venerdì 8 aprile 2011

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Józef Teodor Konrad Korzeniowski
Joseph Conrad


Cuore di Tenebra



Tradotto da Francesco

Persichelli (2007) pubblicato su

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I

La
Nellie ruotò sull'ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era


alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che

ormeggiare aspettando il riflusso. L'estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile

all'imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e,

nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi

trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di

aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si

perdevano nel mare. L'aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava

addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più

illustre, città del mondo. Il Direttore delle Compagnie era il nostro capitano e il nostro

ospite. Noi quattro l'osservavamo con affetto mentre, a prua, volgendoci le spalle, guardava

verso il mare. Su tutta la distesa del fiume, nulla aveva l'aria più navigata di lui. Si sarebbe

detto un pilota, che per un marinaio è come dire la fiducia in persona. Era difficile credere

che il suo lavoro non si svolgesse là, su quell'estuario luminoso, ma alle sue spalle, dentro

quell'incombente oscurità. Fra noi, come ho già detto da qualche parte, c'era il legame del

mare. Oltre che tenere uniti i nostri cuori durante i lunghi periodi di separazione, aveva

l'effetto di farci tollerare i racconti e addirittura le convinzioni gli uni degli altri.

L'Avvocato, il migliore dei vecchi compagni, in ragione dei suoi numerosi anni e delle sue

molte virtù, aveva diritto all'unico cuscino che ci fosse sul ponte ed era disteso sulla nostra

unica coperta. Il Contabile aveva già preparato il domino e si divertiva ad architettare

piccole costruzioni con le tessere d'osso. Marlow sedeva all'estrema poppa a gambe

incrociate, appoggiato all'albero di mezzana. Aveva le guance incavate, la carnagione gialla,

il dorso eretto, l'aspetto ascetico: con le braccia distese e il palmo delle mani aperte volto in

fuori, assomigliava a un idolo. Il Direttore, soddisfatto della tenuta dell'ancora, venne a

poppa e si sedette in mezzo a noi. Scambiammo qualche parola, svogliatamente. Poi ci fu

silenzio a bordo dello yacht. Non ricordo per quale ragione non iniziammo la partita di

domino. Eravamo in vena di meditazioni, a nient'altro disposti che a una placida

contemplazione. Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L'acqua

scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle

paludi dell'Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata

ai pendii boscosi dell'interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane. Solo

l'oscurità a ponente, che incombeva sui tratti superiori del fiume, diventava sempre più

tetra, come irritata dall'avvicinarsi del sole. E infine, nella sua caduta obliqua e

impercettibile, il sole toccò l'orizzonte e dal bianco incandescente passò a un rosso opaco,

senza raggi e senza calore, come stesse per spegnersi all'improvviso, colpito a morte al

contatto di quella oscurità che incombeva sopra una moltitudine di uomini. Anche

sull'acqua ci fu un cambiamento repentino, e la serenità si fece meno brillante, ma più

profonda. Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di

onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di

una via che conduce ai confini più remoti della terra. Guardavamo quel venerabile corso

d'acqua non nella passeggera vampata di un giorno che compare e poi scompare per

sempre, ma nell'augusta luce dei ricordi duraturi. E di fatti, non c'è niente di più facile che

un uomo che, come si usa dire, si è "votato al mare" con amore e riverenza, si metta a

evocare il grande spirito del passato sull'estuario del Tamigi. La corrente della marea che

va e che viene nel suo incessante lavorio, è popolata dal ricordo degli uomini e delle navi

che ha portato verso il riposo nel nido natio o alle battaglie nell'Oceano. Li aveva conosciuti

e serviti tutti, quegli uomini di cui la nazione è fiera, da Sir Francis Drake a Sir John

Franklin, tutti cavalieri, con o senza investitura, i grandi cavalieri erranti del mare. Le

aveva portate tutte, quelle navi dai nomi come gioielli scintillanti nella notte dei tempi,

dalla Golden Hind, che rientrava in porto con i rotondi fianchi tutti pieni di tesori, per

ricevere la visita di sua maestà la Regina e poi uscire dalla gloriosa leggenda, fino

all'Erebus e alla Terror, partite per altre conquiste, e non più ritornate. Aveva conosciuto le

navi e gli uomini, quelli partiti da Deptford, da Greenwich, da Erith, gli avventurieri e i

coloni, navi di re e navi di banchieri, capitani e ammiragli, loschi "intermediari" dei traffici

con l'Oriente e "generali" incaricati delle flotte delle Indie Orientali. Che cercassero l'oro o

che inseguissero la gloria, tutti avevano disceso quelle acque, portando la spada e spesso la

fiaccola, messaggeri della potenza di quella terra, depositari di una scintilla del fuoco sacro.

Quale grandezza non aveva fluttuato sulla corrente di quel fiume verso il mistero di un

mondo sconosciuto!... Sogni di uomini, semi di comunità, germi di imperi!... Il sole

tramontò. L'ombra cadde sul fiume e le luci cominciarono ad apparire lungo le sponde. Il

faro di Chapman, issato come su un treppiedi sul suo banco di fango, gettava uno sfavillio

intenso. Le luci delle navi si spostavano nel canale: un gran movimento di luci che si

avvicinavano e si allontanavano. E più a occidente, nel tratto a monte del fiume, il luogo

della città mostruosa restava sinistramente segnato nel cielo: una cappa incombente alla

luce del giorno, un riflesso livido sotto le stelle. «E anche questo», disse Marlow

all'improvviso, «è stato uno dei luoghi di tenebra della terra.» Era il solo fra noi che ancora

"corresse" il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto, era che rappresentava in

modo atipico la sua categoria. Era un marinaio, ma era anche un vagabondo, mentre la

maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria. La loro indole è

casalinga; e la loro casa, la nave, se la portano sempre dietro, e così il loro paese, il mare.

Non c'è nave che non assomigli a un'altra, e il mare è sempre lo stesso. Nell'immutabilità di

ciò che le circonda, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della

vita,tutto scivola e passa, velato non dal senso del mistero, ma da un'ignoranza un po'

sdegnosa. Perché, per un marinaio, non c'è niente di misterioso al di fuori del mare,

signore e padrone della sua vita, e imperscrutabile come il destino. Per il resto, gli bastano

una passeggiata o una bisboccia a terra, di tanto in tanto, al termine del lavoro, per

scoprire il segreto di un intero continente e per capire, di solito, che non valeva la pena di

conoscerlo. I prolissi racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e il loro

significato sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era tipico (se non per la sua

tendenza a essere prolisso); per lui il significato di un episodio non andava cercato

all'interno, nel gheriglio, ma all'esterno, in ciò che, avviluppando il racconto, finiva col

rivelarlo, come la luce rivela la foschia, allo stesso modo in cui l'illuminazione spettrale del

chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi. La sua osservazione non sorprese

nessuno. Era nello stile di Marlow. Venne accolta in silenzio. Neanche un grugnito da parte

nostra. E dopo un istante riprese a parlare, molto lentamente: «Stavo pensando a quei

tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa.

L'altro ieri... È uscita la luce da questo fiume, da allora... I Cavalieri, dite? Già; ma è come

una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nuvole. Noi viviamo in quel

guizzo, che possa durare finché questa vecchia terra continua a girare! Ma ieri, qui, c'erano

le tenebre. Vi immaginate lo stato d'animo del capitano di una bella - com'è che si chiama?

ah sì - trireme del Mediterraneo, che riceve bruscamente l'ordine di portarsi al nord,

attraversare in gran fretta la terra dei Galli, prendere il comando di una di quelle

imbarcazioni che i legionari - altra manica di uomini in gamba - costruivano a centinaia, in

un mese o due, se si deve credere a quello che si legge. Immaginatevelo qui, in capo al

mondo, un mare color del piombo, un cielo color del fumo, una nave non più rigida di una

fisarmonica, a risalire questo fiume con delle provviste, degli ordini, o chissà cosa d'altro.

Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi, ben poco da mangiare per un uomo civilizzato e

da bere, solo l'acqua del Tamigi. Niente Falerno qui, niente scali a terra. Qua e là un campo

militare sperduto nella landa selvaggia, come un ago in un pagliaio - il freddo, la nebbia, le

tempeste, le malattie, l'esilio e la morte - la morte in agguato nell'aria, nell'acqua, nella

boscaglia. Dovevano morire come mosche qui. Eppure lui se l'è cavata. E bene anche,

indubbiamente, e senza neanche pensarci troppo, se non dopo, forse, per vantarsi di tutto

quello che aveva dovuto sopportare. Sì, erano uomini quanto basta per poter guardare le

tenebre in faccia. E forse lui si faceva coraggio tenendo d'occhio di tanto in tanto la

possibilità di una promozione alla flotta di Ravenna, sempre che avesse buoni amici a

Roma e che sopravvivesse all'orribile clima. Oppure provate a pensare a un giovane

cittadino di buona famiglia con tanto di toga - troppo dedito ai dadi, forse, sapete dove

portano - che arriva qui al seguito di qualche prefetto, o di un esattore delle imposte,

oppure di un mercante, per rimettere in sesto la sua fortuna. Sbarcare in una palude,

marciare nei boschi, e in qualche posto dell'interno sentirsi circondato da una natura

selvaggia, assolutamente selvaggia - tutta quella vita misteriosa della landa selvaggia che si

agita nella foresta, nella giungla, nel cuore degli uomini selvaggi. E non c'è iniziazione a

questi misteri. Lui deve vivere in mezzo all'incomprensibile, che in sé è già detestabile. Che

però ha anche un fascino, e che comincia a far presa sul nostro uomo. Il fascino dell'orrido,

capite? Immaginate i rimpianti, sempre più grandi, il desiderio ossessivo di fuggire, il

disgusto impotente, la resa, l'odio.» Si interruppe. «Badate», ricominciò, alzando un

avambraccio, il palmo della mano in fuori, le gambe incrociate: adesso aveva la posa di un

Budda in preghiera, vestito all'europea e senza fior di loto. «Badate, nessuno di noi

proverebbe niente di simile. Ciò che ci salva è l'efficienza, il culto dell'efficienza. Ma su

quegli uomini non si poteva fare molto affidamento. Non erano colonizzatori e la loro

amministrazione non era che l'arte di spremere, nient'altro, temo. Erano dei conquistatori

e per questo, non ci vuole che la forza bruta, niente di cui essere fieri quando la si ha,

perché questa forza non è che un accidente che deriva dalla debolezza altrui. Mettevano le

mani su tutto quello che potevano arraffare, per il solo piacere di arraffare. Si trattava

propriamente di rapina a mano armata, di omicidio premeditato su vasta scala, e gli

uomini ci andavano alla cieca, come fanno tutti quelli che si devono misurare con le

tenebre. La conquista della terra, che sostanzialmente consiste nello strapparla a quelli che

hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa

tanto bella da vedere, quando la si guarda troppo da vicino. Quello che la riscatta è solo

l'idea. Un'idea che la sostenga, non un pretesto sentimentale, ma un'idea e una fede

disinteressata, qualcosa, insomma, da esaltare, da ammirare, a cui si possano offrire

sacrifici.» Si interruppe. Dei bagliori passavano sul fiume, piccoli bagliori verdi, rossi o

bianchi, che si inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, si incrociavano per poi

separarsi, lentamente o in fretta. Il traffico della grande città proseguiva senza sosta nel

cuore della notte sprofondata sul fiume senza sonno. Noi guardavamo e attendevamo con

pazienza: non c'era altro da fare fino alla fine della marea. Solo dopo un lungo silenzio,

quando, con voce esitante, ci disse: «Suppongo che vi ricordiate di quando, per un po' di

tempo, son diventato marinaio d'acqua dolce», capimmo di essere destinati, prima che il

riflusso si facesse sentire, ad ascoltare il racconto di una delle inconcludenti esperienze di

Marlow. «Non ho intenzione di affliggervi con quello che mi è capitato personalmente»,

incominciò, tradendo con questa osservazione l'errore comune a tanti narratori che

sembrano così spesso non sapere quello che il loro uditorio preferirebbe sentire. «Però, per

capire l'effetto prodotto su di me, bisogna che sappiate come sono giunto fin là, cosa ho

visto, e come ho risalito quel fiume fino al luogo in cui per la prima volta ho incontrato quel

poveraccio. Era il limite estremo accessibile alla navigazione: fu anche il punto culminante

della mia avventura. Mi è sembrato che emanasse una specie di luce su tutte le cose

intorno a me e sui miei pensieri. Era oscuro, ciononostante, e penoso, per nulla

straordinario, ma neanche chiaro. No, non molto chiaro... Eppure sembrava emanare una

specie di luce...«Ero appena tornato a Londra, ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano

Indiano, Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno - e

bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se

avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un po' andò benissimo, ma ben

presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave:

penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene

di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi. «Dovete sapere che, quand'ero un

ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare

l'America del sud, o l'Africa o l'Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell'esplorazione. A

quei tempi c'erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno

dall'aria particolarmente invitante (ma ce l'hanno tutti quell'aria) ci posavo il dito sopra e

dicevo: "Quando sarò grande, ci andrò." Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo.

Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L'incanto è finito. Altri di quei

luoghi erano disseminati intorno all'Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli

emisferi. In qualcuno ci sono stato, e... beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n'era

uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente

attratto. «È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto. Dalla mia infanzia, si era

riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente

avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria.

Era diventato un luogo di tenebra. Ma là dentro c'era soprattutto un fiume, un fiume

possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il

corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E

mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un

serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c'era una

grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume. Diamine, mi dissi, non

potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella

massa d'acqua dolce - i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno?

Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l'idea di dosso. Il

serpente mi aveva incantato. «Si trattava in realtà di un'impresa continentale, la

Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a

sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra. «Devo purtroppo ammettere

che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine

ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la

mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di

esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l'impressione che lì ci dovevo andare, a

qualunque costo. Così li scomodai. Gli uomini mi dissero "Carissimo" e non fecero nulla.

Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all'opera

per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l'idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una

tenera anima entusiasta. Mi scrisse: "Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi

cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un'idea straordinaria. Conosco la moglie di un

personaggio molto in vista nell'Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in

capitolo...", ecc., ecc. Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di

un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio. «Naturalmente ottenni il posto, e anche

rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era

stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più

impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava

del corpo, seppi che all'origine della questione c'era stato un malinteso per delle galline. Sì,

per due galline nere! Fresleven - è così che si chiamava quell'uomo, un danese - pensando

di essere stato in qualche modo imbrogliato nell'affare, scese a terra e iniziò a picchiare il

capo del villaggio con un bastone. Oh, non mi sorpresi neanche un po' quando me lo

raccontarono e neanche quando, contemporaneamente, mi assicurarono che Fresleven era

l'essere più mite e più pacifico che avesse mai camminato su questa terra. Era sicuramente

vero, ma erano già due anni che era laggiù, al servizio della nobile causa, sapete, e

probabilmente sentiva un estremo bisogno di riaffermare in qualche modo la sua dignità.

Perciò bastonò il nero senza pietà, sotto gli occhi impietriti degli indigeni, finché un uomo -

mi dissero che era il figlio del capo del villaggio - spinto alla disperazione dalle urla del

vecchio, provò, in via sperimentale, a colpire il bianco con la lancia che, naturalmente,

entrò senza difficoltà fra le due scapole. Al che l'intera popolazione se la svignò nella

foresta, aspettandosi ogni genere di calamità, mentre, dal canto suo, il vapore che

Fresleven comandava se la filava anche lui in preda al panico, agli ordini, credo, del

macchinista. In seguito, nessuno sembrò preoccuparsi molto dei resti di Fresleven, fino al

giorno in cui arrivai io a prendere il suo posto. Non potevo non seppellirlo; ma quando

finalmente mi si presentò l'occasione di incontrare il mio predecessore, l'erba che gli

cresceva tra le costole era abbastanza alta da nascondere le sue ossa. C'erano tutte. Dopo la

sua caduta, l'essere soprannaturale non era stato toccato. E nel villaggio abbandonato, le

capanne si spalancavano come bocche nere, putrescenti, tutte sghembe entro i recinti

caduti. Una calamità si era davvero abbattuta su di lui. E la popolazione era svanita. Un

terrore folle li aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e non erano più

ritornati. Anche le galline, non so che fine abbiano fatto. Immagino, però, che siano andate

alla causa del progresso. In ogni modo, fu per quest'affare glorioso che io ricevetti la mia

nomina, prima ancora che avessi iniziato a sperarci. «Corsi come un matto per essere

pronto in tempo e, meno di quarantott'ore dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai

miei datori di lavoro, e firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi

fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo. Non mi fu difficile

trovare gli uffici della Compagnia. Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di

tutti quelli che incontravo. S'accingevano a gestire un impero d'oltremare e a trarne una

barca di soldi con il commercio.«Una strada stretta e deserta, sprofondata nell'ombra di

alte case, piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l'erba che spuntava

fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie porte che stavano

faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure, salii una scala spoglia e pulita,

arida come un deserto, e aprii la prima porta che trovai. Due donne, una grassa e una

magra, sedute su seggiole impagliate, sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e

venne dritta verso di me, sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre

pensavo di scansarmi per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si

fermò e sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un

ombrello. Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d'aspetto. Dissi il mio

nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo, seggiole comuni intorno alle

pareti, su un lato una grande carta lucida, segnata con tutti i colori dell'arcobaleno. Una

gran quantità di rosso - sempre bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio - un

bel po' di azzurro, un po' di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza

violacea, che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono

l'euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel giallo. Dritto nel

centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente. Ohi, ohi! Una porta

s'aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un'espressione di compatimento,

e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario. La luce era fioca, e una

massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza. Dietro quel monumento si

distingueva una pallida pinguedine in redingote. Il grand'uomo in persona. Poco più alto di

un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva in pugno le fila di chissà quanti

milioni. Mi strinse la mano, se non mi sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto

del mio francese. Bon voyage. «Passati quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala

d'aspetto con il segretario compassionevole, che, afflitto e partecipe, mi fece firmare dei

documenti. Credo di essermi impegnato, fra l'altro, a non rivelare segreti commerciali.

Beh, non ho intenzione di farlo. «Cominciavo a sentirmi un po' a disagio. Sapete che non

sono abituato a questo genere di cerimonie, e nell'atmosfera c'era qualcosa di sinistro.

Come se mi avessero coinvolto in una cospirazione - non so - in qualcosa di non proprio

onesto; ed ero contento di andarmene. Nell'anticamera, le due donne sferruzzavano

febbrilmente la lana nera. Arrivava gente e la più giovane andava avanti e indietro ad

accompagnarla. La vecchia restava seduta sulla sua sedia, con le ciabatte di stoffa

appoggiate su uno scaldino, e un gatto che le riposava in grembo. Portava sulla testa un

affare bianco, inamidato, aveva una verruca su una guancia e gli occhiali cerchiati

d'argento poggiavano sulla punta del naso. Mi diede un'occhiata da sopra le lenti. La

placidità sbrigativa e distaccata di quello sguardo mi turbò. A due giovanotti, che con aria

allegra e spensierata stavano seguendo la loro guida, lei lanciò la stessa rapida occhiata di

imperturbabile saggezza. Pareva sapesse tutto di loro e anche di me. Mi invase una

sensazione inquietante. Lei mi sembrava misteriosa e fatale. Spesso, quand'ero laggiù,

ripensai a quelle due - le guardiane della porta delle tenebre - che sferruzzavano la loro

lana nera come per farne una calda coltre funebre, una che accompagnava, accompagnava

senza tregua verso l'ignoto, l'altra che scrutava i volti allegri e spensierati con i suoi vecchi

occhi impassibili. Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant. Di tutti

quelli che lei guardò, non furono in molti a rivederla: molto meno della metà. «Restava

ancora la visita dal dottore. "Una semplice formalità", mi assicurò il segretario, con l'aria di

prendere immensa parte a tutte le mie pene. A questo scopo, un giovanotto, che portava il

cappello inclinato sul sopracciglio sinistro, un impiegato, immagino - ci dovevano pur

essere degli impiegati in quell'azienda, anche se l'edificio era altrettanto silenzioso di una

casa della città dei morti - arrivò da qualche piano superiore e mi fece strada. Era sciatto e

trasandato, con delle macchie di inchiostro sulle maniche della giacca, e un'ampia cravatta

svolazzante sotto un mento a punta, come uno stivale vecchio. Siccome era un po' troppo

presto per il dottore, proposi di andare a bere qualcosa, il che lo fece diventare gioviale.

Mentre sedevamo davanti ai nostri vermout, si mise a magnificare gli affari della

Compagnia, tanto che, di lì a poco, espressi la mia sorpresa che non fosse andato laggiù.

Diventò subito freddo e riservato. "Non sono così stupido come sembro, disse Platone ai

suoi discepoli", proferì in tono sentenzioso; poi vuotò il bicchiere con grande risolutezza e

ci alzammo. «Il vecchio medico mi tastò il polso pensando visibilmente ad altro. "Buono,

buono per laggiù", borbottò, e poi con una certa animazione mi chiese se gli permettevo di

misurarmi la testa. Piuttosto sorpreso dissi di sì ed egli tirò fuori una specie di calibro.

Prese le mie misure, davanti, di dietro, da tutte le parti, annotandole accuratamente. Era

un ometto mal rasato, con un logora palandrana e, ai piedi, un paio di pantofole. Mi fece

l'effetto di un matto innocuo. "Nell'interesse della scienza, chiedo sempre il permesso di

misurare il cranio di quelli che vanno laggiù", disse. "Anche quando tornano?", domandai.

"Oh", rispose, "io non li vedo mai e poi i cambiamenti, sa, avvengono internamente."

Sorrise, come se avesse detto una spiritosaggine. "Così lei va laggiù. Ottima idea.

Interessante, anche." Mi lanciò un'occhiata indagatrice e prese un altro appunto. "Nessun

caso di pazzia in famiglia?", chiese in tono molto naturale. Mi seccai moltissimo. "Anche

questa domanda è nell'interesse della scienza?" "Per la scienza", disse, senza rilevare la mia

irritazione, "sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli

individui, ma..." "Lei è uno specialista in malattie mentali?", lo interruppi. "Ogni medico lo

dovrebbe essere, un po'", rispose quell'originale, senza scomporsi. "Ho una piccola teoria

che voi signori che andate laggiù, dovreste aiutarmi a dimostrare. Questa è la mia parte nei

profitti che il mio paese mieterà dal possesso di una colonia così magnifica. La nuda

ricchezza la lascio agli altri. Scusi le mie domande, ma lei è il primo inglese che ho

occasione di osservare..." Mi affrettai a garantirgli che non ero affatto tipico. "Se lo fossi",

aggiunsi, "non parlerei così con lei." "Quel che dice è senz'altro profondo, ma

probabilmente errato", disse ridendo. "Eviti ogni fonte di irritazione, più dell'esposizione al

sole. Addio. Com'è che ditevoi inglesi, eh? Goodbye. Allora, good-bye. Addio. Ai tropici

bisogna soprattutto mantenere la calma..." Fece un cenno di ammonimento con

l'indice..."Du calme, du calme. Adieu." «Non restava che una cosa da fare: salutare la mia

ottima zia. La trovai trionfante. Mi offrì una tazza di tè - l'ultima tazza di tè decente per

non so quanto tempo - in una stanza che rispondeva nel modo più lusinghiero all'idea che

ci si fa del salotto di una signora. Parlammo a lungo, tranquilli, vicini al camino. Nel corso

di quelle confidenze divenne evidente che ero stato descritto alla moglie dell'alto

dignitario, e Dio sa a quante altre persone ancora, come un essere eccezionalmente dotato -

una vera fortuna per la Compagnia - un uomo come non se ne trovano tutti i giorni. Dio

santo! e io che andavo ad assumere il comando di un vaporetto da quattro soldi munito di

un fischio da due. Risultava chiaro, però, che io ero anche uno dei Pionieri, con la P

maiuscola, capite. Qualcosa come un portatore di luce, una specie di apostolo in formato

ridotto. Proprio a quel tempo circolavano sulla stampa, e nei discorsi, un mucchio di

stupidaggini di questo tipo e quella bravissima donna, che in mezzo a quelle frottole ci

viveva, se ne era lasciata travolgere. Parlò di "distogliere quella massa di ignoranti dalle

loro orribili usanze", tanto che alla fine, parola d'onore, riuscì a farmi sentire molto a

disagio. Provai ad accennare al fatto che la Compagnia agiva a scopo di lucro. «"Tu

dimentichi, caro Charlie, che ogni fatica merita una ricompensa", disse lei raggiante.

Straordinario che le donne siano così lontane dalla verità. Vivono in un mondo che si

costruiscono loro stesse, che non c'è mai stato e non ci sarà mai. Troppo perfetto nel suo

insieme e tale che, se dovessero realizzarlo, non vedrebbe neanche un tramonto,

crollerebbe prima. A buttar giù tutto salterebbe fuori uno di quei maledetti fatti a cui noi

uomini siamo rassegnati sin dal giorno della creazione. «Poi mia zia mi abbracciò, mi

raccomandò di portare la maglia di lana, di scrivere spesso, ecc., ecc., e me ne andai. Per

strada, non so perché, ebbi la curiosa sensazione di essere un impostore. Strana cosa che

io, abituato a partire per qualsiasi parte del mondo in meno di ventiquattr'ore, senza

pensarci tanto quanto la maggior parte degli uomini per attraversare la strada, avessi un

momento, non dirò di esitazione, ma di pausa allarmata davanti a questa impresa banale.

Non saprei spiegarmi meglio se non dicendo che, per un paio di secondi, mi sentii come se,

invece di partire per il centro di un continente, stessi per avventurarmi nel centro della

terra. «Mi imbarcai su un piroscafo francese, che fece scalo in ognuno di quei dannati porti

che loro hanno laggiù, al solo scopo, per quanto mi fu dato di vedere, di sbarcarvi dei

soldati e dei doganieri. Io osservavo la costa. Osservare una costa mentre scivola via lungo

la nave, è come riflettere su un enigma. È là, davanti a voi, sorridente o accigliata,

invitante, splendida o mediocre, insipida o selvaggia, e muta sempre, ma con l'aria di

sussurrare: "Venite a vedere." Quella era quasi informe, come ancora incompiuta, con un

aspetto ostile e monotono. Il limitare di una giungla colossale, di un verde così scuro da

sembrare quasi nero, orlato dal bianco della risacca, correva dritto, come tracciato con la

riga, lontano, lontano lungo un mare azzurro il cui scintillio era offuscato da una foschia

strisciante. Il sole era implacabile, la terra sembrava rorida e luccicante per il vapore. Qua

e là affioravano delle macchie di un grigio biancastro raggruppate dentro la bianca risacca,

con a volte una bandiera inastata: insediamenti vecchi di qualche secolo, e non più grandi

di capocchie di spillo sull'intatta distesa di quell'immenso entroterra. Ci trascinavamo

lentamente, ci fermavamo, sbarcavamo soldati; proseguivamo, sbarcavamo funzionari di

dogana venuti a riscuotere le gabelle su quella che sembrava una landa selvaggia,

dimenticata da Dio, con una baracca di latta e un'asta per la bandiera sperdute là dentro.

