di scorrere con un rantolo soffocato, un grido, un grido
altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell'aria ovattata. Cessò. Un clamore
lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente
inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli
altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e
apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la
nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un'intensità quasi
intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti
ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo. "Dio
mio! Ma di cosa si tratta?...", balbettò accanto a me uno dei pellegrini, un ometto grasso,
coi capelli di stoppa e le basette rosse, che indossava stivaletti con gli elastici ai lati e un
pigiama rosa, con le braghe infilate nei calzini. Altri due restarono a bocca aperta per un
minuto intero, poi si precipitarono dentro la piccola cabina di prua da dove ricomparvero
di corsa, Winchester carichi alla mano, lanciando sguardi spaventati in tutte le direzioni. E
non si vedeva che il battello sul quale stavamo, con i contorni così sfocati che sembrava sul
punto di dissolversi e tutt'intorno una nebbiosa striscia d'acqua, larga forse mezzo metro:
nient'altro. Il resto del mondo non esisteva, almeno non per i nostri occhi e le nostre
orecchie. Non esisteva più: svanito, volatilizzato, spazzato via senza lasciarsi dietro un
sussurro o un'ombra. «Andai a prua e ordinai di accorciare la catena, in modo da essere
pronti a issare l'ancora e metterci subito in marcia, se ce ne fosse stato bisogno.
"Attaccheranno?", bisbigliò una voce atterrita. "Ci massacreranno tutti con questa nebbia",
mormorò un altro. I volti distorti dalla tensione, le mani leggermente tremanti, gli occhi
sbarrati: era molto curioso il contrasto fra le espressioni dei bianchi e quelle dei neri del
nostro equipaggio, che in quella parte del fiume non erano meno stranieri di noi, anche se
le loro case erano solo a milletrecento chilometri di distanza. I bianchi non erano solo
molto agitati, avevano anche l'aria di essere dolorosamente colpiti da un tumulto così
scandaloso. Gli altri avevano un'espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro
volti erano essenzialmente distesi, anche quelli di quei due o tre che, issando la catena
dell'ancora, l'avevano contratto. Alcuni si scambiarono delle brevi frasi gutturali che
sembrarono risolvere la faccenda con loro soddisfazione. Il loro capo, un giovane nero con
un ampio torace, austeramente avvolto in un drappo blu scuro sfrangiato, le narici focose e
la capigliatura acconciata artisticamente in ricciolini oliati, era in piedi vicino a me. "Aha!",
dissi tanto per dire qualcosa. "Prendeteli", latrò, spalancando gli occhi iniettati di sangue
mentre i suoi denti aguzzi brillavano, "prendeteli e dateceli." "A voi?", chiesi, "E per farne
che?" "Mangiarli!" disse laconico e, appoggiato il gomito al parapetto, guardò fuori nella
nebbia in un atteggiamento solenne e profondamente pensieroso. Sarei senza dubbio
rimasto giustamente orripilato se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni
dovevano avere molta fame, una fame che era andata progressivamente crescendo da
almeno un mese a questa parte. Erano stati ingaggiati per sei mesi (ma penso che nessuno
di loro avesse una chiara nozione del tempo, come l'abbiamo noi alla fine di innumerevoli
ere. Appartenevano ancora agli albori del mondo, senza alcuna esperienza ereditata, per
così dire, che gliela potesse insegnare), e naturalmente, purché ci fosse un pezzo di carta
scritta in conformità di qualche legge farsesca confezionata ed emanata all'altro capo del
fiume, a nessuno era mai passato per la testa di preoccuparsi di come sarebbero vissuti.
Era vero che si erano portati la carne di ippopotamo putrefatta, che non avrebbe potuto
durare a lungo comunque, però, anche se i pellegrini, in mezzo a uno schiamazzo
impressionante, non ne avessero gettata in acqua una gran quantità. Sembrava un atto di
prepotenza, ma in realtà fu un caso di legittimadifesa. Non si può respirare ippopotamo
morto, quando si dorme, mentre si mangia, quando ci si sveglia, e nello stesso tempo
conservare un precario controllo sulla propria esistenza. A parte questo, ogni settimana gli
avevano dato tre pezzi di filo di ottone, ciascuno lungo circa venti centimetri; in teoria
doveva servire come moneta di scambio perché si comprassero delle provviste nei villaggi
lungo il fiume. Ma in pratica, le cose andarono diversamente, come forse avrete già capito.
O non c'erano villaggi, o la popolazione era ostile, o il direttore, che come tutti noi, si
nutriva a scatolette, con dentro in aggiunta, ogni tanto, un pezzo di vecchio caprone, non
voleva fermare il battello per qualche ragione, più o meno oscura. Perciò, a meno che il filo
non se l'ingoiassero, o che ne facessero dei cappi per prendere al laccio i pesci, non vedo
quale beneficio traessero da quello stravagante salario. Devo ammettere che veniva pagato
con una regolarità degna di una grande e, rispettabile, azienda commerciale. All'infuori di
questo, l'unica cosa da mangiare che possedevano - sebbene non avesse affatto un aspetto
commestibile - erano dei pezzi di una sostanza simile a pasta poco cotta, del colore della
lavanda sporca, che tenevano avvolta nelle foglie; ogni tanto ne ingoiavano un boccone, ma
così piccolo, che sembrava lo facessero più per le sembianze della cosa che per un serio
scopo di sostentarsi. Perché poi in nome di tutti i diavoli della fame che rode non ci
saltassero addosso - erano trenta contro cinque - e si facessero finalmente una bella
scorpacciata, mi stupisce ancora quando ci penso. Erano degli uomini grandi e robusti,
senza una gran capacità di valutare le conseguenze dei loro atti, ma coraggiosi e, anche se
la loro pelle non era più lucida e i muscoli non erano più sodi, ancora forti. Capii che
doveva essere entrato in gioco qualcosa a frenarli, uno di quei segreti dell'animo umano
che sfuggono a qualsiasi calcolo delle probabilità. Li osservai con un acuto risveglio di
interesse, non perché pensassi che mi potevano mangiare da un momento all'altro,
sebbene vi debba confessare che proprio allora mi accorsi - guardando le cose sotto una
nuova luce - di quanto malsani apparissero i pellegrini e speravo, sì, lo speravo sul serio,
che il mio aspetto non fosse così - come potrei dire? - così poco appetitoso; un pizzico di
stravagante vanità che ben si accordava con la sensazione onirica che permeava la mia vita
a quell'epoca. Forse avevo anche un po' di febbre. Ma non si può stare tutto il tempo a
tastarsi il polso. Avevo spesso "un po' di febbre" o un leggero attacco di altre cose: le
zampate scherzose della landa selvaggia, le iniziali schermaglie che precedono l'assalto più
serio che venne poi a tempo debito. Sì, li guardavo - come si guarderebbe un qualsiasi
essere umano - curioso di capire quali avrebbero potuto essere i loro impulsi, moventi,
risorse, debolezze, davanti alla prova di un'inesorabile necessità fisica. Un freno inibitore!
Quale freno era possibile immaginare? Superstizione, disgusto, pazienza, paura, o una
specie di primitivo onore? Non c'è paura che tenga davanti alla fame, non c'è pazienza che
la plachi, e, dove c'è fame, il disgusto semplicemente non esiste. Quanto alle superstizioni,
alle credenze, a quelli che voi chiamereste principi, pesano meno di un fuscello al vento.
Conoscete l'inferno del digiuno prolungato, il suo tormento esasperante, i suoi neri
pensieri, la tetra ferocia che si alimenta di nascosto? Beh, io sì. Un uomo deve far appello a
tutta la sua forza innata, per combattere adeguatamente la fame. È molto più facile
affrontare un lutto, il disonore, la perdita della propria anima che questo genere di fame
protratta. Triste, ma vero. E non c'era ragione al mondo che quegli esseri si facessero degli
scrupoli. Il ritegno! Era più facile aspettarselo da una iena che si aggiri famelica fra i
cadaveri in un campo di battaglia. Eppure il fatto era lì davanti a me, lampante,
inoppugnabile, come la schiuma sopra gli abissi del mare, come un'increspatura su un
enigma insondabile; e, a pensarci bene, era un mistero più grande di quella strana,
inspiegabile nota di afflizione disperata nel clamore selvaggio esploso accanto a noi, sulla
sponda del fiume, dietro il cieco biancore della nebbia. «Ma su quale sponda? Due
pellegrini stavano litigando su questo punto in concitato bisbiglio. "Sinistra." "No, no; ma
figurati! Destra, destra, son sicuro." "È una faccenda molto seria", disse la voce del
direttore dietro di me. "Sarei desolato se accadesse qualcosa al signor Kurtz prima del
nostro arrivo." Lo guardai in faccia e non ebbi il minimo dubbio che era sincero. Era
proprio il genere di uomo che desidera innanzi tutto salvare le apparenze. Era quello il suo
freno inibitore. Ma quando bofonchiò qualcosa sull'andare lì subito, non mi presi neanche
la briga di rispondergli. Io sapevo, e lui anche, che era impossibile. Se avessimo mollato la
presa sul fondo, ci saremmo trovati, letteralmente, in aria: nello spazio. Non avremmo più
capito dove andavamo - se in giù o in su, o per traverso, del fiume - finché non saremmo
finiti contro una sponda, ma neanche allora avremmo saputo dire subito qual'era delle due,
la destra o la sinistra? Naturalmente non mi mossi. Non avevo nessuna intenzione di
fracassare tutto. Sarebbe difficile immaginarsi un posto peggiore per un naufragio. Anche
se non annegavamo subito, potevamo star sicuri che in un modo o nell'altro saremmo
morti entro brevissimo tempo. «"La autorizzo a correre qualsiasi rischio", disse, dopo un
breve silenzio. "E io mi rifiuto di correrne anche uno solo", risposi secco secco. Era proprio
la risposta che si aspettava, anche se il tono poteva averlo sorpreso. "In questo caso, devo
rimettermi alle sue decisioni. È lei il capitano", disse, con marcata cortesia. Per significargli
la mia gratitudine, gli voltai le spalle per guardare nella nebbia. Quanto sarebbe durata? La
prospettiva non era delle più rosee. La via d'accesso a quel Kurtz, che rastrellava la misera
boscaglia in cerca d'avorio, era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa
addormentata sotto l'effetto di un incantesimo in un favoloso castello. "Crede che ci
attaccheranno?" chiese il direttore, in tono confidenziale. "Pensavo che non ci avrebbero
attaccato, per diverse e ovvie ragioni. Anzitutto la nebbia fittissima: se si fossero
allontanati dalla riva nelle loro canoe vi si sarebbero persi, come noi, se ci fossimo
azzardati a muoverci. Poi, anche se mi era parso che la giungla fosse assolutamente
impenetrabile da entrambe le sponde, lì dentro c'erano degli occhi, degli occhi che ci
avevano visto. La boscaglia lungo la riva era sicuramente molto fitta, ma più internamente
il sottobosco era evidentemente più accessibile. Eppure, durante la breve schiarita, non
avevo visto delle canoe da nessuna parte, certamente non all'altezza del battello. Ma ciò
che per me rendeva inconcepibile l'idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida
che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un'immediata
intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato
un'irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l'apparizione del battello
aveva riempito queiselvaggi di una pena infinita. Il pericolo per noi, spiegai, ammesso che
ci fosse, dipendeva dal fatto che ci trovavamo in prossimità di una grande passione umana
senza freni. Anche il dolore estremo può risolversi in violenza, ma più spesso si traduce in
apatia... «Avreste dovuto vedere gli occhi spalancati dei pellegrini! Non ebbero il coraggio
di ridermi in faccia e neanche di insultarmi, ma credo che pensassero che ero diventato
matto, di paura, forse. Tenni una conferenza vera e propria. Cari ragazzi, non c'era di che
preoccuparsi. Stare all'erta? Beh, come potete immaginare, io guatavo la nebbia per vedere
se c'era il minimo segno di schiarita, come un gatto guata un topo; ma per qualsiasi altro
uso gli occhi ci erano altrettanto inutili che se fossimo stati sepolti a qualche chilometro di
profondità sotto una montagna di ovatta, con anche la stessa sensazione di soffoco, calore,
asfissia. Del resto, tutto quello che dissi ai pellegrini, per quanto stravagante sembrasse
allora, era invece la pura verità. Quello che in seguito considerammo come un attacco, in
realtà, non fu che un tentativo di respingerci. Lungi dall'essere aggressiva l'azione non era
neanche difensiva, nel senso usuale del termine: intrapresa sotto la spinta della
disperazione, non era che un modo per proteggersi da noi. «Si svolse, direi, due ore dopo
che la nebbia si era alzata, e iniziò in un luogo che si trovava, grosso modo, a circa un
miglio e mezzo sotto la stazione di Kurtz. Avevamo appena doppiato faticosamente
un'ansa, quando un'isoletta, nulla più che una cunetta erbosa di un verde brillante, mi
apparve in mezzo all'acqua. Era la sola del genere, ma quando avanzammo un poco, vidi
che essa costituiva la punta avanzata di un lungo banco di sabbia, o meglio di una catena di
secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e si
intravvedevano sotto il pelo dell'acqua, proprio come, lungo la schiena, sotto la pelle di un
uomo si intravvede correre la spina dorsale. Per quanto avevo modo di vedere, ci si poteva
passare sia da destra che da sinistra. Naturalmente, io non conoscevo i due lati del canale.
Le sponde parevano quasi identiche e anche la profondità sembrava la stessa, ma siccome
mi avevano detto che la stazione si trovava sulla riva occidentale, mi diressi istintivamente
verso il passaggio a ovest. «Non appena imboccato, si rivelò molto più stretto di quanto mi
fosse sembrato. Alla nostra sinistra si stendeva la lunga, ininterrotta fila di secche e, a
destra, la sponda alta e ripida, era coperta da una folta macchia, con dietro gli alberi
svettanti in ranghi serrati. Il fogliame pendeva fitto sul fiume e di tanto in tanto un grosso
ramo si protendeva rigido di traverso. Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta
appariva cupo, e sull'acqua era già scesa una larga striscia d'ombra. Era in quell'ombra che
avanzavamo, molto a rilento, non c'è bisogno che ve lo dica. Mi tenevo il più possibile
accostato alla sponda, perché l'acqua, come indicavano gli scandagli fatti con la pertica, era
più profonda lungo la riva. «Uno dei miei amici affamati, costretti all'astinenza,
scandagliava a prua proprio sotto di me. Quel battello era fatto come una chiatta pontata.