Sbarcavamo altri soldati che, apparentemente, dovevano vegliare sui doganieri. Alcuni di

loro, a quanto ho sentito dire, annegarono nella risacca; che fosse vero o no, nessuno

sembrava preoccuparsene. Venivano scaraventati a terra e si ripartiva. La costa era ogni

giorno la stessa, come se non ci fossimo mossi; ma toccammo diversi luoghi - luoghi

commerciali - i cui nomi, come Gran Bassam o Piccolo Popo, sembravano appartenere a

qualche sordida farsa recitata davanti a un sinistro scenario. La mia inoperosità di

passeggero, l'isolamento in mezzo a tutti quegli uomini con cui non avevo niente in

comune, il mare languido e oleoso, la tetra uniformità della costa, sembravano tenermi

lontano dalla realtà delle cose, irretito da una fantasmagoria lugubre e assurda. La voce

della risacca che si percepiva di tanto in tanto dava un piacere reale, come una parola

fraterna. Era qualcosa di naturale, che aveva una ragione e un significato. Di tanto in tanto

una barca che si staccava dalla costa creava un momentaneo contatto con la realtà. Era

portata da rematori neri. Di lontano si vedeva splendere il bianco dei loro occhi. Urlavano,

cantavano; i loro corpi grondavano sudore, avevano volti simili a maschere grottesche,

quegli esseri; ma avevano nerbo, muscoli, una vitalità selvaggia, un'intensa energia di

movimenti, naturale e autentica come la risacca lungo la loro costa. Loro non avevano

bisogno di un pretesto per essere là. Provavo un gran sollievo a guardarli: era come se mi

sentissi di appartenere ancora a un mondo lineare e concreto, ma era una sensazione che

durava poco. Sopraggiungeva qualcosa che faceva presto a scacciarla. Un giorno, mi

ricordo, ci imbattemmo in una nave da guerra ancorata al largo della costa. Non si vedeva

neanche una capanna, eppure bombardava la boscaglia. Sembra che i Francesi avessero

una delle loro guerre in corso da quelle parti. La bandiera nazionale penzolava flaccida

come un cencio; le bocche dei lunghi cannoni da centocinquanta, spuntavano da ogni parte

dello scafo basso. Il mare lungo, grasso e fangoso sollevava pigramente la nave per lasciarla

poi ricadere, facendo oscillare gli alberi affilati. Nella vuota immensità del cielo, del mare e

della terra, stava là, incomprensibile, a far fuoco su un continente. Bum! partiva il colpo di

uno dei cannoni da centocinquanta; una piccola fiamma saettava e svaniva; una sottile

fumata bianca scompariva subito, un minuscolo proiettile passava fischiando, e non

accadeva nulla. Poteva accadere qualcosa? C'era un tocco di follia in quell'azione,

un'impressione di macabra buffonata nello spettacolo, che non si dissolse neppure quando

qualcuno a bordo mi assicurò con grande convinzione che c'era un campo di indigeni - lui li

chiamava nemici! - nascosto da qualche parte.«Consegnammo la posta (seppi che su quella

nave solitaria gli uomini morivano di febbri al ritmo di tre al giorno) e ripartimmo.

Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del

commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba

surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa,

quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai

fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite

dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un

eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché

potessi ricavarne un'impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento

diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso

immagini da incubo. «Prima che si vedesse la foce del grande fiume, passarono più di

trenta giorni. Gettammo l'ancora di fronte alla sede del governo. Ma il mio lavoro non

sarebbe cominciato che a quattrocento chilometri da lì; perciò, appena fu possibile,

raggiunsi una località a una cinquantina di chilometri più a monte. «Feci il viaggio su un

piccolo piroscafo. Il capitano, uno svedese, quando venne a sapere che ero un marinaio, mi

invitò sul ponte di comando. Era un giovane magro, biondo e imbronciato, i capelli lisci e

sottili, l'andatura strascicata e irregolare. Mentre ci allontanavamo dalla miserabile

banchina, fece con la testa un cenno di disprezzo in direzione della riva. "È stato lì?",

chiese. Dissi di sì. "Bei tipi quei funzionari del governo, vero?", continuò. Parlava inglese

con molta precisione e grande amarezza. "È sorprendente quello che certa gente è disposta

a fare per pochi franchi al mese. Mi domando cosa succeda a quella genia quando s'inoltra

nell'interno." Gli dissi che mi aspettavo di scoprirlo presto. "Ah-ah!", esclamò. Si spostò di

traverso strascicando i piedi, senza staccare gli occhi dalla rotta. "Non ne sia troppo

sicuro", proseguì, "l'altro giorno ho fatto salire a bordo un uomo che si è impiccato durante

il viaggio. Anche lui era svedese." "Impiccato!", esclamai, "ma perché in nome di Dio?" Non

distolse il suo sguardo vigile. "Chi lo sa! Non ha retto al sole o al paese, forse." «Alla fine il

fiume si allargò. Apparvero un picco roccioso, dei monticelli di terra rivoltata presso la

riva, delle case su una collina, altre col tetto di lamiera tra mucchi di terra di scavo, o

abbarbicate sul pendio. Il rumore incessante delle rapide più a monte, planava sopra quel

paesaggio di devastazione abitata. Degli uomini, generalmente neri e nudi, andavano e

venivano come formiche. Un piccolo molo avanzava nel fiume. E un sole accecante

annegava talvolta l'insieme in una improvvisa recrudescenza di luce. "Ecco la stazione della

sua Compagnia", disse lo svedese indicando col dito tre edifici di legno, simili a caserme,

sulla salita scoscesa. "Le faccio portare su la sua roba. Quattro colli, ha detto? Benissimo.

Arrivederci." «Mi imbattei in una caldaia che sguazzava nell'erba, poi trovai un sentiero

che portava alla collina. Non procedeva in linea retta perché era ostruito da massi di pietra

e anche da un vagoncino che giaceva capovolto con le ruote all'aria. Ne mancava una. La

carcassa di un animale avrebbe dato la stessa impressione di morte. Mi imbattei in altri

pezzi di macchine deteriorate e in una catasta di rotaie arrugginite. Alla mia sinistra un

gruppo d'alberi gettava una macchia d'ombra in cui delle cose oscure sembravano

muoversi debolmente. Battei le palpebre: il sentiero era ripido. Un corno risuonò alla mia

destra e vidi i neri correre. Una detonazione violenta e sorda scosse il suolo, uno sbuffo di

fumo uscì dalla rupe, e fu tutto. Non apparve alcun cambiamento sulla parete della roccia.

Stavano costruendo una ferrovia. La rupe non intralciava affatto; ma tutto il lavoro in corso

consisteva in quel brillamento di mine senza scopo. «Un lieve tintinnio dietro di me mi

fece volgere il capo. Sei neri in fila si inerpicavano su per il sentiero. Camminavano rigidi e

lenti, tenendo in equilibrio sulla testa delle ceste piene di terra, e il tintinnio segnava il

tempo dei loro passi. Sui loro fianchi erano annodati degli stracci neri, le cui corte

estremità si agitavano dietro la schiena come delle code. Le loro costole si distinguevano

una a una, le giunture delle loro membra sembravano i nodi di una corda; ciascuno aveva

un collare di ferro intorno al collo e tutti erano legati a una catena i cui anelli, dondolando

assieme, tintinnavano ritmicamente. Una nuova esplosione nella rupe mi richiamò

improvvisamente alla memoria quella nave da guerra che avevo visto far fuoco su un

continente. Era la stessa voce sinistra, ma neanche con uno sforzo di immaginazione questi

uomini si potevano chiamare nemici. Qui li chiamavano criminali, e la legge oltraggiata,

come le cannonate, si era abbattuta su di loro, un mistero insolubile, venuto dal mare. I

magri petti ansimanti, le narici frementi, violentemente dilatate, gli occhi pietrificati, fissi

sulla collina, mi passarono accanto, quasi sfiorandomi, senza uno sguardo, con quella

totale, mortale indifferenza dei selvaggi infelici. Dietro quella materia prima, uno dei

redenti, il prodotto delle nuove forze all'opera, veniva avanti ciondolando con aria

smarrita, tenendo una carabina per la canna. Aveva indosso una giubba d'uniforme senza

un bottone. Scorgendo un bianco sul sentiero, issò l'arma alla spalla con grande alacrità.

Un'elementare misura di precauzione, perché da lontano non poteva riconoscermi, visto

che i bianchi si assomigliano tutti. Si sentì presto rassicurato e con un'ampia smorfia da

furfante, che gli scoprì i denti bianchi, strizzò l'occhio verso il suo gregge, come per

associarmi all'alta missione che compiva. Dopo tutto, anch'io facevo parte della grande

causa da cui derivavano queste nobili e giuste misure. «Invece di continuare a salire, girai a

sinistra e incominciai a scendere. Volevo lasciare il tempo a quella squadra incatenata di

sparire dalla mia vista prima di riprendere la salita. Sapete che non sono particolarmente

tenero; ho dovuto dare e parare molti colpi; difendermi e qualche volta attaccare - anche

questo è un modo di difendersi - senza valutarne esattamente il costo, secondo le esigenze

del genere di vita in cui mi ero andato a cacciare. Ho visto il demone della violenza e il

demone della cupidigia, e quello della passione; ma, numi del cielo!, questi erano demoni

in carne e ossa, forti e robusti, gli occhi iniettati di sangue, che trascinavano e dominavano

degli uomini..., degli uomini, capite. In piedi sul fianco di quella collina, ebbi il

presentimento che sotto il sole accecante di quel paese, avrei imparato a conoscere il

demone flaccido, finto, dalla vista corta, di una follia rapace e spietata. E anche quanto

potesse essereinsidioso, dovevo scoprirlo solo molti mesi più tardi e a qualche migliaio di

chilometri da lì. Rimasi sgomento per un attimo, come da una premonizione. Infine discesi

la collina, trasversalmente, verso gli alberi che avevo visto. «Evitai una vasta fossa

artificiale che era stata scavata nel pendio, a quale scopo mi fu impossibile indovinare. Non

era sicuramente una cava, né di pietra né di sabbia. Era soltanto una fossa. Forse aveva

qualche nesso col desiderio filantropico di dare qualcosa da fare ai criminali. Chissà. Poi

stavo quasi per cadere in una forra, poco più di una ferita sul fianco della collina. Scoprii

che un mucchio di tubi di scolo, importati a uso della colonia, erano stati fatti ruzzolare là

dentro. Non ce n'era uno che non fosse rotto. Puro vandalismo. Finalmente arrivai sotto gli

alberi. La mia intenzione era di gironzolare all'ombra per un po', ma non appena fui lì

dentro mi parve di essere entrato in un girone dell'Inferno. Le rapide erano vicine, e un

fragore ininterrotto, uniforme, irruente, precipitoso, riempiva la lugubre quiete di quel

boschetto - dove non un soffio di vento alitava, non una foglia si muoveva - di un suono

misterioso, come se il movimento vorticoso della terra nello spazio vi fosse subitamente

divenuto percettibile. «Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli

alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste

entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell'abbandono e della disperazione.

Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei

piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si

erano ritirati a morire. «Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non

erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere

ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati

dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in

un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano

inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde

erano libere come l'aria e altrettanto leggere. Incominciai a distinguere il bagliore degli

occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una faccia vicino alla mia mano. La

nera ossatura era distesa in tutta la sua lunghezza, la spalla contro l'albero. Con lentezza, le

palpebre si sollevarono; gli occhi incavati mi guardarono, enormi e vuoti; nella profondità

delle orbite ci fu una specie di scintilla bianca, cieca, che si spense lentamente. L'uomo

sembrava giovane, quasi un ragazzo, ma, sapete, con loro non si può mai dire. Non trovai

niente di meglio da fare che dargli una di quelle gallette che avevo in tasca, prese dalla nave

del mio buon svedese. Le dita si richiusero lentamente e la trattennero, senza nessun altro

movimento né un altro sguardo. Si era legato un filo bianco, di lana o di cotone, attorno al

collo. Perché? Dove l'aveva trovato? Era un distintivo, un ornamento, un amuleto, un atto

propiziatorio? C'era connessa una qualche idea? Era sorprendente, attorno al suo collo

nero, quel pezzetto di filo bianco venuto d'oltremare. «Presso lo stesso albero altri due

fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il

mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo

fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande

spossatezza; e tutt'intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di

prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste. Mentre io restavo

immobile, paralizzato dall'orrore, una di quelle creature si sollevò sulle mani e sulle

ginocchia, e si diresse carponi verso il fiume per bere. Sorbì l'acqua dal cavo della mano,

poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e dopo poco lasciò cadere la testa

lanosa sul petto. «Mi era passata la voglia di passeggiare all'ombra, e ripresi in fretta il

cammino verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un'eleganza così

inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato,

polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e

stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati,

sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente,

e dietro l'orecchio aveva un penna. «Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che

era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione.

Era uscito un momento, disse, "a prendere una boccata d'aria fresca." L'espressione mi

parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un

ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima

volta è uscito il nome di quell'uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel

periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi

ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un

manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo

significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di

carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come

riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia

disse: "Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva

un'avversione per il lavoro." Così quell'uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si

dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare. «Nella stazione tutto il

resto era solo confusione: nelle teste, nelle cose, negli edifici. File di neri impolverati e con i

piedi piatti che arrivavano e ripartivano; un profluvio di manufatti, tessuti di cotone di

scarto, perline e grani di vetro, filo di ottone, spedito nel cuore delle tenebre, da dove, in

cambio, sgorgava un prezioso rivolo d'avorio. «Dovetti aspettare dieci giorni in quella

stazione: un'eternità. Alloggiavo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos,

qualche volta, andavo a rifugiarmi dal contabile. Il suo ufficio era costruito con assi

orizzontali, così sconnesse che, stando chino sul suo alto scrittoio, era zebrato dalla testa ai

piedi da sottili strisce di sole. Non c'era bisogno di aprire la grande imposta per vederci. E

che caldo là dentro! Delle grosse mosche facevano un ronzio infernale e non pungevano:

trafiggevano. Generalmente mi sedevo per terra, mentre lui, appollaiato su un alto

sgabello, impeccabile (e anche leggermente profumato), scriveva e scriveva. Ogni tanto si

alzava per sgranchirsi. Quando portarono lì dentro una branda con un ammalato - un

agente dell'interno che veniva rimpatriato - manifestò,educatamente, una certa

insofferenza. "I gemiti del malato", disse, "potrebbero distrarre la mia attenzione. E senza

attenzione, con questo clima, è già molto difficile evitare gli errori materiali." «Un giorno,

senza alzare il capo, osservò: "Nell'interno incontrerà certamente il signor Kurtz." Siccome

gli chiesi chi era il signor Kurtz disse che era un agente di prima classe e, percependo la

mia delusione alla sua risposta, aggiunse lentamente, posando la penna: "È una persona

veramente notevole." Incalzato da altre domande, aggiunse che il signor Kurtz attualmente

dirigeva un posto commerciale, un posto importantissimo, nel vero paese dell'avorio, "al

limite estremo. Ci manda più avorio lui di tutti gli altri messi insieme..." Ricominciò a

scrivere. Il malato stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una gran

quiete. «All'improvviso si udì un crescente mormorio di voci e un forte scalpitio di piedi.

Era arrivata una carovana. Un violento cicaleccio di suoni rozzi e sconosciuti scoppiò

dall'altra parte delle assi. I portatori parlavano tutti assieme, e in mezzo al clamore si udì la

voce lamentosa dell'agente capo che, per l'ennesima volta nella giornata, dichiarava in tono

piagnucoloso che lui "ci rinunciava, non ce la faceva più"... Il contabile si alzò lentamente.

"Che chiasso spaventoso", esclamò. Attraversò piano la stanza, diede un'occhiata al malato,

e tornando verso di me, disse: "Lui non sente." "Come! È morto?", chiesi trasalendo. "No,

non ancora", rispose tranquillamente. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel

cortile: "Quando si è tenuti a riportare i numeri in modo corretto, si finisce con odiare

questi selvaggi, odiarli a morte." Rimase un attimo soprappensiero. "Quando vedrà il

signor Kurtz", continuò, "gli dica da parte mia che qui" - lanciò un'occhiata al suo scrittoio

- "va tutto benissimo. Non mi piace scrivergli. Con i messaggeri che abbiamo, non si sa in

che mani potrebbe finire una lettera, in quella Stazione Centrale." Mi fissò per un istante

coi suoi placidi occhi sporgenti. "Oh, andrà lontano, molto lontano", riprese. "In poco

tempo diventerà qualcuno nell'Amministrazione. Loro, quelli del Consiglio lassù, in

Europa, capisce, hanno questo in mente." «Si rimise al lavoro. All'esterno, il rumore era

cessato. Prima di varcare la soglia per uscire, mi fermai. Nell'incessante ronzio delle

mosche, l'agente malato in attesa del rimpatrio giaceva inerte e congestionato; l'altro,

chino sui suoi libri, riportava correttamente le voci relative a transazioni perfettamente

corrette; e a una quindicina di metri più in basso del gradino della porta si ergevano

immobili le cime del boschetto della morte. «Il giorno seguente, lasciai finalmente la

stazione, con una carovana di sessanta uomini, per una marcia di trecento chilometri.

«Inutile che vi racconti tutti i dettagli. Piste, piste dappertutto; una rete di piste battute che

si stendeva su un paese vuoto, attraverso l'erba alta, l'erba bruciata, i rovi, su e giù per

fredde gole, giù e su per petrose colline arroventate; e solitudine, solitudine: nessuno,

neanche una capanna. La popolazione se n'era andata da tanto tempo. Che volete, se una

banda di neri misteriosi, muniti di ogni specie di armi spaventose, si mettesse tutt'a un

tratto a percorrere la strada che da Deal porta a Gravesend, acciuffando i contadini a destra

e a manca per caricarli di pesi enormi, credo che le fattorie e le cascine di quei paraggi si

vuoterebbero tutte in un baleno. Solo che laggiù erano sparite anche le case. Però

attraversai anche dei villaggi abbandonati. C'è qualcosa di pateticamente infantile nei muri

d'erba in rovina. Giorno dopo giorno, con dietro il calpestio e lo strascicamento di sessanta

paia di piedi nudi, ciascun paio sotto un peso di una trentina di chili. Accamparsi, cucinare,

dormire, levare il campo, marciare. Ogni tanto un portatore morto sotto il peso, steso tra

l'erba alta presso la pista, con accanto la sua zucca per l'acqua, vuota, e il suo lungo

bastone. Un gran silenzio attorno e sopra di noi; tutt'al più, in certe notti tranquille, il

tremolio di tamburi lontani, un tremolio fievole e vasto, che s'attutiva e si gonfiava; un

suono misterioso, supplichevole, suggestivo, e selvaggio, il cui significato forse era

altrettanto profondo del suono delle campane in terra cristiana. Un giorno, un bianco,

l'uniforme sbottonata, accampato sulla pista, con una scorta armata di allampanati

zanzibaresi, molto ospitale e allegro, per non dire ubriaco. Badava alla manutenzione della

strada, dichiarò. Non posso dire di aver visto né strada né manutenzione, a meno di non

dover considerare una perenne miglioria il corpo di un nero di mezza età, con un foro di

pallottola in fronte, nel quale sono letteralmente inciampato a un cinque chilometri da lì.

Avevo anche un compagno bianco, non un cattivo soggetto, ma troppo in carne, e con

l'esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati, a chilometri di distanza dalla

minima traccia d'ombra e di acqua. Snervante, credetemi, tenere la propria giacca a mo' di

parasole sopra la testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei trattenermi dal

chiedergli, una volta, cosa fosse venuto a fare in quel paese. "Che domanda! A far soldi",

rispose un po' sdegnato. Poi si ammalò e bisognò portarlo dentro a un'amaca sospesa a un

palo. Siccome pesava più di un quintale, fu una brutta gatta da pelare con i portatori. Si

tiravano indietro, prendevano il largo, scappavano di notte furtivamente col loro carico: un

vero ammutinamento. Allora una sera tenni un discorso in inglese, accompagnandomi con

gesti di cui neanche uno sfuggì alle sessanta paia d'occhi che mi stavano di fronte; il

mattino seguente feci partire l'amaca in testa, in perfetta regola. Un'ora dopo trovai che

tutto era naufragato dentro a un cespuglio: l'uomo, l'amaca, i gemiti, le coperte, l'orrore. Il

pesante palo aveva scorticato il suo povero naso e lui voleva a tutti i costi che io

ammazzassi qualcuno, ma non c'era neanche l'ombra di un portatore nelle vicinanze. Mi

ricordai del vecchio dottore: "Per la scienza sarebbe di grande interesse osservare sul posto

le modificazioni mentali degli individui." Sentii che cominciavo a diventare

scientificamente interessante. Comunque tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo

giorno mi ritrovai in vista del grande fiume ed entrai, zoppicando, nella Stazione Centrale.

Si trovava in una insenatura d'acqua stagnante, circondata dalla sterpaglia e dalla foresta,

con un bel margine di fango puzzolente da un lato, e recinta sugli altri tre da una cadente

staccionata di giunchi. Un varco informe era l'unica via d'accesso, e bastava un'occhiata per

capire che lì il demone flaccido regnava sovrano. Degli uomini bianchi, con dei lunghi

bastoni in mano, fecero una languida apparizione fra gli edifici, si avvicinarono,

ciondolanti, per guardarmi, e poi scomparvero non so dove. Uno di loro, un tipo robusto e

frenetico, con i baffi neri, appena saputo chi ero, mi informò con abbondanza di particolari

e molte digressioni che il mio battello giaceva in fondo al fiume. Rimasi fulminato.

Cos'erasuccesso, come, perché? Oh, "niente di grave". Il "direttore in persona" aveva

assistito. Si era svolto tutto regolarmente. "E tutti si erano comportati magnificamente,

magnificamente!" "Lei deve andare subito", proseguì agitatissimo, "dal direttore generale.

La sta aspettando." «Non afferrai subito il significato di quel naufragio. Credo di capirlo

adesso, ma non ne sono affatto sicuro. Quel che è certo è che la storia era troppo stupida, a

pensarci bene, per essere del tutto naturale. Ma d'altra parte... comunque sia, in quel

momento mi si presentò semplicemente come una maledetta seccatura. Il battello era

affondato. Erano partiti due giorni prima, presi da una fretta improvvisa, per risalire il

fiume, con il direttore a bordo e la guida improvvisata di un capitano che si era offerto

volontario. Non erano ancora trascorse tre ore che già avevano lacerato lo scafo sulle rocce

ed erano andati ad affondare presso la riva sud. Mi chiesi cosa ci restavo a fare là, adesso

che la mia barca era perduta. In effetti, ebbi molto da fare per ripescare dal fiume la mia

posizione di comandante. Dovetti mettermici subito, dal giorno successivo.

Quell'operazione e le riparazioni, una volta portati i pezzi alla stazione, mi presero alcuni

mesi. «Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi

trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia. Era un uomo ordinario

nell'aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione

normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e

certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un'accetta.

Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l'intenzione.

Altrimenti c'era solo un'indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di

furtivo - un sorriso? no, non un sorriso - me lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era inconscio,

quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento.

Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere

enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in

quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né

amore né paura, nemmeno rispetto. Suscitava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza

vera e propria - solo disagio - niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale... tale...

facoltà possa essere. Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per

l'organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo

stato deplorevole in cui giaceva la stazione. Non aveva cultura, né intelligenza. Occupava

quella posizione... perché? Forse perché non si era mai ammalato... Erano già tre periodi di

tre anni che era in servizio laggiù... Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una

salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su

grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra..., con qualche differenza solo apparente. Lo

si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione. Da lui non nasceva nulla,

sapeva far andare avanti l'ordinaria amministrazione, tutto qui. Però era grande. Era

grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su

quell'uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c'era niente dentro di lui. Ma un tal

sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando

quasi tutti gli 'agenti' della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si

intese dire: "Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri." Sigillò la

dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui

lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo.

Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza

durante l'ora dei pasti, un giorno fece costruire un'immensa tavola rotonda, per la quale fu

fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui,

era il posto d'onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente

convinto. Non era né cortese né scortese. Stava zitto. Permetteva che il suo 'servitore', un

giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con

provocante arroganza. «Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto

ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me.

Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C'erano stati già così tanti rinvii che non

sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc. Non prestò alcuna

attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie

volte che la situazione era "molto grave, gravissima". Correvano voci che

un'importantissima stazione fosse in pericolo, e chi ne aveva il comando, il signor Kurtz,

fosse ammalato. Sperava che non fosse vero. Il signor Kurtz era... Mi sentivo stanco e

irritabile. Kurtz... che vada al diavolo!, pensai. Lo interruppi per dire che avevo sentito

parlare del signor Kurtz sulla costa. "Ah! Così parlano di lui laggiù", mormorò fra sé. Poi

ricominciò per dirmi che il signor Kurtz era il suo miglior agente, un uomo eccezionale,

della massima importanza per la Compagnia; potevo quindi capire la sua ansia. Era, disse,

"molto, molto inquieto". Di fatti continuava ad agitarsi sulla sedia e all'improvviso, mentre

esclamava "Ah, il signor Kurtz!", il bastoncino di ceralacca gli si spezzò in mano e lui

ammutolì stupito. Dopo di che volle sapere "quanto tempo avrei impiegato per..." Lo

interruppi di nuovo. Con la fame che avevo, capite, costretto anche a stare in piedi, stavo

diventando rabbioso. "Come faccio a saperlo?", dissi. "Non ho ancora visto il relitto;

qualche mese, senza dubbio." Tutte quelle chiacchiere mi sembravano talmente inutili.

"Qualche mese", ripeté. "Beh, diciamo tre mesi, prima che sia possibile ripartire. Sì.

Dovrebbero bastare per la faccenda." Mi precipitai fuori dalla capanna (viveva da solo in

una capanna d'argilla con una specie di veranda) borbottando fra i denti l'opinione che mi

ero fatta di lui. Era un idiota d'un chiacchierone. In seguito dovetti ricredermi, quando fui

colpito dall'estrema precisione con cui aveva valutato il tempo necessario per quella

'faccenda'. «Il giorno dopo mi misi al lavoro, voltando, per così dire, le spalle alla stazione.

Solo in quel modo, mi sembrava, potevo mantenere un contatto con le realtà redentrici

della vita. Di tanto in tanto, però, bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione

con quegli uomini che girovagavano senza meta nel sole del cortile. E qualche volta mi

chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano i loro assurdi

lunghi bastoni, come ungruppo di pellegrini senza fede, stregati dentro un recinto

putrescente. La parola 'avorio' risuonava nell'aria, sussurrata, sospirata. Si sarebbe detto

che le rivolgessero delle preghiere. Aleggiava lì sopra un odore infetto di rapacità imbecille,

come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho mai visto niente di tanto irreale nella mia

vita. E intorno, la silenziosa landa selvaggia che circondava quel pezzetto diboscato di

terra, mi colpiva come qualcosa di grande e d'invincibile, come il male o la verità, in

paziente attesa della fine di quella fantastica invasione. «Ah, quei mesi! Ma lasciamo

perdere. Accaddero varie cose. Una sera una capanna d'erba, piena di calicò, di cotoni

stampati, di conterie e non so cos'altro, prese fuoco così improvvisamente da far pensare

che un fuoco vendicatore fosse sgorgato dalla terra aperta per distruggere tutta quella

paccottiglia. Io fumavo tranquillamente la pipa vicino al mio battello in disarmo, e li

vedevo da lontano far le capriole fra i bagliori, con le braccia in aria, quando, a rotta di

collo, arrivò al fiume l'uomo robusto dai baffi neri, con un secchio di latta in mano. Dopo

avermi assicurato che "tutti si comportavano magnificamente, magnificamente", attinse un

paio di litri d'acqua e ripartì correndo. Notai che nel fondo del secchio c'era un buco.