Sul ponte c'erano due casette in legno di tek, con porte e finestre. La caldaia si trovava a
prua e le macchine a poppa. Il tutto era ricoperto da un tetto leggero, sostenuto da quattro
puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto, e proprio davanti al fumaiolo una stretta cabina,
costruita con assi sottili, fungeva da cabina di pilotaggio. Conteneva una cuccetta, due
seggiolini da campo, una Martini-Henry carica in un angolo, un minuscolo tavolino e la
ruota del timone. Sul davanti un'ampia porta e due larghi portelli ai lati. Porta e portelli,
naturalmente, erano sempre spalancati. Io passavo le mie giornate lassù, appollaiato
all'estremità prodiera di quel tetto, davanti alla porta. Di notte dormivo, o cercavo di
dormire, sulla cuccetta. Un atletico nero che apparteneva a non so quale tribù costiera e
che era stato istruito dal mio sfortunato predecessore, era il timoniere. Portava dei vistosi
orecchini di ottone, una specie di guaina di stoffa blu che lo avvolgeva dalla vita alle
caviglie e aveva di sé la più alta opinione. Era il pazzo più imprevedibile che avessi mai
incontrato. Finché si era lì, teneva il timone con l'aria del padrone del vapore, ma appena si
girava l'occhio, in balia di una fifa invereconda, lasciava che quello sciancato di un battello
gli prendesse in un attimo la mano. «Stavo osservando lo scandaglio, molto contrariato nel
constatare che, a ogni immersione, dall'acqua ne sporgeva un pezzo sempre più lungo,
quando vidi il mio scandagliatore piantar tutto in asso e buttarsi bocconi sul ponte senza
nemmeno curarsi di ritirare la pertica. Però non l'aveva mollata e quella continuava a
trascinarsi nell'acqua. Nello stesso momento, vidi il fuochista, anche lui sotto di me,
sedersi di colpo davanti alla caldaia infossando la testa fra le spalle. Ero esterrefatto, ma
dovetti subito volgere gli occhi al fiume perché sulla nostra strada c'era un tronco d'albero.
Intorno volavano dei bastoncini, dei piccolissimi bastoncini fitti fitti; mi sibilavano davanti
al naso, cadevano ai miei
piedi, battevano dietro a me contro la cabina. E intanto, il fiume, la riva, i boschi erano
silenziosi, assolutamente silenziosi. Non si udiva che il poderoso tonfo sciabordante della
nostra ruota poppiera e il picchiettio di quelle cose che volavano. Senza eleganza, ma il
tronco lo scansammo. Erano frecce, per Giove! E le lanciavano contro di noi! Rientrai
rapido per chiudere il portello dal lato della terra. Quell'idiota del timoniere, le mani
strette alle caviglie della ruota, alzava le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva la bocca,
come un cavallo imbrigliato. Maledizione a lui! E noi ci trascinavamo barcollando a tre
metri dalla sponda! Dovetti sporgermi in fuori per smuovere il pesante portello e allora
vidi una faccia fra le foglie, all'altezza della mia, che mi guardava con feroce fissità. Ed ecco
che, all'improvviso, come se mi fosse caduta una benda dagli occhi, distinsi, in fondo a quel
tenebroso intrico vegetale, dei petti nudi, delle braccia, delle gambe, degli occhi
abbaglianti: la boscaglia brulicava di forme umane in movimento, lucenti, del colore del
bronzo. Dai rami che si agitavano, dondolavano, frusciavano, uscivano volando le frecce, e,
finalmente il portello si chiuse. "Tienila dritta", dissi al timoniere. Teneva la testa ferma, la
faccia protesa, ma gli occhi roteavano, e continuava ad alzare e ad abbassare adagio i piedi,
con un po' di bava alla bocca. "Sta fermo!", dissi infuriato. Era come se avessi ordinato a un
albero di non muoversi al vento. Schizzai fuori. Sotto di me, sul ponte di ferro, sentivo un
gran scalpiccio e degli schiamazzi confusi. Una voce gridò: "Non può tornare indietro?"
Sull'acqua davanti a noi scorsi un'increspatura a forma di V. Cosa? Un altro tronco! Sotto i
miei piedi scoppiò una scarica di fucili. I pellegrini avevano aperto il fuococon i loro
Winchester e stavano letteralmente innaffiando di piombo la boscaglia. Si formò un
malefico nuvolone di fumo che avanzava lentamente sul fiume. Bestemmiai. Non potevo
più vedere né l'increspatura né il tronco. Facendo capolino, mi tenevo sul vano della porta
con le frecce che arrivavano a sciami. Potevano anche essere avvelenate, ma a vederle, non
sembravano in grado di far male a un gatto. La boscaglia cominciò a ululare. I nostri
taglialegna lanciarono un grido di guerra e lo sparo di una carabina proprio dietro la
schiena mi assordò. Diedi un'occhiata sopra la mia spalla e nella cabina ancora piena di
rumore e fumo, con un balzo, mi lanciai sulla ruota del timone. Quel deficiente del nero
aveva mollato tutto per spalancare il portello e metter fuori la Martini-Henry. Stava in
piedi davanti alla larga apertura, con l'aria feroce e, mentre gli gridavo di tornare al
timone, raddrizzai l'improvvisa torsione del battello. Non c'era spazio per far marcia
indietro neanche se lo avessi voluto; il tronco era da qualche parte davanti a noi, molto
vicino, nascosto da quel fumo maledetto; non c'era tempo da perdere, perciò schiacciai il
battello contro la sponda, dritto contro la sponda, dove sapevo che l'acqua era più
profonda. «Ci aprimmo lentamente un varco attraverso i cespugli sporgenti in un vortice di
rametti spezzati e di foglie che cadevano. Il fuoco di fila si interruppe di botto, come avevo
previsto sarebbe accaduto, una volta sparate tutte le sue cartucce. Ritrassi la testa per
evitare un baluginio sibilante che attraversò la cabina, entrando dal varco di un portello e
uscendo dall'altro. Al di là del timoniere demente che brandiva la carabina scarica urlando
in direzione della riva, vidi delle vaghe forme umane correre piegate in due, saltare,
strisciare, indistinte, incomplete, evanescenti. Qualcosa di grosso apparve nell'aria davanti
al portello, la carabina filò in acqua e l'uomo, indietreggiando rapido, mi lanciò di traverso
un'occhiata straordinaria, profonda e familiare, e poi cadde ai miei piedi. Batté la testa due
volte sulla ruota del timone e l'estremità di quella che sembrava una lunga canna
sbatacchiò in giro rovesciando uno dei seggiolini da campo. Si sarebbe detto che dopo aver
strappato quella cosa dalle mani di qualcuno sulla riva, avesse perso l'equilibrio nello
sforzo. Il fumo sottile era svanito, avevamo evitato il tronco, e guardando in avanti vidi che
a un centinaio di metri più in là sarei stato libero di scostarmi dalla sponda, ma dovetti
abbassare lo sguardo perché mi sentii improvvisamente i piedi caldi e bagnati. L'uomo era
riverso sulla schiena con gli occhi fissi su di me e le mani avvinghiate a quella canna. Era
l'asta di una lancia che, scagliata o affondata attraverso il portello, lo aveva colpito al fianco
appena sotto le costole. La lama era entrata tutta, sino a scomparire, dopo aver fatto un
terribile squarcio. Avevo le scarpe piene e una pozza di sangue si stendeva immobile in un
luccichio rosso scuro sotto la ruota del timone. Gli occhi dell'uomo brillavano di un
sorprendente splendore. La sparatoria ricominciò. Mi rivolse uno sguardo ansioso,
stringendo la lancia come una cosa preziosa, come se avesse paura che io cercassi di
portargliela via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi da quello sguardo e
occuparmi del timone. Con una mano cercai a tentoni, sopra la mia testa, la cordicella del
fischio a vapore e la strattonai stridore dopo stridore precipitosamente. Il tumulto delle
grida furiose e guerriere si interruppe all'istante e dalle profondità del bosco si alzò,
tremulo e prolungato, un gemito di disperato spavento e di costernazione estrema, simile a
quello che, ci si immagina, seguirebbe all'involarsi dell'ultima speranza da questa terra. Ci
fu un gran fermento nel sottobosco: la pioggia di frecce cessò, qualche sparo isolato
echeggiò sonoro, e poi il silenzio, in cui il languido battito della ruota poppiera mi arrivò
distintamente all'orecchio. Stavo mettendo il timone a tutta dritta nel momento in cui, nel
vano della porta, apparve il pellegrino in pigiama rosa, molto accaldato e su di giri. «"Mi
manda il direttore...", cominciò in tono ufficiale ma si interruppe di botto. "Dio santo!",
disse, spalancando gli occhi alla vista del ferito. «Noi due bianchi stavamo sopra di lui e lui
con i suoi occhi lustri e inquisitori ci avvolgeva entrambi nel suo sguardo. Ve lo assicuro,
sembrava che stesse per farci una domanda, in una lingua comprensibile, invece morì,
senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza contrarre un muscolo. Solo
all'ultimo istante, come in risposta a un segno che noi non potevamo vedere, a un sussurro
che non potevamo udire, aggrottò profondamente la fronte e quella fronte aggrottata
impresse sulla sua nera maschera di morte un'espressione indicibilmente cupa, torva e
minacciosa. La lucentezza di quello sguardo inquisitore non fu ben presto che vitrea
vacuità. «"È capace di governare una barca?", chiesi brusco all'agente. Mi guardò
dubbioso, ma io feci l'atto di afferrargli un braccio ed egli capì immediatamente che
intendevo dargli il timone in mano, capace o meno che fosse a tenerlo. Per dire la verità,
avevo un bisogno quasi morboso di cambiarmi le calze e le scarpe. «"È morto", mormorò
l'agente, immensamente impressionato. "Su questo non c'è dubbio", dissi io, strappandomi
furiosamente i lacci delle scarpe. "A proposito, suppongo che a quest'ora sia morto anche il
signor Kurtz." «In quel momento, era quello il mio pensiero dominante. Provavo una
grandissima delusione: come se avessi scoperto di aver rincorso una cosa assolutamente
inconsistente. Non mi sarei sentito più disgustato se avessi intrapreso tutto quel viaggio al
solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con... Lanciai una scarpa fuori bordo, e mi
resi conto che era proprio quello che non vedevo l'ora di fare: parlare con Kurtz. Feci la
strana scoperta che di lui non avevo una immagine di un agire, capite?, ma di un
discorrere. Non mi dicevo: "Dunque non lo vedrò mai", o "Non gli stringerò mai la mano",
ma, "Dunque non lo udrò mai." Quell'uomo si presentava come una voce. Naturalmente
non è che non lo associassi a qualche specie di azione. Su tutti i toni dell'invidia e
dell'ammirazione, non mi avevano forse detto che da solo aveva raccolto, barattato, estorto
o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme? Non si trattava di questo. Si
trattava del fatto che, fra tutte le doti di quell'essere tanto dotato, quella che emergeva in
modo preponderante, che dava il senso di una presenza reale, era la sua capacità di
parlare, il dono della parola: questa dote che sconcerta o illumina, la più nobile e la più
spregevole, vivificante flusso di luce o torrente ingannatore scaturito dal cuore di una
tenebra impenetrabile. «Anche l'altra scarpa andò volando al dio maligno di quel fiume.
Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi. Lui è svanito, il dono è svanito, per
opera di una lancia o di una freccia o di un bastone. Dunque non loudrò mai parlare. C'era
nella mia afflizione uno strano eccesso emotivo, simile a quello che avevo avvertito
nell'angoscioso ululato di quei selvaggi nella boscaglia. Non avrei sentito una peggiore
desolata solitudine, se fossi stato derubato di una fede o se avessi mancato al mio destino
in questa vita... Perché qualcuno ha sbuffato in modo così bestiale? Assurdo, dice? Va bene,
assurdo. Signore Iddio! Un uomo non deve mai... Basta, datemi del tabacco.» Ci fu una
pausa di profonda quiete, poi, alla luce di un fiammifero, apparve il magro volto di Marlow,
consunto, svuotato, le pieghe cascanti, le palpebre abbassate, l'aria attenta e concentrata; e
mentre dava vigorose tirate alla sua pipa, nello sfavillio regolare di quella piccola fiamma,
sembrava emergere dalla notte per poi sprofondarvi. Il fiammifero si spense. «Assurdo!»,
esclamò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare... Eccovi qua tutti,
ciascuno ormeggiato a due buoni indirizzi, come un vecchio scafo alle sue due ancore, il
macellaio da una parte, il poliziotto dall'altra, eccellenti appetiti e temperatura del corpo
normale - normale, capite - dall'inizio alla fine dell'anno. E dite assurdo! Assurdo un
corno! Assurdo! Cari miei, che cosa vi potevate aspettare da un uomo che, in uno scatto di
nervi, aveva appena fatto volare fuori bordo un paio di scarpe nuove! Quando ci penso, mi
sembra sorprendente di non essermi messo a piangere. E, tutto considerato, sono fiero
della mia forza d'animo. Mi pungeva sul vivo l'idea di aver perduto l'inestimabile privilegio
di ascoltare il dotatissimo Kurtz. Naturalmente, avevo torto: il privilegio mi stava
aspettando. Ah sì, ne ho sentito più che abbastanza. Ma avevo anche ragione: era una voce.