«Andai lì con calma. Non c'era fretta, capite: quella cosa aveva preso fuoco come una

scatola di fiammiferi. Fin dal primo momento non c'era stato niente da fare. La fiamma era

balzata altissima, respingendo tutti, illuminando tutto, e poi si era abbassata. La capanna

non era che un ammasso di braci ardenti. Non lontano da lì, stavano bastonando un nero.

Dicevano che in un modo o nell'altro, era stato lui a provocare l'incendio; fosse vero o no,

urlava come un ossesso. Poi, per parecchi giorni, lo vidi seduto in un angolo all'ombra, con

un'aria molto sofferente, mentre stava cercando di riprendersi; finalmente si alzò e se ne

andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo riprese in grembo. «Mentre mi avvicinavo al

bagliore provenendo dall'oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano

discorrendo. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, "approfittare di questo

incidente disgraziato". Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. "Ha mai visto

una cosa simile, eh? È incredibile", disse e si allontanò. L'altro rimase. Era un agente di

prima classe, giovane, distinto, un po' riservato, con una barbetta a due punte e il naso

adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del

direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a

conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella

sua stanza, che era nell'edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che

quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura

d'argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il

direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi

era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli. L'incarico

affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non

c'era traccia di

mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A

quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della

paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la

spedissero dall'Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Un atto di creazione

spontanea, forse. Comunque tutti, tutti quei sedici o venti pellegrini che erano, stavano

aspettando qualcosa e, parola mia, non sembrava un'occupazione che non gli andasse a

genio, dal modo in cui la prendevano. Però, a quanto mi fu dato di vedere, la malattia fu

l'unica cosa che mai gli sia arrivata. Ammazzavano il tempo sparlando e tramando gli uni

contro gli altri nella maniera più insensata. Sulla stazione soffiava un'aria di complotto, che

naturalmente non approdava a niente. Era irreale come tutto il resto: il pretesto

filantropico dell'impresa, i loro discorsi, la loro amministrazione, l'esibizione del lavoro.

L'unico sentimento autentico era il desiderio di venire assegnati a un centro in cui passasse

l'avorio, per poter guadagnare delle buone percentuali. È solo per questo che

complottavano, si calunniavano e si odiavano, ma quanto ad alzare effettivamente un dito,

ah, no. Sant'Iddio! Non è poi così irragionevole che a un uomo il mondo lasci rubare un

cavallo, mentre a un altro non permetta neanche di guardare la cavezza. Rubare un cavallo

con decisione. Benissimo. L'ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c'è un modo di

guardare la cavezza che farebbe menar le mani anche a un santo. «Non mi sapevo spiegare

la sua improvvisa socievolezza ma, mentre chiacchieravamo là dentro, mi resi conto tutt'a

un tratto che quel tale stava mirando a qualche cosa, cercava, infatti, di farmi parlare.

Faceva continue allusioni all'Europa, alle persone che si immaginava io conoscessi lì,

ponendomi delle domande tendenziose sulle mie relazioni nella città sepolcrale e così di

seguito. I suoi occhietti brillavano di curiosità come dischi di mica, benché cercasse di

mantenere un'apparenza di distaccata alterigia. In principio ero stupefatto, ma presto

divenni curiosissimo di scoprire cosa volesse tirarmi fuori. Non riuscivo proprio a

immaginare che cosa ci potesse essere in me da meritare tutta quella fatica. Era un piacere

vedere quanto si ingannasse, perché in realtà in corpo non avevo che brividi e in testa

nient'altro se non quella disgraziatissima storia del battello. Era evidente che mi

considerava uno spudorato mistificatore. Alla fine perse la pazienza e per nascondere un

moto di esasperazione furiosa, sbadigliò. Mi alzai. Notai allora un piccolo schizzo a olio, su

tavola, che rappresentava una donna con la veste drappeggiata, gli occhi bendati, e una

fiaccola accesa in mano. Lo sfondo era tetro, quasi nero. Il movimento della donna era

statuario e l'effetto della fiaccola, sul viso, era sinistro. «Mi ero fermato davanti al quadro e

lui era rimasto vicino a me, educatamente, reggendo una mezza bottiglia di champagne

vuota (forse un ricostituente), con la candela incastrata dentro. Alla mia domanda rispose

che era stato il signor Kurtz a dipingerlo - proprio in quella stazione, più di un anno prima

- mentre aspettava il mezzo per raggiungere il suo posto commerciale. "Se non le dispiace",

chiesi, "mi può dire chi è questo signor Kurtz?" «"Il capo della Stazione Interna", rispose

secco, con lo sguardo altrove. "Grazie tante", dissi ridendo. "E lei è il mattonaio della

Stazione Centrale. Questo lo sanno tutti." Stette zitto per un po'. "È un prodigio", disse alla

fine. "È l'emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di quante altre

cose." E improvvisamente incominciò adeclamare: "Per dirigere a buon fine la causa che ci

è stata affidata, per così dire, dall'Europa, noi abbiamo bisogno di intelligenze superiori, di

vaste simpatie, di unità di intenti." "Chi è che lo dice?" chiesi. "Sono in molti a dirlo",

rispose. "Ci sono anche quelli che lo scrivono; ed ecco che arriva lui, un essere eccezionale,

come lei dovrebbe sapere." "Perché lo dovrei sapere?", intervenni sorpresissimo, ma non

mi badò. "Sì. Oggi è a capo della stazione più importante, il prossimo anno sarà

vicedirettore, fra due anni sarà... ma immagino che lei sappia cosa sarà fra due anni. Non

fa parte anche lei della nuova congrega, la congrega della virtù? Le persone che l'hanno

mandato qui in missione speciale, sono le stesse che hanno raccomandato lei. Oh, non dica

di no. Io mi fido dei miei occhi." Finalmente avevo capito: le conoscenze influenti della mia

cara zia stavano sortendo un effetto inaspettato su quel giovanotto. Per poco non scoppiai a

ridere. "Lei legge la corrispondenza riservata della Compagnia?", chiesi. Non aprì bocca.

Era proprio buffo. "Quando il signor Kurtz sarà Direttore Generale", continuai in tono

severo, "lei non potrà più permetterselo." «Spense improvvisamente la candela, e

uscimmo. Era sorta la luna. Delle ombre nere si aggiravano apatiche, versando l'acqua

sulle braci da cui proveniva un suono sibilante. Il vapore saliva nel chiaro di luna, il nero

picchiato gemeva da qualche parte. "Che baccano fa quell'animale!", disse l'infaticabile

uomo con i baffi comparendo tutt'a un tratto. "Gli sta bene. Trasgressione: punizione...

Bang! Senza pietà, senza pietà. È l'unico modo, e questo impedirà ogni incendio in futuro.

Stavo appunto dicendo al direttore..." Riconoscendo il mio compagno, abbassò

immediatamente la cresta. "Non ancora a letto", disse con una specie di servile cordialità.

"È naturale d'altronde... il pericolo, l'agitazione." Si eclissò. Proseguii in direzione del

fiume con l'altro dietro. Gli udii mormorare con disprezzo: "Massa di idioti, andate

all'inferno." Si vedevano qua e là gruppi di pellegrini che gesticolavano, discutevano,

parecchi con il bastone ancora in mano. Credo proprio che se lo portassero a letto,

quell'arnese. Oltre la staccionata la foresta si ergeva spettrale al chiaro di luna, e attraverso

il fermento indistinto, attraverso i flebili suoni di quel cortile tristo, il silenzio della terra si

faceva strada fin dentro al cuore, col suo mistero, la sua grandezza, la sorprendente realtà

della sua vita nascosta. Il nero bastonato si lamentava debolmente da qualche parte vicino

a noi, e poi trasse un sospiro profondo che mi fece affrettare il passo per allontanarmi da lì.

Sentii una mano infilarsi sotto al braccio. "Mio caro signore", disse, "non voglio essere

frainteso, e tanto meno da lei, che incontrerà il signor Kurtz molto prima che io abbia

questo piacere. Non vorrei che si facesse un'idea sbagliata delle mie intenzioni..." «Lasciai

che proseguisse, quel Mefistofele di cartapesta. Mi sembrava che se ci avessi provato, sarei

riuscito a passarlo da parte a parte con un dito e che dentro non avrei trovato niente, forse

solo un po' di sporcizia sparsa. Quel tale, vedete, aveva progettato di diventare di lì a poco

il vice dell'attuale direttore, ed era chiaro che la venuta di quel Kurtz aveva disturbato non

poco i piani di entrambi. Parlava con precipitazione e non cercai di fermarlo. Tenevo le

spalle appoggiate al relitto del mio battello, issato a riva sul pendio della sponda come la

carcassa di un grosso animale fluviale. L'odore del fango, del fango primordiale, per Giove,

riempiva le mie narici; la vasta immobilità della foresta vergine era davanti ai miei occhi;

c'erano macchie luccicanti sull'acqua nera dell'insenatura. La luna aveva steso su ogni cosa

un sottile strato d'argento: sull'erba folta, sul fango, sulla muraglia di vegetazione intricata

che si ergeva più alta delle mura di un tempio, sul grande fiume che, attraverso una breccia

scura, vedevo scintillare, scintillare, mentre scorreva nel suo ampio letto senza un

mormorio. Tutto era imponente, vigile, silenzioso, mentre quell'uomo si diffondeva in

chiacchiere su di sé. E io mi domandavo se quella quiete sul volto dell'immensità che ci

guardava fosse una supplica o una minaccia. Che cos'eravamo noi che eravamo andati a

sperderci laggiù? Potevamo dominare quella cosa muta o ci avrebbe dominato lei? Sentivo

la grandezza, la smisurata grandezza di quella cosa che non poteva parlare, e forse

nemmeno udire. Che cosa conteneva? Vedevo uscirne un po' di avorio, e avevo sentito dire

che lì dentro c'era il signor Kurtz. Dio sa se me l'ero sentito dire! Eppure non riuscivo a

immaginarmelo, non più che se mi avessero detto che lì dentro c'era un angelo o un

demonio. Ci credevo come qualcuno di voi potrebbe credere che Marte è abitato. Una volta

ho conosciuto un velaio scozzese che era sicuro, anzi sicurissimo, che su Marte ci fossero

degli uomini. Se gli si chiedeva che aspetto avessero o come si comportassero, diventava

elusivo e mormorava qualcosa tipo "camminano a quattro zampe". Ma se si osava anche

solo sorridere, vi proponeva subito, benché fosse un uomo di sessant'anni, di fare a pugni.

Non sarei arrivato al punto di fare a pugni per Kurtz, ma per lui sono andato molto vicino

alla menzogna. Voi sapete che io odio, detesto, non tollero la menzogna; non perché io sia

più retto degli altri, ma solo perché mi sgomenta. Nella menzogna c'è un odore di morte, di

corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di

dimenticare. Mi fa star male, mi dà la nausea come se avessi in bocca qualcosa di marcio.

Questione di temperamento, credo. Beh!, ci andai molto vicino, lasciando credere a quel

giovane imbecille quel che più gli piaceva riguardo alle mie amicizie influenti in Europa. In

un attimo divenni anch'io parte della finzione, come il resto dei pellegrini stregati. Lo feci

semplicemente perché avevo la vaga sensazione che in questo modo sarei stato d'aiuto a

quel Kurtz, che pure non riuscivo a figurarmi, capite. Era solo una parola per me. Non

vedevo l'uomo dietro a quel nome, non più di quanto lo vediate voi. Voi lo vedete? E la

storia la vedete? Vedete qualcosa? È come se stessi cercando di raccontarvi un sogno, e non

ci riuscissi, perché non c'è resoconto di un sogno che possa rendere la sensazione del

sogno, quel miscuglio di assurdità, di sorpresa e di sconcerto nello spasimo di un'affannata

ribellione, quella sensazione di essere prigionieri dell'incredibile che è l'essenza stessa dei

sogni...» Restò un attimo in silenzio. «... No, è impossibile. È impossibile comunicare la

sensazione della vita di un qualsiasi momento della propria esistenza, ciò che rende la sua

verità, il suo significato, la sua essenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come

sognamo: soli.» Tacque di nuovo come per riflettere, poi aggiunse: «Naturalmente voi, in

questa storia, vedete più di quanto io potessi allora. Vedete me, me, che voi conoscete...»Si

era fatto così buio che noi che ascoltavamo non riuscivamo quasi a vederci l'un l'altro, e già

da tempo, lui, che era seduto un po' in disparte, non era che una voce per noi. Nessuno

parlò. Può darsi che gli altri si fossero addormentati, ma io ero sveglio e stavo ad ascoltare,

ad ascoltare, aspettando vigile e impaziente la frase, la parola che mi desse la chiave del

lieve disagio suscitato da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza labbra

umane, nell'aria greve della notte sul fiume. «... Sì, ho lasciato che si sfogasse,» ricominciò

Marlow, «e che pensasse quello che voleva dei poteri che c'erano dietro di me. Sì. E dietro

di me non c'era niente. Niente se non quel miserabile, vecchio vapore sventrato contro cui

mi appoggiavo, mentre lui parlava enfaticamente della "necessità che ogni uomo ha di farsi

strada". "E quando uno viene qui, non viene per guardare la luna, le pare?" Il signor Kurtz

era un "genio universale", ma anche un genio lavora meglio con "strumenti adeguati: degli

uomini intelligenti". Lui non fabbricava i mattoni - perché gli era materialmente

impossibile - come io sicuramente dovevo sapere; e se faceva da segretario al direttore, era

perché "nessun uomo di buon senso rifiuta senza motivo la confidenza e la fiducia dei suoi

superiori". Lo capivo? Sì lo capivo. Che cosa volevo di più? Buon Dio, quello che volevo io,

erano dei ribattini. Sì ribattini. Per continuare il lavoro, per tappare la falla, mi servivano i

ribattini. Ce n'erano casse intere là sulla costa: casse accatastate, traboccanti, sfasciate! A

ogni passo, nel cortile di quella stazione sul fianco della collina, si inciampava su un

ribattino smarrito. Dei ribattini erano rotolati persino nel boschetto della morte. Per

riempirsi le tasche di ribattini, bastava far la fatica di chinarsi, mentre là dove ce n'era

bisogno, non se ne trovava nemmeno uno. C'erano le lamiere che ci servivano, ma niente

con cui fissarle. E ogni settimana, il messaggero della nostra stazione, un nero solitario,

sacco postale in spalla e bastone in mano, partiva per la costa. E parecchie volte alla

settimana, dalla costa arrivava una carovana con la sua mercanzia: dello spaventoso calicò

lucido che dava i brividi solo a guardarlo, delle perline di vetro da una lira al chilo, degli

orribili fazzoletti di cotone a pallini. Ma ribattini mai. Sarebbero bastati tre portatori per

trasportare tutto quello che serviva per rimettere in acqua il battello. «Ormai aveva

assunto un tono confidenziale, ma penso che la mia indifferenza lo avesse infine

esasperato, perché ritenne necessario informarmi che non temeva né Dio né il diavolo, e

tanto meno un semplice mortale, chiunque fosse. Gli dissi che non ne dubitavo, ma quel

che desideravo io era una certa quantità di ribattini, che erano proprio quello che avrebbe

desiderato anche il signor Kurtz, se solo l'avesse saputo. Poiché ogni settimana partivano

delle lettere per la costa... "Mio caro signore," esclamò, "io scrivo solo quello che mi si

detta!" Io insistevo. Un uomo intelligente trova sempre il modo... Cambiò atteggiamento:

divenne freddissimo e si mise improvvisamente a parlare di un ippopotamo. Si domandava

se dormendo a bordo del battello (io restavo incollato alla mia ancora di salvezza giorno e

notte) non venissi disturbato. C'era un vecchio ippopotamo che aveva la cattiva abitudine

di uscire dal fiume sulla riva e di girovagare la notte nei paraggi della stazione. I pellegrini

allora facevano una sortita in massa e gli scaricavano addosso tutte le carabine che erano

riusciti a scovare. Ce n'erano di quelli che stavano su la notte, per aspettarlo. Tutta fatica

sprecata, però: "Quella bestia è stregata, un incantesimo l'ha resa invulnerabile," disse,

"ma questo vale solo per le bestie, perché nessun uomo - mi capisce? - nessun uomo in

questo paese è invulnerabile". Restò lì un momento davanti a me, al chiaro di luna, col suo

delicato naso aquilino un po' storto, gli occhi di mica scintillanti senza un battito di

palpebre; poi, con un asciutto "Buona notte" si allontanò speditamente. Vedevo che era

turbato e molto sconcertato, il che mi rese fiducioso come da giorni non mi sentivo. Fu un

grande sollievo passare da quel tizio alla mia amica influente, la mia bagnarola a vapore,

tutta sfasciata, piegata, a pezzi. Mi arrampicai a bordo. Risuonava sotto i miei passi come

una scatola di latta di biscotti Huntley & Palmer vuota, presa a calci in un rigagnolo. Era,

anzi, molto meno solida di costituzione, e di forma meno elegante, ma le avevo prodigato

una quantità di duro lavoro sufficiente per farmela amare. Non c'era amicizia influente che

mi fosse più utile di lei. Mi aveva dato la possibilità di mettermi un po' alla prova, di

scoprire quello che sapevo fare. No, non è che io ami il lavoro. Preferisco stare senza far

niente a pensare a tutte le belle cose che si potrebbero fare. Non mi piace lavorare, a

nessuno piace, ma mi piace ciò che c'è nel lavoro: la possibilità di scoprire se stessi, la

propria realtà, valida per noi, non per gli altri, quello che nessun altro potrà mai sapere. Gli

altri possono vedere solo l'apparenza, senza mai poter dire che cosa significhi veramente.

«Non fui sorpreso di trovare qualcuno seduto a poppa, sul ponte, con le gambe penzoloni

sopra il fango. Vedete, io me la intendevo piuttosto bene con i pochi operai che c'erano in

quella stazione, e che naturalmente gli altri pellegrini disprezzavano, per via delle loro

maniere poco raffinate, suppongo. Quello era il caposquadra, calderaio di professione, gran

lavoratore. Era uno spilungone tutto ossa, con la carnagione gialla e grandi occhi

espressivi. Aveva l'aria angustiata e un cranio calvo come il palmo della mia mano, ma

sembrava che i capelli, cadendo, si fossero aggrappati al mento e che nel nuovo terreno

avessero prosperato, perché la barba gli scendeva fin quasi alla vita. Era vedovo, con sei

bambini (che aveva lasciato alle cure di una sorella per venire là), e i piccioni viaggiatori

erano la passione della sua vita. Era un entusiasta e un intenditore: delirava per i piccioni.

Terminato il suo orario di lavoro, qualche volta lasciava la sua capanna per venire a parlare

con me dei suoi bambini e dei suoi piccioni. Quando, al lavoro, doveva strisciare sotto il

fondo del battello dentro al fango, avvolgeva la sua famosa barba in una specie di

canovaccio bianco che si portava dietro a questo scopo. Era munito di due cappi da passare

sopra le orecchie. La sera, lo si vedeva accovacciato sulla riva, intento a sciacquare con

gran cura quel suo involucro nell'acqua dell'insenatura, per stenderlo poi solennemente ad

asciugare su un cespuglio. «Gli diedi una manata sulla schiena e gridai: "Avremo i

ribattini!" Balzò subito in piedi esclamando: "No! I ribattini!", come se non potesse credere

alle proprie orecchie. Poi a bassa voce, "Lei... eh?" Non so perché ci comportammo come

due matti. Col dito davanti al naso, annuii in modo misterioso. "Bravo!", esclamò e fece

schioccare le dita sopra la testa, sollevando un piede. Accennai qualche passo di danza e ci

mettemmo a saltare sul ponte di ferro.Dallo scafo smantellato uscì uno spaventoso rumore

di ferraglia che la foresta vergine, dall'altro lato dell'insenatura, rimandò come un rombo

di tuono sulla stazione addormentata. Dovevamo aver svegliato di soprassalto più di un

pellegrino nel suo tugurio. Una sagoma nera oscurò il vano illuminato della porta della

capanna del direttore, poi scomparve e dopo qualche secondo, scomparve anche il vano

della porta. Avevamo smesso di ballare e il silenzio interrotto dal nostro calpestio rifluì dai

recessi della terra. La grande muraglia di vegetazione, una massa esuberante e

aggrovigliata di tronchi, rami, foglie, fronde e tralci, immobile, alla luce della luna, era

come un'irruzione travolgente di vita silenziosa, una tumultuosa onda vegetale, alta,

crestata, pronta a irrompere nella insenatura, e a spazzar via dalla nostra piccola esistenza,

tutti noi, minuscoli uomini. E non si muoveva. Uno scroscio attutito di spruzzi e sbuffi

possenti ci giunse di lontano, come se un ittiosauro stesse facendo un bagno di gala, di

suoni e luci, nel grande fiume. "In fin dei conti", disse il calderaio, pacatamente, "perché

non dovremmo averli i ribattini?" Eh già, perché no? Non c'era nessuna ragione che ce lo

impedisse. "Arriveranno fra tre settimane", dissi fiducioso. «Ma non arrivarono. Invece dei

ribattini ci fu un'invasione, un castigo, un flagello. Arrivò a scaglioni per tre settimane di

seguito, con in testa a ogni scaglione un asino montato da un bianco vestito a nuovo e con

le scarpe gialle, che da quell'altezza si chinava, a destra e a manca, per salutare i pellegrini

ammirati. Una banda litigiosa di neri immusoniti e coi piedi doloranti tallonava l'asino;

mucchi di tende, di seggiolini da campo, di scatole di latta, di casse bianche, di balle

marrone venivano scaraventate nel cortile, e quell'aria di mistero che aleggiava sul gran

disordine della stazione si infittì ancor di più. Ce ne furono cinque di questi arrivi a

puntate, tutti con la stessa aria grottesca di fuga precipitosa, col bottino di innumerevoli

magazzini e botteghe che, si sarebbe pensato, loro stavano trascinando nella landa

selvaggia, dopo la razzia, per spartirselo equamente. Era un'inestricabile accozzaglia di

cose rispettabili in sé, ma che la follia degli uomini aveva reso simili a prede di ladroni.

«Questa stimabile compagnia si faceva chiamare Spedizione Esplorativa Eldorado, e credo

che i suoi membri fossero legati da un giuramento di segretezza. I loro discorsi, però, erano

quelli di sordidi bucanieri: cinici, senza essere arditi, cupidi senza essere audaci, crudeli,

ma senza coraggio; non c'era un briciolo di lungimiranza o di intenzione seria nell'intera

masnada, e non sembravano nemmeno rendersi conto che queste sono cose necessarie per

operare nel mondo. Strappare i tesori dalle viscere della terra era il loro unico desiderio,

senza scrupoli morali, almeno non più di quanti ne abbiano dei rapinatori a sfondare una

cassaforte. Chi pagasse le spese della nobile impresa, lo ignoro, ma lo zio del nostro

direttore era il capo della banda. «D'aspetto assomigliava a un macellaio di un quartiere

povero, e i suoi occhi avevano uno sguardo di furbizia sopita. Portava con ostentazione una

grossa pancia su delle gambe corte e durante tutto il periodo in cui la sua truppa infestò la

stazione non rivolse la parola a nessuno, se non a suo nipote. Li si vedeva passeggiare dalla

mattina alla sera, le teste ravvicinate, in un inesauribile conciliabolo. «Avevo smesso di

tormentarmi per i ribattini. La nostra capacità di preoccuparci per un tal genere di

sciocchezze è più limitata di quanto si creda. Dissi, al diavolo, e lasciai correre. Avevo tutto

il tempo per meditare e, ogni tanto, rivolgevo uno dei miei pensieri a Kurtz. Non che egli

mi interessasse molto. No. Però ero curioso di vedere se quell'uomo, che era venuto là con

un certo bagaglio di idee morali, sarebbe davvero arrivato in alto e in che modo avrebbe

allora organizzato la sua opera. II «Una sera, mentre me ne stavo lungo disteso sul ponte

del mio battello, sentii avvicinarsi delle voci: erano zio e nipote che venivano passeggiando

lungo il fiume. Misi di nuovo giù la testa sul braccio e, già mezzo assopito, udii qualcuno

dire, quasi dentro al mio orecchio: "Io non faccio del male a una mosca, però non mi

piacciono le imposizioni. Sono o non sono il direttore? Mi hanno ordinato di mandarlo là.

È incredibile..." Mi accorsi che quei due si erano fermati sulla riva, all'altezza della prora

del battello, proprio sotto la mia testa. Non mi mossi. Non mi venne neanche in mente di

muovermi: avevo sonno. "È spiacevole", grugnì lo zio. "È lui che ha chiesto

all'Amministrazione di essere mandato lì", disse l'altro, "per far vedere quello che sa fare e

io ho ricevuto le relative istruzioni. Vedi che razza di ascendente deve avere quell'uomo.

Non è spaventoso?" Ne convennero entrambi, che era spaventoso; dopo di che all'orecchio

mi giunsero delle espressioni bizzarre: "Fare il bello e il cattivo tempo... un uomo solo... il

Consiglio... menare per il naso", frammenti di frasi assurde che ebbero la meglio sul mio

torpore, tant'è vero che ero quasi in pieno possesso delle mie facoltà mentali quando lo zio

disse: "Potrebbe aiutarti il clima a risolvere queste difficoltà. È da solo là?" "Sì", rispose il

direttore, "ha spedito il suo assistente giù per il fiume con un biglietto per me che diceva:

'Allontani subito dal paese questo povero diavolo e non si disturbi a mandarmene altri

dello stesso stampo. Preferisco star solo piuttosto che avere il genere di uomini che lei mi

rifila.' Questo avveniva più di un anno fa. Si può immaginare una maggiore impudenza?"

"E da allora più niente?", chiese l'altro, con la voce roca. "Avorio", scattò il nipote, "a

mucchi e di prima qualità, mucchi di avorio, molto seccante, provenendo da lui." "Dopo di

che?", domandò il greve brontolio. "La fattura", fu la risposta, sparata a bruciapelo, come si

suol dire. Poi silenzio. Era di Kurtz che stavano parlando. «Ormai ero completamente

sveglio, ma rimanevo disteso, immobile nella mia comoda posizione, e non avevo nessuna

intenzione di cambiarla. "Ma come ha fatto tutto quell'avorio ad arrivare fin qua?", ringhiò

il più anziano che sembrava molto irritato. L'altro spiegò che era giunto con una flottiglia

di canoe guidata da un meticcio inglese, un impiegato di Kurtz; che Kurtz stesso aveva

apparentemente progettato di rientrare, la sua stazione era ormai sfornita diprovviste e

mercanzie, ma dopo aver percorso trecento miglia, aveva improvvisamente deciso di

tornare indietro; cosa che aveva fatto, da solo, in una piccola piroga, con quattro vogatori,

lasciando che il meticcio continuasse il viaggio giù per il fiume con l'avorio. I due compari

sembravano sbalorditi che qualcuno avesse tentato una cosa simile; e non riuscivano a

immaginarne il motivo. Quanto a me, mi sembrò di vedere Kurtz per la prima volta. Ne

ebbi una visione fugace ma chiara: la piroga, i quattro selvaggi che remavano, e l'uomo

bianco solitario che volgeva subitaneo le spalle al quartier generale, a ogni forma di aiuto, a

ogni idea di ritorno, chissà!, per dirigersi a viso fermo verso le profondità della selva

selvaggia, verso la sua stazione vuota e desolata. Non ne conoscevo il motivo. Forse era

solo un tipo in gamba attaccato al lavoro per amore del lavoro. Il suo nome, notate, non era

mai stato pronunciato, neanche una volta. Era "quell'uomo". Al meticcio che, da quanto

potevo giudicare, aveva condotto quella spedizione difficile con grande prudenza e fegato,

si alludeva invariabilmente come a "quella canaglia". La "canaglia" aveva riferito che

l'"uomo" era stato molto ammalato e che non si era rimesso del tutto... I due sotto di me si

allontanarono di qualche passo, passeggiando avanti e indietro poco distanti. Udii: "Posto

militare... dottore... duecento miglia... completamente solo adesso... ritardi inevitabili...

nove mesi... nessuna notizia... strane voci." Poi si riavvicinarono, proprio mentre il

direttore diceva: "Nessuno, per quanto io sappia, tranne una specie di trafficante

vagabondo, un individuo esiziale, che scippa l'avorio agli indigeni." Di chi è che parlavano

adesso? Mettendo assieme i pezzi capii che si trattava di un uomo che molto probabilmente

stava nella zona di Kurtz, e che non godeva della simpatia del direttore. "Riusciremo a

sbarazzarci della concorrenza sleale solo quando uno di questi individui verrà impiccato,

per dare l'esempio", disse. "Certamente", grugnì l'altro, "fallo impiccare! Perché no? In

questo paese si può fare di tutto, di tutto. Sai cosa ti dico? Qui, capisci, qui, nessuno può

compromettere la tua posizione. E sai perché? Tu sopporti il clima: li seppellirai tutti. Il

pericolo è in Europa, ma lì, prima di partire ho provveduto io a..." Si allontanarono

bisbigliando; poi le loro voci si alzarono di nuovo. "Questa straordinaria serie di ritardi non

è colpa mia. Io ho fatto il possibile." Il grassone sospirò: "Che ci vuoi fare!" "E la

pestilenziale assurdità dei suoi discorsi", continuò l'altro. "Mi ha quasi asfissiato quand'era

qua. 'Ogni stazione dovrebbe essere come un faro sulla via del progresso, un centro per

commerciare, certo, ma anche per umanizzare, migliorare, istruire.' Ti rendi conto... quel

coglione! E vuole diventare direttore! No, è..." A quel punto si soffocò in un accesso di

indignazione e io alzai un pochino la testa. Fui sorpreso di vedere quanto fossero vicini,

proprio sotto di me. Avrei potuto sputare sui loro cappelli. Guardavano per terra, assorti

nei loro pensieri. Il direttore si frustava la gamba con una verga sottile; il suo sagace

parente sollevò la crapa. "Sei stato bene da quando sei tornato qui, questa volta?", chiese.

L'altro trasalì. "Chi? Io? Oh! D'incanto, d'incanto. Ma gli altri, Dio santo! Tutti malati.

Muoiono così in fretta poi, che non faccio neanche a tempo a mandarli via dal paese. È

incredibile!" "Hem. Per l'appunto", grugnì lo zio. "Ah! ragazzo mio, è proprio su questo che

devi contare, ti dico, su questo." Gli vidi stendere un braccetto, corto come una pinna, in

un gesto che abbracciava la foresta, l'insenatura, il fango, il fiume, come se, con una mossa

oltraggiosa alla faccia assolata del paese, rivolgesse un perfido invito alla morte in agguato,

al male nascosto, alla profondità tenebrosa del cuore di quella terra. Era così stupefacente

che balzai in piedi e mi voltai a guardare il ciglio della foresta, quasi mi aspettassi una

qualche risposta a quel diabolico sfoggio di confidenza. Sapete che idee stravaganti ci

vengono talvolta. L'immobilità assoluta, paziente e minacciosa, fronteggiava quelle due

figure in attesa che sparisse la fantastica invasione. «Bestemmiarono tutti e due ad alta

voce, per pura paura, credo, poi fingendo di ignorare che io esistessi, s'incamminarono

verso la stazione. Il sole era basso e, piegati in avanti, fianco a fianco, sembravano

trascinare faticosamente su per la salita le loro ridicole ombre di ineguale lunghezza, che

strisciavano lentamente dietro di loro sull'erba alta senza piegarne un solo filo. «Di lì a

pochi giorni la Spedizione Eldorado si inoltrò nella paziente landa selvaggia, che si richiuse

su di lei come fa il mare sopra uno che si tuffa. Dopo molto tempo arrivò la notizia che

erano morti tutti gli asini. Della sorte degli altri animali meno preziosi non so nulla.

Trovarono, senza dubbio, come tutti noi, ciò che si meritavano. Non indagai. Allora ero

troppo eccitato alla prospettiva che molto presto avrei incontrato Kurtz. Quando dico

molto presto vuol dire per quanto fosse consentito laggiù, cioè in modo relativo. Da

quando lasciammo l'insenatura, passarono giusto due mesi prima che toccassimo terra

sotto la stazione di Kurtz. «Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel

tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi

alberi erano sovrani. Un corso d'acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta

impenetrabile; l'aria calda, spessa, greve, immota. Non c'era gioia nello splendore del sole.

Deserte, le lunghe distese d'acqua si perdevano nell'oscurità di adombrate distanze. Sui

banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco.

Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva

in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle

secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello

che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un'altra vita forse.

C'erano momenti in cui il proprio passato riaffiorava, come capita talvolta quando non si

ha un momento da dedicare a se stessi; ma veniva in forma di sogno inquieto e rumoroso,

ricordato con stupore fra le prorompenti realtà di quello strano mondo di piante, di acqua

e di silenzio. E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era

l'immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi

guardava con un'aria vendicativa, piena di risentimento. Alla lunga mi ci abituai: non la

vedevo più. Non ne avevo il tempo. Dovevo continuamente scrutare il fiume per cercare di

indovinare il passaggio; per discernere, più con l'intuito che con la vista, i segni di banchi

nascosti; per spiare le rocce sommerse. Imparai a serrare prontamente i denti per impedire

che il mio cuore balzasse via, quando schivavo, sfiorandolo, qualche infernale vecchio

tronco sornione che avrebbe attentato alla vita della mia bagnarola, sventrandola, facendo

annegare tutti i pellegrini. E dovevo tenered'occhio ogni traccia di albero morto che

avremmo tagliato durante la notte per assicurarci il vapore del giorno dopo. Quando si

deve badare a questo genere di cose, ai meri accidenti di superficie, la realtà - la realtà, vi

dico - impallidisce. La verità più riposta rimane nascosta, fortunatamente, fortunatamente.

Ma io la sentivo lo stesso; sentivo spesso la sua immobilità misteriosa che osservava i miei

trucchi da scimmia, proprio come osserva voi, quando vi esibite sulle vostre funi tese nel

vuoto, per quanto?, per mezza corona a ogni salto mortale.» "Cerca di essere più civile,

Marlow", borbottò una voce, per cui capii che oltre a me ce n'era almeno un altro sveglio,

ad ascoltare. «Scusatemi. Dimenticavo che si deve aggiungere il patema d'animo al resto

del prezzo. Ma che importanza ha il compenso se l'acrobazia è riuscita bene? A voi riescono

benissimo. E anch'io non me la sono cavata tanto male, dato che son riuscito a non far

affondare il battello al mio primo viaggio. Me ne meraviglio ancora. Immaginatevi un

uomo bendato che debba guidare un furgone su una strada dissestata. Ho sudato e tremato

non poco su quell'affare, ve l'assicuro. In fin dei conti, per un marinaio, è il peccato più

imperdonabile scorticare il fondo di quella cosa che dovrebbe stare sempre a galla sotto la

sua guida. Forse nessuno se n'è accorto, ma voi il tonfo non lo dimenticherete mai, vero?

Un colpo al cuore. Ve lo ricorderete, lo sognerete, e anni dopo, vi sveglierete di notte per

pensarci, e sentirete caldo e freddo in tutto il corpo. Non pretendo di dire che il battello sia

rimasto sempre a galla. Più di una volta ha dovuto passare a guado per un tratto, con venti

cannibali intorno a diguazzare e a spingere. Strada facendo ne avevamo arruolati alcuni,

come ciurma. Brava gente, i cannibali, al loro posto. Uomini con cui si poteva lavorare e a

cui io sono grato. E poi non si sono mangiati fra di loro sotto i miei occhi. Si erano portati

dietro della carne di ippopotamo che marcì e che mi portò l'odore del mistero della landa

selvaggia fin dentro alle narici. Puah! Sento ancora il tanfo. A bordo avevo il direttore e tre

o quattro pellegrini col bastone: al completo. Qualche volta incontravamo una stazione

sulla sponda del fiume, aggrappata ai margini dell'ignoto, e i bianchi che si precipitavano

fuori dai loro tuguri, accogliendoci con gesti festosi e sorpresi, avevano un'aria stranita:

sembravano prigionieri di un incantesimo. La parola avorio echeggiava nell'aria per un po'

e poi ci rimmergevamo nel silenzio, lungo tratti deserti, intorno ad anse tranquille, tra le

alte mura del nostro tortuoso percorso, che riverberavano in cupi colpi il poderoso battito

della nostra ruota poppiera. Alberi, alberi, milioni di alberi, massicci, immensi, svettanti; e

ai loro piedi, rasentando la sponda per vincere la corrente, arrancava il piccolo battello

fuligginoso, come un indolente scarafaggio che si trascini sul pavimento di un ampio e

nobile porticato. Ci si sentiva molto piccoli e sperduti, eppure quella sensazione non era

del tutto deprimente. In fin dei conti, anche se eravamo piccoli, quello sporco scarafaggio

andava avanti ed era proprio quello che si voleva che facesse. Dove i pellegrini si

immaginavano che strisciasse io non lo so. Verso un luogo in cui si aspettavano di arraffare

qualcosa, scommetto! Per me strisciava esclusivamente verso Kurtz, ma quando i tubi del

vapore iniziarono a perdere ci trascinammo molto lentamente. Le lunghe strade d'acqua si

aprivano davanti a noi e si richiudevano al nostro passaggio, come se la foresta, pigra e

tranquilla, avesse scavalcato l'acqua per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre

più a fondo nel cuore della tenebra. Regnava una gran quiete. La notte, qualche volta, il

rullio dei tamburi dietro la cortina degli alberi saliva su per il fiume e si prolungava

debolmente, come sospeso nell'aria, sopra le nostre teste, fino allo spuntar del giorno. Se

era un segnale di guerra, di pace o di preghiera noi non lo sapevamo. L'alba era sempre

annunciata dal calare di un gelido torpore; i taglialegna dormivano, con i fuochi che

bruciavano bassi; lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ci faceva trasalire. Eravamo

viandanti su una terra preistorica, su una terra che aveva l'aspetto di un pianeta

sconosciuto. Potevamo immaginarci di essere i primi uomini che prendevano possesso di

un'eredità maledetta, che si doveva conquistare al prezzo di un profondo tormento e di

un'enorme fatica. Ma improvvisamente, mentre lottavamo attorno a un'ansa, si apriva una

visione di muri di giunco, di tetti d'erba a punta, ed era un'esplosione di grida, un turbinio

di membra nere, una moltitudine di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi

che ondeggiavano, di occhi che roteavano, sotto la cascata del fogliame fitto e immobile. Il

battello arrancava lentamente ai margini di una nera e incomprensibile frenesia. L'uomo

preistorico ci malediva, ci implorava, ci dava il benvenuto, chi poteva dirlo? Eravamo

tagliati fuori dalla comprensione di ciò che ci circondava; scivolavamo via come fantasmi,

stupiti e segretamente sgomenti, come lo sarebbero degli uomini sani di mente davanti a

uno scoppio di entusiasmo in manicomio. Non potevamo capire, perché eravamo troppo

lontani, e non potevamo ricordare, perché stavamo viaggiando nella notte dei tempi, di

quei tempi scomparsi senza quasi lasciare traccia e alcun ricordo. «La terra non sembrava

più terrena. Noi siamo abituati a vedere la forma incatenata di un mostro soggiogato, ma lì,

lì si vedeva il mostro in libertà. Non era terreno e gli uomini erano... No, non erano

inumani. Ecco, sapete, era questa la cosa peggiore: il sospetto che non fossero inumani.

Veniva a poco a poco. Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili

smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità, simile

alla nostra, il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e

appassionata. Sgradevole. Sì era abbastanza sgradevole, ma con un po' di coraggio,

bisognava ammettere che c'era in noi, sia pur debolissima, una traccia di rispondenza alla

terribile franchezza di quel frastuono, l'impressione confusa che vi si nascondesse un

significato che, per quanto lontani noi si fosse dalla notte dei tempi, si poteva capire. E

perché no? La mente dell'uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, tutto il passato e

tutto l'avvenire. E in fondo là dentro cosa c'era? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio,

collera, - chi lo sa? - ma verità certamente, la verità spogliata dal mantello del tempo.

Padronissimo lo sciocco di restare a bocca aperta e tremare: l'uomo capisce, e può

guardare senza battere ciglio. Ma deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla

spiaggia. Deve rispondere a quella verità con ciò che c'è di più vero in lui, con la sua forza

innata. I principi? I principi non servono: acquisizioni, mascheramenti, orpelli, che

volerebbero via alla prima scossa un po' rude. No, ci vuole una fede deliberata. C'è un

appello per me in questo barbaro tumulto, sì? Benissimo, lo ascolto, lo riconosco, ma

anch'io ho una voce, e nel bene come nel male quello che io diconon può essere messo a

tacere. Naturalmente, uno sciocco, sia per semplice paura sia per nobili sentimenti, non

corre alcun rischio. Cos'è quel borbottio? Vi domandate se sono sceso a terra a ululare e a

ballare? No, non l'ho fatto. Nobili sentimenti, dite? Al diavolo i nobili sentimenti! Non

avevo tempo. Dovevo trastullarmi con biacca di piombo e strisce tagliate dalle coperte di

lana per aiutare a bendare quei tubi che perdevano, proprio così. Dovevo sorvegliare la

rotta, aggirare i tronchi, e di riffa o di raffa, far avanzare la mia bagnarola. In quelle cose

c'era tanta verità di superficie da salvare anche un uomo più saggio. E nel frattempo

dovevo badare a quel selvaggio del mio fuochista. Era un esemplare progredito, capace di

alimentare una caldaia verticale. Era là, sotto di me, e, parola mia, guardarlo era

altrettanto edificante che vedere un cane in calzoncini da clown e cappello di piume, che

cammina sulle zampe posteriori. Erano bastati pochi mesi di addestramento, a quel tipo

davvero notevole. Sbirciava il manometro del vapore e l'indicatore di livello dell'acqua con

un evidente sforzo di audacia, eppure aveva i denti limati, quel povero diavolo, e dei

bizzarri disegni scolpiti a rasoio sulla lana del suo cranio e tre cicatrici ornamentali sulle

guance. Avrebbe dovuto essere sulla riva a battere le mani e i piedi invece di star lì a

lavorare sodo, schiavo di una strana stregoneria, ricca di sapere avanzato. Era utile perché

era stato istruito e quel che sapeva era questo: che se veniva a mancare l'acqua in quella

cosa trasparente, lo spirito maligno chiuso nella caldaia si sarebbe infuriato per la gran sete

e si sarebbe vendicato in maniera terribile. Perciò sudava e attizzava il fuoco e sorvegliava

timoroso il vetro (con un feticcio improvvisato, fatto di stracci, legato al braccio, e un pezzo

d'osso levigato, grosso come un orologio, infilato di piatto nel labbro inferiore), mentre le

rive boscose scorrevano lentamente al nostro passaggio, il breve clamore rimaneva

indietro, ricominciavano le miglia interminabili di silenzio, e noi strisciavamo, verso Kurtz.

Ma le insidie erano molte, i tronchi nascosti, l'acqua traditrice e senza profondità, e la

caldaia sembrava davvero posseduta da un demone scontroso. Perciò né io né il fuochista

avevamo il tempo di scrutare nei nostri strani e terribili pensieri. «A una cinquantina di

miglia dalla Stazione Interna, scorgemmo sulla riva una capanna di canniccio, un palo

inclinato e melanconico, su cui svolazzavano i brandelli irriconoscibili di quella che doveva

essere stata una specie di bandiera, e una pila di legna da ardere accatastata con cura. Una

cosa inattesa. Scendemmo a terra e in cima alla catasta di legna trovammo un'asse con una

scritta a matita, tutta sbiadita. Una volta decifrata, diceva: "Legna per voi. Fate presto.

Avvicinatevi con cautela." C'era anche la firma, ma illeggibile, non Kurtz, una parola molto

più lunga. Sbrigarsi. A far cosa? A salire il fiume? "Avvicinatevi con cautela." Noi non

l'avevamo fatto. Ma l'avvertimento non poteva riferirsi al luogo in cui si poteva trovare il

messaggio solo dopo essercisi avvicinati. Era più su che qualcosa non andava bene. Ma

cosa? Qualcosa di grave? Questo era il dilemma. Commentammo negativamente la

stupidità di quello stile telegrafico. La boscaglia intorno non rivelava nulla e non

consentiva nemmeno di inoltrarsi con lo sguardo molto lontano. Una tenda lacera di saia

rossa pendeva dalla soglia della capanna e ci sbatté tristemente in faccia. L'abitazione era

stata smantellata, ma si vedeva che fino a poco tempo prima ci aveva vissuto un bianco.

Restavano una tavola rudimentale, non era che un'asse su due sostegni, delle immondizie

ammucchiate in un angolo buio e, accanto alla porta, un libro, che raccolsi. Era senza

copertina e le pagine portavano l'impronta di un dito che, a forza di sfogliarle, le aveva

sporcate e logorate; il dorso, invece, era stato amorevolmente ricucito con del filo di cotone

bianco che sembrava ancora pulito. Avevo trovato una cosa straordinaria. Il titolo

era Indagine su alcuni aspetti dell'arte di navigare, di un certo Towser, o Towson, un nome

simile, capitano della Marina di Sua Maestà. La materia sembrava un po' ostica, con grafici

illustrativi e orrende tavole numeriche; e la copia era vecchia di sessant'anni. Maneggiai

quel sorprendente pezzo d'antiquariato con la massima delicatezza, per paura che mi si

polverizzasse in mano. Là dentro, Towson o Towser dissertava sul punto di massima

tensione delle catene, dei paranchi e su altri argomenti analoghi. Non proprio avvincente,

quel libro, ma dalla prima occhiata vi si scorgeva una serietà di intenti, un interesse

autentico per come affrontare bene un lavoro, che quelle umili pagine, pensate tanti anni

prima, s'illuminavano di una luce non solo professionale. Quel semplice vecchio marinaio

mi fece dimenticare la giungla e i pellegrini dandomi la sensazione di aver finalmente di

fronte qualcosa di indiscutibilmente reale. Che un libro simile fosse là era già abbastanza

sorprendente, ma ancor più stupefacenti erano le note scritte in margine a matita,

chiaramente riferite al testo. Non potevo credere ai miei occhi! Erano in codice! Sì, aveva

tutta l'aria di un codice. Vi immaginate un uomo che in quel nulla si porta dietro un libro

del genere, se lo studia, ci fa sopra delle note, e in codice! Era un mistero davvero

stravagante. «Era già da un po' che avvertivo dei vaghi rumori molesti: quando alzai gli

occhi vidi che la catasta di legna era scomparsa e che il direttore, con l'aiuto di tutti i

pellegrini, mi stava chiamando a gran voce dalla riva del fiume. Mi infilai il libro in tasca.

Dover abbandonare la lettura era come essere strappati dalle braccia di una vecchia e

solida amicizia, ve lo assicuro. «Rimisi in moto lo zoppicante macinino. "Non può essere

che quel miserabile trafficante, quell'intruso", esclamò il direttore, voltandosi a guardare

con aria malevola il luogo che avevamo appena lasciato. "Dev'essere inglese", dissi io. "Il

che non gli eviterà di passare dei guai se non sta attento", borbottò, cupo, il direttore.

Osservai con finta innocenza che a questo mondo nessuno è al riparo dai guai. «La

corrente si era fatta più rapida, il battello sembrava boccheggiare, la ruota poppiera batteva

l'acqua languidamente, e mi accorsi di stare sulla punta dei piedi ad ascoltare il successivo

battito della pala, perché in tutta sincerità, mi aspettavo che da un momento all'altro quella

cosa sciagurata avrebbe ceduto di schianto. Era come assistere agli ultimi fremiti di una

vita che si spegne. Ma, sia pure lentamente, continuavamo a procedere. Ogni tanto

sceglievo un albero davanti a me, come riferimento, per misurare il nostro progresso verso

Kurtz, ma lo perdevo invariabilmente di vista prima di averlo raggiunto. Tenere gli occhi

fissi, e a lungo, su uno stesso punto, era chiedere troppo alla pazienza umana. Il direttore

mostrava una grande capacità di rassegnazione. Io mi rodevo il fegato e nonsmettevo di

arrovellarmi chiedendomi se dovevo parlare apertamente con Kurtz oppure no; ma prima

di essere arrivato a una conclusione, mi si affacciò l'idea che se io parlavo, o tacevo, o

facevo una cosa qualsiasi, sarebbe stata una pura futilità. Che importanza aveva quello che

uno sapeva o ignorava? Che importanza aveva chi era il direttore? Talvolta si hanno simili

lampi d'intuizione. L'essenziale di quella faccenda giaceva molto sotto la superficie, oltre la

mia portata e al di là del mio potere d'intervento. «Verso la sera del secondo giorno,

calcolammo di essere a circa otto miglia dalla stazione di Kurtz. Io avrei voluto proseguire,

ma il direttore, che aveva assunto un'aria grave, disse che più a monte la navigazione era

talmente pericolosa che sarebbe stato più prudente, col sole già così basso, fermarci

dov'eravamo fino al mattino seguente. Mi fece inoltre notare che, se dovevamo seguire

l'avvertimento di avvicinarci con cautela, ci conveniva farlo di giorno, non al crepuscolo, o

col buio. Era abbastanza sensato. Per noi otto miglia volevano dire circa tre ore di

navigazione, e per di più, in fondo a quel tratto di fiume, a monte vedevo delle increspature

sospette. Ciononostante quel ritardo mi contrariò in modo indicibile, e anche

assolutamente irragionevole, dato che dopo tanti mesi una notte in più o in meno non

poteva fare molta differenza. Siccome la legna abbondava, e la parola d'ordine era

"cautela", gettai l'ancora in mezzo al fiume. In quel tratto correva diritto, stretto fra argini

alti come le trincee di una ferrovia. Il crepuscolo vi entrò scivolando molto prima che fosse

calato il sole. La corrente fluiva liscia e veloce ma sulle sponde pesava una muta

immobilità. Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e

rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal

rametto più sottile, alla foglia più leggera. Troppo innaturale per essere un sonno:

sembrava uno stato di trance. Non si sentiva il più debole suono, di nessuna specie. Si

stava a guardare stupiti, con il sospetto di essere diventati sordi e all'improvviso scese la

notte a renderci anche ciechi. Verso le tre del mattino, un grosso pesce saltò sull'acqua con

un tonfo così sonoro che mi fece sobbalzare come se fosse stato sparato un colpo di arma

da fuoco. Al sorgere del sole ci trovammo immersi in una nebbia bianca, calda e gommosa,

più accecante ancora della notte. Non si spostava, né verso riva né in avanti: stava lì

immobile intorno a noi, come una cosa solida. Verso le otto o forse le nove, si alzò, come si

alza una saracinesca. Si aprì uno spiraglio sulla torreggiante foresta d'alberi, sull'immenso

intrico della giungla su cui dardeggiava la piccola palla del sole - tutto perfettamente

immobile - e poi la bianca saracinesca si riabbassò senza intoppi, come scivolando su guide

ben oliate. Diedi l'ordine di mollare di nuovo la catena dell'ancora che avevamo già iniziato

a issare a bordo. Prima che finisse di scorrere con un rantolo soffocato, un grido, un grido

altissimo, di infinita desolazione, si alzò adagio nell'aria ovattata. Cessò. Un clamore

lamentoso, modulato su selvagge dissonanze, ci riempì le orecchie. Era talmente

inaspettato che sotto il berretto mi si rizzarono i capelli. Non so che effetto facesse agli

altri: quel frastuono lugubre e tumultuoso era sorto talmente improvviso, e

apparentemente ovunque e simultaneo, che a me parve che a gridare fosse stata proprio la

nebbia. Culminò in una precipitosa esplosione di urla acute, di un'intensità quasi

intollerabile, che cessò di colpo, lasciandoci irrigiditi in una varietà di atteggiamenti

ridicoli, in accanito ascolto del silenzio, quasi altrettanto spaventoso ed eccessivo. "Dio

mio! Ma di cosa si tratta?...", balbettò accanto a me uno dei pellegrini, un ometto grasso,

coi capelli di stoppa e le basette rosse, che indossava stivaletti con gli elastici ai lati e un

pigiama rosa, con le braghe infilate nei calzini. Altri due restarono a bocca aperta per un

minuto intero, poi si precipitarono dentro la piccola cabina di prua da dove ricomparvero

di corsa, Winchester carichi alla mano, lanciando sguardi spaventati in tutte le direzioni. E

non si vedeva che il battello sul quale stavamo, con i contorni così sfocati che sembrava sul

punto di dissolversi e tutt'intorno una nebbiosa striscia d'acqua, larga forse mezzo metro:

nient'altro. Il resto del mondo non esisteva, almeno non per i nostri occhi e le nostre

orecchie. Non esisteva più: svanito, volatilizzato, spazzato via senza lasciarsi dietro un

sussurro o un'ombra. «Andai a prua e ordinai di accorciare la catena, in modo da essere

pronti a issare l'ancora e metterci subito in marcia, se ce ne fosse stato bisogno.

"Attaccheranno?", bisbigliò una voce atterrita. "Ci massacreranno tutti con questa nebbia",

mormorò un altro. I volti distorti dalla tensione, le mani leggermente tremanti, gli occhi

sbarrati: era molto curioso il contrasto fra le espressioni dei bianchi e quelle dei neri del

nostro equipaggio, che in quella parte del fiume non erano meno stranieri di noi, anche se

le loro case erano solo a milletrecento chilometri di distanza. I bianchi non erano solo

molto agitati, avevano anche l'aria di essere dolorosamente colpiti da un tumulto così

scandaloso. Gli altri avevano un'espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro

volti erano essenzialmente distesi, anche quelli di quei due o tre che, issando la catena

dell'ancora, l'avevano contratto. Alcuni si scambiarono delle brevi frasi gutturali che

sembrarono risolvere la faccenda con loro soddisfazione. Il loro capo, un giovane nero con

un ampio torace, austeramente avvolto in un drappo blu scuro sfrangiato, le narici focose e

la capigliatura acconciata artisticamente in ricciolini oliati, era in piedi vicino a me. "Aha!",

dissi tanto per dire qualcosa. "Prendeteli", latrò, spalancando gli occhi iniettati di sangue

mentre i suoi denti aguzzi brillavano, "prendeteli e dateceli." "A voi?", chiesi, "E per farne

che?" "Mangiarli!" disse laconico e, appoggiato il gomito al parapetto, guardò fuori nella

nebbia in un atteggiamento solenne e profondamente pensieroso. Sarei senza dubbio

rimasto giustamente orripilato se non mi fosse venuto in mente che lui e i suoi compagni

dovevano avere molta fame, una fame che era andata progressivamente crescendo da

almeno un mese a questa parte. Erano stati ingaggiati per sei mesi (ma penso che nessuno

di loro avesse una chiara nozione del tempo, come l'abbiamo noi alla fine di innumerevoli

ere. Appartenevano ancora agli albori del mondo, senza alcuna esperienza ereditata, per

così dire, che gliela potesse insegnare), e naturalmente, purché ci fosse un pezzo di carta

scritta in conformità di qualche legge farsesca confezionata ed emanata all'altro capo del

fiume, a nessuno era mai passato per la testa di preoccuparsi di come sarebbero vissuti.