Poco più di una voce. E ho udito - lui - lei - quella voce - altre voci - erano tutti poco più che
delle voci - e il ricordo stesso di quell'epoca si attarda intorno a me, impalpabile, come la
vibrazione morente di un immenso bla bla bla, sciocco, atroce, sordido, selvaggio o
semplicemente meschino e insensato. Voci, voci... la ragazza stessa... ormai...» Stette zitto
a lungo. «Alla fine ho placato il fantasma delle sue doti con una bugia», riprese
all'improvviso. «La ragazza! Cosa? Ho parlato di una ragazza? Ma lei non c'entra,
assolutamente. Loro - le donne, voglio dire - sono al di fuori di tutto questo, o almeno
dovrebbero esserlo. Dobbiamo aiutarle a stare in quel bellissimo mondo che è il loro, se
non vogliamo che il nostro diventi ancora peggiore. Oh, lei non c'entrava. Avreste dovuto
sentirlo il cadavere dissepolto del signor Kurtz dire, "La mia fidanzata." Avreste percepito
immediatamente a qual punto lei fosse estranea a tutto ciò. E quel grande osso frontale del
signor Kurtz! Dicono che qualche volta i capelli continuino a crescere, ma questo... ehm...
questo esemplare era di una calvizie impressionante. La selva selvaggia gli aveva dato un
buffetto sulla testa, ed ecco, era diventata come una palla: una palla d'avorio. Lo aveva
accarezzato e toh, lui era avvizzito; lo aveva preso, amato, tenuto fra le braccia, era entrata
nelle sue vene, aveva consumato la sua carne, aveva posto il suo sigillo sulla sua anima
attraverso inconcepibili riti di una qualche diabolica iniziazione. Era il suo favorito,
coccolato e viziato. Avorio? Ma direi! Mucchi, montagne di avorio. La vecchia baracca di
fango era piena da scoppiarne. C'era da pensare che non ne restasse nemmeno una zanna,
né sopra né sotto la terra di quel paese. "Per la maggior parte fossile", fu il commento
denigratorio del direttore. Era meno fossile di me, ma lo chiamano fossile quando lo
dissotterrano. Sì, sembra che i neri a volte seppelliscano le zanne, ma evidentemente quella
partita non l'avevano seppellita a profondità sufficiente da sottrarre il dotato signor Kurtz
al suo destino. Riempimmo il battello di avorio e ne dovemmo accatastare un mucchio
anche sul ponte. Così, finché fu in grado di vedere, lo potè guardare, e goderne, perché fino
alla fine apprezzò quel suo fiore all'occhiello. Avreste dovuto sentirgli dire: "Il mio avorio."
Ah! io l'ho sentito. "La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio..."
Era tutto suo. E io trattenevo il fiato aspettandomi di udire la selva selvaggia scoppiare in
una fragorosa risata che avrebbe scosso le stelle fisse sul loro asse. Apparteneva tutto a lui,
ma questo sarebbe stato irrilevante. L'importante era sapere a chi apparteneva lui, quante
potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi
faceva accapponare la pelle. Era impossibile - e anche malsano - cercare di indovinarlo.
Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente.
Voi non potete capire. E come potreste, voi che avete un terreno solido sotto i piedi, che
siete circondati da vicini cortesi, pronti ad applaudire o a gettarsi su di voi, voi che vi
muovete a piccoli passi guardinghi fra il macellaio e il poliziotto, col sacro terrore dello
scandalo, della prigione e del manicomio? Come riuscireste a immaginare in quale
particolare regione delle epoche primordiali i piedi senza impacci di un uomo lo possano
portare lungo la via della solitudine - una solitudine assoluta senza un poliziotto - lungo la
via del silenzio, un silenzio assoluto, dove non si può sentire la voce ammonitrice di un
cortese vicino che si fa eco dell'opinione della gente? Sono queste piccole cose che fanno la
grande differenza. E quando non ci sono più si deve ricorrere alla propria forza interiore,
alla propria capacità di restare fedeli. Certo, si può anche essere troppo sciocchi per correre
il rischio di perdersi, troppo ottusi persino per sospettare di star subendo l'assalto dei
poteri della tenebra. Potrei scommetterlo: uno sciocco non ha mai fatto un patto col
diavolo per vendergli l'anima. O lo sciocco è troppo sciocco, o il diavolo è troppo diavolo:
una delle due. Oppure si può essere degli esseri talmente al di sopra da rimanere sordi e
ciechi a qualsiasi cosa tranne che alle visioni e ai suoni celesti. Per costoro la terra non è
che un luogo di passaggio, e, se per chi è così sia una perdita o un guadagno, io non ho la
pretesa di saperlo. Ma la maggior parte di noi non è né l'uno né l'altro. Per noi la terra è un
luogo in cui ci si deve vivere, dove si devono sopportare spettacoli, rumori, e anche odori,
per Giove! - respirare carogna di ippopotamo, per esempio, - e non restarne contaminati.
Ed è qui, vedete?, che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di
scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi quella roba: la capacità di dedizione,
non a se stessi, ma a qualche oscura, estenuante faccenda. E non è una cosa facile. Badate,
non sto cercando di giustificare e neanche di spiegare. Sto solo cercando di farmi una
ragione di... del signor Kurtz..., dell'ombra del signor Kurtz. Questo iniziato fantasma,
scaturito dal fondo del Nulla, mi onorò delle sue sorprendenti confidenze prima di sparire
in modo definitivo. Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz
originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto partedella sua educazione in Inghilterra e
- come ebbe la bontà di dirmi - le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua
madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L'Europa intera aveva
contribuito alla formazione di Kurtz; e un po' alla volta venni a sapere che, molto a
proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva
incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l'aveva scritto quel
rapporto. L'ho visto. L'ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po'
troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo
doveva essere avvenuto prima che i suoi - diciamo nervi - saltassero, e lo portassero a
presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che - da
quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese -
venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo
iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente
significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo
arrivati, "dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri
soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina", ecc., ecc. "Con il semplice
esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene,
praticamente illimitato", ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La
perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a
un'Immensità esotica retta da un'augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era
questo il potere illimitato dell'eloquenza - della parola - di nobili parole infiammate. Non
c'erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una
specie di nota in fondo all'ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con
mano malferma, possa essere considerata l'enunciazione di un metodo. Era molto
semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più
altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno:
"Sterminare tutti questi bruti!" La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente
dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo
senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo "pamphlet" (è così
che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua
carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti
essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe
l'indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle
spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e - parlando
metaforicamente - a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non
si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di
incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un
esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari
presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un'anima al mondo che non
era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono
disposto ad affermare che lui valesse la vita dell'uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il
mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo
corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto
per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete,
aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l'avevo avuto dietro di me - un
aiuto - uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo
sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di
cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda
intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi
nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra
lontana parentela. «Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non
aveva alcun freno, nessun freno inibitore - proprio come Kurtz - un albero in balia del
vento. Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina,
dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli
occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi
stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era
pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza
altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un
ciuffo d'erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i
pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando
intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la
mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a
conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul
ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i
taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché
non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo
deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad
averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second'ordine, ma adesso che era morto poteva
diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E
per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l'uomo col pigiama rosa era
totalmente negato alla bisogna. «Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel
semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io
ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè,
Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era
fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato.
"Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne
pensate? Eh?" Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era
quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: "Quel che è certo è che
avete fatto un bel po' di fumo." Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le
cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se
non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo
appoggiato all'anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, - e avevo ragione - era
dovutaunicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a
sbraitare, protestando indignati contro di me. «Mentre il direttore, in piedi vicino al
timone, mi mormorava confidenzialmente all'orecchio, qualcosa sulla necessità di
ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi
da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. "Che
cos'è?", chiesi. Stupitissimo, battè le mani. "La stazione!", esclamò. Mi spostai
immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità. «Col binocolo vidi il pendio di
una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco.
Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l'erba incolta; dei
grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta
facevano da sfondo. Non c'era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva
essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili
pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o
quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta
circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell'acqua vidi un bianco, sotto un
cappello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione.
Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei
movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai
oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L'uomo
sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. "Siamo stati attaccati", strillò il
direttore. "Lo so, lo so. Va tutto bene", gridò in risposta l'altro, molto gioviale. "Venite.
Tutto bene. Son contento." «Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante
che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi
domandavo: "Ma a cos'è che assomiglia quello lì?" E improvvisamente mi venne in mente.
Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz'altro era stato una
volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle,
toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava
la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva
estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata
fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti
caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano
su quella fisionomia aperta, come il sole e l'ombra su una pianura spazzata dal vento.
"Attento, capitano!", gridò. "C'è un tronco d'albero insediato qui dalla notte scorsa." Cosa?
Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia
bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L'arlecchino sulla riva sollevò il nasetto
camuso verso di me. "Inglese?", domandò, tutto sorrisi. "E lei?", urlai dalla ruota. I sorrisi
si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò.
"Pazienza!", esclamò, incoraggiante. "Arriviamo in tempo?", chiesi. "Lui è lassù", rispose
con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua
faccia era simile al cielo d'autunno, ora coperto ora luminoso. «Quando il direttore,
scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo.
"Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia", dissi. Mi assicurò
caldamente che andava tutto bene. "È gente semplice", aggiunse, "ma, son contento che
siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada." "Ma non ha detto che
andava tutto bene!", sbottai. "Oh, non avevano cattive intenzioni", disse, e siccome lo fissai
con gli occhi sgranati, si corresse: "Non proprio." Poi con vivacità: "Perbacco, la sua cabina
ha bisogno di una ripulita!" E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza
vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme."Una bella fischiata vi sarà più
utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice", ripeté. Mi mitragliava di parole fino a
stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo,
che era proprio così. "Non parla con il signor Kurtz?", chiesi. "Non si parla con un uomo
come lui, lo si ascolta", esclamò in tono severo e esaltato. "Ma adesso..." Agitò il braccio e
in un batter d'occhio si trovò sprofondato nell'abisso dello scoraggiamento. D'un balzo
però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò:
"Fratello marinaio... che onore... piacere... gioia... mi presento... russo... figlio di un
arciprete... patriarcato di Tambov... Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L'eccellente
tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non
fuma?" «La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su
una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po' su delle navi inglesi e poi si
era riconciliato con l'arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. "Ma quando si
è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente."
"Qui!", lo interruppi. "Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz", disse con un
tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse
persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle
mercanzie ed era partito per l'interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino
su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo,
separato da tutto e da tutti. "Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni",
disse. "All'inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo", raccontò,
molto divertito, "ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine,
temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di
qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio,
l'olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così
quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l'abbia ricevuto. E del resto
me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L'ha
vista?" «Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si
trattenne. "Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso", disse, guardandolo
estasiato. "Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne vain giro da solo. Le canoe
ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la
gente si arrabbia." Sfogliava le pagine. "Ci ha fatto delle annotazioni in russo?", chiesi.
Annuì. "Pensavo che fossero scritte in codice", dissi. Si mise a ridere, poi, serio: "Ho fatto
molta fatica a tenere a bada quella gente." "Volevano uccidervi?", chiesi. "Oh, no!",
esclamò, interrompendosi subito. "E perché ci hanno attaccati?", continuai. Esitò, poi con
una sorta di pudore disse: "Non vogliono che lui se ne vada." "Davvero?", dissi incuriosito.
Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. "Badi bene", esclamò, "quell'uomo mi
ha allargato la mente." Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi
tondi. III «Lo guardai, smarrito per lo stupore. Era lì davanti a me, vestito da buffone,
come se fosse scappato da una compagnia di saltimbanchi, entusiasta e favoloso. Il solo
fatto che esistesse era inverosimile, inspiegabile, assolutamente sconcertante. Era uno di
quei problemi che non si risolvono. Impossibile immaginarsi in che modo avesse vissuto,
come avesse potuto arrivare tanto lontano, cosa avesse fatto per rimanervi, perché non
sparisse sotto ai miei occhi. "Mi sono spinto un po' più avanti", disse, "e poi ancora un po'
di più, e un bel giorno mi sono trovato tanto lontano che non so come farò a tornare sui
miei passi. Non importa. Ho tutto il tempo. Mi arrangerò. Ma lei porti via Kurtz presto -
presto, le dico." L'incantesimo della giovinezza rivestiva i suoi stracci variopinti, la sua
miseria, la sua solitudine, la profonda desolazione di quel suo futile vagabondare. Per dei
mesi - per degli anni - la sua vita era stata sospesa a un filo; eppure era là,
coraggiosamente, spensieratamente vivo e, secondo ogni apparenza, indistruttibile, grazie
ai suoi giovani anni e alla sua audacia irriflessiva. Ero conquistato tanto da provare una
specie di ammirazione, di invidia. Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo
lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto
uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di
esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo
spirito d'avventura - allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico - aveva mai
dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane tutto rattoppato. Quasi gli
invidiavo di possedere quella fiamma chiara e modesta. Sembrava aver così ben consumato
in lui ogni pensiero personale che anche mentre parlava, ci si dimenticava che era a lui -
all'uomo che era sotto i vostri occhi - che erano capitate tutte quelle cose. Non gli invidiavo,
però, la sua devozione a Kurtz. Non era deliberata. L'aveva subita e accettata con una
specie di ardente fatalismo. Devo dire che ai miei occhi, fra tutte le cose che aveva
incontrato, quella era di gran lunga la più pericolosa. «Erano inevitabilmente venuti a
contatto, come due navi sorprese dalla bonaccia che a poco a poco si avvicinano e finiscono
per strofinarsi i fianchi l'una contro l'altra. Immagino che Kurtz avesse bisogno di un
uditorio, visto che una volta, mentre erano accampati nella foresta, avevano parlato tutta la
notte, o più verosimilmente, era Kurtz che aveva parlato. "Abbiamo parlato di tutto", mi
disse, ancora trascinato dal ricordo. "Avevo dimenticato l'esistenza stessa del sonno. Quella
notte non mi parve durare più di un'ora. Di tutto, di tutto!... Anche d'amore." "Ah, le
parlava d'amore!", dissi molto divertito. Ebbe un grido quasi appassionato: "Oh, non è quel
che pensa lei, parlava in generale... Mi ha fatto capire delle cose, tante cose." «Alzò le
braccia. In quel momento eravamo sul ponte e il capo dei miei taglialegna, che oziava poco
lontano, volse verso di lui uno sguardo luminoso e penetrante. Mi guardai attorno, e non so
perché, ma vi assicuro che mai, mai prima d'allora, quella terra, quel fiume, quella giungla,
la volta stessa di quel cielo infuocato, mi erano apparsi più tetri e disperati, più
impenetrabili all'intelletto umano e più impietosi verso l'umana debolezza. "E da allora",
dissi, "lei, naturalmente, è rimasto sempre con lui." «E invece no. Pare che il loro rapporto
fosse molto intermittente, per diverse ragioni. Era riuscito, e me lo disse con orgoglio, a
curare Kurtz durante due malattie (vi alludeva come si farebbe per un'impresa piena di
rischi), ma, generalmente, Kurtz errava da solo nelle profondità della foresta. "Spesso,
quando arrivavo in questa stazione, mi toccava aspettare giorni e giorni prima che lui
ritornasse", disse, "ma valeva la pena di aspettare, qualche volta!" "Ma cosa faceva? Delle
esplorazioni?...", domandai. "Sì, certo." Aveva scoperto molti villaggi e anche un lago. Lui
non sapeva esattamente dove - era pericoloso fare troppe domande - ma la maggior parte
delle spedizioni di Kurtz avevano l'avorio come obiettivo. "Ma se non aveva più mercanzie
con cui barattarlo?", obbiettai. Guardando da un'altra parte rispose: "Ancora adesso nella
stazione ci sono un mucchio di cartucce avanzate." "Chiamiamo le cose col loro nome",
dissi, "razziava semplicemente il paese." Fece di sì con la testa. "Certamente non da solo!"
Borbottò qualcosa a proposito dei villaggi attorno a quel lago. "Kurtz si faceva seguire dalla
tribù, vero?" suggerii. Era un po' sulle spine. "Lo adoravano", disse. Il tono di quelle parole
era così straordinario che lo guardai con attenzione. La riluttanza che provava a parlare di
Kurtz si mescolava curiosamente in lui al bisogno di raccontare. Quell'uomo riempiva la
sua vita, occupava tutti i suoi pensieri, comandava le sue emozioni. "Che cosa pretende?",
disse con impeto, "è arrivato da loro col tuono e col fulmine in mano; questa gente non
aveva mai visto niente di simile, né di così terribile. Perché poteva essere terribile. È
impossibile giudicare il signor Kurtz alla stregua di un uomo qualunque. No, mille volte no!
Ecco - tanto per darle un'idea - un giorno, non mi vergogno a dirlo, voleva uccidermi,... ma
io non lo giudico." "Ucciderla!",esclamai. "E perché?" "Bah, avevo una piccola quantità
d'avorio che mi aveva dato il capo del villaggio vicino alla mia casa. Sa, io uccidevo della
selvaggina per loro. Beh, lui lo voleva e non voleva sentir ragioni. Dichiarò che mi avrebbe
fatto fuori se non gli davo l'avorio e se non sparivo immediatamente dal paese, visto che
aveva il potere e anche la voglia di farlo, e non c'era niente al mondo che potesse impedirgli
di ammazzare chiunque gli fosse garbato. Ed era vero... Gli diedi l'avorio. Che cosa me ne
importava? Ma non me ne andai. No, non avrei potuto lasciarlo. Dovetti essere prudente,
naturalmente, per un po', finché non ridiventammo amici. Fu allora che si ammalò per la
seconda volta. Dopo di che, dovetti star lontano, ma non gliene volevo. Passava la maggior
parte del tempo in quei villaggi sul lago. Quando ritornava al fiume, qualche volta ricorreva
a me e qualche volta era meglio che io stessi alla larga. Quell'uomo soffriva troppo.
Detestava tutto di qui, e però era come se non se ne potesse staccare. Quando ne avevo
l'occasione lo pregavo di andarsene, finché era ancora in tempo. Gli proposi di ritornare
con lui. Accettava e non si muoveva da qui. Partiva per un'altra caccia all'avorio, spariva
per delle settimane, trovava l'oblio fra quella gente, sì, l'oblio di se stesso, capisce." "Ma è
pazzo!", dissi. Protestò indignato. Il signor Kurtz non poteva essere pazzo. Se lo avessi
sentito parlare, anche solo due giorni prima, non avrei osato fare una simile insinuazione...
Avevo preso il binocolo mentre parlavamo, e ispezionavo la spiaggia, frugavo il ciglio della
foresta da ogni lato e dietro la casa. La sensazione che ci fosse della gente in quella
boscaglia così silenziosa, così tranquilla - altrettanto silenziosa e tranquilla della casa in
rovina sulla cima del colle - mi metteva a disagio. Sul volto della natura non c'era traccia
della straordinaria storia che più che raccontata mi veniva suggerita con esclamazioni
desolate, accompagnate da alzate di spalle, frasi interrotte, allusioni chiuse da profondi
sospiri. La foresta, impassibile come una maschera, massiccia come la porta sbarrata di
una prigione, guardava con un'aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inaccessibile
silenzio. Il russo intanto mi spiegava che solo recentemente il signor Kurtz era ritornato
giù al fiume, portando con sé tutti i guerrieri della tribù lacustre. Era stato assente molti
mesi - per farsi adorare, immagino - ed era rientrato inaspettatamente, con l'intenzione,
secondo ogni apparenza, di compiere una razzia dall'altra parte del fiume o a valle.
Evidentemente la brama di avere altro avorio aveva trionfato su - come dire? - sulle
aspirazioni meno materiali. Però il suo stato di salute era improvvisamente peggiorato.
"Venni a sapere che stava male, privo di ogni cura, e così decisi di venire quassù, correndo
il rischio", disse il russo. "Oh, sta male, molto male." Puntai il binocolo sulla casa. Non
c'erano segni di vita: scorgevo solo il tetto che crollava, il lungo muro di fango che faceva
capolino sopra l'erba, con tre buchi quadrati a guisa di finestre, non uno della stessa
misura dell'altro, tutto a portata della mia mano, per così dire. E poi feci un movimento
brusco e uno dei pali superstiti di quello steccato scomparso emerse nel campo del mio
binocolo. Vi ricordate che da lontano ero rimasto colpito da certi tentativi di decorazione,
che risaltavano ancor di più nello stato disastroso di quel luogo. Adesso li vedevo più da
vicino e l'effetto immediato fu che tirai indietro la testa come per evitare un pugno. Poi col
binocolo, esaminai attentamente un palo dopo l'altro e capii il mio errore. Quei pomi
rotondi non erano ornamentali, ma simbolici; erano espressivi ed enigmatici, sorprendenti
e inquietanti, cibo per la mente oltre che per gli avvoltoi, se ce ne fossero stati a guardare
dal cielo, cibo in tutti i casi per delle formiche abbastanza industriose da arrampicarsi sul
palo. Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se il loro volto non
fosse stato girato dalla parte della casa. Solo una, la prima che avevo notato, era rivolta
verso di me. Non fui così nauseato come potreste credere. Il mio brusco scatto indietro non
era stato che un moto di sorpresa. Mi ero aspettato di vedere un pomo di legno là, capite.
Deliberatamente, tornai a guardare la prima che mi era apparsa: nera, rinsecchita e
infossata, la testa con le palpebre chiuse era sempre là, come addormentata in cima a quel
palo e, con le labbra secche e raggrinzite che lasciavano scoperta la sottile fila bianca dei
denti, aveva anche l'aria di sorridere, sorridere in continuazione per qualche sogno ilare e
infinito del suo sonno eterno. «Non sto rivelando nessun segreto commerciale. Fu il
direttore poi a dire che i metodi del signor Kurtz avevano rovinato quel distretto. Io non ho
alcuna opinione a questo proposito, ma vorrei farvi capire chiaramente che a tenere lì
quelle teste non c'era niente di vantaggioso. Stavano solo a testimoniare che il signor Kurtz
era privo di qualsiasi ritegno nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti; che gli mancava
qualcosa, una piccola cosa che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano
sotto la sua magnifica eloquenza. Se lui sapesse di avere questa deficienza, io non lo so.
Credo che se ne sia reso conto alla fine, quasi all'ultimo istante. Ma la selva selvaggia lo
aveva scovato subito, e si era presa una terribile vendetta su di lui per quella fantastica
invasione. Credo che gli avesse sussurrato delle cose sul suo conto che lui stesso ignorava,
cose di cui non aveva il minimo sospetto, prima di aver sentito il parere di quella grande
solitudine, e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. L'eco era risuonata
tanto profondamente in lui perché dentro era vuoto... Abbassai il binocolo, e la testa che mi
era apparsa tanto vicina da poterle quasi parlare, parve subito scomparire lontana da me in
una distanza inaccessibile. "L'ammiratore del signor Kurtz si era un po' ammosciato. Con
voce febbrile e indistinta, cominciò ad assicurarmi che non aveva osato togliere quei...
quei... diciamo, quei simboli. Non che avesse paura degli indigeni: non si sarebbero mossi
a meno che Kurtz non avesse dato loro il segnale. Il suo ascendente era straordinario. Gli
accampamenti di quella gente circondavano la stazione e ogni giorno i capi venivano a
trovarlo... strisciando. "Non voglio sapere niente delle cerimonie usate per avvicinare il
signor Kurtz", gridai. Curioso, ebbi l'impressione che i dettagli sarebbero stati più
insopportabili di quelle teste che rinsecchivano sui pali sotto le finestre del signor Kurtz.
Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo barbaro, e in quella oscura regione di orrori
sottili, in cui ero stato trasportato d'un balzo, la barbarie pura, senza complicazioni, era un
sollievo reale, come qualcosa che aveva il diritto di esistere - ovviamente - alla luce del sole.
Il giovane mi guardò sorpreso. Immagino che non gli fosse venuto in mente che il signor
Kurtz non era un mio idolo. Si era dimenticato che io non avevo sentito neanche uno di
quegli splendidi monologhi su - cosa? - l'amore, la giustizia, la condotta nella vita, o che so
io. Se si doveva strisciare davanti a Kurtz, lui strisciava come il più selvaggiodei selvaggi. Io
non mi rendevo conto delle circostanze, disse. Quelle erano le teste dei ribelli. Lo lasciai di
stucco perché mi misi a ridere. Ribelli! Quale sarebbe stata la prossima definizione che
avrei sentito? C'erano stati nemici, criminali, lavoratori, e questi erano ribelli. Quelle teste
ribelli mi sembravano molto sottomesse sui loro pali. "Lei non sa quanto una vita simile
metta alla prova un uomo come Kurtz", esclamò l'ultimo discepolo di Kurtz. "Beh, e lei?",
dissi. "Io! Io! Io sono un uomo qualunque. Non ho grandi idee. Non voglio niente da
nessuno. Come può paragonarmi a...?" L'eccesso di emozione gli impediva di parlare e
improvvisamente si lasciò andare. "Non capisco", gemette. "Io ho fatto del mio meglio per
tenerlo in vita e basta. Non ho preso parte a tutto ciò. Io non ho talenti. Erano mesi che qui
non c'era una medicina che fosse una o qualcosa da mangiare per un malato. È stato
vergognosamente abbandonato. Un uomo come lui, con tali idee. È una vergogna. Una
vera vergogna. E io, io sono dieci notti che non dormo..." «La sua voce si perse nella calma
della sera. Mentre parlavamo le lunghe ombre della foresta erano scivolate giù dalla
collina, spingendosi molto oltre la baracca in rovina, oltre la simbolica fila di pali. Tutto ciò
era immerso nell'oscurità, mentre, in basso, noi eravamo ancora nella luce del sole, e la
distesa del fiume di fronte alla radura scintillava di un immoto splendore abbacinante, con
una ansa buia e in ombra a monte e a valle. Non c'era anima viva sulla spiaggia. Non un
fremito nella boscaglia. «E tutt'a un tratto, girato l'angolo della casa, apparve un gruppo di
uomini, come se fossero sorti dal terreno. Avanzavano sprofondati fino alla vita nell'erba,
in corpo compatto, portando in mezzo a loro una barella improvvisata. Istantaneamente,
nel vuoto del paesaggio, si alzò un grido acuto che trafisse l'aria immota come una freccia
acuminata che volasse dritta al cuore della terra e, come per incanto, un torrente di esseri
umani - di esseri umani nudi - muniti di lance, archi e scudi, con sguardi feroci e
movimenti selvaggi, si riversò nella radura dalla foresta dal volto scuro e pensoso. La
boscaglia fremette, l'erba ondeggiò un momento e poi tutto ripiombò in un'attenta
immobilità. «"E adesso, se non trova la parola giusta da dire, siamo tutti perduti", disse il
russo al mio fianco. Il gruppo di uomini con la barella si era fermato anch'esso, come
pietrificato, a mezza strada dal battello. Al di sopra delle spalle dei portatori vidi l'uomo
che giaceva nella barella mettersi a sedere, emaciato, con un braccio alzato. "Speriamo che
l'uomo che sa parlare così bene dell'amore in generale trovi qualche ragione particolare per
risparmiarci questa volta", dissi. Risentivo amaramente l'assurdo pericolo della nostra
situazione, come se essere alla mercé di quell'orrendo fantasma fosse stata una
disonorevole necessità. Non udivo suoni, ma attraverso il binocolo vedevo il braccio sottile
steso in un gesto imperioso, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quell'apparizione
splendere tenebrosi e remoti in quella testa ossuta che oscillava con delle scosse
grottesche. Kurtz, Kurtz in tedesco vuol dire "corto", no? Ebbene, il nome era altrettanto
vero di tutto il resto della sua vita, e della sua morte. Sembrava "lungo" almeno due metri.
La coperta gli era caduta di dosso e il suo corpo atroce e pietoso ne era emerso come da un
sudario. Vedevo la gabbia del torace tutta in movimento, le ossa del braccio che agitava.