Era vero che si erano portati la carne di ippopotamo putrefatta, che non avrebbe potuto

durare a lungo comunque, però, anche se i pellegrini, in mezzo a uno schiamazzo

impressionante, non ne avessero gettata in acqua una gran quantità. Sembrava un atto di

prepotenza, ma in realtà fu un caso di legittimadifesa. Non si può respirare ippopotamo

morto, quando si dorme, mentre si mangia, quando ci si sveglia, e nello stesso tempo

conservare un precario controllo sulla propria esistenza. A parte questo, ogni settimana gli

avevano dato tre pezzi di filo di ottone, ciascuno lungo circa venti centimetri; in teoria

doveva servire come moneta di scambio perché si comprassero delle provviste nei villaggi

lungo il fiume. Ma in pratica, le cose andarono diversamente, come forse avrete già capito.

O non c'erano villaggi, o la popolazione era ostile, o il direttore, che come tutti noi, si

nutriva a scatolette, con dentro in aggiunta, ogni tanto, un pezzo di vecchio caprone, non

voleva fermare il battello per qualche ragione, più o meno oscura. Perciò, a meno che il filo

non se l'ingoiassero, o che ne facessero dei cappi per prendere al laccio i pesci, non vedo

quale beneficio traessero da quello stravagante salario. Devo ammettere che veniva pagato

con una regolarità degna di una grande e, rispettabile, azienda commerciale. All'infuori di

questo, l'unica cosa da mangiare che possedevano - sebbene non avesse affatto un aspetto

commestibile - erano dei pezzi di una sostanza simile a pasta poco cotta, del colore della

lavanda sporca, che tenevano avvolta nelle foglie; ogni tanto ne ingoiavano un boccone, ma

così piccolo, che sembrava lo facessero più per le sembianze della cosa che per un serio

scopo di sostentarsi. Perché poi in nome di tutti i diavoli della fame che rode non ci

saltassero addosso - erano trenta contro cinque - e si facessero finalmente una bella

scorpacciata, mi stupisce ancora quando ci penso. Erano degli uomini grandi e robusti,

senza una gran capacità di valutare le conseguenze dei loro atti, ma coraggiosi e, anche se

la loro pelle non era più lucida e i muscoli non erano più sodi, ancora forti. Capii che

doveva essere entrato in gioco qualcosa a frenarli, uno di quei segreti dell'animo umano

che sfuggono a qualsiasi calcolo delle probabilità. Li osservai con un acuto risveglio di

interesse, non perché pensassi che mi potevano mangiare da un momento all'altro,

sebbene vi debba confessare che proprio allora mi accorsi - guardando le cose sotto una

nuova luce - di quanto malsani apparissero i pellegrini e speravo, sì, lo speravo sul serio,

che il mio aspetto non fosse così - come potrei dire? - così poco appetitoso; un pizzico di

stravagante vanità che ben si accordava con la sensazione onirica che permeava la mia vita

a quell'epoca. Forse avevo anche un po' di febbre. Ma non si può stare tutto il tempo a

tastarsi il polso. Avevo spesso "un po' di febbre" o un leggero attacco di altre cose: le

zampate scherzose della landa selvaggia, le iniziali schermaglie che precedono l'assalto più

serio che venne poi a tempo debito. Sì, li guardavo - come si guarderebbe un qualsiasi

essere umano - curioso di capire quali avrebbero potuto essere i loro impulsi, moventi,

risorse, debolezze, davanti alla prova di un'inesorabile necessità fisica. Un freno inibitore!

Quale freno era possibile immaginare? Superstizione, disgusto, pazienza, paura, o una

specie di primitivo onore? Non c'è paura che tenga davanti alla fame, non c'è pazienza che

la plachi, e, dove c'è fame, il disgusto semplicemente non esiste. Quanto alle superstizioni,

alle credenze, a quelli che voi chiamereste principi, pesano meno di un fuscello al vento.

Conoscete l'inferno del digiuno prolungato, il suo tormento esasperante, i suoi neri

pensieri, la tetra ferocia che si alimenta di nascosto? Beh, io sì. Un uomo deve far appello a

tutta la sua forza innata, per combattere adeguatamente la fame. È molto più facile

affrontare un lutto, il disonore, la perdita della propria anima che questo genere di fame

protratta. Triste, ma vero. E non c'era ragione al mondo che quegli esseri si facessero degli

scrupoli. Il ritegno! Era più facile aspettarselo da una iena che si aggiri famelica fra i

cadaveri in un campo di battaglia. Eppure il fatto era lì davanti a me, lampante,

inoppugnabile, come la schiuma sopra gli abissi del mare, come un'increspatura su un

enigma insondabile; e, a pensarci bene, era un mistero più grande di quella strana,

inspiegabile nota di afflizione disperata nel clamore selvaggio esploso accanto a noi, sulla

sponda del fiume, dietro il cieco biancore della nebbia. «Ma su quale sponda? Due

pellegrini stavano litigando su questo punto in concitato bisbiglio. "Sinistra." "No, no; ma

figurati! Destra, destra, son sicuro." "È una faccenda molto seria", disse la voce del

direttore dietro di me. "Sarei desolato se accadesse qualcosa al signor Kurtz prima del

nostro arrivo." Lo guardai in faccia e non ebbi il minimo dubbio che era sincero. Era

proprio il genere di uomo che desidera innanzi tutto salvare le apparenze. Era quello il suo

freno inibitore. Ma quando bofonchiò qualcosa sull'andare lì subito, non mi presi neanche

la briga di rispondergli. Io sapevo, e lui anche, che era impossibile. Se avessimo mollato la

presa sul fondo, ci saremmo trovati, letteralmente, in aria: nello spazio. Non avremmo più

capito dove andavamo - se in giù o in su, o per traverso, del fiume - finché non saremmo

finiti contro una sponda, ma neanche allora avremmo saputo dire subito qual'era delle due,

la destra o la sinistra? Naturalmente non mi mossi. Non avevo nessuna intenzione di

fracassare tutto. Sarebbe difficile immaginarsi un posto peggiore per un naufragio. Anche

se non annegavamo subito, potevamo star sicuri che in un modo o nell'altro saremmo

morti entro brevissimo tempo. «"La autorizzo a correre qualsiasi rischio", disse, dopo un

breve silenzio. "E io mi rifiuto di correrne anche uno solo", risposi secco secco. Era proprio

la risposta che si aspettava, anche se il tono poteva averlo sorpreso. "In questo caso, devo

rimettermi alle sue decisioni. È lei il capitano", disse, con marcata cortesia. Per significargli

la mia gratitudine, gli voltai le spalle per guardare nella nebbia. Quanto sarebbe durata? La

prospettiva non era delle più rosee. La via d'accesso a quel Kurtz, che rastrellava la misera

boscaglia in cerca d'avorio, era lastricata di così tanti pericoli quasi fosse una principessa

addormentata sotto l'effetto di un incantesimo in un favoloso castello. "Crede che ci

attaccheranno?" chiese il direttore, in tono confidenziale. "Pensavo che non ci avrebbero

attaccato, per diverse e ovvie ragioni. Anzitutto la nebbia fittissima: se si fossero

allontanati dalla riva nelle loro canoe vi si sarebbero persi, come noi, se ci fossimo

azzardati a muoverci. Poi, anche se mi era parso che la giungla fosse assolutamente

impenetrabile da entrambe le sponde, lì dentro c'erano degli occhi, degli occhi che ci

avevano visto. La boscaglia lungo la riva era sicuramente molto fitta, ma più internamente

il sottobosco era evidentemente più accessibile. Eppure, durante la breve schiarita, non

avevo visto delle canoe da nessuna parte, certamente non all'altezza del battello. Ma ciò

che per me rendeva inconcepibile l'idea di un attacco era la natura del clamore, delle grida

che avevamo udito. Non avevano quel carattere feroce che prelude a un'immediata

intenzione ostile. Per quanto inaspettate, selvagge e violente, mi avevano dato

un'irresistibile impressione di dolore. Per chissà quale motivo, l'apparizione del battello

aveva riempito queiselvaggi di una pena infinita. Il pericolo per noi, spiegai, ammesso che

ci fosse, dipendeva dal fatto che ci trovavamo in prossimità di una grande passione umana

senza freni. Anche il dolore estremo può risolversi in violenza, ma più spesso si traduce in

apatia... «Avreste dovuto vedere gli occhi spalancati dei pellegrini! Non ebbero il coraggio

di ridermi in faccia e neanche di insultarmi, ma credo che pensassero che ero diventato

matto, di paura, forse. Tenni una conferenza vera e propria. Cari ragazzi, non c'era di che

preoccuparsi. Stare all'erta? Beh, come potete immaginare, io guatavo la nebbia per vedere

se c'era il minimo segno di schiarita, come un gatto guata un topo; ma per qualsiasi altro

uso gli occhi ci erano altrettanto inutili che se fossimo stati sepolti a qualche chilometro di

profondità sotto una montagna di ovatta, con anche la stessa sensazione di soffoco, calore,

asfissia. Del resto, tutto quello che dissi ai pellegrini, per quanto stravagante sembrasse

allora, era invece la pura verità. Quello che in seguito considerammo come un attacco, in

realtà, non fu che un tentativo di respingerci. Lungi dall'essere aggressiva l'azione non era

neanche difensiva, nel senso usuale del termine: intrapresa sotto la spinta della

disperazione, non era che un modo per proteggersi da noi. «Si svolse, direi, due ore dopo

che la nebbia si era alzata, e iniziò in un luogo che si trovava, grosso modo, a circa un

miglio e mezzo sotto la stazione di Kurtz. Avevamo appena doppiato faticosamente

un'ansa, quando un'isoletta, nulla più che una cunetta erbosa di un verde brillante, mi

apparve in mezzo all'acqua. Era la sola del genere, ma quando avanzammo un poco, vidi

che essa costituiva la punta avanzata di un lungo banco di sabbia, o meglio di una catena di

secche che si stendevano nel mezzo del fiume. Erano scolorite, appena affioranti e si

intravvedevano sotto il pelo dell'acqua, proprio come, lungo la schiena, sotto la pelle di un

uomo si intravvede correre la spina dorsale. Per quanto avevo modo di vedere, ci si poteva

passare sia da destra che da sinistra. Naturalmente, io non conoscevo i due lati del canale.

Le sponde parevano quasi identiche e anche la profondità sembrava la stessa, ma siccome

mi avevano detto che la stazione si trovava sulla riva occidentale, mi diressi istintivamente

verso il passaggio a ovest. «Non appena imboccato, si rivelò molto più stretto di quanto mi

fosse sembrato. Alla nostra sinistra si stendeva la lunga, ininterrotta fila di secche e, a

destra, la sponda alta e ripida, era coperta da una folta macchia, con dietro gli alberi

svettanti in ranghi serrati. Il fogliame pendeva fitto sul fiume e di tanto in tanto un grosso

ramo si protendeva rigido di traverso. Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta

appariva cupo, e sull'acqua era già scesa una larga striscia d'ombra. Era in quell'ombra che

avanzavamo, molto a rilento, non c'è bisogno che ve lo dica. Mi tenevo il più possibile

accostato alla sponda, perché l'acqua, come indicavano gli scandagli fatti con la pertica, era

più profonda lungo la riva. «Uno dei miei amici affamati, costretti all'astinenza,

scandagliava a prua proprio sotto di me. Quel battello era fatto come una chiatta pontata.

Sul ponte c'erano due casette in legno di tek, con porte e finestre. La caldaia si trovava a

prua e le macchine a poppa. Il tutto era ricoperto da un tetto leggero, sostenuto da quattro

puntali. Il fumaiolo sbucava dal tetto, e proprio davanti al fumaiolo una stretta cabina,

costruita con assi sottili, fungeva da cabina di pilotaggio. Conteneva una cuccetta, due

seggiolini da campo, una Martini-Henry carica in un angolo, un minuscolo tavolino e la

ruota del timone. Sul davanti un'ampia porta e due larghi portelli ai lati. Porta e portelli,

naturalmente, erano sempre spalancati. Io passavo le mie giornate lassù, appollaiato

all'estremità prodiera di quel tetto, davanti alla porta. Di notte dormivo, o cercavo di

dormire, sulla cuccetta. Un atletico nero che apparteneva a non so quale tribù costiera e

che era stato istruito dal mio sfortunato predecessore, era il timoniere. Portava dei vistosi

orecchini di ottone, una specie di guaina di stoffa blu che lo avvolgeva dalla vita alle

caviglie e aveva di sé la più alta opinione. Era il pazzo più imprevedibile che avessi mai

incontrato. Finché si era lì, teneva il timone con l'aria del padrone del vapore, ma appena si

girava l'occhio, in balia di una fifa invereconda, lasciava che quello sciancato di un battello

gli prendesse in un attimo la mano. «Stavo osservando lo scandaglio, molto contrariato nel

constatare che, a ogni immersione, dall'acqua ne sporgeva un pezzo sempre più lungo,

quando vidi il mio scandagliatore piantar tutto in asso e buttarsi bocconi sul ponte senza

nemmeno curarsi di ritirare la pertica. Però non l'aveva mollata e quella continuava a

trascinarsi nell'acqua. Nello stesso momento, vidi il fuochista, anche lui sotto di me,

sedersi di colpo davanti alla caldaia infossando la testa fra le spalle. Ero esterrefatto, ma

dovetti subito volgere gli occhi al fiume perché sulla nostra strada c'era un tronco d'albero.

Intorno volavano dei bastoncini, dei piccolissimi bastoncini fitti fitti; mi sibilavano davanti

al naso, cadevano ai miei

piedi, battevano dietro a me contro la cabina. E intanto, il fiume, la riva, i boschi erano

silenziosi, assolutamente silenziosi. Non si udiva che il poderoso tonfo sciabordante della

nostra ruota poppiera e il picchiettio di quelle cose che volavano. Senza eleganza, ma il

tronco lo scansammo. Erano frecce, per Giove! E le lanciavano contro di noi! Rientrai

rapido per chiudere il portello dal lato della terra. Quell'idiota del timoniere, le mani

strette alle caviglie della ruota, alzava le ginocchia, pestava i piedi, si mordeva la bocca,

come un cavallo imbrigliato. Maledizione a lui! E noi ci trascinavamo barcollando a tre

metri dalla sponda! Dovetti sporgermi in fuori per smuovere il pesante portello e allora

vidi una faccia fra le foglie, all'altezza della mia, che mi guardava con feroce fissità. Ed ecco

che, all'improvviso, come se mi fosse caduta una benda dagli occhi, distinsi, in fondo a quel

tenebroso intrico vegetale, dei petti nudi, delle braccia, delle gambe, degli occhi

abbaglianti: la boscaglia brulicava di forme umane in movimento, lucenti, del colore del

bronzo. Dai rami che si agitavano, dondolavano, frusciavano, uscivano volando le frecce, e,

finalmente il portello si chiuse. "Tienila dritta", dissi al timoniere. Teneva la testa ferma, la

faccia protesa, ma gli occhi roteavano, e continuava ad alzare e ad abbassare adagio i piedi,

con un po' di bava alla bocca. "Sta fermo!", dissi infuriato. Era come se avessi ordinato a un

albero di non muoversi al vento. Schizzai fuori. Sotto di me, sul ponte di ferro, sentivo un

gran scalpiccio e degli schiamazzi confusi. Una voce gridò: "Non può tornare indietro?"

Sull'acqua davanti a noi scorsi un'increspatura a forma di V. Cosa? Un altro tronco! Sotto i

miei piedi scoppiò una scarica di fucili. I pellegrini avevano aperto il fuococon i loro

Winchester e stavano letteralmente innaffiando di piombo la boscaglia. Si formò un

malefico nuvolone di fumo che avanzava lentamente sul fiume. Bestemmiai. Non potevo

più vedere né l'increspatura né il tronco. Facendo capolino, mi tenevo sul vano della porta

con le frecce che arrivavano a sciami. Potevano anche essere avvelenate, ma a vederle, non

sembravano in grado di far male a un gatto. La boscaglia cominciò a ululare. I nostri

taglialegna lanciarono un grido di guerra e lo sparo di una carabina proprio dietro la

schiena mi assordò. Diedi un'occhiata sopra la mia spalla e nella cabina ancora piena di

rumore e fumo, con un balzo, mi lanciai sulla ruota del timone. Quel deficiente del nero

aveva mollato tutto per spalancare il portello e metter fuori la Martini-Henry. Stava in

piedi davanti alla larga apertura, con l'aria feroce e, mentre gli gridavo di tornare al

timone, raddrizzai l'improvvisa torsione del battello. Non c'era spazio per far marcia

indietro neanche se lo avessi voluto; il tronco era da qualche parte davanti a noi, molto

vicino, nascosto da quel fumo maledetto; non c'era tempo da perdere, perciò schiacciai il

battello contro la sponda, dritto contro la sponda, dove sapevo che l'acqua era più

profonda. «Ci aprimmo lentamente un varco attraverso i cespugli sporgenti in un vortice di

rametti spezzati e di foglie che cadevano. Il fuoco di fila si interruppe di botto, come avevo

previsto sarebbe accaduto, una volta sparate tutte le sue cartucce. Ritrassi la testa per

evitare un baluginio sibilante che attraversò la cabina, entrando dal varco di un portello e

uscendo dall'altro. Al di là del timoniere demente che brandiva la carabina scarica urlando

in direzione della riva, vidi delle vaghe forme umane correre piegate in due, saltare,

strisciare, indistinte, incomplete, evanescenti. Qualcosa di grosso apparve nell'aria davanti

al portello, la carabina filò in acqua e l'uomo, indietreggiando rapido, mi lanciò di traverso

un'occhiata straordinaria, profonda e familiare, e poi cadde ai miei piedi. Batté la testa due

volte sulla ruota del timone e l'estremità di quella che sembrava una lunga canna

sbatacchiò in giro rovesciando uno dei seggiolini da campo. Si sarebbe detto che dopo aver

strappato quella cosa dalle mani di qualcuno sulla riva, avesse perso l'equilibrio nello

sforzo. Il fumo sottile era svanito, avevamo evitato il tronco, e guardando in avanti vidi che

a un centinaio di metri più in là sarei stato libero di scostarmi dalla sponda, ma dovetti

abbassare lo sguardo perché mi sentii improvvisamente i piedi caldi e bagnati. L'uomo era

riverso sulla schiena con gli occhi fissi su di me e le mani avvinghiate a quella canna. Era

l'asta di una lancia che, scagliata o affondata attraverso il portello, lo aveva colpito al fianco

appena sotto le costole. La lama era entrata tutta, sino a scomparire, dopo aver fatto un

terribile squarcio. Avevo le scarpe piene e una pozza di sangue si stendeva immobile in un

luccichio rosso scuro sotto la ruota del timone. Gli occhi dell'uomo brillavano di un

sorprendente splendore. La sparatoria ricominciò. Mi rivolse uno sguardo ansioso,

stringendo la lancia come una cosa preziosa, come se avesse paura che io cercassi di

portargliela via. Dovetti fare uno sforzo per distogliere gli occhi da quello sguardo e

occuparmi del timone. Con una mano cercai a tentoni, sopra la mia testa, la cordicella del

fischio a vapore e la strattonai stridore dopo stridore precipitosamente. Il tumulto delle

grida furiose e guerriere si interruppe all'istante e dalle profondità del bosco si alzò,

tremulo e prolungato, un gemito di disperato spavento e di costernazione estrema, simile a

quello che, ci si immagina, seguirebbe all'involarsi dell'ultima speranza da questa terra. Ci

fu un gran fermento nel sottobosco: la pioggia di frecce cessò, qualche sparo isolato

echeggiò sonoro, e poi il silenzio, in cui il languido battito della ruota poppiera mi arrivò

distintamente all'orecchio. Stavo mettendo il timone a tutta dritta nel momento in cui, nel

vano della porta, apparve il pellegrino in pigiama rosa, molto accaldato e su di giri. «"Mi

manda il direttore...", cominciò in tono ufficiale ma si interruppe di botto. "Dio santo!",

disse, spalancando gli occhi alla vista del ferito. «Noi due bianchi stavamo sopra di lui e lui

con i suoi occhi lustri e inquisitori ci avvolgeva entrambi nel suo sguardo. Ve lo assicuro,

sembrava che stesse per farci una domanda, in una lingua comprensibile, invece morì,

senza emettere un suono, senza muovere un arto, senza contrarre un muscolo. Solo

all'ultimo istante, come in risposta a un segno che noi non potevamo vedere, a un sussurro

che non potevamo udire, aggrottò profondamente la fronte e quella fronte aggrottata

impresse sulla sua nera maschera di morte un'espressione indicibilmente cupa, torva e

minacciosa. La lucentezza di quello sguardo inquisitore non fu ben presto che vitrea

vacuità. «"È capace di governare una barca?", chiesi brusco all'agente. Mi guardò

dubbioso, ma io feci l'atto di afferrargli un braccio ed egli capì immediatamente che

intendevo dargli il timone in mano, capace o meno che fosse a tenerlo. Per dire la verità,

avevo un bisogno quasi morboso di cambiarmi le calze e le scarpe. «"È morto", mormorò

l'agente, immensamente impressionato. "Su questo non c'è dubbio", dissi io, strappandomi

furiosamente i lacci delle scarpe. "A proposito, suppongo che a quest'ora sia morto anche il

signor Kurtz." «In quel momento, era quello il mio pensiero dominante. Provavo una

grandissima delusione: come se avessi scoperto di aver rincorso una cosa assolutamente

inconsistente. Non mi sarei sentito più disgustato se avessi intrapreso tutto quel viaggio al

solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con... Lanciai una scarpa fuori bordo, e mi

resi conto che era proprio quello che non vedevo l'ora di fare: parlare con Kurtz. Feci la

strana scoperta che di lui non avevo una immagine di un agire, capite?, ma di un

discorrere. Non mi dicevo: "Dunque non lo vedrò mai", o "Non gli stringerò mai la mano",

ma, "Dunque non lo udrò mai." Quell'uomo si presentava come una voce. Naturalmente

non è che non lo associassi a qualche specie di azione. Su tutti i toni dell'invidia e

dell'ammirazione, non mi avevano forse detto che da solo aveva raccolto, barattato, estorto

o rubato più avorio lui di tutti gli altri agenti messi insieme? Non si trattava di questo. Si

trattava del fatto che, fra tutte le doti di quell'essere tanto dotato, quella che emergeva in

modo preponderante, che dava il senso di una presenza reale, era la sua capacità di

parlare, il dono della parola: questa dote che sconcerta o illumina, la più nobile e la più

spregevole, vivificante flusso di luce o torrente ingannatore scaturito dal cuore di una

tenebra impenetrabile. «Anche l'altra scarpa andò volando al dio maligno di quel fiume.

Pensai, per Giove! è finita. Siamo arrivati troppo tardi. Lui è svanito, il dono è svanito, per

opera di una lancia o di una freccia o di un bastone. Dunque non loudrò mai parlare. C'era

nella mia afflizione uno strano eccesso emotivo, simile a quello che avevo avvertito

nell'angoscioso ululato di quei selvaggi nella boscaglia. Non avrei sentito una peggiore

desolata solitudine, se fossi stato derubato di una fede o se avessi mancato al mio destino

in questa vita... Perché qualcuno ha sbuffato in modo così bestiale? Assurdo, dice? Va bene,

assurdo. Signore Iddio! Un uomo non deve mai... Basta, datemi del tabacco.» Ci fu una

pausa di profonda quiete, poi, alla luce di un fiammifero, apparve il magro volto di Marlow,

consunto, svuotato, le pieghe cascanti, le palpebre abbassate, l'aria attenta e concentrata; e

mentre dava vigorose tirate alla sua pipa, nello sfavillio regolare di quella piccola fiamma,

sembrava emergere dalla notte per poi sprofondarvi. Il fiammifero si spense. «Assurdo!»,

esclamò. «È questa la cosa peggiore quando si cerca di raccontare... Eccovi qua tutti,

ciascuno ormeggiato a due buoni indirizzi, come un vecchio scafo alle sue due ancore, il

macellaio da una parte, il poliziotto dall'altra, eccellenti appetiti e temperatura del corpo

normale - normale, capite - dall'inizio alla fine dell'anno. E dite assurdo! Assurdo un

corno! Assurdo! Cari miei, che cosa vi potevate aspettare da un uomo che, in uno scatto di

nervi, aveva appena fatto volare fuori bordo un paio di scarpe nuove! Quando ci penso, mi

sembra sorprendente di non essermi messo a piangere. E, tutto considerato, sono fiero

della mia forza d'animo. Mi pungeva sul vivo l'idea di aver perduto l'inestimabile privilegio

di ascoltare il dotatissimo Kurtz. Naturalmente, avevo torto: il privilegio mi stava

aspettando. Ah sì, ne ho sentito più che abbastanza. Ma avevo anche ragione: era una voce.

Poco più di una voce. E ho udito - lui - lei - quella voce - altre voci - erano tutti poco più che

delle voci - e il ricordo stesso di quell'epoca si attarda intorno a me, impalpabile, come la

vibrazione morente di un immenso bla bla bla, sciocco, atroce, sordido, selvaggio o

semplicemente meschino e insensato. Voci, voci... la ragazza stessa... ormai...» Stette zitto

a lungo. «Alla fine ho placato il fantasma delle sue doti con una bugia», riprese

all'improvviso. «La ragazza! Cosa? Ho parlato di una ragazza? Ma lei non c'entra,

assolutamente. Loro - le donne, voglio dire - sono al di fuori di tutto questo, o almeno

dovrebbero esserlo. Dobbiamo aiutarle a stare in quel bellissimo mondo che è il loro, se

non vogliamo che il nostro diventi ancora peggiore. Oh, lei non c'entrava. Avreste dovuto

sentirlo il cadavere dissepolto del signor Kurtz dire, "La mia fidanzata." Avreste percepito

immediatamente a qual punto lei fosse estranea a tutto ciò. E quel grande osso frontale del

signor Kurtz! Dicono che qualche volta i capelli continuino a crescere, ma questo... ehm...

questo esemplare era di una calvizie impressionante. La selva selvaggia gli aveva dato un

buffetto sulla testa, ed ecco, era diventata come una palla: una palla d'avorio. Lo aveva

accarezzato e toh, lui era avvizzito; lo aveva preso, amato, tenuto fra le braccia, era entrata

nelle sue vene, aveva consumato la sua carne, aveva posto il suo sigillo sulla sua anima

attraverso inconcepibili riti di una qualche diabolica iniziazione. Era il suo favorito,

coccolato e viziato. Avorio? Ma direi! Mucchi, montagne di avorio. La vecchia baracca di

fango era piena da scoppiarne. C'era da pensare che non ne restasse nemmeno una zanna,

né sopra né sotto la terra di quel paese. "Per la maggior parte fossile", fu il commento

denigratorio del direttore. Era meno fossile di me, ma lo chiamano fossile quando lo

dissotterrano. Sì, sembra che i neri a volte seppelliscano le zanne, ma evidentemente quella

partita non l'avevano seppellita a profondità sufficiente da sottrarre il dotato signor Kurtz

al suo destino. Riempimmo il battello di avorio e ne dovemmo accatastare un mucchio

anche sul ponte. Così, finché fu in grado di vedere, lo potè guardare, e goderne, perché fino

alla fine apprezzò quel suo fiore all'occhiello. Avreste dovuto sentirgli dire: "Il mio avorio."