Era come se un'animata immagine della morte, scolpita in un vecchio avorio, tendesse la
sua mano minacciosa a una immobile folla di uomini fatti di un bronzo scuro e lucente. Lo
vidi spalancare la bocca - il che gli diede un aspetto straordinariamente vorace - come se
avesse voluto ingoiare tutta l'aria, tutta la terra e tutti gli uomini davanti a lui. Una voce
cavernosa giunse debolmente fino a me. Doveva aver gridato. Improvvisamente cadde
riverso. La barella vacillò mentre i portatori riprendevano ad avanzare barcollando, e quasi
nello stesso momento, mi accorsi che la folla dei selvaggi si stava disperdendo senza alcun
percettibile movimento di ritirata, come se la foresta che aveva espulso quelle creature così
all'improvviso, ora le risucchiasse, come un respiro dopo un lungo sospiro. «Un paio di
pellegrini venivano dietro la barella portando le sue armi - due fucili da caccia, una
carabina di grosso calibro, un'altra, leggera, a ripetizione - i fulmini di quel Giove pietoso.
Il direttore, piegato su di lui, gli parlava all'orecchio, camminandogli accanto. Lo deposero
in una di quelle piccole cabine, dove c'era appena il posto per una cuccetta e uno o due
seggiolini da campo, lo sapete. Gli avevamo portato la corrispondenza accumulata in quei
mesi e un mucchio di buste strappate e di lettere aperte era sparpagliato sul letto. Con una
mano rovistava debolmente in mezzo alle carte. Fui colpito dal fuoco dei suoi occhi e dal
languore composto della sua espressione. Non era tanto la spossatezza della malattia: non
sembrava soffrire. Quell'ombra pareva sazia e calma, come se per il momento avesse fatto
il pieno di tutte le emozioni. «Stropicciò una delle lettere e guardandomi dritto negli occhi
disse: "Molto lieto." Gli avevano scritto qualcosa di me. Saltavano fuori di nuovo le
raccomandazioni speciali. Il volume del suono che emise senza sforzo, senza quasi la pena
di muovere le labbra, mi stupì. Una voce! Che voce! Grave, profonda, vibrante, mentre
l'uomo sembrava incapace di un sussurro. Eppure gli restava abbastanza forza - fittizia
senza dubbio - da farci correre il rischio di finire tutti male, come sentirete fra poco. «Il
direttore apparve silenzioso sulla soglia. Uscii subito ed egli tirò la tenda dietro di me. Il
russo, guardato con curiosità da tutti i pellegrini, aveva gli occhi fissi sulla spiaggia. Seguii
la direzione del suo sguardo. «Si distinguevano in lontananza delle scure forme umane
muoversi leggere e indistinte contro il tetro limitare della foresta e, vicino al fiume, due
figure di bronzo, appoggiate alle loro alte lance, si ergevano al sole, sotto fantastiche
acconciature di pelli maculate, marziali e immobili in uno statuario riposo. E lungo la
spiaggia luminosa si mosse da destra a sinistra una selvaggia e incantevole apparizione di
donna. «Camminava a passi cadenzati nei drappeggi di una stoffa rigata e frangiata,
toccando il suolo con fierezza, facendo leggermente tintinnare e balenare i barbari
ornamenti. La testa eretta, i capelli acconciati come un elmo, le gambe fasciate di ottone
fino al ginocchio, bracciali di filo d'ottone fino al gomito, una macchia scarlatta sulle
guance bronzee, innumerevoli collane di perline colorate al collo. Oggetti bizzarri, amuleti,
doni di stregoni, appesi al suo corpo, che luccicavano e dondolavano a ogni passo. Doveva
avere addosso il valore di parecchie zanne di elefante. Eraselvaggia e maestosa, stralunata
e magnifica. C'era qualcosa di minaccioso e di imponente nel suo incedere risoluto. E
nell'improvviso silenzio caduto su quella terra afflitta, l'immensa landa selvaggia, quel
corpo colossale di vita feconda e misteriosa sembrava pensosamente guardarla, quasi
contemplasse in lei l'immagine della propria anima tenebrosa e appassionata. «Giunse
all'altezza del battello, si fermò e incontrò i nostri occhi. La sua ombra s'allungò di traverso
nell'acqua. La sua desolazione, il suo muto dolore mescolato alla paura del disegno -
formulato a metà - che si dibatteva in lei, prestava al suo viso un aspetto tormentato e
tragico. Rimase a guardarci senza un gesto, con l'aria di covare - come la selva selvaggia -
qualche insondabile intenzione. Passò un minuto intero e poi fece un passo avanti. Ci fu un
lieve tintinnare, un giallo balenio del metallo, un ondeggiare dei drappi frangiati: si fermò,
come se le fosse mancato il cuore. Il giovane accanto a me ringhiò. I pellegrini
mormorarono alle mie spalle. Ci guardava tutti come se la sua vita fosse dipesa
dall'inflessibile fermezza del suo sguardo. D'improvviso aprì le braccia nude e le tese
rigidamente in alto sopra la testa, come in un irresistibile desiderio di toccare il cielo e
nello stesso istante l'oscurità si slanciò rapida sulla terra e, invadendo il fiume, avvolse il
battello in un tenebroso abbraccio. Un formidabile silenzio stava sospeso sulla scena. «Si
voltò lentamente, s'incamminò seguendo la sponda ed entrò nei cespugli sulla sinistra. Una
sola volta, prima di sparire, i suoi occhi lampeggiarono verso di noi nell'ombra del folto.
«"Se si fosse azzardata a venire a bordo credo proprio che avrei cercato di ucciderla", disse
nervosamente l'arlecchino. "In questi ultimi quindici giorni, ho rischiato la vita ogni
giorno, per impedirle di entrare in casa. Una volta ci è riuscita e ha fatto una scena
tremenda per quei quattro stracci che avevo preso nel magazzino per aggiustarmi i vestiti.
Ero impresentabile. Credo almeno che fosse quello il motivo, perché è stata un'ora a
parlare come una furia a Kurtz, indicando ogni tanto me. Non capisco il dialetto di questa
tribù. Per mia fortuna, penso che Kurtz stesse troppo male quel giorno, per badarle,
altrimenti avrei passato un brutto guaio. Non capisco... No, è veramente troppo per me.
Beh, è acqua passata ormai." «In quel momento udii la profonda voce di Kurtz dietro la
tenda: "Salvarmi! Lei vuol dire, salvare l'avorio. Non mi venga a raccontare... Salvare me!
Ma se sono io che ho dovuto salvarvi, e lei è venuto a intromettersi nei miei progetti.
Ammalato! Ammalato! Non così ammalato come le piacerebbe credere. Non importa.
Realizzerò lo stesso quello che ho in mente: ritornerò. Le farò vedere io che cosa si può fare
qui. Lei, con i suoi sistemi da bottegaio, mi mette il bastone fra le ruote. Ritornerò. Io..." «Il
direttore uscì. Mi fece l'onore di prendermi sottobraccio e di condurmi in disparte. "È
molto giù, molto giù", disse. Ritenne necessario sospirare, ma trascurò di mostrare la
conseguente afflizione. "Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, non è forse vero?
Ma non si può nascondere la realtà: il signor Kurtz ha fatto più male che bene alla
Compagnia. Non ha capito che i tempi non erano maturi per un'azione energica. Cautela,
cautela ci vuole: è questo il mio principio. Dobbiamo andare ancora cauti. Per un po'
questo distretto ci sarà precluso. Deplorevole! E il commercio ne soffrirà nel suo insieme.
Non nego che non ci sia una notevole quantità di avorio, per la maggior parte fossile. Lo
dobbiamo salvare a tutti i costi. Ma vede com'è precaria la nostra situazione: e perché?
Perché il metodo è inadeguato." "Lei lo definisce", dissi io, guardando la spiaggia, "un
metodo inadeguato?" "Senza dubbio", esclamò con calore. "Lei no?" ... «"Non c'è nessun
metodo", mormorai dopo un po'. "Giustissimo", esultò lui. "Io l'avevo previsto. Testimonia
di una completa mancanza di discernimento. Sarà mio dovere segnalarlo a chi di
competenza." "Oh", dissi io, "quel tale - come si chiama? - sì, l'uomo dei mattoni, potrà
redigere per lei un rapporto leggibilissimo." Restò un attimo interdetto. Mi pareva di non
aver mai respirato in un'atmosfera tanto abietta, e per riprendere fiato mi rivolsi
mentalmente a Kurtz, sì proprio per riprendere fiato. "Nonostante tutto", dissi con enfasi,
"penso che il signor Kurtz sia un uomo notevole." Sussultò e lasciando cadere su di me un
greve sguardo gelido, disse con molta calma: "Lo era", e mi voltò le spalle. Non godevo più
del suo favore. Avevo fatto comunella col signor Kurtz parteggiando per metodi per cui i
tempi non erano maturi: ero anch'io inadeguato! Ah! ma era pur sempre qualcosa avere
almeno la scelta dei propri incubi. «In realtà era alla landa selvaggia che mi ero rivolto,
non al signor Kurtz che ormai - non stentavo ad ammetterlo - era come se fosse bell'e
sepolto. E per un istante, parve anche a me di essere sepolto dentro a una grande tomba
piena di inconfessabili segreti. Sotto un peso intollerabile che mi opprimeva il petto,
sentivo l'odore della terra umida, la presenza invisibile della corruzione trionfante, la
tenebra di una notte impenetrabile... Il russo mi battè sulla spalla. Balbettando borbottò
qualcosa su "fratello marinaio... non si potrebbe nascondere... la conoscenza di cose che
nuocerebbero alla reputazione del signor Kurtz." Aspettai. Per lui, evidentemente, il signor
Kurtz non era ancora nella tomba. Ho il sospetto che per lui il signor Kurtz fosse uno degli
immortali. "Ebbene!", dissi infine, "parli. Il caso vuole che io sia amico del signor Kurtz, in
un certo qual modo." «Molto formalmente, iniziò col dichiarare che se non fossimo stati
uniti "dalla stessa professione", si sarebbe tenuto tutto per sé, senza badare alle
conseguenze. "Sospettava di essere molto mal visto da quei bianchi che..." "Sì, ha
indovinato", dissi, ricordandomi una certa conversazione che avevo involontariamente
ascoltato. "Il direttore pensa che lei dovrebbe essere impiccato." Nel sentirselo dire mostrò
un turbamento che all'inizio mi divertì. "È meglio che me ne vada alla chetichella", disse
con franchezza. "Non posso far più niente per Kurtz ormai, e quelli farebbero presto a
inventarsi qualche pretesto. Che cosa li fermerebbe? C'è un posto militare a cinquecento
chilometri da qui." "Sì", risposi, "credo anch'io che farebbe meglio ad andarsene se ha degli
amici fra i selvaggi qui intorno." "Molti", disse. "È gente semplice, e io non ho bisogno di
niente, sa." Tacque un attimo mordendosi il labbro e poi: "Io non voglio che accada nulla di
male a questi bianchi", continuò, "ma naturalmente è alla reputazione del signor Kurtz che
pensavo, malei è un marinaio, un fratello e..." "D'accordo", dissi, dopo un po', "la
reputazione del signor Kurtz nelle mie mani è salva." Non sapevo fino a che punto stessi
dicendo la verità. «Abbassando la voce, mi informò che era stato Kurtz a dare l'ordine di
attaccare il battello. "Qualche volta non sopportava l'idea di essere portato via, e poi di
nuovo... Sono cose che non capisco. Io sono un uomo semplice. Pensava che vi sareste
spaventati tanto da andarvene, che avreste rinunciato, credendolo morto. Non sono
riuscito a fermarlo. Oh, ne ho passate di tutti i colori, quest'ultimo mese." "Non ne dubito",
dissi, "ma adesso sembra tornato in sé." "Sì sì", mormorò, senza grande convinzione.
"Grazie", dissi, "terrò gli occhi aperti." "Ma non una parola, vero?", riprese con ansiosa
insistenza. "Sarebbe terribile per la sua reputazione se qualcuno qui..." Promisi
solennemente la discrezione più assoluta. "Ho una piroga con tre neri che mi aspettano qui
vicino. Vado. Mi potrebbe dare qualche cartuccia per la Martini-Henry?" Potevo e gliele
diedi, con la dovuta segretezza. Strizzandomi l'occhio si prese una manciata di tabacco.
"Fra marinai, vero?, questo suo buon tabacco inglese." Già davanti alla porta della cabina si
voltò: "Senta, non avrebbe un paio di scarpe che le avanzano?" Alzò una gamba: "Guardi."
Sotto i piedi nudi aveva legato con delle stringhe delle suole come fossero sandali. Ne
scovai un vecchio paio che lui guardò ammirato prima di infilarselo sotto il braccio
sinistro. Da una delle tasche (di un rosso brillante) traboccavano le cartucce, dall'altra (blu
scuro) occhieggiava l'Indagine, ecc., ecc. di Towson. Sembrava ritenersi eccellentemente
equipaggiato per il suo nuovo incontro con la landa selvaggia."Ah! un uomo simile non lo
incontrerò più, mai più. Avrebbe dovuto sentirlo recitare le poesie, sue per di più, me l'ha
detto lui. La poesia!" Roteava gli occhi al ricordo di quelle delizie. "Oh, quell'uomo mi ha
aperto la mente!" "Arrivederci", dissi. Ci stringemmo la mano e svanì nella notte. Qualche
volta mi chiedo se l'ho visto davvero, se è possibile che io abbia incontrato un fenomeno
simile!... «Quando mi svegliai, poco dopo mezzanotte, mi venne in mente il suo
avvertimento e il pericolo che vi era sottinteso, e nella tenebra stellata, mi parve
sufficientemente reale da farmi alzare per dare un'occhiata in giro. Sulla collina bruciava
un grande fuoco che illuminava a intermittenza un angolo obliquo della casa. Uno degli
agenti con un picchetto di qualcuno dei nostri neri, armati per l'occasione, montava la
guardia all'avorio, ma dentro alle profondità della foresta, dei rossi baluginii, che
sembravano sorgere dalla terra e sprofondarvisi, fra forme indistinte simili a colonne di
intensa nerezza, indicavano il punto esatto dell'accampamento in cui gli adoratori del
signor Kurtz facevano la loro inquieta veglia. Il monotono rullare di un grosso tamburo
riempiva l'aria di colpi soffocati e di una prolungata vibrazione. Il suono ininterrotto di una
nenia di chissà quali magici incantesimi, cantata da una moltitudine di uomini, ciascuno
per proprio conto, usciva dalla muraglia piatta e oscura della foresta, come un ronzio di api
fuori dall'alveare, con uno strano effetto narcotizzante sui miei sensi già mezzo sopiti.