Ah! io l'ho sentito. "La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio..."

Era tutto suo. E io trattenevo il fiato aspettandomi di udire la selva selvaggia scoppiare in

una fragorosa risata che avrebbe scosso le stelle fisse sul loro asse. Apparteneva tutto a lui,

ma questo sarebbe stato irrilevante. L'importante era sapere a chi apparteneva lui, quante

potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà. Quella era la riflessione che vi

faceva accapponare la pelle. Era impossibile - e anche malsano - cercare di indovinarlo.

Aveva occupato un posto molto elevato fra i demoni di quel paese, lo dico letteralmente.

Voi non potete capire. E come potreste, voi che avete un terreno solido sotto i piedi, che

siete circondati da vicini cortesi, pronti ad applaudire o a gettarsi su di voi, voi che vi

muovete a piccoli passi guardinghi fra il macellaio e il poliziotto, col sacro terrore dello

scandalo, della prigione e del manicomio? Come riuscireste a immaginare in quale

particolare regione delle epoche primordiali i piedi senza impacci di un uomo lo possano

portare lungo la via della solitudine - una solitudine assoluta senza un poliziotto - lungo la

via del silenzio, un silenzio assoluto, dove non si può sentire la voce ammonitrice di un

cortese vicino che si fa eco dell'opinione della gente? Sono queste piccole cose che fanno la

grande differenza. E quando non ci sono più si deve ricorrere alla propria forza interiore,

alla propria capacità di restare fedeli. Certo, si può anche essere troppo sciocchi per correre

il rischio di perdersi, troppo ottusi persino per sospettare di star subendo l'assalto dei

poteri della tenebra. Potrei scommetterlo: uno sciocco non ha mai fatto un patto col

diavolo per vendergli l'anima. O lo sciocco è troppo sciocco, o il diavolo è troppo diavolo:

una delle due. Oppure si può essere degli esseri talmente al di sopra da rimanere sordi e

ciechi a qualsiasi cosa tranne che alle visioni e ai suoni celesti. Per costoro la terra non è

che un luogo di passaggio, e, se per chi è così sia una perdita o un guadagno, io non ho la

pretesa di saperlo. Ma la maggior parte di noi non è né l'uno né l'altro. Per noi la terra è un

luogo in cui ci si deve vivere, dove si devono sopportare spettacoli, rumori, e anche odori,

per Giove! - respirare carogna di ippopotamo, per esempio, - e non restarne contaminati.

Ed è qui, vedete?, che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di

scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi quella roba: la capacità di dedizione,

non a se stessi, ma a qualche oscura, estenuante faccenda. E non è una cosa facile. Badate,

non sto cercando di giustificare e neanche di spiegare. Sto solo cercando di farmi una

ragione di... del signor Kurtz..., dell'ombra del signor Kurtz. Questo iniziato fantasma,

scaturito dal fondo del Nulla, mi onorò delle sue sorprendenti confidenze prima di sparire

in modo definitivo. Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz

originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto partedella sua educazione in Inghilterra e

- come ebbe la bontà di dirmi - le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua

madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L'Europa intera aveva

contribuito alla formazione di Kurtz; e un po' alla volta venni a sapere che, molto a

proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva

incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l'aveva scritto quel

rapporto. L'ho visto. L'ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po'

troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo

doveva essere avvenuto prima che i suoi - diciamo nervi - saltassero, e lo portassero a

presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che - da

quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese -

venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo

iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente

significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo

arrivati, "dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri

soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina", ecc., ecc. "Con il semplice

esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene,

praticamente illimitato", ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La

perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a

un'Immensità esotica retta da un'augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era

questo il potere illimitato dell'eloquenza - della parola - di nobili parole infiammate. Non

c'erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una

specie di nota in fondo all'ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con

mano malferma, possa essere considerata l'enunciazione di un metodo. Era molto

semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più

altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno:

"Sterminare tutti questi bruti!" La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente

dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo

senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo "pamphlet" (è così

che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua

carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti

essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe

l'indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle

spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e - parlando

metaforicamente - a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non

si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di

incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un

esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari

presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un'anima al mondo che non

era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono

disposto ad affermare che lui valesse la vita dell'uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il

mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo

corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto

per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete,

aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l'avevo avuto dietro di me - un

aiuto - uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo

sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di

cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda

intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi

nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra

lontana parentela. «Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non

aveva alcun freno, nessun freno inibitore - proprio come Kurtz - un albero in balia del

vento. Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina,

dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli

occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi

stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era

pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza

altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un

ciuffo d'erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i

pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando

intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la

mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a

conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul

ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i

taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché

non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo

deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad

averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second'ordine, ma adesso che era morto poteva

diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E

per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l'uomo col pigiama rosa era

totalmente negato alla bisogna. «Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel

semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io

ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè,

Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era

fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato.

"Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne

pensate? Eh?" Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era

quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: "Quel che è certo è che

avete fatto un bel po' di fumo." Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le

cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se

non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo

appoggiato all'anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, - e avevo ragione - era

dovutaunicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a

sbraitare, protestando indignati contro di me. «Mentre il direttore, in piedi vicino al

timone, mi mormorava confidenzialmente all'orecchio, qualcosa sulla necessità di

ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi

da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. "Che

cos'è?", chiesi. Stupitissimo, battè le mani. "La stazione!", esclamò. Mi spostai

immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità. «Col binocolo vidi il pendio di

una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco.

Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l'erba incolta; dei

grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta

facevano da sfondo. Non c'era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva

essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili

pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o

quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta

circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell'acqua vidi un bianco, sotto un

cappello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione.

Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei

movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai

oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L'uomo

sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. "Siamo stati attaccati", strillò il

direttore. "Lo so, lo so. Va tutto bene", gridò in risposta l'altro, molto gioviale. "Venite.

Tutto bene. Son contento." «Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante

che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi

domandavo: "Ma a cos'è che assomiglia quello lì?" E improvvisamente mi venne in mente.

Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz'altro era stato una

volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle,

toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava

la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva

estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata

fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti

caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano

su quella fisionomia aperta, come il sole e l'ombra su una pianura spazzata dal vento.

"Attento, capitano!", gridò. "C'è un tronco d'albero insediato qui dalla notte scorsa." Cosa?

Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia

bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L'arlecchino sulla riva sollevò il nasetto

camuso verso di me. "Inglese?", domandò, tutto sorrisi. "E lei?", urlai dalla ruota. I sorrisi

si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò.

"Pazienza!", esclamò, incoraggiante. "Arriviamo in tempo?", chiesi. "Lui è lassù", rispose

con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua

faccia era simile al cielo d'autunno, ora coperto ora luminoso. «Quando il direttore,

scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo.

"Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia", dissi. Mi assicurò

caldamente che andava tutto bene. "È gente semplice", aggiunse, "ma, son contento che

siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada." "Ma non ha detto che

andava tutto bene!", sbottai. "Oh, non avevano cattive intenzioni", disse, e siccome lo fissai

con gli occhi sgranati, si corresse: "Non proprio." Poi con vivacità: "Perbacco, la sua cabina

ha bisogno di una ripulita!" E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza

vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme."Una bella fischiata vi sarà più

utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice", ripeté. Mi mitragliava di parole fino a

stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo,

che era proprio così. "Non parla con il signor Kurtz?", chiesi. "Non si parla con un uomo

come lui, lo si ascolta", esclamò in tono severo e esaltato. "Ma adesso..." Agitò il braccio e

in un batter d'occhio si trovò sprofondato nell'abisso dello scoraggiamento. D'un balzo

però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò:

"Fratello marinaio... che onore... piacere... gioia... mi presento... russo... figlio di un

arciprete... patriarcato di Tambov... Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L'eccellente

tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non

fuma?" «La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su

una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po' su delle navi inglesi e poi si

era riconciliato con l'arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. "Ma quando si

è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente."

"Qui!", lo interruppi. "Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz", disse con un

tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse

persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle

mercanzie ed era partito per l'interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino

su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo,

separato da tutto e da tutti. "Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni",

disse. "All'inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo", raccontò,

molto divertito, "ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine,

temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di

qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio,

l'olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così

quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l'abbia ricevuto. E del resto

me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L'ha

vista?" «Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si

trattenne. "Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso", disse, guardandolo

estasiato. "Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne vain giro da solo. Le canoe

ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la

gente si arrabbia." Sfogliava le pagine. "Ci ha fatto delle annotazioni in russo?", chiesi.

Annuì. "Pensavo che fossero scritte in codice", dissi. Si mise a ridere, poi, serio: "Ho fatto

molta fatica a tenere a bada quella gente." "Volevano uccidervi?", chiesi. "Oh, no!",

esclamò, interrompendosi subito. "E perché ci hanno attaccati?", continuai. Esitò, poi con

una sorta di pudore disse: "Non vogliono che lui se ne vada." "Davvero?", dissi incuriosito.

Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. "Badi bene", esclamò, "quell'uomo mi

ha allargato la mente." Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi

tondi. III «Lo guardai, smarrito per lo stupore. Era lì davanti a me, vestito da buffone,

come se fosse scappato da una compagnia di saltimbanchi, entusiasta e favoloso. Il solo

fatto che esistesse era inverosimile, inspiegabile, assolutamente sconcertante. Era uno di

quei problemi che non si risolvono. Impossibile immaginarsi in che modo avesse vissuto,

come avesse potuto arrivare tanto lontano, cosa avesse fatto per rimanervi, perché non

sparisse sotto ai miei occhi. "Mi sono spinto un po' più avanti", disse, "e poi ancora un po'

di più, e un bel giorno mi sono trovato tanto lontano che non so come farò a tornare sui

miei passi. Non importa. Ho tutto il tempo. Mi arrangerò. Ma lei porti via Kurtz presto -

presto, le dico." L'incantesimo della giovinezza rivestiva i suoi stracci variopinti, la sua

miseria, la sua solitudine, la profonda desolazione di quel suo futile vagabondare. Per dei

mesi - per degli anni - la sua vita era stata sospesa a un filo; eppure era là,

coraggiosamente, spensieratamente vivo e, secondo ogni apparenza, indistruttibile, grazie

ai suoi giovani anni e alla sua audacia irriflessiva. Ero conquistato tanto da provare una

specie di ammirazione, di invidia. Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo

lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto

uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di

esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo

spirito d'avventura - allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico - aveva mai

dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane tutto rattoppato. Quasi gli

invidiavo di possedere quella fiamma chiara e modesta. Sembrava aver così ben consumato

in lui ogni pensiero personale che anche mentre parlava, ci si dimenticava che era a lui -

all'uomo che era sotto i vostri occhi - che erano capitate tutte quelle cose. Non gli invidiavo,

però, la sua devozione a Kurtz. Non era deliberata. L'aveva subita e accettata con una

specie di ardente fatalismo. Devo dire che ai miei occhi, fra tutte le cose che aveva

incontrato, quella era di gran lunga la più pericolosa. «Erano inevitabilmente venuti a

contatto, come due navi sorprese dalla bonaccia che a poco a poco si avvicinano e finiscono

per strofinarsi i fianchi l'una contro l'altra. Immagino che Kurtz avesse bisogno di un

uditorio, visto che una volta, mentre erano accampati nella foresta, avevano parlato tutta la

notte, o più verosimilmente, era Kurtz che aveva parlato. "Abbiamo parlato di tutto", mi

disse, ancora trascinato dal ricordo. "Avevo dimenticato l'esistenza stessa del sonno. Quella

notte non mi parve durare più di un'ora. Di tutto, di tutto!... Anche d'amore." "Ah, le

parlava d'amore!", dissi molto divertito. Ebbe un grido quasi appassionato: "Oh, non è quel

che pensa lei, parlava in generale... Mi ha fatto capire delle cose, tante cose." «Alzò le

braccia. In quel momento eravamo sul ponte e il capo dei miei taglialegna, che oziava poco

lontano, volse verso di lui uno sguardo luminoso e penetrante. Mi guardai attorno, e non so

perché, ma vi assicuro che mai, mai prima d'allora, quella terra, quel fiume, quella giungla,

la volta stessa di quel cielo infuocato, mi erano apparsi più tetri e disperati, più

impenetrabili all'intelletto umano e più impietosi verso l'umana debolezza. "E da allora",

dissi, "lei, naturalmente, è rimasto sempre con lui." «E invece no. Pare che il loro rapporto

fosse molto intermittente, per diverse ragioni. Era riuscito, e me lo disse con orgoglio, a

curare Kurtz durante due malattie (vi alludeva come si farebbe per un'impresa piena di

rischi), ma, generalmente, Kurtz errava da solo nelle profondità della foresta. "Spesso,

quando arrivavo in questa stazione, mi toccava aspettare giorni e giorni prima che lui

ritornasse", disse, "ma valeva la pena di aspettare, qualche volta!" "Ma cosa faceva? Delle

esplorazioni?...", domandai. "Sì, certo." Aveva scoperto molti villaggi e anche un lago. Lui

non sapeva esattamente dove - era pericoloso fare troppe domande - ma la maggior parte

delle spedizioni di Kurtz avevano l'avorio come obiettivo. "Ma se non aveva più mercanzie

con cui barattarlo?", obbiettai. Guardando da un'altra parte rispose: "Ancora adesso nella

stazione ci sono un mucchio di cartucce avanzate." "Chiamiamo le cose col loro nome",

dissi, "razziava semplicemente il paese." Fece di sì con la testa. "Certamente non da solo!"

Borbottò qualcosa a proposito dei villaggi attorno a quel lago. "Kurtz si faceva seguire dalla

tribù, vero?" suggerii. Era un po' sulle spine. "Lo adoravano", disse. Il tono di quelle parole

era così straordinario che lo guardai con attenzione. La riluttanza che provava a parlare di

Kurtz si mescolava curiosamente in lui al bisogno di raccontare. Quell'uomo riempiva la

sua vita, occupava tutti i suoi pensieri, comandava le sue emozioni. "Che cosa pretende?",

disse con impeto, "è arrivato da loro col tuono e col fulmine in mano; questa gente non

aveva mai visto niente di simile, né di così terribile. Perché poteva essere terribile. È

impossibile giudicare il signor Kurtz alla stregua di un uomo qualunque. No, mille volte no!

Ecco - tanto per darle un'idea - un giorno, non mi vergogno a dirlo, voleva uccidermi,... ma

io non lo giudico." "Ucciderla!",esclamai. "E perché?" "Bah, avevo una piccola quantità

d'avorio che mi aveva dato il capo del villaggio vicino alla mia casa. Sa, io uccidevo della

selvaggina per loro. Beh, lui lo voleva e non voleva sentir ragioni. Dichiarò che mi avrebbe

fatto fuori se non gli davo l'avorio e se non sparivo immediatamente dal paese, visto che

aveva il potere e anche la voglia di farlo, e non c'era niente al mondo che potesse impedirgli

di ammazzare chiunque gli fosse garbato. Ed era vero... Gli diedi l'avorio. Che cosa me ne

importava? Ma non me ne andai. No, non avrei potuto lasciarlo. Dovetti essere prudente,

naturalmente, per un po', finché non ridiventammo amici. Fu allora che si ammalò per la

seconda volta. Dopo di che, dovetti star lontano, ma non gliene volevo. Passava la maggior

parte del tempo in quei villaggi sul lago. Quando ritornava al fiume, qualche volta ricorreva

a me e qualche volta era meglio che io stessi alla larga. Quell'uomo soffriva troppo.

Detestava tutto di qui, e però era come se non se ne potesse staccare. Quando ne avevo

l'occasione lo pregavo di andarsene, finché era ancora in tempo. Gli proposi di ritornare

con lui. Accettava e non si muoveva da qui. Partiva per un'altra caccia all'avorio, spariva

per delle settimane, trovava l'oblio fra quella gente, sì, l'oblio di se stesso, capisce." "Ma è

pazzo!", dissi. Protestò indignato. Il signor Kurtz non poteva essere pazzo. Se lo avessi

sentito parlare, anche solo due giorni prima, non avrei osato fare una simile insinuazione...

Avevo preso il binocolo mentre parlavamo, e ispezionavo la spiaggia, frugavo il ciglio della

foresta da ogni lato e dietro la casa. La sensazione che ci fosse della gente in quella

boscaglia così silenziosa, così tranquilla - altrettanto silenziosa e tranquilla della casa in

rovina sulla cima del colle - mi metteva a disagio. Sul volto della natura non c'era traccia

della straordinaria storia che più che raccontata mi veniva suggerita con esclamazioni

desolate, accompagnate da alzate di spalle, frasi interrotte, allusioni chiuse da profondi

sospiri. La foresta, impassibile come una maschera, massiccia come la porta sbarrata di

una prigione, guardava con un'aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inaccessibile

silenzio. Il russo intanto mi spiegava che solo recentemente il signor Kurtz era ritornato

giù al fiume, portando con sé tutti i guerrieri della tribù lacustre. Era stato assente molti

mesi - per farsi adorare, immagino - ed era rientrato inaspettatamente, con l'intenzione,

secondo ogni apparenza, di compiere una razzia dall'altra parte del fiume o a valle.

Evidentemente la brama di avere altro avorio aveva trionfato su - come dire? - sulle

aspirazioni meno materiali. Però il suo stato di salute era improvvisamente peggiorato.

"Venni a sapere che stava male, privo di ogni cura, e così decisi di venire quassù, correndo

il rischio", disse il russo. "Oh, sta male, molto male." Puntai il binocolo sulla casa. Non

c'erano segni di vita: scorgevo solo il tetto che crollava, il lungo muro di fango che faceva

capolino sopra l'erba, con tre buchi quadrati a guisa di finestre, non uno della stessa

misura dell'altro, tutto a portata della mia mano, per così dire. E poi feci un movimento

brusco e uno dei pali superstiti di quello steccato scomparso emerse nel campo del mio

binocolo. Vi ricordate che da lontano ero rimasto colpito da certi tentativi di decorazione,

che risaltavano ancor di più nello stato disastroso di quel luogo. Adesso li vedevo più da

vicino e l'effetto immediato fu che tirai indietro la testa come per evitare un pugno. Poi col

binocolo, esaminai attentamente un palo dopo l'altro e capii il mio errore. Quei pomi

rotondi non erano ornamentali, ma simbolici; erano espressivi ed enigmatici, sorprendenti

e inquietanti, cibo per la mente oltre che per gli avvoltoi, se ce ne fossero stati a guardare

dal cielo, cibo in tutti i casi per delle formiche abbastanza industriose da arrampicarsi sul

palo. Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se il loro volto non

fosse stato girato dalla parte della casa. Solo una, la prima che avevo notato, era rivolta

verso di me. Non fui così nauseato come potreste credere. Il mio brusco scatto indietro non

era stato che un moto di sorpresa. Mi ero aspettato di vedere un pomo di legno là, capite.

Deliberatamente, tornai a guardare la prima che mi era apparsa: nera, rinsecchita e

infossata, la testa con le palpebre chiuse era sempre là, come addormentata in cima a quel

palo e, con le labbra secche e raggrinzite che lasciavano scoperta la sottile fila bianca dei

denti, aveva anche l'aria di sorridere, sorridere in continuazione per qualche sogno ilare e

infinito del suo sonno eterno. «Non sto rivelando nessun segreto commerciale. Fu il

direttore poi a dire che i metodi del signor Kurtz avevano rovinato quel distretto. Io non ho

alcuna opinione a questo proposito, ma vorrei farvi capire chiaramente che a tenere lì

quelle teste non c'era niente di vantaggioso. Stavano solo a testimoniare che il signor Kurtz

era privo di qualsiasi ritegno nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti; che gli mancava

qualcosa, una piccola cosa che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano

sotto la sua magnifica eloquenza. Se lui sapesse di avere questa deficienza, io non lo so.

Credo che se ne sia reso conto alla fine, quasi all'ultimo istante. Ma la selva selvaggia lo

aveva scovato subito, e si era presa una terribile vendetta su di lui per quella fantastica

invasione. Credo che gli avesse sussurrato delle cose sul suo conto che lui stesso ignorava,

cose di cui non aveva il minimo sospetto, prima di aver sentito il parere di quella grande

solitudine, e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. L'eco era risuonata

tanto profondamente in lui perché dentro era vuoto... Abbassai il binocolo, e la testa che mi

era apparsa tanto vicina da poterle quasi parlare, parve subito scomparire lontana da me in

una distanza inaccessibile. "L'ammiratore del signor Kurtz si era un po' ammosciato. Con

voce febbrile e indistinta, cominciò ad assicurarmi che non aveva osato togliere quei...

quei... diciamo, quei simboli. Non che avesse paura degli indigeni: non si sarebbero mossi

a meno che Kurtz non avesse dato loro il segnale. Il suo ascendente era straordinario. Gli

accampamenti di quella gente circondavano la stazione e ogni giorno i capi venivano a

trovarlo... strisciando. "Non voglio sapere niente delle cerimonie usate per avvicinare il

signor Kurtz", gridai. Curioso, ebbi l'impressione che i dettagli sarebbero stati più

insopportabili di quelle teste che rinsecchivano sui pali sotto le finestre del signor Kurtz.

Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo barbaro, e in quella oscura regione di orrori

sottili, in cui ero stato trasportato d'un balzo, la barbarie pura, senza complicazioni, era un

sollievo reale, come qualcosa che aveva il diritto di esistere - ovviamente - alla luce del sole.

Il giovane mi guardò sorpreso. Immagino che non gli fosse venuto in mente che il signor

Kurtz non era un mio idolo. Si era dimenticato che io non avevo sentito neanche uno di

quegli splendidi monologhi su - cosa? - l'amore, la giustizia, la condotta nella vita, o che so

io. Se si doveva strisciare davanti a Kurtz, lui strisciava come il più selvaggiodei selvaggi. Io

non mi rendevo conto delle circostanze, disse. Quelle erano le teste dei ribelli. Lo lasciai di

stucco perché mi misi a ridere. Ribelli! Quale sarebbe stata la prossima definizione che

avrei sentito? C'erano stati nemici, criminali, lavoratori, e questi erano ribelli. Quelle teste

ribelli mi sembravano molto sottomesse sui loro pali. "Lei non sa quanto una vita simile

metta alla prova un uomo come Kurtz", esclamò l'ultimo discepolo di Kurtz. "Beh, e lei?",

dissi. "Io! Io! Io sono un uomo qualunque. Non ho grandi idee. Non voglio niente da

nessuno. Come può paragonarmi a...?" L'eccesso di emozione gli impediva di parlare e

improvvisamente si lasciò andare. "Non capisco", gemette. "Io ho fatto del mio meglio per

tenerlo in vita e basta. Non ho preso parte a tutto ciò. Io non ho talenti. Erano mesi che qui

non c'era una medicina che fosse una o qualcosa da mangiare per un malato. È stato

vergognosamente abbandonato. Un uomo come lui, con tali idee. È una vergogna. Una

vera vergogna. E io, io sono dieci notti che non dormo..." «La sua voce si perse nella calma

della sera. Mentre parlavamo le lunghe ombre della foresta erano scivolate giù dalla

collina, spingendosi molto oltre la baracca in rovina, oltre la simbolica fila di pali. Tutto ciò

era immerso nell'oscurità, mentre, in basso, noi eravamo ancora nella luce del sole, e la

distesa del fiume di fronte alla radura scintillava di un immoto splendore abbacinante, con

una ansa buia e in ombra a monte e a valle. Non c'era anima viva sulla spiaggia. Non un

fremito nella boscaglia. «E tutt'a un tratto, girato l'angolo della casa, apparve un gruppo di

uomini, come se fossero sorti dal terreno. Avanzavano sprofondati fino alla vita nell'erba,

in corpo compatto, portando in mezzo a loro una barella improvvisata. Istantaneamente,

nel vuoto del paesaggio, si alzò un grido acuto che trafisse l'aria immota come una freccia

acuminata che volasse dritta al cuore della terra e, come per incanto, un torrente di esseri

umani - di esseri umani nudi - muniti di lance, archi e scudi, con sguardi feroci e

movimenti selvaggi, si riversò nella radura dalla foresta dal volto scuro e pensoso. La

boscaglia fremette, l'erba ondeggiò un momento e poi tutto ripiombò in un'attenta

immobilità. «"E adesso, se non trova la parola giusta da dire, siamo tutti perduti", disse il

russo al mio fianco. Il gruppo di uomini con la barella si era fermato anch'esso, come

pietrificato, a mezza strada dal battello. Al di sopra delle spalle dei portatori vidi l'uomo

che giaceva nella barella mettersi a sedere, emaciato, con un braccio alzato. "Speriamo che

l'uomo che sa parlare così bene dell'amore in generale trovi qualche ragione particolare per

risparmiarci questa volta", dissi. Risentivo amaramente l'assurdo pericolo della nostra

situazione, come se essere alla mercé di quell'orrendo fantasma fosse stata una

disonorevole necessità. Non udivo suoni, ma attraverso il binocolo vedevo il braccio sottile

steso in un gesto imperioso, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quell'apparizione

splendere tenebrosi e remoti in quella testa ossuta che oscillava con delle scosse

grottesche. Kurtz, Kurtz in tedesco vuol dire "corto", no? Ebbene, il nome era altrettanto

vero di tutto il resto della sua vita, e della sua morte. Sembrava "lungo" almeno due metri.

La coperta gli era caduta di dosso e il suo corpo atroce e pietoso ne era emerso come da un

sudario. Vedevo la gabbia del torace tutta in movimento, le ossa del braccio che agitava.

Era come se un'animata immagine della morte, scolpita in un vecchio avorio, tendesse la

sua mano minacciosa a una immobile folla di uomini fatti di un bronzo scuro e lucente. Lo

vidi spalancare la bocca - il che gli diede un aspetto straordinariamente vorace - come se

avesse voluto ingoiare tutta l'aria, tutta la terra e tutti gli uomini davanti a lui. Una voce

cavernosa giunse debolmente fino a me. Doveva aver gridato. Improvvisamente cadde

riverso. La barella vacillò mentre i portatori riprendevano ad avanzare barcollando, e quasi

nello stesso momento, mi accorsi che la folla dei selvaggi si stava disperdendo senza alcun

percettibile movimento di ritirata, come se la foresta che aveva espulso quelle creature così

all'improvviso, ora le risucchiasse, come un respiro dopo un lungo sospiro. «Un paio di

pellegrini venivano dietro la barella portando le sue armi - due fucili da caccia, una

carabina di grosso calibro, un'altra, leggera, a ripetizione - i fulmini di quel Giove pietoso.