Credo di essermi proprio assopito, appoggiato al parapetto, finché uno scoppio improvviso
di urla, l'assordante esplosione di una frenesia misteriosa e repressa, non mi svegliò in
attonito soprassalto. Si interruppe tutt'a un tratto e la nenia sommessa ricominciò dando
quasi l'impressione palpabile e calmante del silenzio. Gettai un'occhiata distratta nella
piccola cabina. Brillava una luce all'interno, ma il signor Kurtz non c'era più. «Penso che se
avessi creduto ai miei occhi mi sarei messo a gridare, ma lì per lì non ci credetti: sembrava
talmente impossibile! La verità è che ero completamente sopraffatto da una paura senza
nome, un terrore puramente astratto, che non si collegava a nessuna forma riconoscibile di
pericolo materiale. Ciò che rendeva quell'emozione così sconvolgente era - come posso
definirlo? - lo scossone morale che avevo ricevuto, come se inaspettatamente si fosse
abbattuto su di me qualcosa di mostruoso, intollerabile per la mente e odioso per l'anima.
Questo, naturalmente, non durò che una frazione di secondo, e poi il comune senso del
pericolo fisico, mortale, la possibilità di un assalto improvviso, di un massacro, o qualcosa
del genere, che vedevo imminente, fu ben accolta e mi restituì la calma. Mi rese infatti così
tranquillo che non diedi l'allarme. «C'era un agente abbottonato fino al naso nel suo
pastrano che dormiva su una sedia sul ponte a pochi passi da me. Le urla non l'avevano
svegliato; russava appena appena. Lo lasciai ai suoi sogni e saltai a terra. Non tradii il
signor Kurtz - era nell'ordine delle cose che non l'avrei mai tradito - era scritto che sarei
stato fedele all'incubo che mi ero scelto. Ci tenevo a essere solo a trattare con quell'ombra e
ancor oggi non so spiegarmi perché mai fossi così geloso di dividere con qualcuno la
particolare tenebrosità di quell'esperienza. «Non appena raggiunsi la riva vidi una pista,
una larga pista nell'erba. Mi ricordo con quale esultanza mi dissi: "Non può camminare, si
trascina a quattro zampe, lo prendo subito." L'erba era bagnata di rugiada. Camminavo
svelto con i pugni chiusi. Credo di aver avuto una vaga intenzione di saltargli addosso e
picchiarlo. Non lo so. Ero pieno di idee strampalate. La vecchia che sferruzzava con il gatto
in grembo si intrufolò nella mia memoria e mi parve la persona più inopportuna per sedere
all'altro capo di una storia simile. Vedevo una fila di pellegrini riempire l'aria di piombo
con i loro Winchester appoggiati all'anca. Pensavo che non sarei mai tornato sul battello e
mi vedevo, solo e disarmato, vivere nei boschi fino a tarda età. Un mucchio di pensieri
assurdi, capite. E ricordo che confondevo il battito del tamburo con quello del mio cuore e
mi rallegravo della sua calma regolarità. «Intanto seguivo la pista e mi fermavo di tanto in
tanto ad ascoltare. La notte era molto chiara, una distesa blu scuro, luccicante di rugiada e
del chiarore delle stelle, in mezzo alla quale delle cose nere si ergevano immobili. Poi mi
parve di distinguere una specie di movimento davanti a me. Ero stranamente baldanzoso
quella notte. Lasciai deliberatamente la pista e descrissi correndo un largo semicerchio
(non senza, credo, ridacchiare tra me e me) in modo da arrivare davanti a quella cosa che
avevo visto in movimento, sempre che avessi visto qualcosa. Stavo accerchiando Kurtz
come se fosse un gioco da ragazzi. «Lo raggiunsi e se non mi avesse sentito arrivare, gli
sarei addirittura caduto addosso, ma si era alzato in tempo. Si sollevò, malfermo, lungo,
pallido, indistinto, simile a un vapore esalato dalla terra, e barcollò leggermentedavanti a
me, annebbiato e silenzioso, mentre, alle mie spalle, i fuochi si profilavano tra gli alberi e il
mormorio di molte voci usciva dalla foresta. Gli avevo abilmente tagliato la strada. Era
stata una mossa indovinata, ma quando, mi trovai realmente di fronte a lui, mi sembrò di
rinsavire e il pericolo mi apparve nelle sue giuste proporzioni. Non era affatto passato. E se
si fosse messo a gridare? Anche se stava a mala pena in piedi, la sua voce era ancora piena
di vigore. "Vada via! Si nasconda", disse col suo tono profondo. Era tremendo. Mi guardai
alle spalle. Eravamo a trenta metri dal fuoco più vicino. In quel momento si alzò un'ombra
nera e fece qualche passo su delle lunghe gambe nere, muovendo delle lunghe braccia nere,
controluce. Aveva delle corna - corna di antilope, penso - sulla testa. Uno stregone, un
guaritore, senza dubbio: ne aveva l'aria piuttosto diabolica. "Sa che cosa sta facendo?",
sussurrai. "Perfettamente", rispose alzando la voce per pronunciare quell'unica parola che
mi risuonò lontana eppure chiara, come un richiamo attraverso un megafono. Se si mette a
discutere siamo perduti, pensai. Anche a prescindere dalla naturale avversione che provavo
all'idea di colpire quell'Ombra, quella cosa errante e tormentata, non era certamente una
storia
da risolvere a pugni. "Lei sarà un uomo finito", dissi, "irrimediabilmente finito." Si hanno
talvolta questi lampi di ispirazione, sapete. Avevo trovato la cosa giusta da dire, anche se in
verità non avrebbe potuto essere più inesorabilmente finito di quanto lo fosse in quel
momento, quando furono gettate le basi della nostra intimità destinata a durare, a durare
fino alla fine, e anche oltre. «"Avevo immensi progetti", mormorò esitante. "Sì", dissi io,
"ma se prova a gridare le spacco la testa con, con..." Non c'era né un sasso né un bastone a
portata di mano. "La strozzo con le mie mani", mi corressi. "Ero alla vigilia di fare grandi
cose", insistette con voce avida e in un tono di rimpianto che mi raggelò il sangue. "E per
colpa di questo piccolo farabutto..." "Il suo successo in Europa", affermai fermamente, "è
in tutti i casi assicurato." Non ci tenevo a torcergli il collo, capite, senza contare che non
sarebbe servito praticamente a nulla. Cercavo di rompere l'incantesimo - il greve, muto
incantesimo della selva selvaggia - che sembrava volerlo attrarre nel suo cuore impietoso
risvegliando istinti brutali e dimenticati, facendo riaffiorare passioni appagate e
mostruose. Solo questo, ne ero persuaso, lo aveva riportato al ciglio della foresta, alla
boscaglia, verso il bagliore dei fuochi, il fremito dei tamburi, alla salmodia di magici
incantesimi; solo questo aveva trascinato la sua anima sfrenata oltre i limiti delle
aspirazioni lecite. E il terribile della situazione, vedete, non era tanto nel rischio che
correvo di ricevere un colpo in testa - benché fossi cosciente anche di quel pericolo - ma nel
fatto che avevo a che fare con un uomo al quale non mi potevo rivolgere in nome di
qualcosa né di nobile né di vile. Dovevo, proprio come i neri, invocarlo, invocare lui, la sua
stessa degradazione, esaltata e inverosimile. Non c'era nulla al di sopra o al di sotto di lui, e
io lo sapevo. Aveva volontariamente perso ogni contatto col mondo. Maledizione a lui!
Aveva fatto a pezzi il mondo stesso. Era solo, e io davanti a lui non sapevo se poggiavo sulla
terra o volteggiavo nell'aria. Vi ho riferito quello che ci dicemmo - ripetendo le frasi che
pronunciammo - ma a che pro? Erano comuni parole quotidiane, i suoni vaghi e familiari
che si scambiano ogni santo giorno della vita. E allora? Per me, era come se celassero la
terribile suggestione delle parole udite in sogno, delle frasi pronunciate in un incubo.
Un'anima! Se qualcuno ha mai lottato con un'anima, quello sono io. E notate che non stavo
discutendo con un pazzo. Che mi crediate o no, la sua mente era perfettamente lucida,
concentrata su se stessa, è vero, con spaventosa intensità, ma lucida; ed era proprio lì la
mia unica possibilità, salvo, naturalmente, ucciderlo seduta stante, il che non sarebbe stata
una gran trovata, per via dell'inevitabile rumore. Era la sua anima che era folle.
Nell'isolamento della selva selvaggia si era persa nella contemplazione di se stessa, e, per
Dio! ve l'ho detto, era impazzita. Per scontare i miei peccati, suppongo, mi toccò subire
quella prova di contemplarla a mia volta. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più
distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua
ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Lo vedevo, lo udivo.
Avevo sotto gli occhi l'inconcepibile mistero di un'anima che non conosceva né ritegno, né
fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. Non persi la testa, ma
quando finalmente lo distesi sulla cuccetta, mi asciugai il sudore dalla fronte, mentre le
gambe mi tremavano, come se avessi portato dieci quintali sulle spalle giù da quella
collina. E invece l'avevo solo sorretto, il suo braccio scheletrico stretto attorno al mio collo:
non era più pesante di un bambino. «Il giorno dopo, quando partimmo a mezzogiorno, la
folla, di cui avevo sempre avvertito nettamente la presenza dietro la cortina degli alberi, si
riversò di nuovo fuori dalla foresta, riempiendo la radura, coprendo il pendio di una massa
ansimante, fremente, di nudi corpi bronzei. Risalii contro corrente per un breve tratto, per
poi virare e mille paia d'occhi seguirono le evoluzioni di quel temibile demone fluviale che,
sciaguattando e borbottando, colpiva l'acqua con la sua terribile coda e soffiava un fumo
nero nell'aria. Davanti a tutti gli altri, lungo la sponda, tre uomini ricoperti di terra rossa
dalla testa ai piedi, si agitavano in lungo e in largo senza sosta. Quando ripassammo alla
loro altezza, fronteggiarono il fiume battendo col piede, scuotendo la testa cornata,
contorcendo il corpo scarlatto; brandirono verso il demone temibile un mazzo di piume
nere, una pelle tignosa con la coda penzoloni, qualcosa che aveva l'aspetto di una zucca
secca e, a intervalli regolari, urlarono tutti assieme delle stringhe di parole stupefacenti che
non assomigliavano al suono di alcuna lingua umana, e il mormorio profondo della folla,
interrotto all'improvviso, era simile alle risposte di qualche satanica litania. «Avevamo
portato Kurtz nella cabina di pilotaggio: c'era più aria lassù. Disteso sulla cuccetta,
guardava a occhi sbarrati fuori del portello aperto. Ci fu un vortice nella massa di corpi
umani e la donna dai capelli a elmo e le guance fulve si slanciò in avanti fin quasi a toccare
l'acqua. Con le mani tese, gridò qualcosa e tutta quella folla selvaggia si unì al suo grido in
un coro ruggente di suoni rapidi, articolati, da restare senza fiato. «"Lei li capisce?", chiesi.
«Continuò a guardar fuori di là da me con occhi ardenti e vogliosi, con un'espressione in
cui il rimpianto si mescolava all'odio. Non rispose ma sulle sue labbra esangui, che dopo
poco si contrassero convulse, vidi passare unsorriso, un indefinibile sorriso. "Se
capisco?...", disse lentamente, ansimando, come se le parole gli fossero state strappate da
una potenza soprannaturale. «Tirai la cordicella del fischio, e lo feci perché avevo visto i
pellegrini sul ponte estrarre i fucili con l'aria di pregustarsi un bello spasso. A
quell'improvviso stridio un movimento di abietto terrore attraversò quella massa stipata di
corpi. "No! No! La smetta! Così li spaventa e loro scappano", gridò una voce sconsolata sul
ponte. Io tiravo la cordicella colpo dopo colpo. Disorientati, si misero a correre: saltavano,
si acquattavano, fuggivano in tutte le direzioni per sottrarsi al terrore di quel suono
volante. I tre dipinti di rosso erano caduti ventre a terra, a faccia in giù sulla spiaggia, come
falciati di netto. Solo la magnifica donna barbara non si era mossa, e continuava a tendere
tragicamente le braccia nude verso di noi sopra il fiume cupo e scintillante. «E fu allora che
la massa di imbecilli giù sul ponte iniziò la sua piccola farsa e io non vidi più nulla per il
fumo. «La scura corrente si allontanava rapida dal cuore della tenebra, portandoci giù
verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita. La vita di Kurtz non
sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l'oceano inesorabile del
tempo. Il direttore era molto placido, ormai non aveva più preoccupazioni di vitale
importanza; il suo sguardo, che comprendeva tutti e due, si era fatto sagace e soddisfatto:
la "faccenda" si era risolta nel modo più desiderabile. Vedevo avvicinarsi il momento in cui
sarei rimasto l'unico rappresentante del partito del "metodo inadeguato". I pellegrini mi
giudicavano già sfavorevolmente. Facevo, per così dire, il paio con il morto. Strano il modo
con cui accettai questa associazione imprevista, questa scelta d'incubo che mi era stata
imposta nella terra tenebrosa invasa da quei meschini e rapaci fantasmi. «Kurtz
discorreva. Una voce! Che voce! Risuonò profonda, fino alla fine. Sopravviveva alle sue
forze per nascondere nelle magnifiche pieghe dell'eloquenza la sterilità tenebrosa del suo
cuore. Oh, lottava! lottava! La desolazione della sua mente affaticata ora era ossessionata
da immagini annebbiate, immagini di gloria e di ricchezza che ruotavano ossequiosamente
intorno al suo inestinguibile dono di espressione nobile ed elevata. La mia fidanzata, la mia
stazione, la mia carriera, le mie idee: erano questi i temi delle occasionali manifestazioni di
sentimenti sublimi. L'ombra del Kurtz originario stava al capezzale della sua vuota
imitazione, il cui destino era di essere ben presto sepolta nella muffa di quella terra
primordiale. L'amore diabolico e l'odio celeste per i misteri che aveva penetrato si
contendevano il possesso di quell'anima sazia di emozioni primitive, avida d'ingannevole
gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere. «Qualche volta
era ignobilmente infantile. Desiderava che al suo ritorno da qualche spettrale Nulla, dove
egli si proponeva di compiere grandi cose, ad attenderlo alla stazione ci fossero dei sovrani.