Il direttore, piegato su di lui, gli parlava all'orecchio, camminandogli accanto. Lo deposero

in una di quelle piccole cabine, dove c'era appena il posto per una cuccetta e uno o due

seggiolini da campo, lo sapete. Gli avevamo portato la corrispondenza accumulata in quei

mesi e un mucchio di buste strappate e di lettere aperte era sparpagliato sul letto. Con una

mano rovistava debolmente in mezzo alle carte. Fui colpito dal fuoco dei suoi occhi e dal

languore composto della sua espressione. Non era tanto la spossatezza della malattia: non

sembrava soffrire. Quell'ombra pareva sazia e calma, come se per il momento avesse fatto

il pieno di tutte le emozioni. «Stropicciò una delle lettere e guardandomi dritto negli occhi

disse: "Molto lieto." Gli avevano scritto qualcosa di me. Saltavano fuori di nuovo le

raccomandazioni speciali. Il volume del suono che emise senza sforzo, senza quasi la pena

di muovere le labbra, mi stupì. Una voce! Che voce! Grave, profonda, vibrante, mentre

l'uomo sembrava incapace di un sussurro. Eppure gli restava abbastanza forza - fittizia

senza dubbio - da farci correre il rischio di finire tutti male, come sentirete fra poco. «Il

direttore apparve silenzioso sulla soglia. Uscii subito ed egli tirò la tenda dietro di me. Il

russo, guardato con curiosità da tutti i pellegrini, aveva gli occhi fissi sulla spiaggia. Seguii

la direzione del suo sguardo. «Si distinguevano in lontananza delle scure forme umane

muoversi leggere e indistinte contro il tetro limitare della foresta e, vicino al fiume, due

figure di bronzo, appoggiate alle loro alte lance, si ergevano al sole, sotto fantastiche

acconciature di pelli maculate, marziali e immobili in uno statuario riposo. E lungo la

spiaggia luminosa si mosse da destra a sinistra una selvaggia e incantevole apparizione di

donna. «Camminava a passi cadenzati nei drappeggi di una stoffa rigata e frangiata,

toccando il suolo con fierezza, facendo leggermente tintinnare e balenare i barbari

ornamenti. La testa eretta, i capelli acconciati come un elmo, le gambe fasciate di ottone

fino al ginocchio, bracciali di filo d'ottone fino al gomito, una macchia scarlatta sulle

guance bronzee, innumerevoli collane di perline colorate al collo. Oggetti bizzarri, amuleti,

doni di stregoni, appesi al suo corpo, che luccicavano e dondolavano a ogni passo. Doveva

avere addosso il valore di parecchie zanne di elefante. Eraselvaggia e maestosa, stralunata

e magnifica. C'era qualcosa di minaccioso e di imponente nel suo incedere risoluto. E

nell'improvviso silenzio caduto su quella terra afflitta, l'immensa landa selvaggia, quel

corpo colossale di vita feconda e misteriosa sembrava pensosamente guardarla, quasi

contemplasse in lei l'immagine della propria anima tenebrosa e appassionata. «Giunse

all'altezza del battello, si fermò e incontrò i nostri occhi. La sua ombra s'allungò di traverso

nell'acqua. La sua desolazione, il suo muto dolore mescolato alla paura del disegno -

formulato a metà - che si dibatteva in lei, prestava al suo viso un aspetto tormentato e

tragico. Rimase a guardarci senza un gesto, con l'aria di covare - come la selva selvaggia -

qualche insondabile intenzione. Passò un minuto intero e poi fece un passo avanti. Ci fu un

lieve tintinnare, un giallo balenio del metallo, un ondeggiare dei drappi frangiati: si fermò,

come se le fosse mancato il cuore. Il giovane accanto a me ringhiò. I pellegrini

mormorarono alle mie spalle. Ci guardava tutti come se la sua vita fosse dipesa

dall'inflessibile fermezza del suo sguardo. D'improvviso aprì le braccia nude e le tese

rigidamente in alto sopra la testa, come in un irresistibile desiderio di toccare il cielo e

nello stesso istante l'oscurità si slanciò rapida sulla terra e, invadendo il fiume, avvolse il

battello in un tenebroso abbraccio. Un formidabile silenzio stava sospeso sulla scena. «Si

voltò lentamente, s'incamminò seguendo la sponda ed entrò nei cespugli sulla sinistra. Una

sola volta, prima di sparire, i suoi occhi lampeggiarono verso di noi nell'ombra del folto.

«"Se si fosse azzardata a venire a bordo credo proprio che avrei cercato di ucciderla", disse

nervosamente l'arlecchino. "In questi ultimi quindici giorni, ho rischiato la vita ogni

giorno, per impedirle di entrare in casa. Una volta ci è riuscita e ha fatto una scena

tremenda per quei quattro stracci che avevo preso nel magazzino per aggiustarmi i vestiti.

Ero impresentabile. Credo almeno che fosse quello il motivo, perché è stata un'ora a

parlare come una furia a Kurtz, indicando ogni tanto me. Non capisco il dialetto di questa

tribù. Per mia fortuna, penso che Kurtz stesse troppo male quel giorno, per badarle,

altrimenti avrei passato un brutto guaio. Non capisco... No, è veramente troppo per me.

Beh, è acqua passata ormai." «In quel momento udii la profonda voce di Kurtz dietro la

tenda: "Salvarmi! Lei vuol dire, salvare l'avorio. Non mi venga a raccontare... Salvare me!

Ma se sono io che ho dovuto salvarvi, e lei è venuto a intromettersi nei miei progetti.

Ammalato! Ammalato! Non così ammalato come le piacerebbe credere. Non importa.

Realizzerò lo stesso quello che ho in mente: ritornerò. Le farò vedere io che cosa si può fare

qui. Lei, con i suoi sistemi da bottegaio, mi mette il bastone fra le ruote. Ritornerò. Io..." «Il

direttore uscì. Mi fece l'onore di prendermi sottobraccio e di condurmi in disparte. "È

molto giù, molto giù", disse. Ritenne necessario sospirare, ma trascurò di mostrare la

conseguente afflizione. "Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, non è forse vero?

Ma non si può nascondere la realtà: il signor Kurtz ha fatto più male che bene alla

Compagnia. Non ha capito che i tempi non erano maturi per un'azione energica. Cautela,

cautela ci vuole: è questo il mio principio. Dobbiamo andare ancora cauti. Per un po'

questo distretto ci sarà precluso. Deplorevole! E il commercio ne soffrirà nel suo insieme.

Non nego che non ci sia una notevole quantità di avorio, per la maggior parte fossile. Lo

dobbiamo salvare a tutti i costi. Ma vede com'è precaria la nostra situazione: e perché?

Perché il metodo è inadeguato." "Lei lo definisce", dissi io, guardando la spiaggia, "un

metodo inadeguato?" "Senza dubbio", esclamò con calore. "Lei no?" ... «"Non c'è nessun

metodo", mormorai dopo un po'. "Giustissimo", esultò lui. "Io l'avevo previsto. Testimonia

di una completa mancanza di discernimento. Sarà mio dovere segnalarlo a chi di

competenza." "Oh", dissi io, "quel tale - come si chiama? - sì, l'uomo dei mattoni, potrà

redigere per lei un rapporto leggibilissimo." Restò un attimo interdetto. Mi pareva di non

aver mai respirato in un'atmosfera tanto abietta, e per riprendere fiato mi rivolsi

mentalmente a Kurtz, sì proprio per riprendere fiato. "Nonostante tutto", dissi con enfasi,

"penso che il signor Kurtz sia un uomo notevole." Sussultò e lasciando cadere su di me un

greve sguardo gelido, disse con molta calma: "Lo era", e mi voltò le spalle. Non godevo più

del suo favore. Avevo fatto comunella col signor Kurtz parteggiando per metodi per cui i

tempi non erano maturi: ero anch'io inadeguato! Ah! ma era pur sempre qualcosa avere

almeno la scelta dei propri incubi. «In realtà era alla landa selvaggia che mi ero rivolto,

non al signor Kurtz che ormai - non stentavo ad ammetterlo - era come se fosse bell'e

sepolto. E per un istante, parve anche a me di essere sepolto dentro a una grande tomba

piena di inconfessabili segreti. Sotto un peso intollerabile che mi opprimeva il petto,

sentivo l'odore della terra umida, la presenza invisibile della corruzione trionfante, la

tenebra di una notte impenetrabile... Il russo mi battè sulla spalla. Balbettando borbottò

qualcosa su "fratello marinaio... non si potrebbe nascondere... la conoscenza di cose che

nuocerebbero alla reputazione del signor Kurtz." Aspettai. Per lui, evidentemente, il signor

Kurtz non era ancora nella tomba. Ho il sospetto che per lui il signor Kurtz fosse uno degli

immortali. "Ebbene!", dissi infine, "parli. Il caso vuole che io sia amico del signor Kurtz, in

un certo qual modo." «Molto formalmente, iniziò col dichiarare che se non fossimo stati

uniti "dalla stessa professione", si sarebbe tenuto tutto per sé, senza badare alle

conseguenze. "Sospettava di essere molto mal visto da quei bianchi che..." "Sì, ha

indovinato", dissi, ricordandomi una certa conversazione che avevo involontariamente

ascoltato. "Il direttore pensa che lei dovrebbe essere impiccato." Nel sentirselo dire mostrò

un turbamento che all'inizio mi divertì. "È meglio che me ne vada alla chetichella", disse

con franchezza. "Non posso far più niente per Kurtz ormai, e quelli farebbero presto a

inventarsi qualche pretesto. Che cosa li fermerebbe? C'è un posto militare a cinquecento

chilometri da qui." "Sì", risposi, "credo anch'io che farebbe meglio ad andarsene se ha degli

amici fra i selvaggi qui intorno." "Molti", disse. "È gente semplice, e io non ho bisogno di

niente, sa." Tacque un attimo mordendosi il labbro e poi: "Io non voglio che accada nulla di

male a questi bianchi", continuò, "ma naturalmente è alla reputazione del signor Kurtz che

pensavo, malei è un marinaio, un fratello e..." "D'accordo", dissi, dopo un po', "la

reputazione del signor Kurtz nelle mie mani è salva." Non sapevo fino a che punto stessi

dicendo la verità. «Abbassando la voce, mi informò che era stato Kurtz a dare l'ordine di

attaccare il battello. "Qualche volta non sopportava l'idea di essere portato via, e poi di

nuovo... Sono cose che non capisco. Io sono un uomo semplice. Pensava che vi sareste

spaventati tanto da andarvene, che avreste rinunciato, credendolo morto. Non sono

riuscito a fermarlo. Oh, ne ho passate di tutti i colori, quest'ultimo mese." "Non ne dubito",

dissi, "ma adesso sembra tornato in sé." "Sì sì", mormorò, senza grande convinzione.

"Grazie", dissi, "terrò gli occhi aperti." "Ma non una parola, vero?", riprese con ansiosa

insistenza. "Sarebbe terribile per la sua reputazione se qualcuno qui..." Promisi

solennemente la discrezione più assoluta. "Ho una piroga con tre neri che mi aspettano qui

vicino. Vado. Mi potrebbe dare qualche cartuccia per la Martini-Henry?" Potevo e gliele

diedi, con la dovuta segretezza. Strizzandomi l'occhio si prese una manciata di tabacco.

"Fra marinai, vero?, questo suo buon tabacco inglese." Già davanti alla porta della cabina si

voltò: "Senta, non avrebbe un paio di scarpe che le avanzano?" Alzò una gamba: "Guardi."

Sotto i piedi nudi aveva legato con delle stringhe delle suole come fossero sandali. Ne

scovai un vecchio paio che lui guardò ammirato prima di infilarselo sotto il braccio

sinistro. Da una delle tasche (di un rosso brillante) traboccavano le cartucce, dall'altra (blu

scuro) occhieggiava l'Indagine, ecc., ecc. di Towson. Sembrava ritenersi eccellentemente

equipaggiato per il suo nuovo incontro con la landa selvaggia."Ah! un uomo simile non lo

incontrerò più, mai più. Avrebbe dovuto sentirlo recitare le poesie, sue per di più, me l'ha

detto lui. La poesia!" Roteava gli occhi al ricordo di quelle delizie. "Oh, quell'uomo mi ha

aperto la mente!" "Arrivederci", dissi. Ci stringemmo la mano e svanì nella notte. Qualche

volta mi chiedo se l'ho visto davvero, se è possibile che io abbia incontrato un fenomeno

simile!... «Quando mi svegliai, poco dopo mezzanotte, mi venne in mente il suo

avvertimento e il pericolo che vi era sottinteso, e nella tenebra stellata, mi parve

sufficientemente reale da farmi alzare per dare un'occhiata in giro. Sulla collina bruciava

un grande fuoco che illuminava a intermittenza un angolo obliquo della casa. Uno degli

agenti con un picchetto di qualcuno dei nostri neri, armati per l'occasione, montava la

guardia all'avorio, ma dentro alle profondità della foresta, dei rossi baluginii, che

sembravano sorgere dalla terra e sprofondarvisi, fra forme indistinte simili a colonne di

intensa nerezza, indicavano il punto esatto dell'accampamento in cui gli adoratori del

signor Kurtz facevano la loro inquieta veglia. Il monotono rullare di un grosso tamburo

riempiva l'aria di colpi soffocati e di una prolungata vibrazione. Il suono ininterrotto di una

nenia di chissà quali magici incantesimi, cantata da una moltitudine di uomini, ciascuno

per proprio conto, usciva dalla muraglia piatta e oscura della foresta, come un ronzio di api

fuori dall'alveare, con uno strano effetto narcotizzante sui miei sensi già mezzo sopiti.

Credo di essermi proprio assopito, appoggiato al parapetto, finché uno scoppio improvviso

di urla, l'assordante esplosione di una frenesia misteriosa e repressa, non mi svegliò in

attonito soprassalto. Si interruppe tutt'a un tratto e la nenia sommessa ricominciò dando

quasi l'impressione palpabile e calmante del silenzio. Gettai un'occhiata distratta nella

piccola cabina. Brillava una luce all'interno, ma il signor Kurtz non c'era più. «Penso che se

avessi creduto ai miei occhi mi sarei messo a gridare, ma lì per lì non ci credetti: sembrava

talmente impossibile! La verità è che ero completamente sopraffatto da una paura senza

nome, un terrore puramente astratto, che non si collegava a nessuna forma riconoscibile di

pericolo materiale. Ciò che rendeva quell'emozione così sconvolgente era - come posso

definirlo? - lo scossone morale che avevo ricevuto, come se inaspettatamente si fosse

abbattuto su di me qualcosa di mostruoso, intollerabile per la mente e odioso per l'anima.

Questo, naturalmente, non durò che una frazione di secondo, e poi il comune senso del

pericolo fisico, mortale, la possibilità di un assalto improvviso, di un massacro, o qualcosa

del genere, che vedevo imminente, fu ben accolta e mi restituì la calma. Mi rese infatti così

tranquillo che non diedi l'allarme. «C'era un agente abbottonato fino al naso nel suo

pastrano che dormiva su una sedia sul ponte a pochi passi da me. Le urla non l'avevano

svegliato; russava appena appena. Lo lasciai ai suoi sogni e saltai a terra. Non tradii il

signor Kurtz - era nell'ordine delle cose che non l'avrei mai tradito - era scritto che sarei

stato fedele all'incubo che mi ero scelto. Ci tenevo a essere solo a trattare con quell'ombra e

ancor oggi non so spiegarmi perché mai fossi così geloso di dividere con qualcuno la

particolare tenebrosità di quell'esperienza. «Non appena raggiunsi la riva vidi una pista,

una larga pista nell'erba. Mi ricordo con quale esultanza mi dissi: "Non può camminare, si

trascina a quattro zampe, lo prendo subito." L'erba era bagnata di rugiada. Camminavo

svelto con i pugni chiusi. Credo di aver avuto una vaga intenzione di saltargli addosso e

picchiarlo. Non lo so. Ero pieno di idee strampalate. La vecchia che sferruzzava con il gatto

in grembo si intrufolò nella mia memoria e mi parve la persona più inopportuna per sedere

all'altro capo di una storia simile. Vedevo una fila di pellegrini riempire l'aria di piombo

con i loro Winchester appoggiati all'anca. Pensavo che non sarei mai tornato sul battello e

mi vedevo, solo e disarmato, vivere nei boschi fino a tarda età. Un mucchio di pensieri

assurdi, capite. E ricordo che confondevo il battito del tamburo con quello del mio cuore e

mi rallegravo della sua calma regolarità. «Intanto seguivo la pista e mi fermavo di tanto in

tanto ad ascoltare. La notte era molto chiara, una distesa blu scuro, luccicante di rugiada e

del chiarore delle stelle, in mezzo alla quale delle cose nere si ergevano immobili. Poi mi

parve di distinguere una specie di movimento davanti a me. Ero stranamente baldanzoso

quella notte. Lasciai deliberatamente la pista e descrissi correndo un largo semicerchio

(non senza, credo, ridacchiare tra me e me) in modo da arrivare davanti a quella cosa che

avevo visto in movimento, sempre che avessi visto qualcosa. Stavo accerchiando Kurtz

come se fosse un gioco da ragazzi. «Lo raggiunsi e se non mi avesse sentito arrivare, gli

sarei addirittura caduto addosso, ma si era alzato in tempo. Si sollevò, malfermo, lungo,

pallido, indistinto, simile a un vapore esalato dalla terra, e barcollò leggermentedavanti a

me, annebbiato e silenzioso, mentre, alle mie spalle, i fuochi si profilavano tra gli alberi e il

mormorio di molte voci usciva dalla foresta. Gli avevo abilmente tagliato la strada. Era

stata una mossa indovinata, ma quando, mi trovai realmente di fronte a lui, mi sembrò di

rinsavire e il pericolo mi apparve nelle sue giuste proporzioni. Non era affatto passato. E se

si fosse messo a gridare? Anche se stava a mala pena in piedi, la sua voce era ancora piena

di vigore. "Vada via! Si nasconda", disse col suo tono profondo. Era tremendo. Mi guardai

alle spalle. Eravamo a trenta metri dal fuoco più vicino. In quel momento si alzò un'ombra

nera e fece qualche passo su delle lunghe gambe nere, muovendo delle lunghe braccia nere,

controluce. Aveva delle corna - corna di antilope, penso - sulla testa. Uno stregone, un

guaritore, senza dubbio: ne aveva l'aria piuttosto diabolica. "Sa che cosa sta facendo?",

sussurrai. "Perfettamente", rispose alzando la voce per pronunciare quell'unica parola che

mi risuonò lontana eppure chiara, come un richiamo attraverso un megafono. Se si mette a

discutere siamo perduti, pensai. Anche a prescindere dalla naturale avversione che provavo

all'idea di colpire quell'Ombra, quella cosa errante e tormentata, non era certamente una

storia

da risolvere a pugni. "Lei sarà un uomo finito", dissi, "irrimediabilmente finito." Si hanno

talvolta questi lampi di ispirazione, sapete. Avevo trovato la cosa giusta da dire, anche se in

verità non avrebbe potuto essere più inesorabilmente finito di quanto lo fosse in quel

momento, quando furono gettate le basi della nostra intimità destinata a durare, a durare

fino alla fine, e anche oltre. «"Avevo immensi progetti", mormorò esitante. "Sì", dissi io,

"ma se prova a gridare le spacco la testa con, con..." Non c'era né un sasso né un bastone a

portata di mano. "La strozzo con le mie mani", mi corressi. "Ero alla vigilia di fare grandi

cose", insistette con voce avida e in un tono di rimpianto che mi raggelò il sangue. "E per

colpa di questo piccolo farabutto..." "Il suo successo in Europa", affermai fermamente, "è

in tutti i casi assicurato." Non ci tenevo a torcergli il collo, capite, senza contare che non

sarebbe servito praticamente a nulla. Cercavo di rompere l'incantesimo - il greve, muto

incantesimo della selva selvaggia - che sembrava volerlo attrarre nel suo cuore impietoso

risvegliando istinti brutali e dimenticati, facendo riaffiorare passioni appagate e

mostruose. Solo questo, ne ero persuaso, lo aveva riportato al ciglio della foresta, alla

boscaglia, verso il bagliore dei fuochi, il fremito dei tamburi, alla salmodia di magici

incantesimi; solo questo aveva trascinato la sua anima sfrenata oltre i limiti delle

aspirazioni lecite. E il terribile della situazione, vedete, non era tanto nel rischio che

correvo di ricevere un colpo in testa - benché fossi cosciente anche di quel pericolo - ma nel

fatto che avevo a che fare con un uomo al quale non mi potevo rivolgere in nome di

qualcosa né di nobile né di vile. Dovevo, proprio come i neri, invocarlo, invocare lui, la sua

stessa degradazione, esaltata e inverosimile. Non c'era nulla al di sopra o al di sotto di lui, e

io lo sapevo. Aveva volontariamente perso ogni contatto col mondo. Maledizione a lui!

Aveva fatto a pezzi il mondo stesso. Era solo, e io davanti a lui non sapevo se poggiavo sulla

terra o volteggiavo nell'aria. Vi ho riferito quello che ci dicemmo - ripetendo le frasi che

pronunciammo - ma a che pro? Erano comuni parole quotidiane, i suoni vaghi e familiari

che si scambiano ogni santo giorno della vita. E allora? Per me, era come se celassero la

terribile suggestione delle parole udite in sogno, delle frasi pronunciate in un incubo.

Un'anima! Se qualcuno ha mai lottato con un'anima, quello sono io. E notate che non stavo

discutendo con un pazzo. Che mi crediate o no, la sua mente era perfettamente lucida,

concentrata su se stessa, è vero, con spaventosa intensità, ma lucida; ed era proprio lì la

mia unica possibilità, salvo, naturalmente, ucciderlo seduta stante, il che non sarebbe stata

una gran trovata, per via dell'inevitabile rumore. Era la sua anima che era folle.

Nell'isolamento della selva selvaggia si era persa nella contemplazione di se stessa, e, per

Dio! ve l'ho detto, era impazzita. Per scontare i miei peccati, suppongo, mi toccò subire

quella prova di contemplarla a mia volta. Nessuna eloquenza al mondo saprebbe essere più

distruttiva nei confronti della nostra fiducia nel genere umano di quanto lo sia stata la sua

ultima esplosione di sincerità. Lottava anche lui contro se stesso. Lo vedevo, lo udivo.

Avevo sotto gli occhi l'inconcepibile mistero di un'anima che non conosceva né ritegno, né

fede, né paura e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa. Non persi la testa, ma

quando finalmente lo distesi sulla cuccetta, mi asciugai il sudore dalla fronte, mentre le

gambe mi tremavano, come se avessi portato dieci quintali sulle spalle giù da quella

collina. E invece l'avevo solo sorretto, il suo braccio scheletrico stretto attorno al mio collo:

non era più pesante di un bambino. «Il giorno dopo, quando partimmo a mezzogiorno, la

folla, di cui avevo sempre avvertito nettamente la presenza dietro la cortina degli alberi, si

riversò di nuovo fuori dalla foresta, riempiendo la radura, coprendo il pendio di una massa

ansimante, fremente, di nudi corpi bronzei. Risalii contro corrente per un breve tratto, per

poi virare e mille paia d'occhi seguirono le evoluzioni di quel temibile demone fluviale che,

sciaguattando e borbottando, colpiva l'acqua con la sua terribile coda e soffiava un fumo

nero nell'aria. Davanti a tutti gli altri, lungo la sponda, tre uomini ricoperti di terra rossa

dalla testa ai piedi, si agitavano in lungo e in largo senza sosta. Quando ripassammo alla

loro altezza, fronteggiarono il fiume battendo col piede, scuotendo la testa cornata,

contorcendo il corpo scarlatto; brandirono verso il demone temibile un mazzo di piume

nere, una pelle tignosa con la coda penzoloni, qualcosa che aveva l'aspetto di una zucca

secca e, a intervalli regolari, urlarono tutti assieme delle stringhe di parole stupefacenti che

non assomigliavano al suono di alcuna lingua umana, e il mormorio profondo della folla,

interrotto all'improvviso, era simile alle risposte di qualche satanica litania. «Avevamo

portato Kurtz nella cabina di pilotaggio: c'era più aria lassù. Disteso sulla cuccetta,

guardava a occhi sbarrati fuori del portello aperto. Ci fu un vortice nella massa di corpi

umani e la donna dai capelli a elmo e le guance fulve si slanciò in avanti fin quasi a toccare

l'acqua. Con le mani tese, gridò qualcosa e tutta quella folla selvaggia si unì al suo grido in

un coro ruggente di suoni rapidi, articolati, da restare senza fiato. «"Lei li capisce?", chiesi.

«Continuò a guardar fuori di là da me con occhi ardenti e vogliosi, con un'espressione in

cui il rimpianto si mescolava all'odio. Non rispose ma sulle sue labbra esangui, che dopo

poco si contrassero convulse, vidi passare unsorriso, un indefinibile sorriso. "Se

capisco?...", disse lentamente, ansimando, come se le parole gli fossero state strappate da

una potenza soprannaturale. «Tirai la cordicella del fischio, e lo feci perché avevo visto i

pellegrini sul ponte estrarre i fucili con l'aria di pregustarsi un bello spasso. A

quell'improvviso stridio un movimento di abietto terrore attraversò quella massa stipata di

corpi. "No! No! La smetta! Così li spaventa e loro scappano", gridò una voce sconsolata sul

ponte. Io tiravo la cordicella colpo dopo colpo. Disorientati, si misero a correre: saltavano,

si acquattavano, fuggivano in tutte le direzioni per sottrarsi al terrore di quel suono

volante. I tre dipinti di rosso erano caduti ventre a terra, a faccia in giù sulla spiaggia, come

falciati di netto. Solo la magnifica donna barbara non si era mossa, e continuava a tendere

tragicamente le braccia nude verso di noi sopra il fiume cupo e scintillante. «E fu allora che

la massa di imbecilli giù sul ponte iniziò la sua piccola farsa e io non vidi più nulla per il

fumo. «La scura corrente si allontanava rapida dal cuore della tenebra, portandoci giù

verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita. La vita di Kurtz non

sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l'oceano inesorabile del

tempo. Il direttore era molto placido, ormai non aveva più preoccupazioni di vitale

importanza; il suo sguardo, che comprendeva tutti e due, si era fatto sagace e soddisfatto:

la "faccenda" si era risolta nel modo più desiderabile. Vedevo avvicinarsi il momento in cui

sarei rimasto l'unico rappresentante del partito del "metodo inadeguato". I pellegrini mi

giudicavano già sfavorevolmente. Facevo, per così dire, il paio con il morto. Strano il modo

con cui accettai questa associazione imprevista, questa scelta d'incubo che mi era stata

imposta nella terra tenebrosa invasa da quei meschini e rapaci fantasmi. «Kurtz

discorreva. Una voce! Che voce! Risuonò profonda, fino alla fine. Sopravviveva alle sue

forze per nascondere nelle magnifiche pieghe dell'eloquenza la sterilità tenebrosa del suo

cuore. Oh, lottava! lottava! La desolazione della sua mente affaticata ora era ossessionata

da immagini annebbiate, immagini di gloria e di ricchezza che ruotavano ossequiosamente

intorno al suo inestinguibile dono di espressione nobile ed elevata. La mia fidanzata, la mia

stazione, la mia carriera, le mie idee: erano questi i temi delle occasionali manifestazioni di

sentimenti sublimi. L'ombra del Kurtz originario stava al capezzale della sua vuota

imitazione, il cui destino era di essere ben presto sepolta nella muffa di quella terra

primordiale. L'amore diabolico e l'odio celeste per i misteri che aveva penetrato si

contendevano il possesso di quell'anima sazia di emozioni primitive, avida d'ingannevole

gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere. «Qualche volta

era ignobilmente infantile. Desiderava che al suo ritorno da qualche spettrale Nulla, dove

egli si proponeva di compiere grandi cose, ad attenderlo alla stazione ci fossero dei sovrani.

"Fate loro vedere", diceva, "che avete in voi qualcosa di realmente vantaggioso, e non ci

saranno limiti al riconoscimento che avranno per i vostri meriti. Naturalmente, tocca a voi

preoccuparvi dei motivi - motivi giusti - sempre." Le lunghe distese del fiume, che

sembravano una sola e sempre la stessa, le anse monotone, l'una uguale all'altra,

scivolavano lungo il battello con la loro moltitudine di alberi secolari che consideravano

pazienti quel sudicio frammento di un altro mondo, l'araldo del cambiamento, della

conquista, del commercio, dei massacri, delle benedizioni. Io guardavo avanti, pilotando.