"Fate loro vedere", diceva, "che avete in voi qualcosa di realmente vantaggioso, e non ci
saranno limiti al riconoscimento che avranno per i vostri meriti. Naturalmente, tocca a voi
preoccuparvi dei motivi - motivi giusti - sempre." Le lunghe distese del fiume, che
sembravano una sola e sempre la stessa, le anse monotone, l'una uguale all'altra,
scivolavano lungo il battello con la loro moltitudine di alberi secolari che consideravano
pazienti quel sudicio frammento di un altro mondo, l'araldo del cambiamento, della
conquista, del commercio, dei massacri, delle benedizioni. Io guardavo avanti, pilotando.
"Chiuda il portello", disse un giorno Kurtz all'improvviso, "non sopporto quella vista." Feci
quello che chiedeva. Ci fu silenzio. "Oh, ma te lo strapperò il cuore, vedrai!", gridò
all'invisibile selva selvaggia. «Ci fu un'avaria - come mi ero aspettato - e dovemmo fermarci
sulla punta di un'isola per ripararla. Questo ritardo fu la prima cosa che scosse la sicurezza
di Kurtz. Una mattina mi diede un pacco di carte e una fotografia, il tutto legato con un
laccio da scarpe. "Lo conservi per me", disse. "Quel pernicioso imbecille" (intendendo il
direttore) "è capace di frugare nelle mie casse se non sto attento." Nel pomeriggio andai a
trovarlo: giaceva supino, con gli occhi chiusi e mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii
mormorare, "Vivere rettamente, morire, morire..." Tesi l'orecchio, ma non ci fu altro. Stava
ripetendo qualche discorso nel sonno, o era il frammento di qualche articolo di giornale?
Aveva già scritto per dei giornali e intendeva farlo ancora, "per diffondere le mie idee. È un
dovere." «La tenebra che lo circondava era impenetrabile. Lo osservavo come si
guarderebbe dall'alto un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non brilla mai il
sole. Ma non avevo tanto tempo da dedicargli, perché dovevo aiutare il macchinista a
smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella piegata, e a fare altre
riparazioni. Vivevo in un'infernale bolgia di ruggine, limatura di ferro, dadi, bulloni, chiavi
inglesi, martelli, trapani a cricco, tutte cose che detesto, perché non mi ci raccapezzo.
Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo, e sfacchinavo spossato in
quel miserabile mucchio di ferraglia, tranne quando i brividi della febbre mi impedivano di
reggermi in piedi. «Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli
dire con voce un po' tremolante: "Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte." La luce
era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: "Non dica sciocchezze!", e
rimasi curvo sopra di lui come inchiodato. «Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo
mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non
ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto
d'avorio vidi l'espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo,
e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni
particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di
conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine,
quale visione, un grido che non era che un soffio: «"Che orrore! Che orrore!"«Soffiai sulla
candela e uscii dalla cabina. I pellegrini stavano cenando in mensa, e presi il mio posto di
fronte al direttore, che alzò gli occhi per lanciarmi un'occhiata interrogativa che riuscii
fortunatamente a eludere. Era là, piegato all'indietro, sereno, con quel suo particolare
sorriso a sigillare le inespresse profondità della sua bassezza. Una pioggia continua di
moscerini si riversava sulla lampada, sulla tovaglia, sulle mani e sui volti.
Improvvisamente, il servo del direttore mostrò la sua insolente testa nera sulla soglia, e
disse, in un tono di ingiurioso disprezzo: «"Mistah Kurtz - lui morto." «Tutti i pellegrini si
precipitarono fuori a vedere. Non mi mossi e continuai la mia cena. La mia insensibilità,
immagino, fu considerata rivoltante. Comunque, non mangiai molto. C'era una lampada là
dentro - la luce, capite, - e fuori era dannatamente, dannatamente buio. Non mi avvicinai
più all'uomo notevole che aveva pronunciato un tale giudizio sulle avventure della sua
anima su questa terra. La voce s'era spenta. C'era mai stato altro lì ? Ma mi rendo
perfettamente conto che il giorno dopo i pellegrini seppellirono qualcosa nella fossa
fangosa. «E per poco non seppellirono anche me. «Comunque, come potete vedere, non ho
raggiunto Kurtz lì per lì. No. Sono rimasto a sognare l'incubo fino alla fine, e a dimostrare
la mia fedeltà a Kurtz ancora una volta. Il destino! Il mio destino! Che buffonata la vita:
questa misteriosa combinazione di logica impietosa per un futile scopo. Tutto quello che ci
si può aspettare, è una qualche conoscenza di se stessi - che viene troppo tardi - e un
mucchio di inestinguibili rimpianti. Ho lottato con la morte. È il combattimento meno
eccitante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i
piedi, niente intorno, senza testimoni, senza clamore, senza gloria, senza il gran desiderio
di vincere, senza il gran timore della sconfitta, in una insalubre atmosfera di tiepido
scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto, e meno ancora in quello
dell'avversario. Se è questa la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più
grande di quanto alcuni di noi pensano che sia. Ero a un passo dalla mia ultima occasione
di pronunciare una parola, e ho scoperto con umiliazione che probabilmente non avevo
niente da dire. Ecco perché affermo che Kurtz era un uomo notevole. Lui aveva qualcosa da
dire. E lo disse. Dal momento che ho sbirciato anch'io oltre la soglia, capisco meglio il
significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era
abbastanza vasto da abbracciare l'universo intero, abbastanza acuto per penetrare in tutti i
cuori che battono nella tenebra. Aveva tirato le somme e aveva giudicato. "Che orrore!" Era
un uomo notevole. Dopo tutto, questa era l'espressione di una specie di fede; c'era candore,
convinzione, una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, era il volto terrificante di una
verità intravista, il conturbante miscuglio del desiderio e dell'odio. E non è la mia ora
estrema che ricordo meglio - una visione di grigiore senza forma, riempita di sofferenza
fisica e di un disprezzo indifferente per l'evanescenza di tutte le cose - anche di quella
stessa sofferenza. No! È la sua agonia che mi sembra di aver vissuto. È vero che lui aveva
fatto il passo supremo, aveva oltrepassato la soglia, mentre a me era stato consentito di
ritirare il mio piede esitante. E forse in questo consiste tutta la differenza; forse tutta la
saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità sono concentrate in quell'imponderabile
momento in cui noi oltrepassiamo la soglia dell'invisibile. Forse! Mi piace credere che la
mia parola conclusiva non sarebbe stata solo una parola di indifferente disprezzo. Meglio il
suo grido, molto meglio. Era una affermazione, una vittoria morale pagata al prezzo di
innumerevoli sconfitte, di abominevoli terrori, di soddisfazioni abominevoli. Ma era una
vittoria! Ecco perché sono rimasto fedele a Kurtz fino alla fine, e anche oltre, quando,
molto tempo dopo, udii una volta ancora, non la sua voce, ma l'eco della sua magnifica
eloquenza rimandatami da un'anima pura e trasparente come un cristallo di rocca. «No,
non mi seppellirono, anche se c'è un periodo di tempo che ricordo avvolto nella nebbia, con
uno stupore da brividi, come un passaggio attraverso un mondo inconcepibile senza
speranze e senza desideri. Mi ritrovai nella città sepolcrale pieno di risentimento alla vista
di quella gente che si affrettava per le strade per rubarsi reciprocamente un po' di soldi, per
divorare quel loro cibo infame, per ingoiare quella pessima birra, per sognare i loro stupidi
sogni insignificanti. Usurpavano i miei pensieri. Erano intrusi la cui presunta conoscenza
della vita era per me un'irritante finzione, perché ero certo che non potevano
assolutamente sapere le cose che io sapevo. Il loro comportamento, che non era altro che
quello di banali individui che badano ai propri affari nella certezza di essere al sicuro, mi
indignava come un'oltraggiosa ostentazione di stupidità di fronte a un pericolo che non si è
in grado di discernere. Non avevo alcun desiderio di illuminarli, ma facevo fatica a
trattenermi dal ridergli in faccia, a quelle facce piene di stolida supponenza. Devo
ammettere che non mi sentivo tanto bene in quel periodo. Mi trascinavo barcollando per le
strade - c'erano molte faccende da sbrigare - mostrando i denti in un sorriso amaro a quelle
persone tanto rispettabili. Riconosco che la mia condotta era ingiustificabile, ma in quei
giorni la mia temperatura non era quasi mai normale. Gli sforzi della mia cara zia di
"rimettermi in forze" sembravano completamente fuori posto. Non erano le mie forze che
bisognava curare, era la mia immaginazione che bisognava placare. Conservavo il pacco di
carte che mi aveva dato Kurtz, senza sapere esattamente cosa farne. Sua madre era morta
da poco, accudita, mi dissero, dalla fidanzata di suo figlio. Un uomo sbarbato di fresco, con
modi da funzionario e occhiali cerchiati d'oro, mi fece visita un giorno e mi pose diverse
domande, circospette all'inizio, e poi sempre più soavemente pressanti, riguardo a quelli
che a lui piaceva definire i "documenti". Non ne fui sorpreso perché laggiù avevo già avuto
un paio di battibecchi con il direttore sull'argomento. Mi ero rifiutato di consegnare anche
il più piccolo pezzo di carta del pacchetto e non cambiai atteggiamento con l'occhialuto.
Alla fine divenne oscuramente minaccioso e, accalorandosi, mi fece osservare che la
Compagnia aveva diritto a ogni minimo elemento di informazione sui suoi "territori". E
aggiunse: "La conoscenza del signor Kurtz delle regioni inesplorate doveva essere molto
estesa e particolare - grazie alla sua grande abilità e alle deplorevoli circostanze nelle quali
si era trovato, perciò..." Gli assicurai che la conoscenza del signor Kurtz, per quanto estesa
fosse, non verteva su problemi commerciali o amministrativi. Allora invocò il nome della
scienza. "Sarebbe una perditaincalcolabile se", eccetera eccetera. Gli diedi il rapporto sulla
"Soppressione delle Usanze Selvagge", il cui post-scriptum era stato precedentemente
strappato. Se ne appropriò con avidità, ma finì per arricciare il naso con aria di disprezzo.
"Non è quello che avevamo il diritto di aspettarci", osservò. "Non aspettatevi altro", dissi
io. "Il resto sono solo lettere personali." Se ne andò minacciandomi vagamente di
procedere per vie legali e non l'ho più rivisto. Ma un altro tale, che si presentò come un
cugino di Kurtz, comparve due giorni dopo, ansiosissimo di sapere tutti i particolari degli
ultimi momenti del suo carissimo parente. Per inciso mi lasciò capire che Kurtz era stato
essenzialmente un grande musicista. "Aveva tutto quello che ci vuole per un immenso
successo", disse quell'uomo, che era un organista, credo, con lisci capelli grigi che gli
scendevano sul colletto unto della giacca. Non avevo motivo di dubitare della sua
affermazione, e ancora oggi non sono in grado di dire quale fosse la professione di Kurtz,
sempre che ne avesse una, né quale fra i suoi talenti fosse il più grande. Lo avevo preso per
un pittore che scriveva per i giornali, o viceversa per un giornalista che era capace di
dipingere, ma neanche il cugino (che durante la visita si ficcava il tabacco nel naso) mi
seppe dire che cosa fosse stato esattamente Kurtz. Era un genio universale - su questo mi
trovai d'accordo col vecchietto - che a quel punto si soffiò rumorosamente il naso in un
grande fazzoletto di cotone e si accomiatò, in senile agitazione, portandosi via qualche
lettera di famiglia e delle note senza importanza. Infine saltò fuori un giornalista,
desideroso di avere qualche notizia sulla sorte del suo "caro collega". Questo visitatore mi
informò che la sfera adatta a Kurtz sarebbe stata la politica "dalla parte del popolo". Aveva
sopracciglia folte e dritte, capelli ispidi tagliati a spazzola, un monocolo legato a un ampio
nastro e, divenuto espansivo, mi confidò che secondo lui Kurtz non era capace di scrivere
una riga, "ma, caspita! come parlava quell'uomo. Elettrizzava le folle. Era uno convinto,
capisce? Aveva la fede, la fede. Poteva credere in qualsiasi cosa. Sarebbe stato un magnifico
capo di un partito estremista." "Di quale partito?", chiesi. "Uno qualsiasi", rispose lui. "Era
un... un... estremista." Non ero d'accordo? Ero d'accordo. Lo sapevo, chiese, con un
improvviso lampo di curiosità, "cos'è che l'aveva spinto ad andare laggiù?" "Sì", dissi,
mettendogli fra le mani il famoso Rapporto, perché lo pubblicasse, se lo riteneva
opportuno. Lo scorse in fretta, borbottando tutto il tempo, decise che "poteva andare" e se
la svignò col suo bottino. «Perciò alla fine mi rimasero un pacchettino di lettere e il ritratto
della ragazza. Mi aveva colpito la sua bellezza, voglio dire la bellezza della sua espressione.