"Chiuda il portello", disse un giorno Kurtz all'improvviso, "non sopporto quella vista." Feci

quello che chiedeva. Ci fu silenzio. "Oh, ma te lo strapperò il cuore, vedrai!", gridò

all'invisibile selva selvaggia. «Ci fu un'avaria - come mi ero aspettato - e dovemmo fermarci

sulla punta di un'isola per ripararla. Questo ritardo fu la prima cosa che scosse la sicurezza

di Kurtz. Una mattina mi diede un pacco di carte e una fotografia, il tutto legato con un

laccio da scarpe. "Lo conservi per me", disse. "Quel pernicioso imbecille" (intendendo il

direttore) "è capace di frugare nelle mie casse se non sto attento." Nel pomeriggio andai a

trovarlo: giaceva supino, con gli occhi chiusi e mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii

mormorare, "Vivere rettamente, morire, morire..." Tesi l'orecchio, ma non ci fu altro. Stava

ripetendo qualche discorso nel sonno, o era il frammento di qualche articolo di giornale?

Aveva già scritto per dei giornali e intendeva farlo ancora, "per diffondere le mie idee. È un

dovere." «La tenebra che lo circondava era impenetrabile. Lo osservavo come si

guarderebbe dall'alto un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non brilla mai il

sole. Ma non avevo tanto tempo da dedicargli, perché dovevo aiutare il macchinista a

smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella piegata, e a fare altre

riparazioni. Vivevo in un'infernale bolgia di ruggine, limatura di ferro, dadi, bulloni, chiavi

inglesi, martelli, trapani a cricco, tutte cose che detesto, perché non mi ci raccapezzo.

Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo, e sfacchinavo spossato in

quel miserabile mucchio di ferraglia, tranne quando i brividi della febbre mi impedivano di

reggermi in piedi. «Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli

dire con voce un po' tremolante: "Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte." La luce

era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: "Non dica sciocchezze!", e

rimasi curvo sopra di lui come inchiodato. «Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo

mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non

ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto

d'avorio vidi l'espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo,

e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni

particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di

conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine,

quale visione, un grido che non era che un soffio: «"Che orrore! Che orrore!"«Soffiai sulla

candela e uscii dalla cabina. I pellegrini stavano cenando in mensa, e presi il mio posto di

fronte al direttore, che alzò gli occhi per lanciarmi un'occhiata interrogativa che riuscii

fortunatamente a eludere. Era là, piegato all'indietro, sereno, con quel suo particolare

sorriso a sigillare le inespresse profondità della sua bassezza. Una pioggia continua di

moscerini si riversava sulla lampada, sulla tovaglia, sulle mani e sui volti.

Improvvisamente, il servo del direttore mostrò la sua insolente testa nera sulla soglia, e

disse, in un tono di ingiurioso disprezzo: «"Mistah Kurtz - lui morto." «Tutti i pellegrini si

precipitarono fuori a vedere. Non mi mossi e continuai la mia cena. La mia insensibilità,

immagino, fu considerata rivoltante. Comunque, non mangiai molto. C'era una lampada là

dentro - la luce, capite, - e fuori era dannatamente, dannatamente buio. Non mi avvicinai

più all'uomo notevole che aveva pronunciato un tale giudizio sulle avventure della sua

anima su questa terra. La voce s'era spenta. C'era mai stato altro lì ? Ma mi rendo

perfettamente conto che il giorno dopo i pellegrini seppellirono qualcosa nella fossa

fangosa. «E per poco non seppellirono anche me. «Comunque, come potete vedere, non ho

raggiunto Kurtz lì per lì. No. Sono rimasto a sognare l'incubo fino alla fine, e a dimostrare

la mia fedeltà a Kurtz ancora una volta. Il destino! Il mio destino! Che buffonata la vita:

questa misteriosa combinazione di logica impietosa per un futile scopo. Tutto quello che ci

si può aspettare, è una qualche conoscenza di se stessi - che viene troppo tardi - e un

mucchio di inestinguibili rimpianti. Ho lottato con la morte. È il combattimento meno

eccitante che si possa immaginare. Si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i

piedi, niente intorno, senza testimoni, senza clamore, senza gloria, senza il gran desiderio

di vincere, senza il gran timore della sconfitta, in una insalubre atmosfera di tiepido

scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto, e meno ancora in quello

dell'avversario. Se è questa la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più

grande di quanto alcuni di noi pensano che sia. Ero a un passo dalla mia ultima occasione

di pronunciare una parola, e ho scoperto con umiliazione che probabilmente non avevo

niente da dire. Ecco perché affermo che Kurtz era un uomo notevole. Lui aveva qualcosa da

dire. E lo disse. Dal momento che ho sbirciato anch'io oltre la soglia, capisco meglio il

significato del suo sguardo fisso, che non poteva vedere la fiamma della candela, ma era

abbastanza vasto da abbracciare l'universo intero, abbastanza acuto per penetrare in tutti i

cuori che battono nella tenebra. Aveva tirato le somme e aveva giudicato. "Che orrore!" Era

un uomo notevole. Dopo tutto, questa era l'espressione di una specie di fede; c'era candore,

convinzione, una vibrante nota di rivolta nel suo sussurro, era il volto terrificante di una

verità intravista, il conturbante miscuglio del desiderio e dell'odio. E non è la mia ora

estrema che ricordo meglio - una visione di grigiore senza forma, riempita di sofferenza

fisica e di un disprezzo indifferente per l'evanescenza di tutte le cose - anche di quella

stessa sofferenza. No! È la sua agonia che mi sembra di aver vissuto. È vero che lui aveva

fatto il passo supremo, aveva oltrepassato la soglia, mentre a me era stato consentito di

ritirare il mio piede esitante. E forse in questo consiste tutta la differenza; forse tutta la

saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità sono concentrate in quell'imponderabile

momento in cui noi oltrepassiamo la soglia dell'invisibile. Forse! Mi piace credere che la

mia parola conclusiva non sarebbe stata solo una parola di indifferente disprezzo. Meglio il

suo grido, molto meglio. Era una affermazione, una vittoria morale pagata al prezzo di

innumerevoli sconfitte, di abominevoli terrori, di soddisfazioni abominevoli. Ma era una

vittoria! Ecco perché sono rimasto fedele a Kurtz fino alla fine, e anche oltre, quando,

molto tempo dopo, udii una volta ancora, non la sua voce, ma l'eco della sua magnifica

eloquenza rimandatami da un'anima pura e trasparente come un cristallo di rocca. «No,

non mi seppellirono, anche se c'è un periodo di tempo che ricordo avvolto nella nebbia, con

uno stupore da brividi, come un passaggio attraverso un mondo inconcepibile senza

speranze e senza desideri. Mi ritrovai nella città sepolcrale pieno di risentimento alla vista

di quella gente che si affrettava per le strade per rubarsi reciprocamente un po' di soldi, per

divorare quel loro cibo infame, per ingoiare quella pessima birra, per sognare i loro stupidi

sogni insignificanti. Usurpavano i miei pensieri. Erano intrusi la cui presunta conoscenza

della vita era per me un'irritante finzione, perché ero certo che non potevano

assolutamente sapere le cose che io sapevo. Il loro comportamento, che non era altro che

quello di banali individui che badano ai propri affari nella certezza di essere al sicuro, mi

indignava come un'oltraggiosa ostentazione di stupidità di fronte a un pericolo che non si è

in grado di discernere. Non avevo alcun desiderio di illuminarli, ma facevo fatica a

trattenermi dal ridergli in faccia, a quelle facce piene di stolida supponenza. Devo

ammettere che non mi sentivo tanto bene in quel periodo. Mi trascinavo barcollando per le

strade - c'erano molte faccende da sbrigare - mostrando i denti in un sorriso amaro a quelle

persone tanto rispettabili. Riconosco che la mia condotta era ingiustificabile, ma in quei

giorni la mia temperatura non era quasi mai normale. Gli sforzi della mia cara zia di

"rimettermi in forze" sembravano completamente fuori posto. Non erano le mie forze che

bisognava curare, era la mia immaginazione che bisognava placare. Conservavo il pacco di

carte che mi aveva dato Kurtz, senza sapere esattamente cosa farne. Sua madre era morta

da poco, accudita, mi dissero, dalla fidanzata di suo figlio. Un uomo sbarbato di fresco, con

modi da funzionario e occhiali cerchiati d'oro, mi fece visita un giorno e mi pose diverse

domande, circospette all'inizio, e poi sempre più soavemente pressanti, riguardo a quelli

che a lui piaceva definire i "documenti". Non ne fui sorpreso perché laggiù avevo già avuto

un paio di battibecchi con il direttore sull'argomento. Mi ero rifiutato di consegnare anche

il più piccolo pezzo di carta del pacchetto e non cambiai atteggiamento con l'occhialuto.

Alla fine divenne oscuramente minaccioso e, accalorandosi, mi fece osservare che la

Compagnia aveva diritto a ogni minimo elemento di informazione sui suoi "territori". E

aggiunse: "La conoscenza del signor Kurtz delle regioni inesplorate doveva essere molto

estesa e particolare - grazie alla sua grande abilità e alle deplorevoli circostanze nelle quali

si era trovato, perciò..." Gli assicurai che la conoscenza del signor Kurtz, per quanto estesa

fosse, non verteva su problemi commerciali o amministrativi. Allora invocò il nome della

scienza. "Sarebbe una perditaincalcolabile se", eccetera eccetera. Gli diedi il rapporto sulla

"Soppressione delle Usanze Selvagge", il cui post-scriptum era stato precedentemente

strappato. Se ne appropriò con avidità, ma finì per arricciare il naso con aria di disprezzo.

"Non è quello che avevamo il diritto di aspettarci", osservò. "Non aspettatevi altro", dissi

io. "Il resto sono solo lettere personali." Se ne andò minacciandomi vagamente di

procedere per vie legali e non l'ho più rivisto. Ma un altro tale, che si presentò come un

cugino di Kurtz, comparve due giorni dopo, ansiosissimo di sapere tutti i particolari degli

ultimi momenti del suo carissimo parente. Per inciso mi lasciò capire che Kurtz era stato

essenzialmente un grande musicista. "Aveva tutto quello che ci vuole per un immenso

successo", disse quell'uomo, che era un organista, credo, con lisci capelli grigi che gli

scendevano sul colletto unto della giacca. Non avevo motivo di dubitare della sua

affermazione, e ancora oggi non sono in grado di dire quale fosse la professione di Kurtz,

sempre che ne avesse una, né quale fra i suoi talenti fosse il più grande. Lo avevo preso per

un pittore che scriveva per i giornali, o viceversa per un giornalista che era capace di

dipingere, ma neanche il cugino (che durante la visita si ficcava il tabacco nel naso) mi

seppe dire che cosa fosse stato esattamente Kurtz. Era un genio universale - su questo mi

trovai d'accordo col vecchietto - che a quel punto si soffiò rumorosamente il naso in un

grande fazzoletto di cotone e si accomiatò, in senile agitazione, portandosi via qualche

lettera di famiglia e delle note senza importanza. Infine saltò fuori un giornalista,

desideroso di avere qualche notizia sulla sorte del suo "caro collega". Questo visitatore mi

informò che la sfera adatta a Kurtz sarebbe stata la politica "dalla parte del popolo". Aveva

sopracciglia folte e dritte, capelli ispidi tagliati a spazzola, un monocolo legato a un ampio

nastro e, divenuto espansivo, mi confidò che secondo lui Kurtz non era capace di scrivere

una riga, "ma, caspita! come parlava quell'uomo. Elettrizzava le folle. Era uno convinto,

capisce? Aveva la fede, la fede. Poteva credere in qualsiasi cosa. Sarebbe stato un magnifico

capo di un partito estremista." "Di quale partito?", chiesi. "Uno qualsiasi", rispose lui. "Era

un... un... estremista." Non ero d'accordo? Ero d'accordo. Lo sapevo, chiese, con un

improvviso lampo di curiosità, "cos'è che l'aveva spinto ad andare laggiù?" "Sì", dissi,

mettendogli fra le mani il famoso Rapporto, perché lo pubblicasse, se lo riteneva

opportuno. Lo scorse in fretta, borbottando tutto il tempo, decise che "poteva andare" e se

la svignò col suo bottino. «Perciò alla fine mi rimasero un pacchettino di lettere e il ritratto

della ragazza. Mi aveva colpito la sua bellezza, voglio dire la bellezza della sua espressione.

So che anche la luce del sole può essere resa ingannevole, però si aveva l'impressione che

nessun artificio nella posa o nell'illuminazione avesse potuto prestare ai suoi lineamenti

una sfumatura così delicata di genuinità. Sembrava pronta ad ascoltare senza riserve

mentali, senza sospetti, senza pensare a se stessa. Decisi che sarei andato a trovarla e che le

avrei restituito di persona il ritratto e quelle lettere. Curiosità? Sì, e forse qualche altro

sentimento. Tutto quello che era stato di Kurtz mi era scivolato fra le mani: la sua anima, il

suo corpo, la sua stazione, i suoi progetti, il suo avorio, la sua carriera. Rimanevano solo la

sua memoria e la sua fidanzata - e, in un certo senso, volevo cedere anche quello al passato

- consegnare di persona tutto quello che restava di lui a quell'oblio che è l'ultima parola del

nostro comune destino. Non sto cercando di difendermi. Non avevo la percezione esatta di

cos'era che volevo veramente. Forse era un impulso di fedeltà inconscio, o la realizzazione

di una di quelle ironiche necessità che si dissimulano dietro gli avvenimenti dell'esistenza

umana. Non lo so. Non saprei dire. Ci andai e basta. «Pensavo che il ricordo di Kurtz fosse

uguale a tutti i ricordi degli altri morti che si accumulano nella vita di ogni uomo, una vaga

impronta tracciata sulla memoria da ombre che l'hanno lasciata nel loro rapido passaggio

estremo; ma davanti all'imponente portone massiccio, fra le alte case di una strada

tranquilla e decorosa come il viale ben tenuto di un cimitero, ebbi una visione di lui sulla

barella, che apriva voracemente la bocca, quasi volesse divorare la terra e l'umanità tutte

intere. Sorse lì davanti a me, vivo come non lo era mai stato, ombra insaziabile di

magnifiche apparenze, di spaventose realtà, ombra più tenebrosa dell'ombra della notte,

avvolta nelle nobili pieghe di una sfarzosa eloquenza. La visione sembrò entrare in casa con

me - la barella, i portatori fantasma, la folla selvaggia dei suoi soggiogati adoratori,

l'oscurità della foresta, lo scintillio del fiume fra le anse annebbiate, il rullio del tamburo,

regolare e velato come il battito di un cuore - il cuore di una tenebra vittoriosa. Fu un

momento di trionfo per la selva selvaggia, un'incursione invadente e vendicativa che a me

sembrava di dover respingere da solo per la salvezza di un'altra anima. E il ricordo di

quello che gli avevo sentito dire laggiù, mentre le forme cornate si muovevano dietro di me,

nel bagliore dei fuochi, dentro ai boschi pazienti, quelle frasi spezzate risuonarono in me,

in tutta la loro sinistra e terrificante semplicità. Ricordai la sua abietta insistenza, le abiette

minacce, l'ampiezza smisurata dei suoi bassi desideri, la meschinità, il tormento, l'angoscia

della sua anima in tempesta. E poi mi parve di vedere la sua aria languida e posata del

giorno in cui mi aveva detto: "Tutto questo avorio in realtà appartiene solo a me. La

Compagnia non ha pagato per averlo. L'ho raccolto io, con grandissimo rischio personale.

Temo però che tenteranno di rivendicarne la proprietà. Uhm. È un caso delicato. Cosa

pensa che dovrei fare? Oppormi, eh? Io non chiedo che giustizia."... Non chiedeva che

giustizia, nient'altro che giustizia. Suonai a una porta di mogano, al primo piano, e mentre

aspettavo, sembrava che lui mi fissasse dal fondo del vitreo pannello, col suo sguardo

dilatato e immenso che avvolgeva, condannava, esecrava tutto l'universo. Mi sembrò di

sentire quel grido sussurrato: "Che orrore! Che orrore!" «Si faceva sera. Dovetti aspettare

in un ampio salone con tre finestre alte da terra al soffitto che parevano tre colonne

luminose e drappeggiate. Le gambe e gli schienali dorati e torniti dei mobili risplendevano

in curve indistinte. Il grande camino di marmo era di una bianchezza fredda e

monumentale. Un pianoforte a coda si allungava massiccio in un angolo, con oscuri riflessi

sulle superfici lisce come un tetro sarcofago levigato. Si aprì una lunga porta, si richiuse.

Mi alzai. «Venne avanti, vestita di nero, pallida, fluttuante verso di me nella luce del

crepuscolo. Era in lutto. Era passato più di un anno dalla morte di lui, più di un anno dalla

notizia della sua morte, ma lei sembrava dovessericordarlo e piangerlo per sempre. Prese le

mie mani fra le sue e mormorò: "Avevo sentito dire che sarebbe venuto." Notai che non era

tanto giovane, voglio dire che non aveva niente della ragazzina. Dell'età matura aveva la

capacità di essere fedele, di credere, di soffrire. Sembrava che la stanza fosse diventata più

buia, come se tutta la triste luce di quella sera nuvolosa si fosse rifugiata sulla sua fronte.

Quei capelli biondi, quel pallido viso, quella fronte pura, sembravano circondati da un

alone cinereo da cui mi guardavano due occhi scuri. Lo sguardo era innocente, profondo,

fiducioso e aperto. Portava la sua immagine di dolore come se fosse fiera di quel dolore,

quasi volesse dire: io, io sola so piangerlo come lui merita. Ma mentre ci stringevamo

ancora le mani, sul suo volto passò un'espressione di una tale desolazione che capii che lei

non era una di quelle creature di cui il tempo si fa gioco. Per lei era come se lui fosse morto

ieri. E per Giove!, l'impressione fu così forte che anche a me parve che lui fosse morto ieri,

cosa dico?, in quel momento stesso. Vidi l'uno e l'altro nello stesso istante - la morte di lui e

il dolore di lei - vidi quale era stato il dolore di lei nel momento stesso della morte di lui. Mi

capite? Li vidi insieme, li udii insieme. Lei mi aveva detto, con un profondo singhiozzo

nella voce: "Sono sopravvissuta", mentre alle mie orecchie tese sembrava di udire

distintamente, mescolato al tono di disperato rimpianto di lei, il sussurro della resa dei

conti dell'eterna condanna di lui. Mi chiesi cosa ci stessi a fare là, con un senso di panico

nel cuore come se mi fossi smarrito in un luogo pieno di misteri assurdi e crudeli, proibito

ai mortali. Mi portò verso una sedia e ci sedemmo. Posai delicatamente il pacchetto sul

tavolino e lei ci mise la mano sopra... "Lei lo conosceva bene", mormorò dopo un attimo di

doloroso silenzio. «"Fa presto a nascere l'intimità laggiù", dissi. "Lo conoscevo quanto è

possibile a un uomo conoscerne un altro." «"E lo ammirava", disse. "Era impossibile

conoscerlo senza ammirarlo. Vero?" «"Era un uomo notevole", dissi con voce incerta. E

davanti alla fissità implorante di quello sguardo che sembrava aspettare altre parole dalle

mie labbra, aggiunsi: "Era impossibile non..." «"Amarlo", terminò con ardore, lasciandomi

muto e sgomento. "Com'è vero! Com'è vero! E pensare che nessuno lo conosceva bene

come me. Avevo tutta la sua nobile fiducia. Io lo conoscevo meglio di tutti." «"Lei lo

conosceva meglio di tutti", ripetei. E magari era vero. Ma ad ogni parola pronunciata la

stanza si faceva più buia e solo la sua fronte, liscia e bianca, rimaneva accesa per

l'inestinguibile luce della fede e dell'amore. «"Lei era suo amico", proseguì. "Suo amico",

ripeté un po' più forte. "Bisognava che lei lo fosse se le ha dato questo e l'ha mandata da

me! Sento di poter parlare con lei e... oh! ho bisogno di parlare. Voglio che lei sappia - lei

che ha udito le sue ultime parole - che io sono stata degna di lui... Non è orgoglio... Ebbene

sì! Sono fiera di sapere che ero io quella che lo aveva capito meglio di chiunque altro a

questo mondo, me l'ha detto lui stesso. E da quando è morta sua madre non ho avuto

nessuno - nessuno - con cui - con cui..." «Io ascoltavo. L'oscurità diventava più profonda.

Non ero neanche sicuro che lui mi avesse dato il carteggio giusto. Ho qualche motivo di

credere che quel che mi voleva affidare fosse un altro pacco di carte che, dopo la sua morte,

ho visto fra le mani del direttore mentre le esaminava sotto la lampada. E la ragazza

parlava, traendo dalla certezza di avere la mia simpatia un conforto alla sua afflizione;

parlava come beve un assetato. Avevo sentito dire che il suo fidanzamento con Kurtz non

era stato approvato dalla sua famiglia. Non era abbastanza ricco o qualcosa di simile. E

infatti non so se sia stato povero tutta la sua vita. Mi aveva dato qualche motivo di arguire

che fosse stata l'insofferenza per la sua relativa povertà a spingerlo laggiù. «"... Chi non era

suo amico dopo averlo sentito parlare anche solo una volta?", stava dicendo. "Attirava gli

uomini a sé con quello che c'era di meglio in loro." Mi fissò intensamente. "È la dote dei

grandi", continuò, e il suono della sua voce bassa sembrava avere l'accompagnamento di

tutti gli altri suoni, pieni di mistero, di desolazione e di dolore, che avevo sentiti altrove: il

mormorio del fiume, il fremito degli alberi agitati dal vento, il lamento della folla, la debole

eco di parole incomprensibili gridate da lontano, il sussurro di una voce che parlava di là

dalla soglia di una tenebra eterna. "Ma lei lo ha udito! Lo sa!", esclamò. «"Sì, lo so", dissi

con una specie di disperazione nel cuore, ma con la testa china davanti alla fede che c'era

in lei, davanti alla grande, salutare illusione che splendeva di una luce non terrena in

quella oscurità, nella trionfante tenebra da cui non l'avrei potuta difendere, da cui non

potevo difendere neanche me stesso. «"Che perdita per me - per noi", si corresse con

magnanima generosità; e aggiunse in un sussurro: "per il mondo." Negli ultimi bagliori del

crepuscolo potevo distinguere il luccichio dei suoi occhi, pieni di lacrime, di lacrime che

non volevano cadere. «"Sono stata molto felice - molto fortunata - molto fiera", continuò.

"Troppo fortunata. Troppo felice per una breve parentesi. E ora sono infelice per... per

tutta la vita." «Si alzò. I suoi capelli biondi sembrarono raccogliere, in uno scintillio dorato,

tutta la luce che rimaneva. Mi alzai anch'io. «"E di tutto questo", proseguì, con desolazione,

"di tutto quello che prometteva, della sua grandezza, della sua mente generosa, del suo

nobile cuore, non rimane nulla, nulla se non il ricordo. Lei e io..." «"Lo ricorderemo

sempre", dissi in fretta. «"No!", gridò. "È impossibile che tutto vada perduto - che una vita

simile sia stata sacrificata per non lasciare nulla - se non dolore. Lei sa quali grandiosi

progetti avesse. Anch'io li conoscevo, - potevo forse non capirli - ma altri ne erano a

conoscenza. Qualcosa deve restare. Le sue parole almeno non sono morte." «"Le sue parole

resteranno", dissi. «"E il suo esempio", mormorò tra sé. "Gli sguardi degli uomini erano

puntati su di lui. Ogni sua azione brillava di bontà. Il suo esempio..."«"È vero", dissi,

"anche il suo esempio. Sì, il suo esempio. Lo dimenticavo." «"Ma io no. Non posso - non

posso crederci - non ancora. Non posso credere che non lo vedrò mai più, che nessuno lo

rivedrà mai, mai, mai più." «Come verso un'immagine che si allontana, giunse le mani

bianche e tese le braccia che, in controluce nell'angusta e pallida luce della finestra,

sembrarono tutte nere. Non rivederlo mai! In quel momento io lo rivedevo abbastanza

distintamente. Continuerò a vedere quell'eloquente fantasma per tutta la vita, e vedrò

anche lei, ombra tragica e familiare, simile in quel gesto a un'altra, altrettanto tragica,

adorna di incantesimi impotenti, che tendeva le sue braccia brune e nude, sopra lo

scintillio del fiume infernale, il fiume della tenebra. All'improvviso disse, con voce molto

bassa: "È morto com'è vissuto." «"La sua morte", dissi, mentre un'ira funesta montava in

me, "è stata in tutto degna della sua vita." «"E io non ero con lui", mormorò. La mia ira

lasciò il posto a un sentimento di pietà infinita. «"Tutto quello che si poteva fare...",

borbottai. «"Ah, ma io credevo in lui più di chiunque altro al mondo - più di sua madre -

più di... lui stesso. Aveva bisogno di me! Di me! Avrei raccolto gelosamente ogni sospiro,

ogni parola, ogni movimento, ogni sguardo." «Sentii come una stretta gelida al petto. "Non

faccia così", dissi, con voce strozzata. «"Mi perdoni. Io, io ho pianto così tanto in silenzio,

in silenzio... Lei è stato con lui, fino all'ultimo? Penso alla sua solitudine. Nessuno vicino

che lo capisse, come l'avrei capito io. Forse nessuno ad ascoltare..." «"Fino alla fine", dissi

scosso. "Ho udito le sue ultime parole...", mi interruppi spaventato. «"Le ripeta", mormorò

con voce spezzata. "Voglio, voglio qualcosa, qualcosa, con cui vivere." «Stavo per gridarle:

"Ma non le sente?" L'oscurità attorno a noi le stava ripetendo in un sussurro ostinato, in un

sussurro che sembrava gonfiarsi minaccioso, come il primo mormorio di un vento che si

alza. "Che orrore! Che orrore!" «"L'ultima parola, per aiutarmi a vivere", pregò. "Non

capisce che io lo amavo, lo amavo, lo amavo!" «Mi ricomposi e parlai lentamente.

«"L'ultima parola che ha pronunciato è stata... il suo nome." «Percepii un leggero sospiro e

poi il mio cuore cessò di battere, fermato di colpo da un terribile grido esultante, un grido

di inconcepibile trionfo e di dolore inesprimibile. "Lo sapevo, ne ero certa!..." Lo sapeva, ne

era certa. La sentii singhiozzare. Aveva nascosto il viso fra le mani. Ebbi l'impressione che

sarebbe crollata la casa prima che io potessi fuggire, che il cielo mi sarebbe caduto sulla

testa. Ma non accadde nulla. Il cielo non cade per così poco. Sarebbe caduto, mi domando,

se avessi reso a Kurtz quella giustizia che gli era dovuta? Non aveva detto che voleva solo

giustizia? Ma non ne fui capace. Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppo tenebroso,

decisamente troppo tenebroso...» Marlow tacque e rimase seduto in disparte, indistinto e

silenzioso, nella posa di un Budda in meditazione. Nessuno si mosse per un po'. "Abbiamo

perso l'inizio del riflusso", disse il Direttore all'improvviso. Sollevai la testa.

L'orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell'acqua - che come un viale

tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto,

sembrava condurre dentro al cuore di un'immensa tenebra.