So che anche la luce del sole può essere resa ingannevole, però si aveva l'impressione che
nessun artificio nella posa o nell'illuminazione avesse potuto prestare ai suoi lineamenti
una sfumatura così delicata di genuinità. Sembrava pronta ad ascoltare senza riserve
mentali, senza sospetti, senza pensare a se stessa. Decisi che sarei andato a trovarla e che le
avrei restituito di persona il ritratto e quelle lettere. Curiosità? Sì, e forse qualche altro
sentimento. Tutto quello che era stato di Kurtz mi era scivolato fra le mani: la sua anima, il
suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Rimanevano solo la
sua memoria e la sua fidanzata - e, in un certo senso, volevo cedere anche quello al passato
- consegnare di persona tutto quello che restava di lui a quell'oblio che è l'ultima parola del
nostro comune destino. Non sto cercando di difendermi. Non avevo la percezione esatta di
cos'era che volevo veramente. Forse era un impulso di fedeltà inconscio, o la realizzazione
di una di quelle ironiche necessità che si dissimulano dietro gli avvenimenti dell'esistenza
umana. Non lo so. Non saprei dire. Ci andai e basta. «Pensavo che il ricordo di Kurtz fosse
uguale a tutti i ricordi degli altri morti che si accumulano nella vita di ogni uomo, una vaga
impronta tracciata sulla memoria da ombre che l'hanno lasciata nel loro rapido passaggio
estremo; ma davanti all'imponente portone massiccio, fra le alte case di una strada
tranquilla e decorosa come il viale ben tenuto di un cimitero, ebbi una visione di lui sulla
barella, che apriva voracemente la bocca, quasi volesse divorare la terra e l'umanità tutte
intere. Sorse lì davanti a me, vivo come non lo era mai stato, ombra insaziabile di
magnifiche apparenze, di spaventose realtà, ombra più tenebrosa dell'ombra della notte,
avvolta nelle nobili pieghe di una sfarzosa eloquenza. La visione sembrò entrare in casa con
me - la barella, i portatori fantasma, la folla selvaggia dei suoi soggiogati adoratori,
l'oscurità della foresta, lo scintillio del fiume fra le anse annebbiate, il rullio del tamburo,
regolare e velato come il battito di un cuore - il cuore di una tenebra vittoriosa. Fu un
momento di trionfo per la selva selvaggia, un'incursione invadente e vendicativa che a me
sembrava di dover respingere da solo per la salvezza di un'altra anima. E il ricordo di
quello che gli avevo sentito dire laggiù, mentre le forme cornate si muovevano dietro di me,
nel bagliore dei fuochi, dentro ai boschi pazienti, quelle frasi spezzate risuonarono in me,
in tutta la loro sinistra e terrificante semplicità. Ricordai la sua abietta insistenza, le abiette
minacce, l'ampiezza smisurata dei suoi bassi desideri, la meschinità, il tormento, l'angoscia
della sua anima in tempesta. E poi mi parve di vedere la sua aria languida e posata del
giorno in cui mi aveva detto: "Tutto questo avorio in realtà appartiene solo a me. La
Compagnia non ha pagato per averlo. L'ho raccolto io, con grandissimo rischio personale.
Temo però che tenteranno di rivendicarne la proprietà. Uhm. È un caso delicato. Cosa
pensa che dovrei fare? Oppormi, eh? Io non chiedo che giustizia."... Non chiedeva che
giustizia, nient'altro che giustizia. Suonai a una porta di mogano, al primo piano, e mentre
aspettavo, sembrava che lui mi fissasse dal fondo del vitreo pannello, col suo sguardo
dilatato e immenso che avvolgeva, condannava, esecrava tutto l'universo. Mi sembrò di
sentire quel grido sussurrato: "Che orrore! Che orrore!" «Si faceva sera. Dovetti aspettare
in un ampio salone con tre finestre alte da terra al soffitto che parevano tre colonne
luminose e drappeggiate. Le gambe e gli schienali dorati e torniti dei mobili risplendevano
in curve indistinte. Il grande camino di marmo era di una bianchezza fredda e
monumentale. Un pianoforte a coda si allungava massiccio in un angolo, con oscuri riflessi
sulle superfici lisce come un tetro sarcofago levigato. Si aprì una lunga porta, si richiuse.
Mi alzai. «Venne avanti, vestita di nero, pallida, fluttuante verso di me nella luce del
crepuscolo. Era in lutto. Era passato più di un anno dalla morte di lui, più di un anno dalla
notizia della sua morte, ma lei sembrava dovessericordarlo e piangerlo per sempre. Prese le
mie mani fra le sue e mormorò: "Avevo sentito dire che sarebbe venuto." Notai che non era
tanto giovane, voglio dire che non aveva niente della ragazzina. Dell'età matura aveva la
capacità di essere fedele, di credere, di soffrire. Sembrava che la stanza fosse diventata più
buia, come se tutta la triste luce di quella sera nuvolosa si fosse rifugiata sulla sua fronte.
Quei capelli biondi, quel pallido viso, quella fronte pura, sembravano circondati da un
alone cinereo da cui mi guardavano due occhi scuri. Lo sguardo era innocente, profondo,
fiducioso e aperto. Portava la sua immagine di dolore come se fosse fiera di quel dolore,
quasi volesse dire: io, io sola so piangerlo come lui merita. Ma mentre ci stringevamo
ancora le mani, sul suo volto passò un'espressione di una tale desolazione che capii che lei
non era una di quelle creature di cui il tempo si fa gioco. Per lei era come se lui fosse morto
ieri. E per Giove!, l'impressione fu così forte che anche a me parve che lui fosse morto ieri,
cosa dico?, in quel momento stesso. Vidi l'uno e l'altro nello stesso istante - la morte di lui e
il dolore di lei - vidi quale era stato il dolore di lei nel momento stesso della morte di lui. Mi
capite? Li vidi insieme, li udii insieme. Lei mi aveva detto, con un profondo singhiozzo
nella voce: "Sono sopravvissuta", mentre alle mie orecchie tese sembrava di udire
distintamente, mescolato al tono di disperato rimpianto di lei, il sussurro della resa dei
conti dell'eterna condanna di lui. Mi chiesi cosa ci stessi a fare là, con un senso di panico
nel cuore come se mi fossi smarrito in un luogo pieno di misteri assurdi e crudeli, proibito
ai mortali. Mi portò verso una sedia e ci sedemmo. Posai delicatamente il pacchetto sul
tavolino e lei ci mise la mano sopra... "Lei lo conosceva bene", mormorò dopo un attimo di
doloroso silenzio. «"Fa presto a nascere l'intimità laggiù", dissi. "Lo conoscevo quanto è
possibile a un uomo conoscerne un altro." «"E lo ammirava", disse. "Era impossibile
conoscerlo senza ammirarlo. Vero?" «"Era un uomo notevole", dissi con voce incerta. E
davanti alla fissità implorante di quello sguardo che sembrava aspettare altre parole dalle
mie labbra, aggiunsi: "Era impossibile non..." «"Amarlo", terminò con ardore, lasciandomi
muto e sgomento. "Com'è vero! Com'è vero! E pensare che nessuno lo conosceva bene
come me. Avevo tutta la sua nobile fiducia. Io lo conoscevo meglio di tutti." «"Lei lo
conosceva meglio di tutti", ripetei. E magari era vero. Ma ad ogni parola pronunciata la
stanza si faceva più buia e solo la sua fronte, liscia e bianca, rimaneva accesa per
l'inestinguibile luce della fede e dell'amore. «"Lei era suo amico", proseguì. "Suo amico",
ripeté un po' più forte. "Bisognava che lei lo fosse se le ha dato questo e l'ha mandata da
me! Sento di poter parlare con lei e... oh! ho bisogno di parlare. Voglio che lei sappia - lei
che ha udito le sue ultime parole - che io sono stata degna di lui... Non è orgoglio... Ebbene
sì! Sono fiera di sapere che ero io quella che lo aveva capito meglio di chiunque altro a
questo mondo, me l'ha detto lui stesso. E da quando è morta sua madre non ho avuto
nessuno - nessuno - con cui - con cui..." «Io ascoltavo. L'oscurità diventava più profonda.
Non ero neanche sicuro che lui mi avesse dato il carteggio giusto. Ho qualche motivo di
credere che quel che mi voleva affidare fosse un altro pacco di carte che, dopo la sua morte,
ho visto fra le mani del direttore mentre le esaminava sotto la lampada. E la ragazza
parlava, traendo dalla certezza di avere la mia simpatia un conforto alla sua afflizione;
parlava come beve un assetato. Avevo sentito dire che il suo fidanzamento con Kurtz non
era stato approvato dalla sua famiglia. Non era abbastanza ricco o qualcosa di simile. E
infatti non so se sia stato povero tutta la sua vita. Mi aveva dato qualche motivo di arguire
che fosse stata l'insofferenza per la sua relativa povertà a spingerlo laggiù. «"... Chi non era
suo amico dopo averlo sentito parlare anche solo una volta?", stava dicendo. "Attirava gli
uomini a sé con quello che c'era di meglio in loro." Mi fissò intensamente. "È la dote dei
grandi", continuò, e il suono della sua voce bassa sembrava avere l'accompagnamento di
tutti gli altri suoni, pieni di mistero, di desolazione e di dolore, che avevo sentiti altrove: il
mormorio del fiume, il fremito degli alberi agitati dal vento, il lamento della folla, la debole
eco di parole incomprensibili gridate da lontano, il sussurro di una voce che parlava di là
dalla soglia di una tenebra eterna. "Ma lei lo ha udito! Lo sa!", esclamò. «"Sì, lo so", dissi
con una specie di disperazione nel cuore, ma con la testa china davanti alla fede che c'era
in lei, davanti alla grande, salutare illusione che splendeva di una luce non terrena in
quella oscurità, nella trionfante tenebra da cui non l'avrei potuta difendere, da cui non
potevo difendere neanche me stesso. «"Che perdita per me - per noi", si corresse con
magnanima generosità; e aggiunse in un sussurro: "per il mondo." Negli ultimi bagliori del
crepuscolo potevo distinguere il luccichio dei suoi occhi, pieni di lacrime, di lacrime che
non volevano cadere. «"Sono stata molto felice - molto fortunata - molto fiera", continuò.
"Troppo fortunata. Troppo felice per una breve parentesi. E ora sono infelice per... per
tutta la vita." «Si alzò. I suoi capelli biondi sembrarono raccogliere, in uno scintillio dorato,
tutta la luce che rimaneva. Mi alzai anch'io. «"E di tutto questo", proseguì, con desolazione,
"di tutto quello che prometteva, della sua grandezza, della sua mente generosa, del suo
nobile cuore, non rimane nulla, nulla se non il ricordo. Lei e io..." «"Lo ricorderemo
sempre", dissi in fretta. «"No!", gridò. "È impossibile che tutto vada perduto - che una vita
simile sia stata sacrificata per non lasciare nulla - se non dolore. Lei sa quali grandiosi
progetti avesse. Anch'io li conoscevo, - potevo forse non capirli - ma altri ne erano a
conoscenza. Qualcosa deve restare. Le sue parole almeno non sono morte." «"Le sue parole
resteranno", dissi. «"E il suo esempio", mormorò tra sé. "Gli sguardi degli uomini erano
puntati su di lui. Ogni sua azione brillava di bontà. Il suo esempio..."«"È vero", dissi,
"anche il suo esempio. Sì, il suo esempio. Lo dimenticavo." «"Ma io no. Non posso - non
posso crederci - non ancora. Non posso credere che non lo vedrò mai più, che nessuno lo
rivedrà mai, mai, mai più." «Come verso un'immagine che si allontana, giunse le mani
bianche e tese le braccia che, in controluce nell'angusta e pallida luce della finestra,
sembrarono tutte nere. Non rivederlo mai! In quel momento io lo rivedevo abbastanza
distintamente. Continuerò a vedere quell'eloquente fantasma per tutta la vita, e vedrò
anche lei, ombra tragica e familiare, simile in quel gesto a un'altra, altrettanto tragica,
adorna di incantesimi impotenti, che tendeva le sue braccia brune e nude, sopra lo
scintillio del fiume infernale, il fiume della tenebra. All'improvviso disse, con voce molto
bassa: "È morto com'è vissuto." «"La sua morte", dissi, mentre un'ira funesta montava in
me, "è stata in tutto degna della sua vita." «"E io non ero con lui", mormorò. La mia ira
lasciò il posto a un sentimento di pietà infinita. «"Tutto quello che si poteva fare...",
borbottai. «"Ah, ma io credevo in lui più di chiunque altro al mondo - più di sua madre -
più di... lui stesso. Aveva bisogno di me! Di me! Avrei raccolto gelosamente ogni sospiro,
ogni parola, ogni movimento, ogni sguardo." «Sentii come una stretta gelida al petto. "Non
faccia così", dissi, con voce strozzata. «"Mi perdoni. Io, io ho pianto così tanto in silenzio,
in silenzio... Lei è stato con lui, fino all'ultimo? Penso alla sua solitudine. Nessuno vicino
che lo capisse, come l'avrei capito io. Forse nessuno ad ascoltare..." «"Fino alla fine", dissi
scosso. "Ho udito le sue ultime parole...", mi interruppi spaventato. «"Le ripeta", mormorò
con voce spezzata. "Voglio, voglio qualcosa, qualcosa, con cui vivere." «Stavo per gridarle:
"Ma non le sente?" L'oscurità attorno a noi le stava ripetendo in un sussurro ostinato, in un
sussurro che sembrava gonfiarsi minaccioso, come il primo mormorio di un vento che si
alza. "Che orrore! Che orrore!" «"L'ultima parola, per aiutarmi a vivere", pregò. "Non
capisce che io lo amavo, lo amavo, lo amavo!" «Mi ricomposi e parlai lentamente.
«"L'ultima parola che ha pronunciato è stata... il suo nome." «Percepii un leggero sospiro e
poi il mio cuore cessò di battere, fermato di colpo da un terribile grido esultante, un grido
di inconcepibile trionfo e di dolore inesprimibile. "Lo sapevo, ne ero certa!..." Lo sapeva, ne
era certa. La sentii singhiozzare. Aveva nascosto il viso fra le mani. Ebbi l'impressione che
sarebbe crollata la casa prima che io potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sulla
testa. Ma non accadde nulla. Il cielo non cade per così poco. Sarebbe caduto, mi domando,
se avessi reso a Kurtz quella giustizia che gli era dovuta? Non aveva detto che voleva solo
giustizia? Ma non ne fui capace. Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppo tenebroso,
decisamente troppo tenebroso...» Marlow tacque e rimase seduto in disparte, indistinto e
silenzioso, nella posa di un Budda in meditazione. Nessuno si mosse per un po'. "Abbiamo
perso l'inizio del riflusso", disse il Direttore all'improvviso. Sollevai la testa.
L'orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell'acqua - che come un viale
tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto,
sembrava condurre dentro al cuore di un'immensa tenebra.
Nessun commento:
Posta un commento